Con la sua avversione «texana» (direbbe Alain Badiou) nei confronti di qualsiasi pensiero teorico (o forse pensiero tout court) col quale ci si azzardi a leggere poesia – attitudine che riduce, chi la coltivi, a passivo succube di perniciosi «teorici moderni o postmoderni» – Matteo Marchesini ha stroncato con virulenza, sul Sole 24 ore, un’antologia di poesia da poco uscita nella collana “bianca” Einaudi (Nuovi poeti italiani 6, a cura di Giovanna Rosadini, pp. XVIII-301, € 16). La stessa raccolta ha sollevato obiezioni più garbate (ma più di sostanza) in due critici di poesia ben più autorevoli, Roberto Galaverni (sulla Lettura del Corriere della Sera) e Alfonso Berardinelli (sul Foglio).
Se è raro che tanto si parli d’un libro di poesia, pressoché unico è che si sollevino tante perplessità. Ed è un bene: nel tempo in cui di poesia (dopo un periodo, verso la metà del decennio scorso, di nuova discussione critica) s’è invece tornato a parlare – quelle rarissime volte che lo si fa – in termini meramente occasionali-promozionali (la rubrica di Galaverni sulla Lettura rappresenta una lodevole eccezione). Ma si capisce, tanta levata di scudi, non appena si viene a sapere che il sesto “quaderno” einaudiano ha deciso di includere, stavolta, solo poeti di sesso femminile (Alida Airaghi, Daniela Attanasio, Antonella Bukovaz, Maria Grazia Calandrone, Chandra Livia Candiani, Gabriela Fantato, Giovanna Frene, Isabella Leardini, Laura Liberale, Franca Mancinelli, Laura Pugno e Rossella Tempesta).
Ora, se c’è un assunto tenuto per fermo (proprio da quella critica “accademica” che a Marchesini fa correre la mano alla pistola) è il caveat di Gianfranco Contini che in un “a parte” dell’Excursus continuo su Tonino Guerra (saggio del ’71 compreso in Ultimi esercizî ed elzeviri) recisamente escludeva «l’esistenza categoriale d’una “poesia dialettale”, non avendo i “migliori poeti dialettali” molto maggior dignità epistemologica, poniamo, delle “migliori poetesse” ossia “poeti di sesso femminile”» (bisogna dire che Einaudi è recidiva, nel tradire il suo antico mentore: se è vero che la precedente Nuovi poeti italiani, curata nel 2004 da Franco Loi, accoglieva solo poeti in dialetto). Le intemperanze di Contini erano leggendarie e quandoque, come si vede, gli prendevano la mano. Proditorio non riconoscere la specificità della poesia in dialetto: si sarebbe visto di lì a poco, nel medesimo santarcangiolese di Guerra, un discepolo di gran lunga superiore al maestro quale Raffaello Baldini; più in generale il movimento “neodialettale”, fra anni Settanta e Ottanta, è stato uno dei fatti più rilevanti della nostra poesia. Se non altro perché certe marche identitarie creano “minoranze” e “residenze” – frequentazioni di autori, insomma – che cementano eccome genealogie e «influenze reciproche», come dice Rosadini.
Ma rifiutare con tanto sprezzo la categoria «poeti di sesso femminile» (il che continua a fare uno non così devoto a Contini come Berardinelli, nell’affermare che «questo problema ormai non c’è») aveva un intento vieppiù polemico, all’indomani del ’68: quando l’identità femminile veniva in primo piano come problema storico (tanto più in una letteratura che nei suoi secoli più ricchi – il Cinquecento e il Novecento – ha conosciuto una quantità di poetesse rilevanti senza paragoni nelle altre) nonché appunto “epistemologico” (stavo per dire “teorico”, poi al pensiero del cinturone di Marchesini mi si è mozzata la lingua), oltre che naturalmente politico. E credo di capire cosa lo motivasse: il pregiudizio annoso, ma tuttora ben attestato (e infatti perdurante, purtroppo, nelle pagine introduttive di Rosadini), d’una poesia delle donne che «si nutra» anzitutto «di vissuto e di esperienza», che faccia «un uso emotivo, istintivo della lingua», che sia caratterizzata da «una sostanziale libertà formale scevra di retorica e di artifici» capace di dare accesso – al contrario della poesia maschile, si capisce, intellettualistica e formalistica – alla «dimensione semplice, non mediata, dell’esistenza» (tutte espressioni che Rosadini dedica non a caso alle autrici meno indispensabili fra quelle incluse). Chi meglio espresse tale nefasto pregiudizio, proprio negli anni dell’anatema continiano, fu Dacia Maraini: «una donna che scrive poesie e sa di / essere donna, non può che tenersi attaccata / stretta ai contenuti perché la sofisticazione / delle forme è una cosa che riguarda il potere / e il potere che ha la donna è sempre un / non-potere, una eredità scottante e mai del tutto sua» (traggo la citazione dalla documentata tesi di Ambra Zorat, citata anche da Rosadini e consultabile in rete).
Il problema non può essere di contenuti in quanto tali. Altrimenti davvero un’antologia di poeti donne non avrebbe un senso molto maggiore che una di poeti dai capelli biondi. Quanto fa in parte un’occasione mancata del lavoro di Rosadini (la quale sconta consimili problemi come poetessa in proprio – entro raccolte interessanti ma diseguali come Il sistema limbico e Unità di risveglio) è l’incertezza fra questo diarismo minuto e diciamo confessional, che si riduce spesso a ron ron spontaneistico e dolciastro, e una piega diversa, e ben più profonda, che davvero percorre e connota – in modo evidente a qualsiasi lettore di poesia – le ultime generazioni. E che infatti – vale la pena esplicitarlo – giustifica in pieno, al di là dei risultati, la scelta coraggiosa di un libro di sole donne. Al questionario di Ambra Zorat risponde in modo equilibrato, su questo punto cruciale, la più sicura maestra degli ultimi anni, Antonella Anedda: «si potrebbe dire che il contenuto nelle donne è spesso così potente da dettare forme inusuali, di grande forza e originalità».
È quanto era giunta ad ammettere, dopo lunga polemica nei confronti del «piccolo alibi intimistico» (e di una critica «quasi razzisticamente femministica»), quella che – a monte di Anedda e all’origine della genealogia – Maria Grazia Calandrone riconosce quale «maestra di tutte»: Amelia Rosselli. In una delle ultime interviste concesse, per una tesi di laurea nel ’91 (quella di Rosella Inchingolo valorizzata da Florinda Fusco e ora compresa in È vostra la vita che ho perso. Conversazione e interviste 1964-1995, a cura di Monica Venturini e Silvia De March, Le Lettere 2010), diceva dunque Rosselli che «la donna con la sua fisiologicità corporale […] ha qualcosa non di diverso da scrivere, ma di più fisiologico da distinguere anche sul piano contenutistico».
La fisiologia, già. Se c’è in Contini un caso di sordità altrettanto dannoso è il saggio su, o meglio contro, Dino Campana (1937, negli Esercizî di lettura): avversato proprio per un «mito», il suo, che si «colora un poco di fisiologia». Ma è proprio questo (duole per Marchesini, a sentire il quale oggi si userebbe «la parola “corpo” con la fascinazione ipnotica con cui negli anni Cinquanta si usava la parola “popolo”») il punto nevralgico su cui ragiona la migliore poesia ultima. È vero quanto sostiene Galaverni, che negli ultimi anni si è assistito a una «retorica del corpo e del dolore»; ma solo perché questa piega, che attraversa la poesia moderna e post-, in tanti epigoni (ed epigone) è stata esposta in quanto tale, in modo persino ricattatorio, senza che essa attraversi davvero la pelle della lingua: così mutandola in modo irreversibile. A partire almeno da Rimbaud (e Campana), e in modo sempre più evidente con Artaud (il «polo Artaud» che l’altro grande maestro delle ultime generazioni, Andrea Zanzotto, non a caso affiancava a quello «Mallarmé»), la poesia ha tentato in ogni modo, al contrario, di superare la scissione “cartesiana” tra lògos e appunto fisiologia. Dice ad Ambra Zorat Laura Pugno, autrice «metamorfica» se ce n’è una: «il corpo, nella mia produzione poetica, è centrale e soprattutto è legato alla mente. Cerco di ricucire la frattura, come del resto cerco di fare anche nella mia vita».
Ha senso eccome, allora, e addirittura un senso rivoluzionario, tentare di ricomporre tale frattura: ove la si riconosca persino costitutiva della poesia occidentale, da Petrarca in poi. Dove infatti il corpo che magnetizza la lingua e mobilizza la retorica di chi inconcusso si dice “io” è sempre quello di un altro (il “tu” amoroso). È stato il pensiero fenomenologico novecentesco – ragionando proprio su Cartesio – a capire, con svolta non meno che copernicana, come invece il corpo di chi dice “io” non possa essere in alcun modo messo fra parentesi: in quanto «punto zero» (Husserl) che condiziona ogni atto di percezione. Il corpo e anzi la carne (Merleau-Ponty): se è vero che il primo pregiudizio da mettere in discussione è proprio l’unità e l’organicità di quanto definiamo “corpo” (o appunto corpus: Nancy).
La poesia del corpo (o, diciamo meglio, di una lingua corporale) non appartiene naturalmente solo alle donne; senza dover risalire a Campana, lo dimostra la parabola di un “cartesiano” altrettanto esemplare come Valerio Magrelli. Eppure non si può negare, anche solo per via statistica, che nell’ultima generazione soprattutto loro, le donne appunto, abbiano interpretato una simile fisica del senso. Lo mostrano esemplarmente, all’interno dell’antologia einaudiana, i versi di Antonella Bukovaz, Maria Grazia Calandrone, Giovanna Frene, Franca Mancinelli e Laura Pugno. Ma lo mostrano altrettanto ulteriori interpreti più o meno coetanee, o più giovani ancora. A parte Elisa Biagini e Mariangela Gualtieri (ancorché già pubblicate dalla medesima collana, la loro presenza nell’antologia meglio avrebbe fatto capire di cosa si sta parlando), penso alle uscite recenti e più o meno “organiche” di autrici come l’Alessandra Carnaroli di Femminimondo (Polimata), l’Alessandra Cava di rsvp (Polimata), l’Elisa Davoglio di Detour (La camera verde), la Rosaria Lo Russo di Nel nosocomio (Transeuropa), la Giovanna Marmo della Testa capovolta (Edizioni d’If), la Renata Morresi di Cuore comune (PeQuod), la Gilda Policastro di Antiprodigi e passi falsi (Transeuropa), la Marilena Renda di Ruggine (Le voci della luna: libro che sebbene mi sia dedicato, il che mi pone in evidente conflitto d’interessi, non mi pare giusto sottacere); nonché a Sara Ventroni, dalla quale si attendono notizie dai tempi di Nel Gasometro (Le Lettere). Magari, giusto di passaggio, qualcuno avrà notato che non uno di questi libri è uscito presso un “grande” editore. Ma certo, si sa, la poesia delle donne non è più un problema.
[Una versione più breve di questo articolo è uscita su «il manifesto» del 9 agosto 2012].
previde tutto il mantegazza con
la fisiologia del piacere ( 1880 ).
Sembrerebbe un’impresa meritoria, ma purtroppo dalle parole della stessa curatrice dell’antologia emerge la solita distinzione di genere fra poesia maschile cerebrale (leggi razionale) e poesia femminile emotiva (leggi uterina). Peccato che siano le donne stesse ad avallare questa interpretazione sessista.
Incredibile che tutti gli articoli ruotino attorno alla polemica e nessuno affronti di petto i testi. Forse anche i grandi critici devono sottostare ai dettami giornalistici? sta di fatto che l’antologia sembra un pretesto per parlare d’altro. Invece basterebbe chiedersi: sono valide le voci raccolte? e, a questa domanda, oltre che rispondere anche argomentare. Scrivero’ presto su quest’antologia, comunque, perche’ e’ incredibile che non vengano mai interrogati i testi: e la letteratura non corrisponde ai discorsi sulla letteratura.
ps: incredibile che l’autrice che a me sembra piu’ debole, la Aliraghi, sia tra le preferite sia di Marchesini sia di Berardinelli (e forse anche di Galaverni): sarebbe interessante sapere i criteri estetici e di poetica a monte di tali giudizi.
pps: mi sembra che Cortellessa, forse volutamente, travisi e decontestualizzi certe affermazioni di Marchesini
Lorenzo Mari ha preso spunto dalla polemica di Cortellessa su Marchesini per scrivere quanto segue:
http://criticaimpura.wordpress.com/2012/08/29/sodali-e-civili-marchesini-legge-savinio-noventa-fortini-bianciardi-e-bellocchio/
Davide Castiglione: assolutamente d’accordo con te sul metodo ermeneutico. Il textus soprattutto.
“La poesia del corpo (o, diciamo meglio, di una lingua corporale) non appartiene naturalmente solo alle donne; senza dover risalire a Campana, lo dimostra la parabola di un “cartesiano” altrettanto esemplare come Valerio Magrelli. Eppure non si può negare, anche solo per via statistica, che nell’ultima generazione soprattutto loro, le donne appunto, abbiano interpretato una simile fisica del senso” (Cortellessa)
Ma allora diciamo che è nato o da tempo esiste un nuovo genere di poesia, la *poesia corporale*, e la si smetta con queste distinzioni tardo-femministe. (Se si vuole rispettare il femminismo anni ’70 che fu una cosa politicamente seria…)
@ Sonia Caporossi: grazie per la segnalazione. Avevo gia’ letto il pezzo di Mari, che ho trovato molto profondo, partecipe e argomentato. Molto bello, detto banalmente, ma pensato meno banalmente, spero.
Credo che un’antologia abbia il taglio di chi la costruisce, di chi la pensa e la propone. In questo senso, credo, si sia scatenata la polemica. Riguardo al testo, è ovvio che sia la prima cosa; ma ciò prescinde dalla presentazione antologica e anche dal supporto (potrebbe essere scritto dovunque e slegato da ogni contesto), e non ha bisogno di alcuna lettura critica se non quella personale. Parere mio, naturalmente.
Ed ecco, prevedibile come la notte, il Cortellessa che fa la lista della spesa dei suoi amichetti e delle sue amichette. Ma si badi che questo non è baronato, è critica letteraria!
chiamata in causa tra le amichette, rispondo:
le donne in poesie sono discriminate. Come in qualsiasi altro ambito lavorativo. Questo è un dato di fatto. Le quote rosa in poesia servono? In un paese civile a questa domanda risponderebbero con una bella risata… ma l’Italia non è un paese civile. Quindi ben vengano gli spazi dove le donne dicono. Sono ghetti? Non credo. Sono isole di libertà e forza. A patto che poi non si giustifichi la scelta di fare un’antologia al femminile utilizzando frasi come “le donne sono più sensibili e i maschi più cerebrali” oppure “le donne parlano di persone e gli uomini di realtà”, ci mancano solo l’istinto materno e il principe azzurro. Non dobbiamo ringraziare nessuno: oggi le donne in poesie sono centrali. Un’antologia raccoglie valori e suoni differenti: anche in Nuovi poeti 6 ci sono parole fortissime ed altre che si perdono sottili… ma, ripeto, non c’è nessuno necessità di giustificare la scelta delle poete. Né di ringraziare critici (maschi) per i consigli e i suggerimenti (non abbiamo bisogno di nessun “Padre” che ci autorizzi a scrivere, non abbiamo bisogno di alcuna bene-dizione… fuori la testa dal forno s’il vous plait!). Né di darci una pacca sulle spalle parlando di sensibilità. Ci sono altre voci femminili che si mescolano e si muovono come in Fragili Guerriere, un progetto di Rosaria Lo Russo e Daniela Rossi, per riportare la donna che fa poesia nel mezzo. C’è molto altro spazio da occupare. Uso termini forti perché forte è il momento. Quasi violento. E la poesia può dirlo meglio. O far cascare le braccia.
Dell’articolo di Cortellessa mi fugge il bersaglio. O meglio, mi pare che il suo vero bersaglio non sia l’antologia, bensì il Marchesini; e mi pare che dietro le parole, diciamo nel rimosso, ci sia una “lotta di posizione” dovuta non tanto alla «stroncatura» dell’antologia ma ad altro. A cosa? Al fatto che Marchesini scrive sul Foglio, forse; o al fatto che abbia scritto male di TQ, sempre bacchettando, anch’esso tra le righe, il Cortellessa. Solo così si coglie il vero senso del primo capoverso dell’articolo di Cortellessa.
Ora, se mi astraggo dalla posta in gioco, se cioè prendo alla lettera i due articoli, non posso fare a meno di notare che in quello di Cortellessa è riportata un’affermazione – l’avversione di Marchesini nei confronti del pensiero teorico – che non trova riscontri; anzi, che è in tutta evidenza una forzatura. La frase di Marchesini è:
«Nelle stesse antologie si trovano, vicini, i rari scrittori in grado di costruire testi in versi basati su un’autentica economia formale, e un esercito di scriventi che non sono poeti, ma che quando al semplice “poetese” sostituiscono l’assai più insidioso “poetese accademico” di chi ha male assimilato le oltranze dei teorici moderni o postmoderni, vengono sostenuti a gran voce dalla nostra critica, di solito impressionabile quanto impressionista».
O Cortellessa si riferisce ad altro, o la sua lettura è completamente sbagliata.
Nel primo capoverso di Cortellessa è presente anche una “degradazione” del lavoro critico di Marchesini che è, anche in questo caso, un sintomo di una sorta di “regolamento di conti” interno al mondo della critica. Mi riferisco a quel «ben più autorevoli» inserito nella frase sulle altre due recensioni dell’antologia. Messa così, è poco meno che un insulto.
La «levata di scudi», inoltre, almeno delle recensioni lette, non è per la natura “femminile” dell’antologia, ma perché il «genere» viene elevato a categoria critica. Mi dispiace, ma anche qui lo sguardo è abbagliato da altro, da un non detto che, in tutta franchezza, puzza. Il «genere» è una categoria critica? Sì, ha ragione Fiorella D’Errico: si coglie un retroterra sessista. E il sessismo è – mi permetta Cortellessa – un “atteggiamento” reazionario. Ma tant’è …
Ci sono poi dei snodi teorici che sarebbero da approfondire. Chissà, magari Cortellessa, che non teme il pensiero teorico, potrebbe farlo. Mi riferisco al contenuto della frase della Pugno, citata nell’articolo, e al successivo «senso» – addiritura «rivoluzionario»!! – che avrebbe il tentativo di «ricomporre la frattura» tra mente e corpo. La frase della Pugno è – come dire? – è … è …. È questa:
«Il corpo, nella mia produzione poetica, è centrale e soprattutto è legato alla mente. Cerco di ricucire la frattura, come del resto cerco di fare anche nella mia vita».
Ora, io sono ancora legato, per antica vicinanza, al materialismo, il quale insegna, senza mezzi termini, e ben prima di ogni «pensiero fenomenologico novecentesco», che quella frattura è un abbaglio: mente e corpo sono due enti che fanno parte di un’unica entità materiale, e come tali sono inseparabili: che senso ha voler ricomporre qualcosa che è già composto? Il «senso» individuato da Cortellessa è, in realtà, un non-senso. Le stesse riserve potrebbero essere avanzate sull’idea di «poesia del corpo». A meno che non si prenda la dizione come “contenuto” (il corpo tematizzato dentro il componimento), la poesia è sempre – e non può che essere sempre e soltanto – DEL corpo … Provateci voi a scrivere una poesia senza il corpo. Idem con patate sul concetto di «lingua corporale». Può esistere una lingua che non sia corporale? Anche qui, il mio materialismo prende il soppravvento e mi lascia per lo meno dubbioso. E dire che Cortellessa dovrebbe conoscere tutta una serie di studi teorici sulle origini “orali” della poesia, o anche solo gli interventi di uno come Lello Voce, il quale afferma, sulla scorta di Zumthor, che in ogni poesia c’è la voce – e dunque, stringi-stringi, il corpo … Insomma, se una cosa – il corpo – è sempre presente, ed è presente in OGNI poesia, non ha alcun senso rilevarlo come caratteristica precipua di una specifica poesia o del lavoro particolare di un poeta (a meno che, ripeto, non ci si riferisca al «corpo» come contenuto). E proprio non ha senso farlo diventare una categoria critica. La poesia è corpo, punto.
Altra cosa divertente. Nell’articolo di Marchesini è presente questa frase:
«Al solito, il nome di Amelia Rosselli è evocato per giustificare cascami orfici e neoavanguardisti che qui non hanno alcuna carica eversiva, ma si riducono a gergo, lingua corporativa della tribù, e appunto poetese».
In questo suo articolo, e forse in perfetta incoscienza, Cortellessa conferma Marchesini. Lo fa sia nel nominare la Rosselli come «maestra», ma lo fa anche riportando il solito elenco di nomi degli affiliati alla «tribù» …
Peccato, perché in fondo tiferei per Cortellessa …
S’ode a destra uno squillo di tromba
A sinistra risponde uno squillo…
E’ questa polverizzazione di categorie e sottocategorie dai nomi astrusi che non aiuta. Non ha senso parlare di poesia “femminile”, di poesia “corporale” eccetera eccetera se non si vogliono mettere in rilievo varianti e costanti di un “gruppo”, cioè di un insieme di autori legati da una continuità biografica, tematica e linguistico-espressiva. In questo senso, credo, ha senso pubblicare un quaderno di “poesia femminile”: tutte le discussioni sull’identità di genere e sullo “stato della poesia” le trovo francamente stucchevoli.
L’articolo di Cortellessa mi sembra cerchi di rispondere alle tipiche questioni che si pongono in questi casi. E cioè se si è davvero creato un “gruppo”; se questo gruppo si sta distinguendo per una ricerca linguistico-espressiva e tematica originale; se questa ricerca ha condotto a dei risultati apprezzabili.
Riassumendo, si tratta pur sempre di distinguere fra buona e cattiva poesia.
Andrea, io guardo le parole sulla pagina. Hanno sesso?
La cosa triste è quel “Nuovi”.
Chi legge un po’ di poesia la maggior parte di questi nomi li apprezza – e comunque conosce bene – da anni e anni.
Quel che un becero politico disse “correre in soccorso dei vincitori”.
Perché la bianca non adotta il nero per le copertine?
Ovvero, non rompesse i coglioni l’einaudi.
se c’è una cosa che l’Einaudi sa far bene, quando le schizza davanti il codino di Kairòs, ossia l’occasione di ridicolizzarsi, è proprio l’aggrapparcisi a due mani. la “bianca” soprattutto, di questi afferramenti riusciti poi in scalpi, va accatastandone a tutta birra.
ps.
e Florinda Fusco?
Chiamata in causa in qualità di curatrice, rispondo.
Come nota Castiglione, tutti gli articoli ruotano attorno alla polemica, ma nessuno affronta di petto i testi.
Bene, giustissimo.
Esattamente come i commenti che ho appena finito di leggere, rivolti soprattutto al mio operato e alla scelta editoriale da cui discende: qualcuno dei commentatori si è mai preso la briga di leggere la mia introduzione critica? Che certo non distingue fra poesia maschile cererebrale-razionale e poesia femminile emotivo-uterina, sono luoghi comuni che non mi sfiorano, banalità mai pensate né scritte. Altrettanto vale per le sciocchezze che mi attribuisce fra virgolette Alessandra “amica”,ma dove le ha mai viste? Invito tutti a un approccio diretto delle fonti anche per quanto mi riguarda, ovvero a leggere , prima di far commenti, ciò di cui si (s)parla.
In generale, mi pare sia stato fatto, non solo dagli illustri critici estensori di articoli e recensioni, ma anche dai partecipi commentatori, un processo alle intenzioni: quelle dell’editore (non rispondo agli apprezzamenti del gentile Damiano, a proposito; le sue armi dialettiche sono troppo sofisticate, per me; lo stesso per f.t., anche lui, se leggerà l’antologia, avrà risposta alle sue domande) e le mie…
Così, c’è ancora chi, come marco p., afferma che il genere è stato elevato a categoria critica, che poi è la perplessità già sollevata da Galaverni. Chi sarebbe l’artefice di una simile operazione, rimane da capire. Non certo Einaudi con la pubblicazione dei Nuovi poeti italiani 6 (e per capire il senso di quei “Nuovi”, Damiano, basta, semplicemente, leggere l’introduzione). Che per quanto mi riguarda è l’indimenticata lezione di Berardinelli, che continuo a considerare uno dei miei maestri, anche se non ha apprezzato, o forse capito, lo spirito di quest’ultimo mio lavoro. Andare ai testi, rifarsi direttamente ai testi.
Quanto ai ringraziamenti posti in calce all’introduzione, erano semplicemente doverosi: e certo non hanno impedito ad Andrea Cortellessa di esprimere le sue riserve. E’ il suo punto di vista. Altri, me compresa, ne hanno di diversi…
Comunque grazie a tutti per l’attenzione.
mala poli castro ?
La Poesia ha bisogno di spazio e accoglienza, per edificare coscienze e cuori oggi tanto orfani di buoni maestri. la Poesia buona e vera offre spunti di osservazione approfondita della realtà come ci è data e ingenera utilissimi sospetti sulla medesima realtà data…
Vengano altre antologie, libri, riviste, siti, immensi manifesti 6×6 con tanta tanta Poesia.
Ci sono ancora tante voci, tante quote di un interezza da scoprire e di cui nutrirsi.
Grazie a Giovanna Rosadini per il suo lavoro alacre e profondamente sincero e ad Einaudi per una tra le occasioni date alla Poesia.
Gentile Rosadini
le “sciocchezze” (che rileggendo il mio commento non ho attribuito direttamente a lei) le ho trovate qui:
http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/09/02/questa-volta-nuovi-poeti-italiani-sono-tutti-poetesse-polemica-su-antologia-di-einaudi/340326/?
Amichetta lo sono diventata mio malgrado, essendo finita nella “lista” della spesa del Cortellessa (si leggano ancora i commenti).
Ho letto introduzioni e testi, resto dell’idea che sia un’introduzione “sulla difensiva”, una sorta di giustificazione per la scelta di alcuni poeti e l’esclusione di altri. Buone cose. Alessandra Carnaroli.
@gentile Carnaroli: l’intervista di Franceschini butta palesemente benzina sul fuoco, e semplifica ed estremizza ciò che ho detto. Fra l’altro, contiene imprecisioni che ho chiesto, ad oggi senza risultato, di correggere. Il riferimento primario rimane, ancora una volta, la mia introduzione critica, che analizza la poetica di ciascuna autrice e cerca di individuare delle caratteristiche comuni, partendo naturalmente dai criteri di scelta, che non significa giustificare alcunché ma offrire, anche in questo caso, uno strumento di comprensione al lettore. Curioso che proprio coloro che dovrebbero essere del mestiere non recepiscano questi aspetti… Fra l’altro, una delle osservazioni da parte degli amici “esperti in materia” è stata proprio quella di esser troppo ingenua e scoperta… proprio perché priva della patente di critico. @f.t. e db: sarò noiosa, ma basta leggere l’introduzione per avere risposta: non potevamo fare un volume di mille pagine, e la mia antologia non ha, dichiaratamente, pretese di esaustività. Come Fusco e Policastro non sono entrate autrici pure validissime (qualche nome: Carpi, Serragnoli, Cera Rosco, D’Agostino…). Passo volentieri il testimone a chi vorrà cimentarsi con la prossima… Io torno finalmente alla mia scrittura… Cordialmente,
Gentile Rosadini (e metto il nome in esteso, tanto per non infirmare quanto segue con la faccenda dell’anonimato): a prescindere da tutte le patenti e le posizioni assunte e assumibili nel campo letterario, nonché dai criteri di scelta adottati in fase di selezione (non ho tempo per discutere questi aspetti), lei mi dice: “non potevamo fare un volume di mille pagine”. Oh, ecco una splendida argomentazione! La ringrazio, sinceramente. Un ostacolo che suppongo peraltro di poter comprendere bene, e in ragione del quale, con convinzione anche maggiore che nel mio commento dell’8 settembre, le rispondo che l’esclusione di Fusco, a fronte almeno dei 3/4 delle antologizzate, è semplicemente raccapricciante.
Un caro saluto, e alla “prossima”, come dice (ché, naturalmente, a tutti sarà dato portarsi con altrettanta irresponsabilità nella curatela di un’antologia Einaudi, una volta nella vita).
f.t.
E’ un circolo vizioso: se dici che il livello e’ basso, vieni preso per rosicone; se dici che il livello e’ alto, sei un amico degli amici. Si puo’ serenamente suggerire, senza scatenare lotte partigiane o flame di vario tipo, che da anni, ormai, ne’ Einaudi ne’ Mondadori cavano un ragno poetico dal buco? Il meglio recente rimane il lavoro antologico di Testa nella Bianca (2005?) e le varie traduzioni dall’UK di Guerneri nello Specchio.
[@GioRosadini – Cara Gio, credo che sia un riflesso della crisi economica e della mancanza di lavoro, il fatto che la gente ha così tanto tempo… :) ]
sensazionale. queste sì che son parole degne di un “nuovo poeta italiano 6”. caricate a supponenza, sparate a vette di tristezza irrespirabili. ma che adesso si mettono pure a leggere le poesie, sti bifolchi? e addirittura così tante da praticarsi una comparatistica fai-da-te? a lavorare, piuttosto, a lavare i piatti, a servire i cannoli. e pensare che Giovanna Frene è anche una delle poche autrici che, testi alla mano, parrebbe meriterebbe una tale diffusione, e che non includevo nei sopraccitati 3/4 di raccapriccio. non si smette mai di imparare, evidentemente.
f.t.
*parrebbe meritare
però quella della Frene è un’osservazione acutissima, tant’è vero che sono qui a leggere articolo e commenti, solo che sarei stata più d’accordo con lei se l’avesse espressa usando il modo congiuntivo.
Mi tiro fuori dalla discussione che, con il commento della Frene ha raggiunto livelli incomprensibilmente bassi: disponendo, causa crisi, di molto tempo libero inviterò le amichette di cassa integrazione a bere un tè in veranda per spettegolare sull’ultimo articolo di novella duemilla…(in fondo noi donne poete-casalinghe siamo più brave a parlare di uomini e donne, avremo mica la pretesa di raccontare l’Italia di oggi eh?) Glamour no, con la sua rubrica di poesia tocca punte troppo alte, meglio il punto croce o il punto e basta. vabbè…
@ GioFrene mi sfilo volentieri anch’io, ma non senza aver prima fatto una bella risata per il tuo commento, che mette in luce, a giudicare dai successivi, la mancanza di ironia degli estensori. Tempi grami…
Ci vediamo su Atelier per le ultime considerazioni
[veramente, a me era solo sembrato di ricalcare il tono generale degli interventi. tutto qui]
: (
[l’indicativo è usato volutamente, per constatare un dato di fatto.
e noto che manca del tutto l’ironia: è questo livore che mi aveva spaventata, qui, e purtroppo]
@Alessandra: non parlavo a te, e sono sconcertata della tua risposta :(
[non capisco tutta questa violenza in poesia!! ma siamo matti?? e poi se uno risponde ironicamente con la stessa vostra violenza, voi però non l’accettate??]
@fabio teti: chi mi conosce sa che sono distante anni luce dalla supponenza, anzi… anyway, grazie per l’apprezzamento ai testi
[e chi mi conosce, sa pure che ho un caratterino]
Ciao a tutti, intanto. Le mie riflessioni in merito ai recenti interventi critici, soprattutto circa l’idea di genere come categoria critica, spero di avere l’opportunità di esprimerle a breve. Vi chiedo solo un po’ di calma e buonsenso. La polemica sulle meritevoli escluse e le immeritevoli inserite potrebbe non finire mai. Siamo d’accordo. Qui però stiamo parlando di persone che hanno tentato, che stanno tentando una loro voce in poesia. Vogliamo almeno ricordarcelo? Che siamo tutti umanamente impegnati in questo, con esiti alterni, diversi, e certo discutibili? Non c’è bisogno di diventare aggressivi. Si può stroncare lavorando sui testi, facendo una buona critica e non solo nomi di persone Fuori/Dentro, o gridare allo scandalo o accusare di inettitudine. Io (zitti tutti, lo so, faccio parte dei 3/4, non state a rimarcarlo, ve lo dico con ironia, ma comunque un po’ fa male, no?) gradirei tanto che tornassimo a dei toni civili, di scambio, di fiducia nell’altrui onestà. Che dite, simpuò fare? Laura Liberale
@ Fabio Teti: Non mi permetterei mai di dare giudizi sulle capacita’ di persone che non conosco. Quindi non intendevo AFFATTO quello che scrivi tu “Ma adesso si mettono pure a leggere poesie ‘sti bifolchi ecc. ecc.”! Non mi permetterei mai di dire una cosa del genere, neppure per scherzo!! La mia battuta era nata semplicemente da una insofferenza, accumulata in questi mesi, per tutte le valanghe di parole aggressive (NON CERTO “CRITICA LETTERARIA”) che sono state buttate addosso a questa antologia, e alla sua curatrice, e quindi mi sono detta di dissentire per una volta in maniera brutale, e così ho detto: “Ma la gente ha tutto questo tempo per sparare giudizi spesso brutali e lontani da una critica seria, e pieni appunto di livore? Perché tutta questa violenza?” ecco tradotta la mia battuta. Niente di più, niente di personale.
Fuori dai toni della mia breve polemica (i cui contenuti, ossia quello che mi sembra realmente un “problema Florinda Fusco”, mi sento però di confermare), ci tengo a precisare che non era mia intenzione offendere nella persona gli autori dell’antologia. Non per niente, ab ovo, ossia nel mio commento dell’8 settembre, era l’operato generale dell’Einaudi, specie per quanto attiene alla poesia, che criticavo. Nemmeno è mia abitudine stroncare (da quale pulpito, poi) energicamente il lavoro altrui, salvo in casi di patente (a mio avviso, of course) falsa coscienza e irresponsabilità; se la ineffabile risposta che ho ricevuto da Rosadini, ha scatenato un comparatismo nominale a tal punto aggressivo e offensivo, è comprensibile e legittimo mi si riprenda, non ho nulla da obiettare a questo. Il dentro/fuori è un meccanismo tipico e idiota delle polemiche antologiche; se per una volta mi ci sono prestato, è perché la scotomizzazione dell’opera della Fusco è quanto di più incomprensibile mi è dato di notare dell’attuale portamento critico-antologico italiano. Il fatto che nemmeno Cortellessa, il quale pure contropropone un’ampia lista di autrici, la cui importanza è peraltro da me condivisa, non nomini l’opera di Fusco, è quanto infine ha sfrenato la mia insoddisfazione e il conseguente intervento a gamba tesa.
E con questo, chiudo. Un saluto a tutti,
f.t.
Non avevo letto, scrivendo, l’ultimo intervento di Giovanna Frene. Comprendo certo la sua (tua, se posso) insofferenza, date le polemiche seguite alle ultime due antologie importanti uscite in Italia; come immagino si possa comprendere la mia, nei termini almeno in cui la esplicito poco sopra. Il travisare e il reagire in maniera sproporzionata è quasi inevitabile, in siffatte occasioni. Ma antologizzare è infine anche una questione di potere, e che a determinate assunzioni si reagisca, lo trovo utile e naturale. Sono comunque felice di aver malinteso quel commento. Spero con questi ultimi miei di aver chiarito che neppure io ne faccio una questione squisitamente personale. (Le/ti ho scritto, poi, anche una risposta in privato, su fb; non so se è già stata letta).
Ancora un saluto,
f.t.
Ecco. Pace fatta. Buon lavoro (sul serio) a tutti :)
Ma perchè questo libro provoca fastidio e risentimento?
E’ solo per le inclusioni e per le esclusioni?
E’ per la modalità di scelta?
O come dice qualche maligno: è il dibattito estivo?
Trovo di cattivo gusto sparare pubblicamente sulle autrici incluse, alcune anche amiche fraterne, molte delle quali di indubbio e accertato valore, altre che potranno crescere, affinarsi, avere svolte inattese: è un augurio per tutte, naturalmente.
Cara Leardini, leggo da qualche parte che non intendi ripetere la cosa: ti chiedo invece, se ti sarà possibile e se ne avrai la rarissima occasione editoriale, di proseguire, di allestire un ulteriore quaderno.
Sono certo infatti di quanto elenco in questi punti:
1) 12 poete sono un numero necessario ma non sufficiente a mostrare l’ampiezza del fenomeno. Totalmente irregistrato dalla editoria maggiore: un esempio? tra i nati negli anni Sessanta, la generazione del Novecento più editorialmente mortificata, presso Mondadori ed Einaudi figura la sola Bedini (a fronte dei vari Dal Bianco, Riccardi, Rondoni, Strumia).
2) sarebbe già dovuto accadere almeno 35 anni addietro, quando la poesia femminista e femminile si impose all’attenzione (forse più come fatto socio-politico che letterario tout court).
Ma non accadde:
Berardinelli nella sua non-antologia ‘Il pubblico della poesia’ (1975) accolse 4 voci (Maraini, Frabotta, Lamarque e Cavalli) contro le 35 maschili. Ed era il momento in cui esplodevano voci neodialettali potentissime, Franca Grisoni, Ida Vallerugo, Bianca Dorato, poi Assunta Finiguerra, e voci in lingua dalla forza notevole e non effimera: Jolanda Insana, Mariella Bettarini e Marisa Zoni: tanto per fare tre nomi non ovvi e soprattutto non ospitati nelle antologie maggiori di ieri di oggi e spero non di domani.
Mengaldo (1978) inserisce nel suo canone di 51 voci, la sola, immensa, Rosselli.
Sanguineti nel suo anti-canone (1969, 1971) di 45 poeti non include nessuna donna.
Raboni nella sua crestomazia (1981) di 12 voci non include nessuna poeta.
Potrei continuare ad libitum, per ora mi fermo qui.
C’è, in tutta evidenza una questione di ascolto, o se volete, di ricezione critica: la critica novecentesca è stata sostanzialmente maschilista, e questo è innegabile. Dovendo scegliere tra un poeta e una poetessa, si è data la precedenza al primo, per un fatto di natura, di ereditarietà, di cultura, di status quo, di amicizia non competitiva che non poneva in discussione gerarchie secolari. Come è accaduto in ogni settore della cultura e dell’arte, della politica e dell’economia, della scuola e dell’università: quanti sono stati e sono i Rettori donna?
Ma nella critica, la cosa assume una connotazione evidentemente pregiudiziale: prima le rivendicazioni, poi il sentimento e l’ombelico (come se sentimentali, ombelicali e lirici non siano anche i colleghi maschi). Quindi il fastidio per una poetica che spesso si rifà ad una corporeità che non deve essere accolta, detta, mostrata… sto banalizzando, lo so, ma questo è un blog. Ma su questi appigli si è consolidata una fondamentale mancanza di attenzione: troppo sentimento, troppa esibizione, ti sbattono in faccia il loro corpo… per una società in cui a sbattere in faccia qualcosa è stato sempre il potere maschile, è un qualcosa di irricevibile…
Lunetta in ‘Poesia italiana della contraddizione’ (1989) pone un rapporto di 40 a tre: Giulia Niccolai, Patrizia Vicinelli ed Anna Malfaiera: tre poete di ricerca tra le più interessanti e ormai quasi del tutto dimenticate.
Galaverni include nei ‘Nuovi poeti italiani contemporanei’ (1998) 18 voci, tra queste, figurano le sole Valduga ed Anedda. Avrebbe potuto tentare uno sforzo maggiore? E’ probabile.
Piccini nel suo lavoro (2005) include Rosselli e Lamarque: il rapporto è 2 a 15. E non si può non obiettare che al posto della Lamarque (o assieme a lei) avrebbe potuto includere almeno altre 6-7 poete di valore eguale quando non maggiore.
intanto posto questa prima parte. perdonate. continuerò
un’operazione puramente ideologica: la droga della “correttezza politica” che stordisce l’opinione pubblica…
fin troppo facile immaginare le prossime scelte di Einaudi:
antologia di soli poeti extracomunitari che scrivono in italiano
antologia di soli poeti “diversamente abili”
antologia di soli poeti omosessuali
e così via…
una autrice non presente nel quaderno mi fa notare che ho confuso Rosadini con Leardini.
Un lapsus, mi scuo con entrambe.
continuerò il mio commento appena possibile
Roberta Bertozzi, Paola Turroni, Rosaria Lo Russo, Florida Fusco, Silvia Cassioli, Barbara Pietroni, Silvia Salvagnini, Maria Valente (non ha pubblicato ma…), Giulia Rusconi (forse troppo giovane), Angela Bonanno (solo in siciliano), Nadia Cavalera, Annalisa Teodorani (solo in romagnolo), Lussia di Uanis, Anna Maria Farabbi… Non c’è niente di male a fare un’antologia al femminile – magari Giovanna Rosadini può leggere (se non ha già letto) anche queste autrici, già citate (alcune). Mi sa che tocca comprare l’antologia di Einaudi, vero Manuel?
@ manuel cohen
“sto banalizzando, lo so, ma questo è un blog”.
Scusa se faccio il pignolo, ma non ti pare dispregiativo?
La cura che usi nel discutere coi tuoi pari non dovresti usarla anche su un blog?
O ancor più, vista la tendenza di molti a parlare nei blog come in un’osteria di avvinazzati?
Ciao Ennio,
no, non mi pare dispregiativo. Sono consapevole del fatto che sto lasciando un commento a un articolo o post non mio, e so bene che il linguaggio non può essere lo stesso linguaggio che adotto quando scrivo un saggio. Quando affermo che sto banalizzando, lascio intendere l’ulo analogico del termine, per: velocizzando, sintetizzando, semplificando.
ciao. m.
ulo non sta per urlo ma per uso!
@Christian,
ciao caro, sì, i nomi, sono d’accordo, anche se ecluderei gli inediti, da questa pubblicazione, almeno, che ha nei suoi intenti quello di offrire una vetrina adeguata ad autori con una bibliografia consolidata.
Però, almeno per ora, non volevo fare l’elenco telefonico: anche perchè ognuno di noi ha una costellazione di autori da proporre: vedi Berardinelli che fa gli stesi nomi da trent’anni, con l’aggiunta recente della vicina di casa.
Già Manuel, però non è che pubblicare una plaquette o un libro in una casa ed qualsiasi sia un criterio no? Semplicemente la mia curiosità sta nel comprendere qual è il bacino di autori di Rosadini – sarebbe un’informazione utile, che da più risalto alle scelte. Nella maggior parte delle antologie, questa informazione non è data, forse perché si ha paura di dover motivare le esclusioni… ma ben venga no?
Hai ragione. Non posso risponderti io naturalmente, ma la curatrice.
(continua….)
cos’è dunque che irrita di più?
il fatto che sia una antologia di sole donne?
il fatto che si intende prefigurare un genere?
una resuscitata poesia femminile resa trendy dall’understatement e dal linguaggio afferente al corpo?, un gruppo, una lobby?
Leggiamole, quanto di più divaricate tra loro risulteranno, ad esempio:
la Airaghi e la Tempesta?
o Mancinelli e Liberale?
o Fantato e Frene?
Bukovaz e Candiani?
o Calandrone e Attanasio?
Pugno e Leardini?
Ma anche ammesso che sia anche così, che l’antologia sia un po’ un’antologia ‘a tema’, o ‘di genere’, occorrerà comunque riconoscere che era opportuno, era ora, certificare (e, ripeto, non entro ancora nelle scelte degli autori selezionati, lo farò in altra sede critica) sancire e confermare la presenza delle poete (lo so che è più corretto dire poetesse, ma poete mi embra un più degno plurale).
Come mai l’irritazione esplode solo ora?
Eppure c’è stato un precedente. Ce ne ono stati diversi. Il più recente di cui ho memoria, riguarda, ad esempio, un numero dell’Almanacco dello Specchio, la storica rivista mondadoriana che ha vissuto due distinte fasi e direzioni: nel numero del 2012 viene dedicata una sezione della rivista a 12 poete… ho trovato la cosa molto strana: perchè relegare in una ribrica a parte le donne? ce n’era bisogno? quale l’opportunità?
(continua, scusate, mi chiamano al telefono)
E.C. numero del 2009 dell’Almanacco.
semplice, mio caro fabio, la migliore va sempre tenuta fuori, mi sembra l’unico criterio comprensibile.
Il volume n. 6 dei Nuovi poeti italiani secondo Einaudi è un’edizione quanto mai inopportuna.
1. Ad un primissimo banale confronto con il volume precedente, curato da Loi, e dedicato alla rassegna della poesia dialettale, risulta ancora più verace la ghettizzazione della poesia femminile o la sua riduzione non soltanto a poesia di genere, ma a genere letterario, al pari della poesia bucolica, della poesia didascalica, di qualsivoglia etichetta che ha connotato un genere sulla base soprattutto di un tema. Che la femminilità venga tematizzata, non fa che ribadirne – nel 2012 – l’arrancamento ad introiettare, più che a conseguire, un’autentica emancipazione o una parità sui generis, non lesiva delle rispettive identità.
La scelta dell’isolamento delle “nuove” poetesse italiane le relega inevitabilmente in una condizione di subordinazione. Che non si meritano. Perché la scrittura femminile sta vivendo una stagione effettivamente di fuoco: forse per motivi educativi, forse sociologici, per componenti psicolinguistiche che sarebbe interessante approfondire. Ma non è certo con un’edizione “esclusiva” – nel senso di escludere l’antagonista per eccellenza, l’altro sesso – che lo si dimostra. Quando finalmente le varie scritture di mano femminile o maschile potranno confrontarsi ad armi pari su un unico saggio della contemporaneità, lì si svolgerà la sfida vera, verificando sul campo l’autentica tenuta, l’originalità, convergenze e divergenze (non meramente contenutistiche ma più stringentemente formali).
2. Dalla premessa che tra questi commenti si ha pure l’ardire di invitare più volte a rileggere, si ricavano ulteriori motivazioni di distanziazione dalle scelte delle curatrici. Un’introduzione che appiattisce i riferimenti letterari ai due “santi subito” Andrea Zanzotto e Amelia Rosselli o è ingenua, o è accorta delle dinamiche di marketing editoriale. Non si capisce perché il Novecento debba subire una torsione costrittiva fino a un riduzionismo spicciolo: oscillare tra la memoria dell’ultimo suo esponente (scomparso da nemmeno un anno) o alla tragica figura della Poetessa italiana per antonomasia risulta un bel po’ patetico. Per fini di semplificazione comunicativa non serve veicolare una visione appiattita della varietà di stratificazioni letterarie ed extra letterarie su cui si sono sovrapposte le ultime voci. Non è corretto nei confronti dei lettori.
Soffermiamoci pure sulla ricezione di Amelia Rosselli, visto che sono una rossellista. La “madre di tutte”: ma questa bufala quanto ancora la facciamo girare? Addirittura la avvalliamo in un’edizione Einaudi? Potrei citare nomi e cognomi delle autrici antologizzate che non hanno mai letto Amelia Rosselli. E la cosa non stupisca. Amelia non ha avuto i mezzi per incidere oltre al circuito romano in cui viveva, fino alla sua shockante morte. In seguito al suo suicidio (1996) la critica ha cominciato a fare i conti col proprio rimorso e a fornire un “rimborso” postumo di attenzione. Ma non è bastato, anche perché la deriva strutturalista si è soffermata eccessivamente su aspetti ludico-stilistici che fortunatamente sono stati controbilanciati da studi ermeneutici più complessivi. Ricordo inoltre che l’Elefante Garzanti che raccoglieva la sua opera era fuori commercio già dal 2004 ed è a tutt’oggi introvabile. E’ più o meno a quell’altezza che la Rosselli comincia ad essere divulgata anche nei manuali scolastici, interferendo nella formazione semmai delle generazioni più giovani, ma scarsamente su quelle intermedie. Quindi, prima dei tardi anni Duemila, è ben difficile sia riuscita a battezzare delle generazioni intere.
3. La premessa fa una panoramica (generica) delle autrici, presentandole come una rosa di esponenti che restituisce la varietà della poesia contemporanea. Ovvero i rappresentanti di un arco democratico legittimato dal semplice fatto di esistere. Credo fermamente che il compito di un critico sia attuare scelte qualitative discriminanti. Sta semmai agli storici ricomporre il mosaico di varie tendenze sincroniche ma non per questo tutte al pari livello. Molte scelte delle curatrici non sono condivisibili, tanto meno coraggiose e ben lungi dall’indicare una prospettiva. A chi gioa questa rappresentatività: agli autori che hanno un’etichetta in più per esistere? agli autori esclusi che tuttavia si riconoscono in quella corrente col diritto di essere rappresentata? agli editori per una facile consultazione dei trend? Resta sempre il nodo dei lettori, che attendono la critica assolva al suo ruolo di vaglio rigoroso e mediazione pertinente e fondata.
Ecco l’intervista di MEGACHIP citata nel precedente commento:
Gli intellettuali «distratti». Intervista a Ennio Abate
di Pier Francesco De Iulio – Megachip
Ospitiamo volentieri sulle pagine di Megachip l’appello «Noi accusiamo!», pubblicato dalla rivista “Poliscritture” (vedi all’interno). Si tratta, per stessa voce degli autori, di un “segnale di fumo”.
Destinatari ne sono gli intellettuali “distratti”, affinché rompano il silenzio in cui sembrano essersi rifugiati e prendano posizione di fronte all’opinione pubblica. Per capire meglio di cosa si tratta abbiamo rivolto alcune domande a Ennio Abate, uno dei tre promotori insieme a Roberto Bugliani e Giulio Toffoli.
*Ci spiega in due parole cos’è “Poliscritture” e chi sono i promotori di quest’appello?
«Poliscritture» – così scrivemmo nel numero zero del 2004 – è rivista semestrale e sito di un «Laboratorio di ricerca e cultura critica». Raccoglie scritture plurali (di politica, filosofia, letteratura, poesia, arte, scienze e storia), che cercano nella liquidità delle mode, delle crisi, dei conflitti passati e presenti i punti d’appoggio per ripensare una cultura (antica e nuova) della polis, cioè della piena democrazia.
Dei tre promotori dell’appello, due – io e Toffoli – siamo redattori della rivista, il terzo – Bugliani – è un collaboratore, spero sempre più assiduo. L’idea dell’appello è nata su spinta di Bugliani e forse troppo a ridosso delle vacanze, ma abbiamo pensato di farlo circolare subito, considerandolo aperto – com’è tuttora – a successive integrazioni o eventuali correzioni. «Poliscritture» del resto non ha struttura aziendale o parapartica. I singoli redattori e collaboratori decidono se partecipare o meno a un’iniziativa come questa o ai temi dei «cantieri» di «Poliscritture», fissati comunque in incontri di redazione. Ne abbiamo uno in corso su Franco Fortini (18 interventi sono già sul sito qui e confluiranno, filtrati, nel n.9 cartaceo) e altri due (sulla paura e su guerre vecchie e nuove) verranno “aperti” subito dopo.
*Chi sono per voi gli “intellettuali”? Che senso ha oggi rivolgersi a questo soggetto culturale e se esiste come tale quale dovrebbe essere il suo ruolo? Per tornare sulla questione coi termini di una passata diatriba, Lei ritiene che gli intellettuali debbano continuare, magari meglio, a suonare il piffero (stonato) della rivoluzione o farsi parte attiva di un reale rinnovamento culturale della società, in modo autonomo dalla politica?
Potremmo rispondere che sono i discendenti di quelli che furono gli intellettuali nelle epoche che ci hanno preceduto, a partire, all’ingrosso, da Zola, di cui riecheggiamo (al plurare) il Je accuse. Sono tutti quelli che hanno facoltà di leggere, scrivere e far di conto, anche se, come diceva Gramsci, nella vita sociale e nella divisione del lavoro «non tutti svolgono la funzione di intellettuali». A questa facoltà andrebbe aggiunto il coraggio. Ce ne vuole almeno un po’ per criticare razionalmente i potenti (grandi o piccoli) che condizionano negativamente la vita di tutti noi. Oggi più che in passato esistono, dunque, tantissimi intellettuali (tradizionali, knowledge workers), ma non può esserci più (o è diventato improbabile) quel riconoscibile «soggetto culturale» capace di criticare adeguatamente il potere o i poteri e a cui, in passato, i partiti socialisti e comunisti avevano voluto affidare la funzione di “pifferi” della rivoluzione o della modernizzazione.
I poteri (capitalistici) sono diventati più oscuri e illeggibili e hanno fagocitato quegli stessi partiti assieme alla massa degli intellettuali, tradizionali e nuovi. Restano potenzialmente e ovunque gli intellettuali “critici”, i quali dovrebbero autonomizzarsi non soltanto «dalla politica» (che passa in minima parte oggi attraverso i partiti), ma autonomizzarsi, come ha ben detto di recente Giorgio Agamben, dall’intera religione del capitalismo, « una religione e la più feroce, implacabile e irrazionale religione che sia mai esistita».
*Nel vostro appello c’è un riferimento preciso al “ceto artistico”, Lei pensa che l’arte possa esercitare ancora un ruolo emancipatore degli individui e di stimolo per le coscienze intorpidite da una certo tipo di “cultura” massmediologica odierna?
Il riferimento al ceto artistico nasce dalla convinzione che l’arte ha sempre avuto una funzione importante di conoscenza storica e sociale (basti pensare anche solo alle opere letterarie e artistiche del Novecento: Proust, Kafka, Joyce, Brecht, Lu Hsun, Faulkner, Picasso, Klee, Mahler, Strawinsky…) e di memento della pienezza e felicità possibili per i singoli e le collettività. Non è che scrittori e artisti possano surrogare una politica precipitata in una palude melmosa o inventare, da soli, una nuova, immaginaria polis. Ma, essendo costruttori di realtà linguistiche (siano esse il linguaggio dei suoni, delle immagini o della letteratura) ed essendo soprattutto la lingua fatto sociale, possono più di altri disinquinare i linguaggi massmediatici che entrano nelle menti di tutti. E perciò l’attuale silenzio sulla drammatica realtà sociale che stiamo vivendo è più intollerabile – come si è detto nell’appello – in quanto viene da coloro che «vantano il valore conoscitivo, culturale e artistico universale della parola».
Non vorremmo che dietro a questo silenzio ci sia una sorta di alibi per cui, dato che il cosiddetto mandato sociale degli intellettuali e dell’artista non può essere più quello della storia novecentesca, si è tutti – visibili o meno visibili – in libera uscita e ciascuno è tenuto solo a farsi gli affari propri. Tra l’altro la mercificazione della cultura e dell’arte, eliminando persino il dilemma tra acquietarsi sull’esistente o contrastarlo contribuisce potentemente a rafforzare quella «dittatura dell’ignoranza», di cui spesso gli stessi intellettuali e artisti lamentano i danni. Così la ricerca di un nuovo che non sia conforme alla religione del capitalistico officiata dai grandi mercanti e speculatori, diventa impossibile.
*Un’ultima domanda. Nell’orizzonte culturale e politico odierno c’è spazio secondo Lei per pensare ad un grande progetto di rinascita dell’uomo e della società che non si esaurisca nel governo dell’economia ma si ponga come obiettivo la costruzione di una nuova pòlis?
Dopo il fallimento di socialismo e comunismo l’idea di una nuova polis rischia di essere intesa come l’ennesima utopia. Scalderebbe ben poco i cuori “occidentali” troppo disincantati o troppo depressi. Peggio ancora sarebbe stilare a freddo progetti o programmi, che ribaltino semplicemente i discorsi e i linguaggi massmediali mantenendosi sullo stesso piano di genericità astratta. Oppure costruire una nuova mitologia o incitare a una nuova fede nel futuro. C’è invece da contrastare, come detto, l’intera religione capitalistica. E abbiamo bisogno per ora soprattutto di critica intelligente e di una buona (non populistica) demolizione delle ideologie dominanti. Solo man mano che esse procederanno si vedrà se la costruzione di una nuova polis si porrà; e concretamente, non nei vecchi modi idealistici e utopistici. Meglio attenersi a un saldo realismo, come suggeriva in altra difficile epoca Franco Fortini:
…c’è da tornare ad un’altra pazienza
alla feroce scienza degli oggetti alla coerenza
nei dilemmi che abbiamo creduto oltrepassare.[*]
[*] Forse il tempo del sangue…da L’ospite ingrato in F. Fortini, Poesie scelte (1938- 1973), a cura di P.V. Mengaldo, Oscar Mondadori 1974
(…continua 3)
Dunque, una sezione dell’Almanacco 2009 dedicata alle donne, le relega, di fatto, a un genere, o a un sottogenere: in cucina. Così come nel cortile o nell’aia sono stati abitualmente confinati i neodialettali, nonostante lo sdoganamento di Mengaldo (1978).
E’ una prassi consolidata quella di racchiuderli in un capitoletto a parte; vedasi ad esempio, l’antologia curata da Segre e Ossola (Einaudi,1999,2003): addirittura i nomi degli autori neodialettali appaiono trascritti in caratteri corsivi minuti, mentre quelli dei colleghi in lingua sono evidenziati in neretto. Imbarazzante.
E un’eccezione ‘Parola Plurale’ (2005, un pool di 8 curatori) che molti anni dopo, e da un’ottica diametralmente opposta, evita speciose classificazioni ed include tra gli italiani alcuni tra i più significativi neodialettali. In questo lavoro ponderoso che registra 64 autori, la preminenza è riconsegnata ai testi, alla centralità della lingua dello stile e delle strutture, piuttosto che ai motivi e alla chiacchiera sociologica che marca le antologie militanti del passato. Qui le autrici sono 11 su 64, ma registrate in frequenza maggiore tra le ultime generazioni.
Presso Mondadori, l’antologia Cucchi-Giovanardi, propone la ripartizione di sottogeneri o sub-categorie: ‘In dialetto’, e una incognita ‘narratori poeti’: dove non è apparso mai chiaro se si trattava di narratori che per hobby scrivevano poesie nei giorni festivi , o di prosatori che sapevano prodursi egualmente in opere in versi. Qui, per inciso, le autrici sono 8 per un totale di 57 voci.
Le sorprese però arrivano anche dalle antologie tematiche.
due esempi:
“Una strana polvere. Altre voci per i nostri anni” (Campanotto, 1994): curata da Lagazzi e Lecchini, propone chi (cito): “ha continuato a raccontarci -dall’ombra- che la poesia può essere (…) fedeltà al sangue e alla terra, al fuoco dell’anima e ai buchi dell’anima, al dolore e all’attraversamento del dolore: non ‘dono’ – ma dono di polsi e tempie, di lacrime e baci: e lingua incalzata da un invincibile grumo di passioni, di passione: e canto e carne (eccetera)”: il lettore, contrariamente all’ovvietà dell’aspettativa, non troverà decine di autrici, in un luogo che apparirebbe naturalmente preposto all’accoglienza: qui, anche il dolore viene declinato al maschile: il rapporto è di 12 a 2 (Bruna Dell’Agnese e Fernanda Romagnoli).
In un altro volumetto compilativo, “Fiori di fuoco. 100 poesie d’amore maledetto” venduto in edicola e ad altissima diffusione, apparso nella collana I Miti della poesia, Mondadori (non si ha notizia dei curatori), il lettore che ‘naturalmente’ s’aspetterebbe di ritrovare le grandi voci della poesia femminile mondiale (qui si scrive e si versa l’amore: nell’immaginario comune, cosa c’è di più ovvio e scontato da ricondurre all’universo femminile se non questo?) rimane sostanzialmente deluso: di 56 poeti di tutte le lingue e di tutti i secoli, le donne sono solo 6. E dire che l’antologia si apre degnamente con i frammenti di Saffo. Ne vogliamo parlare?
Questi ultimi due casi palesano, se ve ne fosse ancora qualche dubbio, non solo di quanto sia sottostimato il lavoro delle poete, ma di un più sostanziale maschilismo dalle tinte misogine.
L’ultimo caso che cito, riguarda la ‘Nuovissima poesia italiana’, curata da Cucchi e Riccardi (Mondadori,2004), autori giovanissimi nati tra il 1970 e il 1980: 18 voci di cui ben 7 poete: la presenza percentualmente più elevata. Peccato che poi, quando si è arrivati a scegliere i 4 nomi da portare nella collana dello specchio (in versione economica, tascabile e grappettata), a nessuna delle 7 autrici sia stato consentito il salto di qualità (discorso a parte per Elisa Biagini, già in precedenza uscita da Einaudi).
E’ la conferma di un dato tanto ovvio quanto incontrovertibile:
le donne non passano. Faticano più degli uomini. In rari casi, l’evidenza della statura non può proprio essere negata o aggirata (Rosselli).
Più comunemente, sappiamo tutti come vanno le cose di questo piccolo mondo, i rapporti di forza, le gerarchie. Le conferme le abbiamo alla base come ai vertici (si considerino le uscite recenti nei Meridiani).
Ma sappiamo anche che la strada è lunga. Non è ancora, la strutturazione della nostra società, autenticamente paritaria. Non si parte tutti dalla stessa linea di start. Inutile fingere che non sia così e nascondere un maschilismo atavico dietro un mignolo. Inutile dire che queste distinzioni non hanno senso, anch’io, mentre appunto queste note, mi rendo conto della brutalità e dell’arretratezza nel distinguere in categorie i maschi e le femmine: perché quando ho di fronte un testo non mi chiedo se sia uomo o donna o altro. Eppure so che le strutture e i testi hanno a che fare con la vita di ognuno di noi, con l’uomo che cade nel polittico delle Torri Gemelle: ovvero, più che con le vaghe stelle, con la carne, il corpo, la materia: ma anche con l’istinto, la rabbia, lo spaesamento; e so che ancora siamo inseriti in una società dall’imprintig patriarcale dove queste distinzioni agiscono.
Cara Giovanna Rosadini,
ho provato scompostamente a scriverti in questi commentini per spingerti a continuare: è sempre un’idea meritoria.
Sei un editor, continua a guardarti intorno, a incontrare autori (racconti che l’idea ti è venuta parlando con la Gualtieri), vedi gente, leggi raccolte, affidati alle molte, alle ottime pubblicazioni della piccola editoria di poesia (Arcipelago, Arcolaio, Atelier, CFR, D’if, Dotcom.Press-Le voci della luna, Gazebo, Il Ponte del sale, La La camera verde (anche se non ha l’ISBN ), Ladolfi, Lampi di stampa, La vita felice, L’Obliquo, Le Lettere, Raffaelli, Pazzini, peQuod, Polimata, Puntoacapo, Sigismundus ed altre): continua nel tuo lavoro di mappatura. Sarai molto lieta di scoprire una realtà viva e pulsante, complessa e proteiforme, e renderai un gran servizio alla poesia.
Un secondo quaderno sarebbe necessario, per ora faccio solo il nome di un’esclusa: Rosaria Lorusso.
E, per par condicio, faccio solo un nome tra le incluse: ti ringrazio per Airaghi (forse Einaudi a un autore di lungo corso dovrebbe offrire uno spazio maggiore) si avverte ancora forte il Novecento, ma è un ottimo poeta.
E consegna, se puoi, altri buoni autori alla ‘bianca’. Grazie per l’attenzione. Mi scuso per essermi appropriato di tanto spazio.
(rinvio le autrici a un intervento critico, sui testi dell’antologia e sul punto nodale (il corpo), che uscirà su ‘Punto 2013’).
Gezzi, mi hanno intervistata su Topolino, mi autorizzi a scaricarla?
Grazie, Manuel Cohen.
Mi scuso per l’intromissione di questa intervista in questo post.
Si tratta di un errore tecnico. Invito la redazione a cancellare questo commento.
Grazie
@silvia de march
…tu quoque? e mi spiace, in questo caso, proprio per la nostra stima reciproca : ( … ma in amicizia ci sono anche pareri divergenti, no? ; )
(p.s.: ho comperato il mio primo collected della Rosselli a Torino, nell’ ormai lontano 1991)
Ti segnalo Manuel anche l’articolo di Nacci, che riepilogava, in modo statistico, qualche anno fa, le uscite in antologia della nostra generazione: http://www.fucinemute.it/2006/05/dare-tempo-al-tempo-e-aprire-brecce-nelle-riserve/ Comunque si può essere d’accordo con te, il problema c’era, e c’è tuttora… La citazione di Ambra Zorat, da parte di Cortellessa, è ottima, e meriterebbe dare anche uno sguardo al suo saggio: http://www.openstarts.units.it/dspace/bitstream/10077/3771/4/Zorat_phd.pdf
Significativo questo passaggio di Zorat: Dalle ipotesi interpretative brevemente enunciate si evince come, in questa tesi, parlare di specificità femminile in poesia non significhi identificare delle particolarità stilistiche o tematiche riservate soltanto alle donne. Non si tratta di indicare delle caratteristiche irripetibili nella storia letteraria e meccanicamente ricollegabili al genere femminile dell’autrice. Alcuni degli elementi definiti come tipici delle principali poetesse italiane contemporanee possono naturalmente essere singolarmente rintracciati in poeti di altre epoche.
Io credo occorra stare molto terra terra quando si parla di antologie, perche’ la collocazione pubblica della poesia in Italia negli ultimi 20 anni e’ veramente precipitata, assieme alla sua percezione presso i non specialisti. Molte migliaia di persone scrivono versi e alcune migliaia ne pubblicano ogni anno a pagamento. Ci sono decine e decine di case editrici regionali, provinciali, individuali che sono a tutti gli effetti vanity press. La gente si stampa, si fa leggere dagli amici di parrocchia, si costruisce un CV e si crede poeta. Dall’altra parte, le 2-3 case editrici dal catalogo storicamente importante si sono dedicate ad esperimentini su base sociologica (Einaudi) o a perpetuare una linea culturale ormai imbalsamata (Mondadori). Sia le une che le altre incidono zero su quel che sta all’esterno dello stagno poetico, inclusa la pubblicistica (che preferisce citare le canzonette invece dei versi dei poeti, che peraltro nemmeno conosce). Fra la cooptazione all’italiana e il todos caballeros di chi paga, non vedo grandi differenze di qualita’ letteraria, almeno nelle punte piu’ alte. Credo anche che la medaglia piu’ pesante sia oggi stare *fuori* da qualsivoglia antologia e *fuori* da qualsivoglia operazione editoriale a pagamento. Con ilmiolibro, in questo 2012, si stampa on demand con ISBN e non si cedono i diritti sul proprio materiale a nessuno, ad un costo che ormai sta sotto i 100 euro l’anno. Non si spedisce il proprio libro a nessuno, non si fa parte di nessun circolo pseudo-amicale e si evita di finire nelle ragnatele che portano a commenti come quelli di Cohen, sospesi tra una pretesca e finta innocenza su come va il mondo reale e la consapevolezza che il peso specifico di tutta la carta che cita e’ esattamente pari a zero (a parte che per i presenti e per i parenti).
Christian,
grazie per i link.
Un saluto a Laura L.
Ciao Christian Sinicco : ) ?
Non so. Fra la cooptazione per un giorno nei gruppi della poesia che conta e il todos caballeros di chi pubblica a pagamento e senza filtro, il print on demand mi sembra una via piu’ ecologica. Peraltro, leggo che ilmiolibro non impone la cessione dei diritti e che, con meno di 100 euro, concede ISBN e distribuzione sia online che nel circuito delle librerie Feltrinelli per un anno.
«la collocazione pubblica della poesia in Italia negli ultimi 20 anni e’ veramente precipitata, assieme alla sua percezione presso i non specialisti. Molte migliaia di persone scrivono versi e alcune migliaia ne pubblicano ogni anno a pagamento. Ci sono decine e decine di case editrici regionali, provinciali, individuali che sono a tutti gli effetti vanity press. La gente si stampa, si fa leggere dagli amici di parrocchia, si costruisce un CV e si crede poeta. Dall’altra parte, le 2-3 case editrici dal catalogo storicamente importante si sono dedicate ad esperimentini su base sociologica (Einaudi) o a perpetuare una linea culturale ormai imbalsamata (Mondadori). Sia le une che le altre incidono zero su quel che sta all’esterno dello stagno poetico, inclusa la pubblicistica (che preferisce citare le canzonette invece dei versi dei poeti, che peraltro nemmeno conosce). Fra la cooptazione all’italiana e il todos caballeros di chi paga, non vedo grandi differenze di qualita’ letteraria, almeno nelle punte piu’ alte. Credo anche che la medaglia piu’ pesante sia oggi stare *fuori* da qualsivoglia antologia e *fuori* da qualsivoglia operazione editoriale a pagamento.». (Il fu GiusCo)
Questa lucida diagnosi mi pare un buon punto di partenza per porre il problema di come essere positivamente molti in poesia oggi.
Si può continuare imitando i vecchi riti dell’epoca dei pochi in poesia e darsi da fare, appunto, producendo antologie, che pescano qualcosa del mare magnum turbolento e in parte ignoto della produzione poetica attuale o che passa per poetica; e inevitabilmente, essendo comunque tante le antologie e spesso costruite approssimativamente (poiché il lavoro critico è stato dismesso o è anch’esso in condizioni precarie), il loro effetto sarà limitato: al vociare dissonante della massa poetante non si può che sostituire un vociare appena meno dissonante e incerto o pretenzioso, dei poeti selezionati o “emergenti”.
Si può prendere atto di una cesura storica, evitare di proseguire coi vecchi riti, porsi seriamente o come singoli o come gruppi il problema di come essere positivamente molti in poesia oggi imponendosi i compiti che ne derivano: costruire una nuova estetica, una nuova critica, una nuova politica editoriale (e quindi frenare la voglia di pubblicazione a tutti i costi, frenare la produzione a catena di montaggio di testi, andare in direzione di quella ecologia della scrittura e della lettura che una volta F. Fortini consigliò…)
Stare *fuori* (e non solo da qualsivoglia antologia o da qualsivoglia operazione editoriale a pagamento) ha un senso se si lavora pazientemente e con determinazione ad un’altra prospettiva. Altrimenti sembra che ci si metta da soli in castigo o ci si distingua moralisticamente dagli altri.
Ci vuole un’altra prospettiva.
Giusco,
si dice da tempo che la poesia italiana viva nell’autoreferenzialità. Lei suggerisce che ognuno si stampi da solo: bene, all’autoreferenzialità aggiungiamo un surplus di monadismo. complimenti per le sciocchezzze.
quanto a pretesca, lo dice a sua sorella. grazie.
Ormai si sa, non si tratta di fisiologia, o di genere sessuale, ma modo di porsi nella relazione, di scrivere, di semiotica delle donne, e anche modo di restare in contatto con il sè e il proprio corpo ‘materno, che è diverso e anche senon si riproduce,E’ anche questione di assenza dalla storia per 2000 anni, e di poco tempo di scolarizzazione e di assenza dalla vita politica. Solo da poco più di 50 anni votiamo, da poco scriviamo. E’ chiaro che il nostro porsi dinnanzi al mondo è diverso e ,a volte ricalcato su sistemi linguistici, canoni patriarcali.Questo non si può ignorare. E’ senso del vivere , del tempo elicoidale diverso, del desiderio e dell’eccentricità. Ogni donna che scrive è eccentrica, diversa dalle donne inserite nel quadro familiare. Qualcuna, qualche caso raro lo era nei secoli scorsi. Oggi ugualmente non è auspicabile per noi affidarci a modelli di competititività, meritocrazia, violenza. Le nostre ave sono sempre quelle eccentriche , che vivevano ai margini della polis. Erano quelle, in famiglia, disprezzate, come la Austen, che nascondeva i suoi fogli per non farsi scoprire..Come Dickinson che si vestiva e si chiudeva in casa ,nella sua stanza per scrivere. Tutte folli, eccentriche, in margine alla famiglia. Oggi alcune vogliono imitare il cursus honorum degli uomini. Ma non è così che si rinnova il linguaggio, l’espressione del sè, la liberazione dalle catene. Uomini e donne devono completarsi a vicenda, ma ognuno portando con sè la propria specificità e accettazione.
Mi inserisco,solo per fare un esempio.
Ho chiuso da poco il libro originale, del tutto nuovo, straordinario, Datura (P.Cavalli),che rinfresca il verso, apre nuovi ingressi e parole che sorprendono, ammaliano, nel verso che sembra classico ( enon lo è), ma suona come endecasillabo non cercato, non canonizzato. Vitalità delle parole che si dilata verso altri scenari,verso aperture nouminose e fresche, rinnovate. Tutto assume un sapore nuovo di trasformazione, di mescolanza e chiarezza di cose, di dentro e di fuori.
Riconosco in lei, la nuova possibilità che le donne hanno di non ricalcare miti antichi e forme affascinanti di
poetare ricalcato e di bellezza antica., o di narcisismo velato e duro, ripiegato sul proprio chiuso corpo, e sul superego virile, o sul fango in cui si nuota con dolore e languore maschile.
L’operazione che si compie P. Cavalli non è lieve, ma aspra e “petrosa”; non è monodica e privata, ma corale e pubblica; non riguarda tanto l’amore quanto la fisiologia e l’etologia di un corpo primordiale. (…) Questo poeta disincantato e quasi preistorico, maestro incomparabile dei metri e delle rime interne, sovranamente privo di scrupoli morali, è riuscito a ritrovare l’unità di parola e forma di vita che gli antichi chiamavano musa e ha scritto la poesia più intensamente ‘etica’ della letteratura italiana del novecento.”
Si tratta infatti di una poesia corale e collettiva, anche se parte da un tracciato intimo del sentire (“Lì resta chiusa e semplice e mi pensa, ardesia scritta tutta di me, doganalmente. Nella distanza di questi giorni, noi siamo a due passi dall’eternità”); la parole è dura, carsica, a volte lievemente docile, ma mai dolce, anche se costruita con ritmi e rime interne familiari al lettore (“il tempo era un profumo sparso che annusavo svogliatamente”); l’amore, o, più generalmente, il sentimento, non è né lirico, né sentimentale, ma è trattato con la lente di un biologo, nonostante questa faccenda del sentire sia posizionata lì, sul piedistallo, come nella tradizione più classica (“la salita è roba tosta, meglio invece circumnavigare i primi tre gradini, qui c’è l’anima, il resto sono scale”). Ecco, è il modo in cui viene guardato l’essere umano, inteso come entità sensibile percettiva, a imporsi in quest’opera, che diventa appunto un esperimento di apprendimento e di indagine conoscitiva di un mistero concreto, molecolare, fatto di nervi, di ossa. Un’indagine empirica, che utilizza le sensazioni e l’intero apparato percettivo per raccogliere l’essere umano e tutte le sue emozioni su un vetrino e guardarlo al microscopio.
P.Cavalli porta a galla questa essenza umana, questo nocciolo, questo distillato dell’umano sentire,
Nella poesia In alto fino al sonno si raccoglie il centro pulsante di questo sguardo etologo, così arguto e sottile, tanto da diventare doloroso, in cui il lettore non solo collabora alla composizione, tanto ne è immerso, ma si trova a respirare con le parole, si scopre parte di quel vagare corporeo, fisico e faticoso della vita, nell’arco di due frasi, come in un sentiero in cui sboccia naturale il senso e la fine dell’esistenza di tutti: “quella macchia era la mappa del mio cuore che io dovevo leggere e indagare”. Per indagare serve la poesia, pare dirci Cavalli, nell’ultimo lungo componimento che dà il titolo alla raccolta, quello in cui mette sullo specchietto del microscopio le “lacrime spaesate”, le “meteore umorali” senza senso che ci capitano, che ci immalinconiscono e ci turbano; semplicemente Datura è ciò che ci succede e che non capiamo. Per capire abbiamo solo un gioco, da fare, che è quello della parola. Giocare alla parola – che è il gioco della poesia – è la nostra uscita, la nostra via di scampo per poterci interpretare:
noi esseri umani siamo la materia osservata, il linguaggio è lo strumento di indagine. La poesia è l’atto empirico per capire l’esperimento: “io chiedo, tu rispondi, noi spieghiamo – mettere insieme è il gioco dell’umano”.
Per le poete, e per la grande Cavalli, si può parlare di una novità di genere. Quando si legge poesia di donna è difficile
Confonderla con versi di potenza e discesa agli inferi di uomo. Rimane poesia doppia, allargata, piena di umori e di parole riascoltate e rivissute ex novo.
Poi scriverò, documentando tutto della diversa scrittura femminile. Perché la storia ci ha fatto vivere diversamente, e questa differenza si sente come novità