di Romano Luperini
[Questo articolo è apparso sul numero 64 di «Allegoria»].
1.
Per almeno un ventennio, fra la fine degli anni Settanta e quella degli anni Novanta, ma anche oltre, la linea dominante della cultura “alta” europea e nordamericana ha proposto un’idea del rapporto col mondo e una figura d’intellettuale che hanno rappresentato il lusso e il privilegio dell’Occidente. La messa sotto accusa del logocentrismo e del realismo, il rifiuto della datità materiale del mondo, la sostituzione di quest’ultima col primato del linguaggio, della intertestualità e della interpretazione avevano avuto buon gioco in una società sempre più segnata dalla produzione di beni immateriali, dalla rivoluzione informatica, dalla centralità anche economica della comunicazione e dell’informazione che sembrava bandire l’esperienza concreta e sostituirla con il trionfo dell’immagine e della virtualità. A metà del ventennio considerato la caduta del muro di Berlino e del sistema sovietico diffuse l’illusione di una fine della storia e delle contraddizioni facendo sognare la possibilità di un nuovo Rinascimento e addirittura della nascita di un “uomo nuovo”, allora profetizzato da alcuni teorici del cosiddetto “pensiero debole”. La linea dominante della cultura ha espresso in questo periodo il punto di vista di una civiltà padrona che intendeva la globalizzazione esclusivamente come esportazione di se stessa e che poteva perciò ignorare o rimuovere le guerre locali, la crescita della fame e del sottosviluppo, la ripresa dei fondamentalismi. È stata l’epoca del narcinismo (narcisismo + cinismo) e dell’individualismo rampante (d’altronde rappresentato e direttamente espresso nel nostro paese da ben due capi di governo, prima Craxi, poi Berlusconi). A questa idea del mondo e dell’etica corrispondeva una doppia immagine dell’intellettuale: quella oracolare, che presupponeva una cultura sapienziale, dedita alla riflessione sul linguaggio, ai miti fondativi dell’umanità e alle mediazioni non degli uomini fra loro ma fra gli uomini e il Verbo (da qui, per esempio, un intero decennio filosofico, e più, dedicato all’angelologia), e quella cinica-ironica, coltivata da scettici pasticheur di linguaggi e di ri-scritture, da brillanti intrattenitori professanti un ilare nichilismo teorico, e volti non ad argomentare ma a narrare, non a dimostrare una propria tesi ma a decostruire quelle altrui.
2.
Intanto, ai suoi livelli bassi e intermedi, la cultura veniva incorporata nel sistema economico e politico delle comunicazioni di massa. Il sapere-potere degli intellettuali come ceto o categoria sociale, filtrato e selezionato da apparati tecnologici e da enormi complessi produttivi e istituzionali, si è liquefatto e frantumato all’interno di queste strutture che tutt’oggi ne decidono o comunque largamente ne condizionano le scelte fondamentali. Inseriti in questi grandi apparati di sapere-potere, che rispondono a pochi centri di comando integrati, nazionali e multinazionali, gli intellettuali non hanno alcuna possibilità di controllo su di essi. Si riducono a semplici lavoratori della conoscenza, costretti a fare i conti con una perenne instabilità, mobilità, flessibilità e dunque a sviluppare una elevata capacità di conversione. La cultura umanistica, sminuzzata e ridotta a insieme di informazioni e di saperi, può ora acquisire persino un nuovo (seppur modesto) valore in quanto componente di una formazione di base variamente interdisciplinare e fungibile, capace di adattarsi a condizioni diverse e di fornire alcuni strumenti interpretativi. La Ict (Information and comunication tecnology) ha bisogno di questo tipo di ingranaggio per funzionare. Infatti sia il lavoro di formazione delle informazioni sia il lavoro di consumo delle informazioni richiedono che il materiale informativo venga comunque elaborato. Ma non si tratta più di una attività di mediazione; a mediare – o meglio a imporre i propri prodotti – ci pensano direttamente, e in proprio, gli apparati tecnologici. Da parte loro, questi nuovi lavoratori della conoscenza hanno perduto autorità e autonomia; e non hanno neppure più nulla in comune con la tipologia dell’intellettuale tradizionale di cui parlava Gramsci.
3.
In questa situazione il grande corporativismo degli intellettuali, garante dell’universalismo dei valori, non è più proponibile. Nella stessa cultura “alta” la figura dell’intellettuale cara a Bourdieu, quella che interviene nella società grazie all’autorità e al prestigio conferitigli dall’autonomia del proprio campo e dall’indipendenza culturale e morale che essa garantisce, appare sempre più un residuo del passato. Anche la parte “alta” della cultura non controlla più i processi di sapere-potere in cui è inserita e che determinano la formazione dell’opinione pubblica. Gli intellettuali non costituiscono più il cemento ideologico di una comunità. Non hanno autorità e legittimazione, e non possono dunque più né mediare né gestire culturalmente quei processi.
4.
La tendenza fondamentale che agisce al livello dell’intero campo intellettuale e dei suoi processi sociali molecolari crea, nel suo stesso movimento di affermazione, una serie di contraccolpi e di controspinte. Ecco alcune delle principali contraddizioni che determina.
i. La marginalità sociale e la flessibilità produttiva sviluppano una sorta di sottoproletariato intellettuale. Il sistema sembra aver bisogno di competenze non strettamente specialistiche e di giovani intellettuali disoccupati disposti a occuparsi saltuariamente e parzialmente e capaci di utilizzare saperi diversi e non uniformi. Si va così diffondendo su vasta scala l’esperienza della precarietà lavorativa e della marginalità sociale di una parte vastissima del ceto intellettuale, soprattutto di quello più giovane.
ii. I grandi complessi produttivi e i loro apparati tecnologici e burocratici si impongono come modelli totalizzanti anche in settori che non dovrebbero avere come punto esclusivo di riferimento le regole della produzione e le leggi di mercato, come l’educazione o la sanità. I processi di riforma che li hanno investiti in senso economico-produttivistico si sono qui scontrati con logiche e valori talora irriducibili non per volontà dei singoli ma per eteronomia dei fini difficilmente aggirabile (la scuola, per esempio, dovrebbe formare anzitutto dei cittadini, non dei produttori economici o dei consumatori). Particolarmente nel settore educativo il ruolo di mediazione intellettuale non è perciò ancora scomparso, ma si è ridotto e spostato, burocratizzandosi e delocalizzandosi in apparati di fatto sempre più marginali e tuttavia indispensabili anche in una società ipermoderna. In questi settori, e anche nella magistratura, si è diffusa così una nuova figura di intellettuale-interprete, flessibile e slogata e nondimeno ancora capace di collegare fra loro fenomeni diversi (storici, filosofici, artistici, scientifici) e di leggerli in una prospettiva culturale non immediatamente riducibile all’ambito economico.
iii. Nella società ipermoderna la produzione e la diffusione di conoscenza è condizione ineliminabile per produrne di nuova. Si può elevare l’estensione della comunicazione e della informazione, e moltiplicare la produzione di linguaggi, solo a patto che s’innalzi progressivamente il livello a cui si svolge il lavoro di consumo delle informazioni stesse. Insomma la produzione di conoscenza ha una natura prettamente sociale che può entrare in conflitto con la sua riduzione a merce a scopi di profitto per singoli individui o per singole corporazioni.
iv. I lavoratori della conoscenza, pur svolgendo un compito essenziale al funzionamento dei grandi apparati tecnologici e burocratici e delle istituzioni pubbliche, sono sempre più privati di qualsiasi riconoscimento sociale e di valore pubblico. Contribuiscono alla produzione sociale di senso e alla elaborazione dei valori, ma all’interno di meccanismi che ne disgregano e maciullano le funzioni intellettuali togliendo loro ogni potere effettivo e ogni riconoscibilità collettiva.
v. Il valore sociale della produzione della conoscenza è accresciuto dalla caduta della tradizionale distinzione fra fatti oggettivi di cui si occuperebbe la scienza e valori di cui si occuperebbero invece la religione e la politica. Il nesso fra conoscenza e valori si fa sempre più stretto. Lo sviluppo stesso della ricerca scientifica fa acquisire ai lavoratori della conoscenza una dimensione etica. Il legame fra acquisizioni della conoscenza e perseguimento di retti comportamenti individuali e collettivi tende a porre in primo piano il valore etico della ricerca intellettuale, tanto più in presenza di un ridimensionamento della sfera religiosa e della crisi e del discredito attuale di quella politica.
5.
Alla crescita e al rapido sviluppo di queste contraddizioni bisogna aggiungere un significativo cambiamento della situazione mondiale e del significato stesso della globalizzazione in atto. A partire dalla fine del secolo precedente e poi, con forza crescente, dopo l’attentato alle Torri Gemelle, le contraddizioni materiali a livello planetario sono diventate sempre più acute e sempre più ineludibili: sono sotto gli occhi di tutti le guerre, gli attentati, gli scontri di civiltà, gli sviluppi del fondamentalismo islamico, le migrazioni in Europa dei popoli affamati dal Sud e dall’Est del mondo, il rinascente razzismo che ne è derivato, la crescita della Cina e dell’India divenute vere e proprie potenze in competizione con l’Occidente, la crisi economica dell’ultimo triennio, l’instabilità del quadro produttivo e finanziario e dello stesso sistema di potere che appare sinora incapace di farvi fronte. L’Occidente non può più rimuovere il resto del pianeta, perché questo sta penetrando nei suoi confini attraverso le migrazioni di massa, la concorrenza cinese, le conseguenze economiche delle guerre locali. Ridurre il rapporto col mondo a una questione linguistica o ermeneutica non è più possibile; e neppure vivere senza conflitti e contrasti. Una società che sembrava ormai ignorare il trauma o almeno capace di respingerlo ai margini dell’esperienza quotidiana si trova ormai al centro di colpi e contraccolpi traumatici, di ansie che non riguardano più rischi immaginari (per esempio: di eventuali epidemie) ma fenomeni concreti dell’esistenza, a partire dalla possibilità da parte dei giovani di trovare o di conservare il lavoro.
6.
Il nuovo intellettuale inserito in posizione subordinata all’interno dei grandi complessi produttivi o istituzionali, o costretto ai loro confini, insieme interno ed esterno a essi, da un lato corre il rischio di diventare un mero ingranaggio del sistema comunicativo, un elemento facilmente sostituibile e intercambiabile, dall’altro è costretto a vivere ai margini degli apparati di cui pure fa parte, a configurarsi come un outsider, un dilettante plurifungibile, un emarginato potenziale e spesso effettivo. Ma proprio per questo può «trovare la propria ragione d’essere nel fatto di rappresentare tutte le persone e le istanze che solitamente sono dimenticate o censurate» (Said). Se ha perduto ogni mandato sociale e la propria tradizionale centralità, se non può più svolgere la funzione ideologica di mediazione, può trovare proprio nelle contraddizioni che sperimenta, nella propria marginalità e precarietà, una condizione rappresentativa delle altre marginalità presenti sulla scena mondiale. Il passaggio da legislatore a interprete può esaltare insomma il ruolo dei lavoratori della conoscenza come specialisti della liminarità, e cioè del passaggio dei confini, della traduzione, del dialogo, della pluridisciplinarità, della conoscenza critica della differenza. Traduttori, insegnanti, magistrati, la massa degli addetti al mondo della comunicazione, centinaia di migliaia di neodiplomati e neolaureati stanno diventando figure di soglia. Cominciano a sciogliersi da una situazione di sapere-potere legata esclusivamente alla storia dell’Occidente, al suo “centro” ideale e materiale, ad avvicinarsi alla periferia, a essere periferia.
7.
In questa situazione dell’Occidente, esiste poi un caso italiano. L’Italia, infatti, ha costituito e costituisce un caso particolare, per certi versi più clamoroso e più “avanzato” rispetto a quello dei maggiori paesi europei, per altri più “arretrato” e provinciale. Che un padrone della editoria, un signore delle comunicazioni e delle informazioni abbia potuto conquistare il comando e mantenerlo poco meno di un ventennio quasi incontrastato ha reso evidente a tutti quale sia ormai il settore economico decisivo e come la produzione di linguaggio sia diventata un atto di controllo culturale e sociale e di potere politico, esercitato grazie a una egemonia capace di modificare e di determinare il senso comune di buona parte di un popolo. Ciò è potuto accadere grazie anche a un processo di americanizzazione in grado di adeguarsi perfettamente a una antropologia e a un carattere nazionale “arretrati”, segnati da uno spessore civile troppo esiguo e troppo poco diffuso (vent’anni di fascismo non sono passati invano). Gli intellettuali e buona parte della cultura nazionale si sono agevolmente adeguati a questo nuovo clima e ai nuovi costumi. Nel ventennio 1980-2000 (e oltre), con il loro disimpegno, con la loro chiusura individualistica e corporativa, con la loro resa incondizionata ai parametri dell’industria culturale e alle “riforme” istituzionali (Università, soprattutto) proposte dal potere politico, essi hanno più o meno direttamente contribuito al clima dominante e comunque non lo hanno contrastato. E tuttavia, anche nel nostro paese, l’insieme dei fattori esposti nelle tesi precedenti sta cominciando a cambiare l’idea del mondo, a trasformare la cultura, e a modificare il comportamento degli intellettuali più qualificati e della massa stessa dei lavoratori della conoscenza. Senza che il suo autore probabilmente lo volesse, Gomorra ha segnato, qualunque sia il suo valore letterario, una svolta simbolica che non è possibile sottovalutare. Per gli intellettuali del nostro paese occuparsi del loro posto nel mondo, denunciare i mali che limitano e umiliano il nostro paese e la collettività in cui viviamo, non è più trascurabile “chiacchiera”, come avevano sostenuto per anni i neoheideggeriani e i sostenitori della crisi dei fondamenti e delle ideologie. Il cosiddetto “ritorno alla realtà” nella letteratura e nel cinema e le recenti prese di posizione pubbliche da parte delle generazioni di intellettuali che hanno fra i trenta e i quaranta anni (è il fenomeno di TQ) hanno stupito chi non aveva compreso i movimenti profondi della società in cui viviamo, dal movimento degli studenti e dei ricercatori nell’inverno 2010-11 all’esplosione di quello delle donne di “Se non ora, quando?”. Che i filosofi riscoprano il principio della realtà e la datità materiale dell’esperienza conoscitiva e facciano convegni internazionali per diffondere tale scoperta può far sorridere (la materialità del mondo è sempre stata lì, erano loro che non volevano vederla), ma è un fenomeno comunque significativo, così come la rivalutazione in atto della razionalità e dell’argomentazione logica.
8.
Sta aprendosi in questi ultimi mesi una fase che dieci anni fa non era prevedibile, ma di cui indubbiamente l’ultimo decennio ha posto le premesse. I nuovi intellettuali, privi di autorità e di centralità, stanno cercando forme di organizzazione e di intervento che sembrano possedere due fondamentali caratteristiche: agiscono dal basso, puntando sulla relazione orizzontale a rete, su connessioni fra loro liquide e veloci, e agiscono collettivamente, cercando intese capaci di formare movimenti o gruppi mobili, che si aggregano e si disgregano facilmente, ma che implicano comunque un’idea di comunità. Non hanno più nulla della figura tradizionale dell’intellettuale-uomo di cultura, orgoglioso della propria missione individuale e della singolarità del proprio sapere-potere. Della loro passata funzione probabilmente conservano solo questo: la volontà di capire e di intervenire con la loro voce. Tutto sommato, non è poco.
[Immagine: Andrea Galvani, The Intelligence of Evil (2007) (gm)].
Il passaggio da legislatore a interprete può esaltare insomma il ruolo dei lavoratori della conoscenza come specialisti della liminarità, e cioè del passaggio dei confini, della traduzione, del dialogo, della pluridisciplinarità, della conoscenza critica della differenza. Traduttori, insegnanti, magistrati, la massa degli addetti al mondo della comunicazione, centinaia di migliaia di neodiplomati e neolaureati stanno diventando figure di soglia. Cominciano a sciogliersi da una situazione di sapere-potere legata esclusivamente alla storia dell’Occidente, al suo “centro” ideale e materiale, ad avvicinarsi alla periferia, a essere periferia.
mi chiedo se l’intellettuale non abbia cominciato a essere periferia già da un bel pezzo, se da baudelaire a benjamin non fa che parlarsi di questo “scioglimento” del nodo, con varie declinazioni e diciture. quanto, insomma, sia contestualizzabile ai nostri la perdita di importanza di chi svolge lavoro culturale, e quanto invece sia un difetto ottico di chi parla, di chi fa letteratura scrivendola o esercitando la funzione del critico. per osservare meglio qualcosa, da sempre, conviene mettersi a lato, oppure proprio al di fuori. lo chiedo perché il pezzo mi è piaciuto molto, ma vola così alto che invita a porsi domande sul ruolo e l’identità della letteratura (e della cultura) tout court.
forse anche perché, mi pare, luperini pesca a man basse (onore a lui) da leopardi, da una sua certa idea di etica prossima a un marginale “stoicismo” che contraddistingueva il suo ultimo periodo. alcune tesi, ad es. la settima, mi paiono ispirate ampiamente a cose come il “Discorso sopra lo stato presente del costume degli italiani”.
Ho assistito a una sua conferenza al Monastero dei Benedettini (CT) su “L’intellettuale e l’esilio”, in cui riprendeva argomenti analoghi. Partendo dagli antesignani Ulisse e Dante, ha tracciato una genealogia letterario/storiografica di questo rapporto: da Foscolo (primo caso letterario) al Romanticismo, dal Modernismo al Post-Modernismo.
Lucidissimo, formidabile per acume e analisi.
tutto verissimo, per chiunque lasci alle dinamiche di sistema la determinazione di cosa sia un intellettuale. ma, mi chiedo, chi permette qualcosa di simile fino a non avere più la singolarità di un uomo di cultura” (altro discorso è che essa sia percepita da vasti uditori), in che modo potrebbe dirsi intellettuale?
*11 sett. 2012
Gentile redazione di Le Parole e le cose,
oggi leggo nel post di Romano Luperini pubblicato sul vostro sito:
“I nuovi intellettuali, privi di autorità e di centralità, stanno cercando forme di organizzazione e di intervento che sembrano possedere due fondamentali caratteristiche: agiscono dal basso, puntando sulla relazione orizzontale a rete, su connessioni fra loro liquide e veloci, e agiscono collettivamente, cercando intese capaci di formare movimenti o gruppi mobili, che si aggregano e si disgregano facilmente, ma che implicano comunque un’idea di comunità”.
E ancora più caparbiamente, richiamandomi al principio della coerenza tra ciò che pubblicate e ciò che fate, vi chiedo perché non pubblicate il mio/nostro appello o, più semplicemente, perché non mi rispondete.
Un caro saluto
Ennio Abate
* 8 sett. 2012
Gentile redazione di La parole e le cose,
Vi chiedo ( ma qui è la terza volta) una qualsiasi risposta alla mail (qui sotto) ripetutamente inviatavi.
Un caro saluto
Ennio Abate
* 4 sett. 2012
Gentile redazione,
Mi permetto però di sollecitare una risposta anche alla richiesta (qui sotto) che vi avevo presentato.
Un caro saluto
Ennio Abate
* 1 sett. 2012
Gentile redazione,
qui sotto e in allegato leggete una presa di posizione che vorremmo pubblicata anche sul vostro sito.
Attendo una risposta.
Grazie
Ennio Abate
***
Questa “ingenua paginetta” (così un commento) è circolata in alcune mailing list e viene ora pubblicata in blog o siti che hanno accettata di ospitarla.
I suoi promotori la intendono come un primo “segnale di fumo” di un dissenso diffuso da rendere manifesto e ragionato; e s’impegnano a migliorarne contenuti e formulazione con quanti vorranno aderire o discuterla scrivendo a: ennioabate@alice.it
Ennio Abate, Roberto Bugliani, Giulio Toffoli
7 agosto 2012
NOI ACCUSIAMO!
Noi firmatari intendiamo esprimere la nostra indignazione per il silenzio ambiguo, quasi una complicità, con cui il ceto intellettuale sta rispondendo alla delicatissima e cruciale fase storica, politica, economica, giuridica e culturale che attraversa l’Italia. Ci riferiamo a tutti gli intellettuali che godono di maggiore visibilità sui media e sul web, che continuano a “distrarsi” e a intrattenere l’opinione pubblica su questioni di natura letteraria e artistica, di per sé pur valide e importanti, ma che diventano chiacchiera, se trattate senza un legame preciso con i problemi sociali irrisolti o in via di peggioramento per le pesantissimo misure economiche di austerità e sacrifici a senso unico (le cosiddette “manovre lacrime e sangue”) imposte ex novo dall’attuale governo Monti o mutuate dal precedente governo Berlusconi. Tacendone, non dichiarando onestamente se tali manovre le si condivide o le si rifiuta, “parlando d’altro”, è come se gli intellettuali si riducessero a fioristi che decorano e nascondono le piaghe di una polis sempre più in decomposizione.
Dalla nostra collocazioni di intellettuali meno visibili o invisibili accusiamo e chiediamo da questi nostri colleghi una parola chiara: un sì o un no al governo Monti, che sarebbero entrambi dignitosi e accettabili; mentre, invece, indegno e miope è il rifugiarsi nel silenzio imbarazzato o protervo di chi crede di non poter essere più contestato e di non dover rendere conto se non alla sua cerchia più vicina. Chiediamo, dunque, ai singoli esponenti del ceto artistico e intellettuale di esprimersi sulla situazione politico-economica attuale, di fare sentire la propria voce, di dichiarare apertamente la loro posizione. Perché, dinanzi a una situazione di gravissima crisi sociale, politica ed economica come l’attuale, nessuno ha il diritto di sottrarsi con il silenzio. Non comunque coloro che vantano il valore conoscitivo, culturale e artistico universale della parola.
Prime adesioni:
Franz Amigoni
Roberto Buffagni
Marco Gaetani
Gianfranco La Grassa
Paolo Lezziero
Gianmario Lucini
Giuseppe Natale
Massimo Ragnedda
Flavio Rurale
Rita Simonitto
Lucio Mayoor Tosi
Franco Tagliafierro
Augusto Vegezzi
Marcello Corsi
Salvatore Dell’Aquila
Stefano Guglielmin
Giorgio Linguaglossa
Alberto Panaro
Angela Passarello
Armando Penzo
Franco Pisano
Beh, anche un spazio commento può bastare per cominciare.
Ad integrazione dell’appello segnalo questa intervista apparsa su MEGACHIP:
http://www.megachip.info./tematiche/democrazia-nella-comunicazione/8845-lnoi-accusiamor.html
E poi si torni a riflettere sulle tesi di Luperini…
@luca
ciao! è interessante quello che dici: mi chiedo però, a questo punto, cosa intendi con dinamiche di sistema, perché non ho ben capito.
@lorenzo, mi riferisco, oltre ai meccanismi di formazione e diffusione dei linguaggi e dei saperi, ai processi socio-ecomici di produzione e all’allevamento dell’umanità (nel senso nicciano. tra gli altri, vedi il crepuscolo degli idoli, il capitolo su india e cristianesimo). sostanzialmente suppongo essere intellettuale colui che non può impedirsi il riflesso reattivo senza per questo sospendere l’analisi e (nei casi più fortunati) la gestione dell’esistente.
ho un po’ risposto?
«Se ha perduto ogni mandato sociale e la propria tradizionale centralità, se non può più svolgere la funzione ideologica di mediazione, può trovare proprio nelle contraddizioni che sperimenta, nella propria marginalità e precarietà, una condizione rappresentativa delle altre marginalità presenti sulla scena mondiale. Il passaggio da legislatore a interprete può esaltare insomma il ruolo dei lavoratori della conoscenza come specialisti della liminarità, e cioè del passaggio dei confini, della traduzione, del dialogo, della pluridisciplinarità, della conoscenza critica della differenza. Traduttori, insegnanti, magistrati, la massa degli addetti al mondo della comunicazione, centinaia di migliaia di neodiplomati e neolaureati stanno diventando figure di soglia. Cominciano a sciogliersi da una situazione di sapere-potere legata esclusivamente alla storia dell’Occidente, al suo “centro” ideale e materiale, ad avvicinarsi alla periferia, a essere periferia» (Luperini).
Mi pare questo il passo centrale delle tesi di Luperini. Nelle quali sento tanta lucida amarezza e una irriducibile speranza: che sia ancora possibile una consegna del testimone dagli intellettuali tradizionali (critici, come lui e non so quanti altri, ma non troppi oggi…) agli intellettuali “nuovi”, che neppure più sembrano tali.
Di esse vorrei toccare due punti:
1. La quasi investitura che egli fa dei lavoratori della conoscenza a «specialisti della liminarità, e cioè del passaggio dei confini, della tradizione, del dialogo, della pluridisciplinarità, della conoscenza critica della differenza». Mi pare, allo stato delle cose, ottimistica, un’utopia senza gambe…Perché temo che «avvicinarsi alla periferia», «essere periferia» comporta anche molti effetti negativi, perdita di strumenti conoscitivi consolidati, smarrimenti nell’esercizio delle stesse funzioni intellettuali (e soprattutto di quelle critiche, che sono le uniche che permettono di cominciare a sfuggire al dominio).
Non si capisce come da questa periferia ( in cui si ritrovano, ma sarebbe giusto dire: nella quale sono stati cacciati) i lavoratori della conoscenza si possa influire sul centro; e se si possa davvero ancora farlo…
E poi mi chiedo: che relazione esiste o può esistere ancora tra questi intellettuali periferici e almeno alcuni dei tradizionali?
A ragione Luperini ricorda che «anche la parte “alta” della cultura non controlla più i processi di sapere-potere in cui è inserita e che determinano la formazione dell’opinione pubblica». Ma così dicendo, le sue tesi corrono il rischio di assolvere gli intellettuali tradizionali dalle responsabilità che hanno avuto nel prodursi di questo mutamento storico a svantaggio – diciamolo – dei lavoratori in generale (e degli intellettuali massa o periferici).
Non è che gli intellettuali tradizionali, dalle loro posizioni comunque di maggior potere, abbiano contribuito attivamente (con il loro silenzio, con la loro connivenza o persino con una collaborazione convinta) a diffondere « su vasta scala l’esperienza della precarietà lavorativa e della marginalità sociale di una parte vastissima del ceto intellettuale, soprattutto di quello più giovane»?
A me non pare che siano stati davvero fuori dai giochi o esclusi dai giochi che hanno determinato questo mutamento.
Se, come ricorda Luperini, «nel settore educativo il ruolo di mediazione intellettuale non è […]del tutto scomparso, ma si è ridotto e spostato, burocratizzandosi delocalizzandosi», non è il caso di capire che azione hanno svolto in questo processo? Che ne è stato del «valore etico» della loro ricerca intellettuale?
Pare proprio che questa alleanza col potere dominante (cel Capitale) sia avvenuta, se Luperini stesso scrive: «gli intellettuali e buona parte della cultura nazionale si sono agevolmente adeguati a questo nuovo clima e ai nuovi costumi. Nel ventennio 1980-2000 (e oltre), con il loro disimpegno, con la loro chiusura individualistica e corporativa, con la loro resa incondizionata ai parametri dell’industria culturale e alle “riforme” istituzionali (Università, soprattutto) proposte dal potere politico, essi hanno più o meno direttamente contribuito al clima dominante e comunque non lo hanno contrastato».
E allora non è anche questo comportamento degli intellettuali più in vista uno dei «mali che limitano e umiliano il nostro paese»? Non è che il «noi accusiamo» della nostra ingenua “paginetta” coglie nel segno? Non dovrebbero anch’essi «occuparsi del loro posto nel mondo»? Ed essere richiamati più bruscamente al cosiddetto “ritorno alla realtà”?
2. L’insufficiente collegamento nelle tesi tra analisi della trasformazione degli intellettuali e analisi della trasformazione politica (nazionale, europea e internazionale). Non che manchi l’elenco sintetico dei fatti che dimostrano il «significativo cambiamento della situazione mondiale»:
«sono sotto gli occhi di tutti le guerre, gli attentati, gli scontri di civiltà, gli sviluppi del fondamentalismo islamico, le migrazioni in Europa dei popoli affamati dal Sud e dall’Est del mondo, il rinascente razzismo che ne è derivato, la crescita della Cina e dell’India divenute vere e proprie potenze in competizione con l’Occidente, la crisi economica dell’ultimo triennio, l’instabilità del quadro produttivo e finanziario e dello stesso sistema di potere che appare sinora incapace di farvi fronte».
Ma poco si dice sugli attori reali della globalizzazione e del mutamento dei rapporti di forza che sta producendo. Quelli che comunque sono in grado di gestire le macchine del potere (nelle tesi mi sembrano accomunati in un generico Occidente) sono tutti in egual misura incapaci di «farvi fronte» (alla crisi)? Non è che qualcuno ne tragga più profitto di altri? E allora perché non discutere del ruolo che stanno avendo gli Usa? E l’Europa? E il governo Monti?
Ci si può limitare a un generico auspicio, del tipo «l’Occidente non può più rimuovere il resto del pianeta»?
L’Occidente non mi pare un blocco compatto e, tra i dominatori occidentali, alcuni pesano di più e altri meno. E poi fare le guerre, liquidare Gheddafi o adesso Assad, ecc. non sembra tanto un rimuovere, nel senso di non affrontare i problemi. Gli Usa li stanno affrontando, eccome. E bisognerebbe pur dire se bene o male e per chi bene e per chi male.
Anche quando Luperini parla del caso italiano, mi chiedo (pur se le tesi fossero state stilate prima dell’avvento del governo Monti): è possibile credere che il primato assunto dalla «produzione di linguaggio», per cui «un padrone della editoria, un signore delle comunicazioni e delle informazioni [ha] potuto conquistare il comando e mantenerlo poco meno di un ventennio quasi incontrastato», costituisca, di per sé e da solo, la sostanza di quella «egemonia capace di modificare e di determinare il senso comune di buona parte di un popolo»? La complementarità tra questa egemonia “culturale” e gli altri poteri capitalistici “tradizionali” (statali, militari) può essere trascurata? Si può lasciar perderela visione ben più realistica dell’egemonia del vecchio Gramsci, che la vedeva come il guanto di velluto che nasconde il pugno di ferro?
@luca
sisi, tutto chiaro ora. grazie
A beneficio di una discussione franca, riporto qui sotto la lettera a Bugliani con cui motivavo le ragioni della mia non adesione:
“Caro Roberto,
Non mi pare che il vostro documento sia efficace: dunque non penso di firmarlo. A parte la debolezza argomentativa, mi pare discutibile l’assunto di base (cioè che esista oggi un “ceto” artistico e intellettuale dotato di visibilità e uno non dotato di visibilità). Credo che a diversi livelli tutto il lavoro intellettuale sia precarizzato, privato di ogni voce e prestigio, polverizzato e liquido. Che i soli a avere “visibilità” da due o tre decenni siano urlatori,intrattenitori, venditori, portavoce e portaborse, anch’essi ricattati e precarizzati peraltro.
Che la caricatura in cui siamo stati ridotti lanci appelli contro una parte di se stessa non mi pare che sia prassi dentro i processi.
Più che stigmatizzare il silenzio, troverei più foriero di futuro creare progetti, anche minimi. “Ospedali da campo” per lavoratori della conoscenza asfissiati, e laboratori volanti per somministrare analisi o vaccini per soggetti o gruppi culturali moribondi.
Ecco tutto, con franchezza e amicizia
Emanuele”
Quanto alle argomentazioni di Ennio Abate contro Luperini: mi pare siano impostate sulle critiche neomarxiste al “partito degli intellettuali”, vecchio ma interessante dibattito di cui, tra l’altro, Luperini è stato tra i protagonisti. Sono passati quattro decenni. Il rilievo della “produzione simbolica” da un lato e la conclamata sparizione del partito operaio dall’altro rendono ragione della posizione “stoica” e leopardiana, mediata da Timpanaro, di Luperini che trovo francamente esemplare. Ciò che egli qui racconta, mi ricorda un film allegorico di Kurosawa: Dersu Uzala. Gli uomini di una spedizione topografica, guidati dal Capitano Arseniev, incontrano un nomade, appartenente al gruppo etnico Hezhen, chiamato Dersu Uzala originario di quei luoghi, che accetta di fargli da guida. Inizialmente visto come un rozzo ed eccentrico vecchio, Dersu guadagna il rispetto dei soldati grazie alla sua grande intelligenza, il suo istinto, l’acuto senso di osservazione e la sua profonda umanità. Dersu Uzala salva le vite del Capitano Arseniev e di uno dei suoi uomini per ben due volte. Fra i due nasce una grande amicizia.
Cinque anni dopo nel 1907, i due si incontrano di nuovo nella foresta. Dersu si unirà nuovamente al drappello ed alla fine della spedizione lascerà i soldati presso i binari della ferrovia e ritornerà nuovamente nella foresta, ma qualche anno dopo incontrerà nuovamente Arseniev in un’altra spedizione. In quest’ultimo periodo Dersu è invecchiato, ma soprattutto non vede quasi più e non riesce a centrare le sue prede e perciò non è più capace di cacciare. Arseniev lo porta a casa sua, nella città di Chabarovsk, dove risiede con la sua famiglia. Dersu ben presto si rende conto che non può adattarsi alla vita della città, perciò un giorno chiede al capitano che lo lasci libero di tornare nella foresta. Così l’amico decide di lasciarlo andare dopo avergli regalato un modernissimo fucile, con un mirino potente che possa aiutarlo a vedere coi suoi deboli occhi.
Qualche tempo dopo, Arseniev riceve un telegramma che lo informa del ritrovamento del corpo di un Hezhen non identificato, che tuttavia aveva con sé il suo biglietto da visita e viene invitato ad identificare il corpo di Dersu. Un poliziotto gli fa notare che non era stata trovata nessun’arma da caccia vicino al corpo: Dersu era stato ucciso per rubargli il fucile, che Arseniev gli aveva regalato al momento del loro congedo.
La grande arte è portatrice di questa istanza di totalità che era del nomade Dersu. I piccoli borghesi progressisti, – i critici mutati quali in fondo tutti noi siamo, – al massimo possono aspirare al ruolo del capitano Arseniev . Nella forbice tra questi due poli si apre però una contraddizione, un ritorno del rimosso, una cicatrice non cancellabile. Lì c’è il Principio Speranza. Non c’è ragione di buttar via il bambino insieme all’acqua sporca: finché ci saranno capolavori come “Dersu Uzala” nulla mi convincerà che la produzione artistica sia solo cinghia di trasmissione dell’ideologia e dell’econimia dominanti .
Giovani laureati in materie umanistiche marginalizzati dal mondo del lavoro. Questa massa di lavoratori della conoscenza può avere una forza rivoluzionaria se mette la sua cultura al servizio di una interpretazione alternativa del mondo. Pensate solo a un rilancio in grande stile della concezione cospirativa della storia…
@ Zinato
Caro Emanuele,
permettimi innanzitutto di correggerti: le mie argomentazioni sulle “Otto tesi” non sono «contro Luperini». Porre domande, sollevare dubbi non è automaticamente contrapposizione.
E, come puoi vedere, nel mio primo commento, ho persino citato un passo di Luperini a sostegno della iniziativa della “ingenua paginetta” proposta da me, Bugliani e Toffoli.
Inoltre i due punti che ho trattato mi sembrano abbastanza articolati e argomentati. Perché liquidarli con un’etichetta («critiche neomarxiste al “partito degli intellettuali”») e non rispondermi nel merito e in dettaglio?
Quanto alla nostra “paginetta”, temo che non si sia voluto accogliere, da parte tua e di alcuni altri amici, la sua intenzione di smuovere le acque e di rompere il silenzio e la distrazione.
Mi dirai: ma non si smuovono così, così si aggiunge confusione alla confusione.
Ribatto: perché non chiederti come mai i «progetti anche minimi» o gli « “ospedali da campo”» per lavoratori della conoscenza precari non vengono fuori? Se qualcuno, scendendo dagli alti cieli della teoria, volesse far qualcosa, pensi che sarebbe accolto con minori pregiudizi e ostilità?
E allora perché di fronte ad un tentativo come il nostro, invece di incoraggiare e magari correggere, mettersi di traverso?
Abbiamo chiaramente detto che la paginetta era un segnale di fumo , che i promotori s’impegnavano a migliorarne contenuti e formulazione con quanti volevano aderire o discuterla, ho cercato già di argomentare di più con l’intervista apparsa su Megachip (qui sotto).
Non può bastare per cominciare come minimo a guardarsi negli occhi e a parlare e a incontrarsi?
Ma prendo quanto dici sull’«assunto di base» che ritieni sbagliato come un tuo contributo alla discussione e all’approfondimento e ti chiedo: è davvero così irrilevante la differenza tra intellettuali dotati di visibilità (che poi significa anche maggiori e più vincolanti rapporti con certi poteri) e intellettuali non dotati di visibilità?
Non tutto il lavoro intellettuale è precarizzato. Non tutti gli « urlatori,intrattenitori, venditori, portavoce e portaborse» sono ricattati e precarizzati.
E, come ho scritto nel commento alle “Otto tesi”, mi pare giusto ed elementare indicare le responsabilità che hanno avuto «gli intellettuali tradizionali [che], dalle loro posizioni comunque di maggior potere, [hanno]contribuito attivamente (con il loro silenzio, con la loro connivenza o persino con una collaborazione convinta) a diffondere « su vasta scala l’esperienza della precarietà lavorativa e della marginalità sociale di una parte vastissima del ceto intellettuale, soprattutto di quello più giovane»».
Forse è questo che risulta indigesto del nostro appello: mettere sotto accusa una parte degli intellettuali, che potevano opporsi ma non l’hanno fatto. Eppure a me pare giusto insistervi e intaccare un deleterio corporativismo che amalgama ambiguamente intellettuali alti, medi e bassi (come si diceva una volta).
E perciò torno a chiedere: « Non è anche questo comportamento degli intellettuali più in vista uno dei «mali che limitano e umiliano il nostro paese»? Non è che il «noi accusiamo» della nostra ingenua “paginetta” coglie nel segno?».
Ho dimenticato di includere l’intervista di MEGACHIP. Eccola:
Democrazia nella comunicazione
Gli intellettuali «distratti». Intervista a Ennio Abate
di Pier Francesco De Iulio – Megachip
Ospitiamo volentieri sulle pagine di Megachip l’appello «Noi accusiamo!», pubblicato dalla rivista “Poliscritture” (vedi all’interno). Si tratta, per stessa voce degli autori, di un “segnale di fumo”.
Destinatari ne sono gli intellettuali “distratti”, affinché rompano il silenzio in cui sembrano essersi rifugiati e prendano posizione di fronte all’opinione pubblica. Per capire meglio di cosa si tratta abbiamo rivolto alcune domande a Ennio Abate, uno dei tre promotori insieme a Roberto Bugliani e Giulio Toffoli.
*Ci spiega in due parole cos’è “Poliscritture” e chi sono i promotori di quest’appello?
«Poliscritture» – così scrivemmo nel numero zero del 2004 – è rivista semestrale e sito di un «Laboratorio di ricerca e cultura critica». Raccoglie scritture plurali (di politica, filosofia, letteratura, poesia, arte, scienze e storia), che cercano nella liquidità delle mode, delle crisi, dei conflitti passati e presenti i punti d’appoggio per ripensare una cultura (antica e nuova) della polis, cioè della piena democrazia.
Dei tre promotori dell’appello, due – io e Toffoli – siamo redattori della rivista, il terzo – Bugliani – è un collaboratore, spero sempre più assiduo. L’idea dell’appello è nata su spinta di Bugliani e forse troppo a ridosso delle vacanze, ma abbiamo pensato di farlo circolare subito, considerandolo aperto – com’è tuttora – a successive integrazioni o eventuali correzioni. «Poliscritture» del resto non ha struttura aziendale o parapartica. I singoli redattori e collaboratori decidono se partecipare o meno a un’iniziativa come questa o ai temi dei «cantieri» di «Poliscritture», fissati comunque in incontri di redazione. Ne abbiamo uno in corso su Franco Fortini (18 interventi sono già sul sito qui e confluiranno, filtrati, nel n.9 cartaceo) e altri due (sulla paura e su guerre vecchie e nuove) verranno “aperti” subito dopo.
*Chi sono per voi gli “intellettuali”? Che senso ha oggi rivolgersi a questo soggetto culturale e se esiste come tale quale dovrebbe essere il suo ruolo? Per tornare sulla questione coi termini di una passata diatriba, Lei ritiene che gli intellettuali debbano continuare, magari meglio, a suonare il piffero (stonato) della rivoluzione o farsi parte attiva di un reale rinnovamento culturale della società, in modo autonomo dalla politica?
Potremmo rispondere che sono i discendenti di quelli che furono gli intellettuali nelle epoche che ci hanno preceduto, a partire, all’ingrosso, da Zola, di cui riecheggiamo (al plurale) il Je accuse. Sono tutti quelli che hanno facoltà di leggere, scrivere e far di conto, anche se, come diceva Gramsci, nella vita sociale e nella divisione del lavoro «non tutti svolgono la funzione di intellettuali». A questa facoltà andrebbe aggiunto il coraggio. Ce ne vuole almeno un po’ per criticare razionalmente i potenti (grandi o piccoli) che condizionano negativamente la vita di tutti noi. Oggi più che in passato esistono, dunque, tantissimi intellettuali (tradizionali, knowledge workers), ma non può esserci più (o è diventato improbabile) quel riconoscibile «soggetto culturale» capace di criticare adeguatamente il potere o i poteri e a cui, in passato, i partiti socialisti e comunisti avevano voluto affidare la funzione di “pifferi” della rivoluzione o della modernizzazione.
I poteri (capitalistici) sono diventati più oscuri e illeggibili e hanno fagocitato quegli stessi partiti assieme alla massa degli intellettuali, tradizionali e nuovi. Restano potenzialmente e ovunque gli intellettuali “critici”, i quali dovrebbero autonomizzarsi non soltanto «dalla politica» (che passa in minima parte oggi attraverso i partiti), ma autonomizzarsi, come ha ben detto di recente Giorgio Agamben, dall’intera religione del capitalismo, « una religione e la più feroce, implacabile e irrazionale religione che sia mai esistita».
*Nel vostro appello c’è un riferimento preciso al “ceto artistico”, Lei pensa che l’arte possa esercitare ancora un ruolo emancipatore degli individui e di stimolo per le coscienze intorpidite da una certo tipo di “cultura” massmediologica odierna?
Il riferimento al ceto artistico nasce dalla convinzione che l’arte ha sempre avuto una funzione importante di conoscenza storica e sociale (basti pensare anche solo alle opere letterarie e artistiche del Novecento: Proust, Kafka, Joyce, Brecht, Lu Hsun, Faulkner, Picasso, Klee, Mahler, Strawinsky…) e di memento della pienezza e felicità possibili per i singoli e le collettività. Non è che scrittori e artisti possano surrogare una politica precipitata in una palude melmosa o inventare, da soli, una nuova, immaginaria polis. Ma, essendo costruttori di realtà linguistiche (siano esse il linguaggio dei suoni, delle immagini o della letteratura) ed essendo soprattutto la lingua fatto sociale, possono più di altri disinquinare i linguaggi massmediatici che entrano nelle menti di tutti. E perciò l’attuale silenzio sulla drammatica realtà sociale che stiamo vivendo è più intollerabile – come si è detto nell’appello – in quanto viene da coloro che «vantano il valore conoscitivo, culturale e artistico universale della parola».
Non vorremmo che dietro a questo silenzio ci sia una sorta di alibi per cui, dato che il cosiddetto mandato sociale degli intellettuali e dell’artista non può essere più quello della storia novecentesca, si è tutti – visibili o meno visibili – in libera uscita e ciascuno è tenuto solo a farsi gli affari propri. Tra l’altro la mercificazione della cultura e dell’arte, eliminando persino il dilemma tra acquietarsi sull’esistente o contrastarlo contribuisce potentemente a rafforzare quella «dittatura dell’ignoranza», di cui spesso gli stessi intellettuali e artisti lamentano i danni. Così la ricerca di un nuovo che non sia conforme alla religione del capitalistico officiata dai grandi mercanti e speculatori, diventa impossibile.
*Un’ultima domanda. Nell’orizzonte culturale e politico odierno c’è spazio secondo Lei per pensare ad un grande progetto di rinascita dell’uomo e della società che non si esaurisca nel governo dell’economia ma si ponga come obiettivo la costruzione di una nuova pòlis?
Dopo il fallimento di socialismo e comunismo l’idea di una nuova polis rischia di essere intesa come l’ennesima utopia. Scalderebbe ben poco i cuori “occidentali” troppo disincantati o troppo depressi. Peggio ancora sarebbe stilare a freddo progetti o programmi, che ribaltino semplicemente i discorsi e i linguaggi massmediali mantenendosi sullo stesso piano di genericità astratta. Oppure costruire una nuova mitologia o incitare a una nuova fede nel futuro. C’è invece da contrastare, come detto, l’intera religione capitalistica. E abbiamo bisogno per ora soprattutto di critica intelligente e di una buona (non populistica) demolizione delle ideologie dominanti. Solo man mano che esse procederanno si vedrà se la costruzione di una nuova polis si porrà; e concretamente, non nei vecchi modi idealistici e utopistici. Meglio attenersi a un saldo realismo, come suggeriva in altra difficile epoca Franco Fortini:
…c’è da tornare ad un’altra pazienza
alla feroce scienza degli oggetti alla coerenza
nei dilemmi che abbiamo creduto oltrepassare.[*]
[*] Forse il tempo del sangue…da L’ospite ingrato in F. Fortini, Poesie scelte (1938- 1973), a cura di P.V. Mengaldo, Oscar Mondadori 1974
Caro Emanuele (Zinato),
pur se in extremis rispetto alla permanenza di questo post nella pagina principale, rispondo dovutamente alle tue obiezioni all'”Appello” espresse nella mail a suo tempo inviatami, che sul momento non avevo fatto perché all’urgenza operativa dell'”Appello” era sufficiente il tuo declinare l’invito a firmare. Ritengo che l’Italia viva oggi uno stato di eccezione caratterizzato principalmente da un deficit crescente di democrazia rappresentativa, da una perdita secca di sovranità nazionale (quella che resta dopo i vincoli esterni sempre più stringenti e le imposizioni di natura economica – precedute da quella monetaria – dovute alle istituzioni finanziarie transnazionali e, in parte, extraeuropee), da un attacco vittorioso e senza precedenti ai diritti lavorativi e sindacali, da una distruzione sistematica del welfare (anche qui di quel poco che resta), da un asservimento dell’informazione e dei media alle volontà del capitale finanziario e da un loro appiattimento totale sull’ideologia neoliberista. E ciò è complementato da una serie di manovre economiche “lacrime e sangue” che si rivelano difficilmente sostenibili per buona parte della popolazione e da una mancanza di reale alternativa politica a livello partitico istituzionale, dove siamo arrivati alla caricatura del mandato e della dialettica parlamentari espressa con maggioranze “bulgare”. Ebbene, a fronte di questo scenario da macelleria sociale, lo spirito dell'”Appello” è di invitare alla presa di parola il ceto intellettuale-artistico del nostro paese, considerando intellettuali e artisti un settore importante facente parte della cosiddetta “società civile”. Ritengo anche che qualsiasi risposta che l’intellettuale o l’artista possa dare alla drammatica situazione socio-economica che stiamo vivendo, la debba dare da intellettuale o da artista ma in quanto cittadino (italiano, e non è un pleonasmo). Non esiste più il mandato sociale dell’intellettuale? L’intellettuale non ha più alcun ruolo sociale da svolgere? Nel corso del Novecento molte e acute sono state le analisi a questo proposito, ma se si è data una trasformazione, anche radicale, dello status dell’intellettuale, ciò non implica che siano scomparse le responsabilità (in senso oggettivo) del suo ceto di appartenenza. Temo che la fine e il superamento della condizione intellettuale come era concepita nel secolo scorso sia vissuta da parte di molti intellettuali come una sorta di libera uscita, in cui abbandonarsi ai piaceri del relativismo e del soggettivismo. Rimirarsi il proprio ombelico è divenuto dunque lo sport più popolare tra intellettuali e artitsti? Formulata così è una domanda sbagliata, perché, come si dice, fa di tutta l’erba un fascio, ma se leggo ciò che scrivono sui giornali o sul web, o dicono negli interventi televisivi, gli intellettuali e artisti a cui – non a caso – viene concessa massima visibilità (e questi non sono precarizzati affatto, il lesso istituzionale è ancora succulento e a tempo indeterminato), allora la risposta è sì.
Alcuni commenti a questo interessante intervento.
1) “intellettuali” è forse una parola troppo larga, troppo stretta, troppo caratterizzata e troppo generica.
Troppo larga e generica se vi includiamo chiunque “lavori con la conoscenza”, dall’artista al magistrato, dal fisico al giornalista. Troppo stretta e caratterizzata se la usiamo nel suo significato storico, nato all’indomani del caso Dreyfus, di agenti primari del rinnovamento sociale e ideologico. La conservo egualmente in questo commento, per non avvitarmi in una questione terminologica.
2) a mio avviso, l’intellettuale nel significato storico della parola, che nato a cavallo tra Otto e Novecento giunse a maturità con le gigantomachie borghesi tra fascismo, comunismo, capitalismo liberale, è defunto con quelle. Fascismo, comunismo e capitalismo liberale sono defunti tutt’e tre insieme alla borghesia (i ricchi ci sono ancora, ma appartengono a un’altra specie).
3) Fascismo, comunismo, capitalismo liberale sono le ultime forme di civiltà (della nostra porzione di mondo) che ritengono decisivo sapere, e spiegare a tutti, *perchè* esistono: l’intellettuale (fascista, comunista,liberale) godeva – e soffriva – di mandato sociale perchè inanella e mette in bella copia quelle “catene dei perchè” (Fortini).
4) La nostra presente civiltà non ritiene decisivo sapere, e spiegare a tutti, *perchè* esiste: esiste perchè sì, perchè esiste e funziona. Ognuno poi può bricolarsi i suoi perchè, se ci tiene e ne ha bisogno. L’intellettuale che produce i perchè per tutti resta disoccupato, o si ricicla fornendo perchè per settori più o meno ampi di mercato.
5) La nostra civiltà ritiene però decisivo sapere, e spiegare a tutti, *come* funziona, perchè è molto complicata e delicata ed embricata (“la complessità”) e se troppi si mettono di traverso funziona male. E qui nascono (o si riconvertono dalla produzione del *perchè*) gli intellettuali del *come*.
6) Tra questi intellettuali del *come* c’è una gerarchia verticale. Al primo posto gli intellettuali che si occupano dei *come* più importanti: scienza, economia, strategia militare. Poi i mediatori del consenso e del conflitto sociale: i giornalisti soprattutto televisivi, i fabbricanti di contenuti simbolici (industria dell’entertainment), i magistrati, gli ecclesiatici di tutte le chiese, i politici, etc. Poi gli accademici, tanto più importanti quantopiù le loro specialità afferiscono ai *come* di maggior rilievo. Poi gli insegnanti che veicolano in modo capillare i contenuti elaborati nei centri di produzione del pensiero adattandoli al loro pubblico, come fanno le televisioni nazionali con i format internazionali.
6) Poi ci sono, all’interno di queste categorie degli intellettuali del *come*, le gerarchie orizzontali, e queste riproducono le gerarchie presenti anche nel resto della società. Sopra i Permanenti, sotto gli Effimeri, che tendono, per forza di cose, a riprodursi per via dinastica. Il tasso di promozione degli Effimeri meritevoli all’Empireo dei Permanenti è in proporzione diretta alla competizione che i Permanenti nazionali hanno voglia e capacità di accettare con i Permanenti stranieri. (In Italia è quesi nullo perchè i nostri Permanenti hanno accettato la condizione di esecutori dei disegni di altri e più forti Permanenti).
7) Il mandato sociale degli intellettuali, dunque, esiste ancora, eccome se esiste; ma mutato natura da “mandato del perchè” a “mandato del come”. La forza propulsiva di questo mandato è della stessa natura della forza propulsiva del mandato del perchè: è la committenza diretta o indiretta delle grandi forze sociali. Quando la barchetta dell’intellettuale è sospinta dal vento del mandato sociale, si trasforma in portaerei a propulsione atomica. Quando il vento cade, alè, remare!
8) Esempi concreto dalla storia italiana recente: quando alle loro spalle soffiava potente il vento del mandato di grandi forze sociali, i magistrati hanno spedito in galera un’intera classe politica di governo. Caduto il vento, il dr. Ingroia se ne va in Guatemala. Col vento in poppa, i giornalisti hanno dato un bello spintone sull’orlo del precipizio al Silvio B.; caduto il vento, non si sono accorti che l’Italia ha attaccato militarmente e contribuito a rovesciare uno Stato con il quale aveva appena firmato un solenne trattato di amicizia (Libia).
9) Conclusione: secondo me, agli intellettuali Effimeri del *come* converrebbe: a) tentare di stabilire alleanze con gli altri Effimeri, i non intellettuali b) ricominciare a pensare ai *perchè*: anzitutto ai propri, poi a q
Probabilmente è vero che un documento, a cui si chiede di apporre una firma, ha una efficacia effimera. E questo vale per ogni petizione, se si escludono pochi, pochissimi casi. Quello che ci ha colpito della posizione di Zinato, ma sia chiaro anche di altri come lui, è proprio la sua incapacità di accettare quella che Luperini chiama la riscoperta del “ principio della realtà e la datità materiale”. “La materialità del mondo – argomenta Luperini – è sempre stata lì, erano loro (ndr i filosofi) che non volevano vederla”. Quelli che non volevano vederla, più in generale, erano quelli che ci hanno parlato dagli anni ’80 in poi con la certezza dei maestri di Verità delle più varie forme di democrazia veniente mentre di fatto ci vedevamo espropriati di ogni diritto a una cittadinanza reale, quelli che discettavano dei “saperi deboli”, stabilendo poi nei loro ambulacri editoriali e universitari mercimoni con ogni forma di potere mentre riempivano le pagine dei giornali con una grafomania da poligrafi disponibili a ogni compromesso. E’ proprio da questo dato di verità effettuale che siamo partiti quando, scrivendo le nostre poche righe, ci siamo chiesti: «Siamo proprio convinti che a tutti i livelli del lavoro intellettuale sia stato precarizzato nello stesso modo e con la stessa radicalità? Il mondo della università è forse paragonabile a quello della restante realtà scolastica? Abbiamo tutti le stesse responsabilità?» Lo stesso discorso si potrebbe fare per il giornalismo o per la magistratura o per numerose altre realtà dove il lavoro intellettuale conserva una pregnanza che forse non corrisponde più all’antica egemonia, ove essa sia mai esistita, ma rimane supporto ideologico ineludibile del potere, dei poteri.
Su questa stessa lunghezza d’onda mi pare che si sia mosso Ennio Abate nelle domande, si noti ddomande, che ha posto a Luperini, poste in modo dialettico forse anche veemente ma che tali rimangono. Ancora una volta una richiesta di dibattito viene invece liquidata da Zinato con formule, queste sì, che fanno pensare a tempi che si volevano perduti … Cosa vuol dire: «critiche neomarxiste al “partito degli intellettuali”, vecchio ma interessante dibattito …». Il fatto che siano neomarxiste le rende meno vere? Il fatto che siano “vecchie” le rende meno urgenti? Si può forse usare una metafora edenica del viaggio nel grande nord per dare una risposta al problema della responsabilità di ieri ma anche di oggi degli intellettuali. Nonostante tutto sono essi, i cosiddetti «professori», che hanno realizzato nei tre decenni passati e in modo assolutamente pregnante anche oggi quel processo di reificazione e subordinazione del sapere ai modelli della produzione liberista che, come vede giustamente Luperini, si sono realizzati in Italia, secondo un paradosso che è tutto nostro, in modo avanzatissimo e insieme del tutto provinciale.
Similmente come non notare la latenza del nostro ceto intellettuale, di quello che per decenni si è voluto «alternativo», se si escludono alcuni casi in sé encomiabili ma subito a loro volta trasformati in elementi compatibili con lo «star sistem» dell’industria politico culturale, di fronte ai problemi politici. Sembra una facile scappatoia affermare l’impotenza degli intellettuali di tutti gli intellettuali, senza riconoscere le loro differenze di ruolo e di incidenza concreta, ad affrontare temi come quelli che ci coinvolgono concretamente. L’impressione che si riceve confrontandosi con la cultura italiana d’oggi nelle sue varie forme, dal giornalismo alla saggistica, è che si sia tutti proni ad un ineluttabile destino che ci impone Monti, ci sottopone all’imperio degli USA, all’Occidente, allo scontro di civiltà. Ma è poi così? Quale spazio riescono ad avere coloro che provano una qualche forma di «disagio» di fronte al crescente interventismo militare a 360° gradi, all’esportazione della democrazia? Anche a questo livello non pare sufficiente richiamarsi al lavoro diffuso, al dialogo liquido, ai gruppi informali. E’ un discorso che è già stato fatto negli anni ’80, con le radio libere, negli anni ’90, con internet, dal 2000 in poi, con facebook, ma che poi nei fatti non ha creato se non illusioni e successive disillusioni. Non possiamo neppure sperare di tornare nelle incontaminate terre del nord. Siamo tutti, noi intellettuali, insegnanti, giornalisti, scrittori di ogni risma, coinvolti! Coinvolti da una realtà in cui “le contraddizioni materiali a livello planetario sono diventate sempre più acute e sempre più ineludibili”. Le nostre responsabilità però sono diverse … ed questa la realtà che dobbiamo affrontare e da cui dobbiamo partire! Che piaccia o no …
a quelli di tutti.
[per i Curatori: mi è saltata la linea ADSL prima che potessi terminare e rileggere l’intervento. Vi prego della cortesia di congiungere le ultime parole al posto precedente, e mi scuso delle imprecisioni e degli errori di battitura ]
per favore correggere il cognome! E’ Toffoli! Sorry!
@ Giulio Toffoli
Il fatto che siano “vecchie” non le rende meno urgenti. E il termine neomarxista non è per me dispregiativo. E’ forse quanto si avvicina di più a una sintetica definizione del mio stesso pensiero. Come ho scritto, mi pare che le posizioni di Luperini siano assai condivisibili. Il fatto è, per dirla con un verso di Fortini scritto dopo la Guerra del Golfo, un verso che disegna la sopravvenuta insensatezza di un intero orizzonte di riferimenti: “Nulla era vero. Voi tutto dovrete inventare.” (“Considero errore”, Franco Fortini).
Non penso ovviamente di sosttituirmi a Zinato, ma potrei anche io dire che la questione qui posta è vecchia in un senso un po’ diverso e più specifico.
In sostanza, se esiste una situazione in cui la gente è divisa in due fronti più o meno compatti, allora si può capire il senso e la finalità di un appello del tipo “smettete di fare i servi del potere e venite a militare dalla nostra parte” che, manco a dirlo, è quella giusta.
Ecco, la mia analisi è che questa non sia la situazione odierna, che l’atteggiamento servile degli intellettuali, un termine, mi dispiace doverlo precisare, vecchio anch’esso, ma che mi sforzerò di usare anch’io anche se a denti stretti (in caso contrario la discussione andrebbe altrove) discende dalla confusione. Non è che io dica che essi non sappiano che ciò a cui colpevolmente collaborano non vada bene, non è questo l’elemento di confusione, la confusione sta piuttosto nel non sapere cosa fare per opporvisi, e quindi, in assenza di alternative immaginabili (cioè molto meno che realistiche, anche solo ipotizzabili), non rimane che vendersi per potere almeno ottenerne qualche meschino privilegio.
Per questo, ritengo che la scommessa oggi starebbe nel creare una prospettiva differente.
Nel mio piccolo, ho tentato di lavorare a un progetto di questo tipo anche scrivendoci un libro, ma ciò che vedo è che prendo calci da tutte le parti, quasi che immaginare qualcosa di veramente innovativo disturbi non soltanto chi ha il potere (ciò sarebbe del tutto ragionevole), ma anche chi vi si oppone “storicamente”, quasi che tenesse tanto ad una specie di monopolio dell’opposizione.
A me pare che il problema consista nella mancanza di speranza di imprese collettive. Fatta fuori tale speranza, è inevitabile che esistano solo fini strettamente individuali e quindi meschini.
a V. Cucinotta
Secondo il mio avviso, lei ha perfettamente ragione. Aggiungerei però che prima ancora di scegliere uno dei campi in conflitto – che ci sono sempre, anche se mutano nome, forma, obiettivi – è necessario capire in quale campo ci troviamo, volenti o nolenti, noi.
Mi spiego con un esempio. Nel 1965, Julien Freund stava discutendo la sua tesi di dottorato sulla “Essence du politique” con Raymond Aron. Jean Hyppolite, che era in commissione, gli disse: “Se sulla sua tesi dell’amico-nemico ha davvero ragione lei, non mi resta che andare a coltivare il mio giardino.”
Freund gli replicò: “Senta, M. Hyppolyte, lei diceva di essersi sbagliato su Kelsen. Secondo me, sta commettendo un altro errore, perchè come tutti i pacifisti lei pensa che siamo noi a designare il nemico. Il vostro ragionamento è, visto che noi non vogliamo nemici, non ne avremo. Ora, è il nemico che designa lei. E se vuole che lei sia il suo nemico, avrà un bel fargli tutte le più sentite attestazioni d’amicizia. Dal momento che egli vuole che lei sia il suo nemico, lei lo è, e non potrà nemmeno più coltivare il suo giardino.”
Caro Roberto,
lei è una persona troppo intelligente per ignorare le evidenti differenze tra i nostri punti di vista.
Io credo che l’attuale classe dominante secondo la terminologia di Gramsci porterà l’umanità a disastri che ancora stentiamo a scorgere nella loro drammaticità, e questo mio punto di vista credo che sia condiviso da tante persone.
Purtroppo, ciò non basta a creare un’opposizione, che ovviamente richiede una differente visione del mondo, una strategia politica ed un’organizzazione adeguata.
Fa parte della propria concezione del mondo anche ciò che il Freund che lei cita crede sulla collocazione di tutti noi a prescindere da ciò che pensiamo, ma che viene in tal modo proposto come un assioma, il che non mi piace, io sono per l’argomentazione esplicita, così che una premessa non ulteriormente dimostrabile dev’essere proposta come un postulato, mai come un assioma.
@ Cucinotta
Una situazione in cui la gente è divisa in due fronti più o meno compatti non è mai esistita. Se non nei fumetti e nei romanzi pop. E attendere che si crei impedisce di cogliere che si può “militare” da una parte, anche quando questa parte non c’è o è un’incognita. No, fatta fuori la speranza di imprese collettive, è inevitabile che esistano «solo fini strettamente individuali e quindi meschini» solo per chi ha sete di carriera e di ubbidienza ai potenti. Questo fondare il proprio comportamento sulla speranza invece che su un’analisi del reale, è filosofia che i vinti accolgono dai vincitori. La speranza può persino non esserci. Esistono scommesse, appunto; e rifiuti che ciascuno fa e può fare facendo un’analisi del reale e dicendo no o sì. Esistono anche compromessi che si devono e possono sopportare senza vendersi l’anima (o, per chi non crede, l’uso libero della propria mente). Si può, cioè, essere servi per costrizione e servi per convinzione. Oggi abbiamo un eccesso di servi per convinzione che non si sentono tali. La confusione, che può esserci per assenza di alternative immaginabili, può comportare il dubbio, l’incertezza, ma se si arriva alla servitù per convinzione e allo zelo nel servire è finita: il silenzio degli intellettuali a questo punto è assenso, non prudenza.
Ricordo che Fortini consigliava di scegliersi una «morale di subordinato, di servo […] con quel tanto di equivoco e magari di ripugnante (come l’invidia, il rancore, la intenzione di dominare umiliandosi) che ogni morale di servo comporta» (Insistenze, p. 102). E perché? Perché «di un servo non ci si può mai fidare». Ecco, basterebbe ricominciare a riconoscersi come servi inaffidabili. Per non finire collaboratori attivi, fingendo di non sapere «cosa fare per opporsi», data l’evidente «assenza di alternative immaginabili».
a V. Cucinotta
Caro Vincenzo,
grazie dell’intelligenza di cui mi fa credito. Se vediamo le cose diversamente, che problema c’è? Si parla per capirsi, e succede anche di mutare persuasione.
Come suggerisce l’aneddoto di Freund che riportavo più sopra, però, a mio avviso il primo passo da compiere, per poi cercare di elaborare “una differente visione del mondo, una strategia politica ed un’organizzazione adeguata” è capire chi sia il tuo nemico: perchè il tuo nemico può esser tale per consapevole decisione tua, ma anche perchè lo decide lui malgré toi: quando magari, tu credi e vuoi che sia tuo alleato e tuo amico.
“L’attuale classe dominante” mi sembra una definizione troppo larga e generica, come troppo larga e generica mi pareva, nell’intervento a cui rispondiamo qui, la parola “intellettuali”.
Per il resto, concordo con Abate quando dice che “Una situazione in cui la gente è divisa in due fronti più o meno compatti non è mai esistita. Se non nei fumetti e nei romanzi pop” (anche se aggiungo: in guerra, due campi ci sono eccome).
La ringrazio di nuovo e la saluto cordialmente.
La speranza, l’utopia, secondo me, non sono categorie e filosofie che i vinti accolgono dai vincitori. Il principio speranza di Bloch è concepito contro Heidegger, contro il principio dell’ angoscia, in quanto, secondo Bloch, non bisogna prendere il mondo così com’è; la speranza ci mostra il mondo in movimento.La virtù della Speranza non è premio di consolazione ma un tentativo in progress di vedere come le cose mutano.
E’insomma quello che Marx chiamava il sogno di una cosa: la rivendicazione della speranza come l tentativo di innervare un progetto di energie umane che altrimenti si dissipano. Delle macerie del nostro passato, questo principio lo erediterei volentieri.
Caro Ennio,
e se invece dell’alternativa secca tra servi per costrizione e servi per convinzione ci fosse la terza opzione di servi per confusione?
Ma via, chi mai crede che il sistema sostanzialmente mafioso che governa il mondo sia accettabile, e che quindi vada assecondato? Oggi, io vedo soprattutto confusione, come se un profano guardasse il funzionamento di un orologio di quelli meccanici e, malgrado avesse l’evidenza del fatto che funziona malissimo, non saprebbe egualmente come intervenire, e finisse così per contentarsi dell’incertezza nell’ora segnalata.
Io davvero credo che l’elemento di confusione non vada sottovalutato, che un’ideologia così totalizzante come quella oggi dominante non consente alla gente neanche di capire dentro sè stessi cosa conti nella propria personalissima vita e cosa sia superfluo e perfino dannoso.
Bisognerebbe tornare ad un novello atteggiamento di umiltà, di predisposizione ad apprendere, sconfiggendo l’infausto “io sono giusto” che ci portiamo dietro dal ’68.
Oggi, con tutta la buona volontà, con la convinzione ferma che chi governa il mondo sia il nostro nemico, non potremmo comunque cambiarlo questo mondo, dobbiamo rielaborare quel poco che letture ed esperienze hanno maturato di positivo dentro di noi.
Ciò che invece io vedo è una certa ostentata sicumera di chi sa già come stanno le cose, cioè l’analisi del reale che lei cita in opposizione alla speranza (cosa da borghesi, sic!) e pretende che altri senza tentennare aderisca, tanto quello è il nemico, così cosa manca per schierarsi dall’altra parte? Un momento, ma quest’altra parte come è fatta, sarà una domanda lecita, o non è lecito trovarsi una differente compagnia, organizzare, quand’anche si volesse giungere alla stessa meta, un viaggio differente con passaggi di altro tipo. E se poi anche la meta finale fosse un’altra?
Lei mi rimprovera di richiamare una realtà fumettistica, ma davvero lei crede che oggi la situazione si possa omologare agli anni sessanta (preferibilmente pre-68)? Davvero il marxismo oggi parla alle persone come faceva allora, senza che gli eventi storici intercorsi abbiano influenzato il modo di pensare?
Oggi lei sa che si abusa del termine comnplessità, siamo in una società complessa, tutto è complesso. Io non credo affatto che semplicità e complessità siano attributi della realtà, semplice e complessa è la nostra visione della realtà, e quest’abuso del termine complessità sta solo a significare che la gente è confusa, e non ha elaborato ancora le categorie di interpretazione del reale: non era negli anni sessanta tutto più semplice (nel senso appunto che esistevano categorie interpretative adeguate)?
@ Emanuele Zinato
Non rifiuto la speranza, non la considero di per sé “borghese”. Ma esiste anche una speranza predicata dai vincitori ai vinti. E , se si indaga, la si ritrova nei discorsi sul Progresso, sul Socialismo e sul Comunismo. La speranza non è certo visione del mondo prodotta soltanto da chi ha bisogno di uscire dall’oppressione o degli intellettuali rivoluzionari e innovatori. Ma è anche ideologia a doppia faccia, che è stata prodotta dal confluire di bisogni di liberazione ma pure da esigenze di controllo dei dominatori. Ed essa può diventare (è diventata) nei conflitti reali (spesso facilmente, inavvertitamente, malgrado le buone intenzioni di capi politici e seguaci) feticcio, illusione dannosa, ombra sulla realtà, *instrumentum regni*, “oppio dei popoli”.
Del resto lo stesso Bloch distingueva nel cristianesimo, che nella nostra civiltà è il massimo dispensatore di Speranza, una religione del popolo da quella dei sacerdoti e le contrapponeva eccome – Müntzer contro Lutero – , mica le confondeva.
Ora al principio speranza non voglio sostituire affatto il «principio dell’angoscia». Ma, convinto che esista una ambigua ideologia della speranza e che, comunque, di per sé la stessa speranza “buona” non basta, ho richiamato l’attenzione sull’indispensabile analisi del reale. E ricordato quei versi di Fortini:«…c’è da tornare ad un’altra pazienza / alla feroce scienza degli oggetti alla coerenza / nei dilemmi che abbiamo creduto oltrepassare». Senza comprensione del reale, «il mondo in movimento» finirebbe per esistere solo nei nostri cuori o nella nostra immaginazione. Marx non è solo «il sogno di una cosa», ma quello di Das Kapital, che a sua volta è una Cosa molto particolare e strana, poco indagabile mi pare solo con il principio speranza. Quindi ereditiamo pure il principio speranza, teniamoci pure la “parte buona” di questa rovina, ma con le avvertenze di cui ho appena detto.
@ Cucinotta
Caro Cucinotta,
io faccio un’ipotesi addirittura più pessimistica della sua: e se la confusione dei servi (che io non voglio trascurare) non fosse neutra, non fosse cioè “ingenua”, dovuta a semplice ignoranza e quindi non indicasse equidistanza tra l’essere servi per costrizione e servi per convinzione? Se questa apparente «zona grigia», che distinguiamo da quella della costrizione e dal consenso pieno, svelasse poi (o perché indagata più a fondo o perché in certe circostanze storiche accadono eventi che rivelano meglio la sua natura), una potenziale o effettiva propensione, mascherata per mille motivi, verso i più forti?
Ah, non credo proprio che «il sistema sostanzialmente mafioso che governa il mondo» (quello cioè dei più forti) sia per tutti inaccettabile e che l’assenza di critica o di rivolte derivino soprattutto da «confusione».
La confusione c’è, non lo nego, ma non tutta è reale. Distinguerei quella reale da quella “aggiuntiva”, finta, costruita, tattica, dovuta anche alle rimozioni o illusioni o paure sia dei dominatori che dei dominati. Compito degli intellettuali sarebbe appunto di uscire dalla confusione e indurre altri a uscirne. Se invece finiscono per predicare a se stessi l’umiltà, magari per mondarsi della eccessiva sicumera di certi antenati sessantottini finiti a praticarla sull’altra sponda, il necessario lavoro critico viene secondo me bloccato.
È perché si sospetta che le cose non stanno come ce le raccontano che urge ancor più l’analisi del reale. Impegnarvisi non significa assumere la posa «di chi sa già come stanno le cose», ma richiamarsi alla ragione, che dovrebbe evitare sia la falsa umiltà sia la tracotanza.
Quanto ai nemici (e agli amici), proprio per non schierarsi in modi preconcetti o a occhi chiusi, nel mio primo intervento sulle “Otto tesi” ho invitato a discutere del ruolo che stanno avendo gli Usa, l’Europa, il governo Monti. Se lo si facesse, forse dalla confusione o da un silenzio sospetto un po’ si uscirebbe. Che è poi lo scopo dell’appello promosso con Bugliani e Toffoli.
@Buffagni
Caro Roberto, detta lapidariamente, nemici ne trovo in ogni dove e molto facilmente, non è che costituisca alcun tipo di problema riconoscerli come tali, il problema è individuare correttamente e senza prendere abbagli gli amici. E infatti, ho poche, seppure profonde, amicizie :)
V. Cucinotta
Caro Vincenzo,
concordo: e infatti si dice, “dagli amici mi guardi Iddio, che dai nemici mi guardo io”.
Cerco di riassumere come la penso. Premetto che per comodità anche io continuerò a usare una parola, “intellettuali”, che non mi soddisfa.
1) tra intellettuali Permanenti e intellettuali Effimeri c’è un evidente contrasto d’interessi. Gli Effimeri hanno tre scelte possibili:
a) cercare di diventare, uno per uno o in gruppi organizzati, Permanenti (promozione, singola o per cordata)
b) organizzarsi (se possibile insieme ad Effimeri appartenenti ad altre categorie) proponendosi il fine strategico di porre termine alla divisione duale fra Permanenti ed Effimeri (riforma strutturale)
c) accontentarsi (inerzia).
Questa è la situazione oggettiva.
2) Poi c’è la situazione soggettiva. La situazione soggettiva è, come sempre, assai più complicata e flou dell’oggettiva.
Le complicazioni principali mi paiono essere:
a) identificazione degli Effimeri con i Permanenti, a causa di capillarità ideologica, professionale, valoriale, persino inconscia (identificazione con l’aggressore)
b) assenza di una prospettiva storica che integri il puro e semplice conflitto d’interessi tra Effimeri e Permanenti in una proposta politica e ideale praticabile, capace di costruire alleanze e di indicare un fine strategico credibile e ritenuto desiderabile e positivo da molti (la funzione che, prima dell’implosione dell’URSS, svolgeva il comunismo, nelle sue varie declinazioni ideologiche e politiche)
Che fare, come diceva quello?
Bè, intanto un minimo di ordine in casa propria, direi.
Vediamo la praticabilità delle varie risposte alla situazione oggettiva.
1 a: promozione. In Italia, la praticabilità di questa risposta è ridotta. Le classi e i ceti dominanti hanno interesse a favorire un ricambio, cioè a integrare una percentuale significativa di elementi meritevoli delle classi e dei ceti dominati, solo quando devono competere e confliggere con i dominanti stranieri e devono assicurarsi molto personale di valore: altrimenti si tengono stretto l’osso tra di loro.
In Italia, da Mani Pulite 1 in poi fino al vero e proprio commissariamento politico della nazione costituito dal governo Monti, i dominanti hanno sostanzialmente accettato una posizione subalterna rispetto ai dominanti USA e delle più forti nazioni UE. Dunque la risposta “promozione” è praticabile per i familiari e i famigli dei Permanenti, più alcuni miracolati; oppure, nell’eventualità (dubbia) che i dominanti soprattutto UE si prendano la briga di sistemare direttamente le più clamorose disfunzionalità italiane, per chi si appoggia direttamente a loro, si fa sostenitore militante delle loro proposte e ricette, etc.
Questa seconda soluzione (puntare sull’effetto di trascinamento dei dominanti UE, salendo sulle code del loro frac volante) è, da quel che mi pare di rilevare, maggioritaria nel campo “progressista”, “di sinistra”.
E’ una riedizione del famoso allineamento ai “paesi più avanzati” o “normali”. Non si vede bene, però, perchè mai i dominanti stranieri dovrebbero prendersi la briga di cavarci le castagne dal fuoco: a loro basta indebolirci evitando destabilizzazioni importanti dell’edificio UE e NATO, togliere di mezzo un concorrente, e fare shopping profittando dei prezzi di saldo.
Esempio storico recente dello schema di rapporto fra dominanti italiani e dominanti stranieri: si privatizza l’IRI, la Thyssen-Krupp compra per un pezzo di pane le Acciaierie Terni gioiello della siderurgia italiana, si porta a casa i brevetti e il reparto R&S, si libera di un concorrente, lascia morire pian piano l’azienda, dunque riduce la manutenzione: alcuni disgraziati lavoratori ci lasciano la pelle in un incidente agli altoforni. Il benemerito giudice Guariniello condanna per omicidio volontario i responsabili, nessuno dei quali farà mai 1 (uno) giorno di galera.
E’ dunque più probabile che, come diceva Manzoni, il vinto signore si mesca all’antico, e un popolo e l’altro sul collo ci stia.
1b: organizzazione. L’organizzazione sarebbe necessaria ma è molto difficile, sia per la disunione indotta da cause strutturali (la precarietà implica ricattabilità e fragili legami di consuetudine) e soggettive (la precarietà produce ideazioni compensative, illusioni, deliri, etc.), sia per il fatto, roccioso, che le decisioni strutturali rilevanti NON vengono prese dai Permanenti italiani, ma dai Permanenti UE e USA.
1c: accontentarsi. La risposta più facile perchè tutto la consiglia. Però di vita ce n’è, salvo metempsicosi, una sola, e in queste condizioni di emme, accontentandosi la si vive male.
Veniamo ora alla situazione soggettiva, più complicata sì, ma sulla quale si può fare di più.
2a: identificazione degli Effimeri con i Permanenti. Credo abbia un notevole rilevo, soprattutto perchè gli “intellettuali” (anche quelli che più rispondono al profilo del tecnico) sono abituati, sin dall’inizio della loro formazione, a ragionare tenendo sempre conto dei “valori”, a volte addirittura mettendoli al centro.
Io direi: abituarsi, fin dalle piccole cose, a guardare il prodotto e non l’etichetta, e a giudicare politicamente, cioè a dire per quel che il tale e il talaltro (noi compresi) fa, piuttosto che per quel che dice: e a valutare le conseguenze pratiche delle azioni e delle idee (le idee sono anche azioni).
Esempio: se i Permanenti votano per lo stesso partito degli Effimeri e sostengono le stesse cause degli Effimeri, forse agli Effimeri sfugge qualcosa. Essere antiberlusconiano, progressista, antifascista, pro-diritti umani e delle minoranze, pro-immigrazione, pro-UE, pro-USA (quando è presidente un democratico) fa di un Permanente un Effimero, o di un Effimero un Permanente? SI’/NO.
Chi ha barrato la casella NO potrà proseguire chiedendosi, ad esempio, chi ha introdotto in Italia le leggi sul precariato, eccetera, eccetera.
Questa opera di chiarificazione e – usiamola, ogni tanto, questa parola! – di verità gli Effimeri possono farla benissimo, “uno per tutti e tutti per uno”, come recita un grande libro d’avventura. E come dice un altro grande libro d’avventura, la verità rende liberi, almeno nello spirito: condizione non sufficiente ma necessaria per liberarsi anche nella società e nella vita quotidiana.
2b assenza di una prospettiva storica. Sconsiglierei riedizioni aggiornate e rivedute del comunismo. (Segnalo per onestà che se ci fosse di nuovo il movimento comunista, io personalmente tornerei ad essere anticomunista, com’ero quando c’era). Non dispongo di modelli alternativi equipollenti. Ricordo però un bel film di Andreij Tarkovskij, l’ “Andrei Rublev”, girato negli anni Settanta, quando il baraccone sovietico stava cominciando a cedere dalle fondamenta.
Tarkovkskij aveva le antenne sensibili e viveva vicino al centro della classe dominante sovietica, dunque se n’era accorto molto bene, mentre qui in Italia si dava per scontato che l’URSS fosse in gran spolvero, il comunismo all’ordine del giorno, e ai padroni e ai borghesi restassero pochi mesi (era vero per i borghesi, falso per i padroni).
Bene, nell’ “Andreij Rublev”, dedicato al più grande pittore di icone del Medioevo russo, periodo di preoccupante casino che coincide con la guerra di liberazione e unificazione nazionale della Russia contro l’invasione delle orde mongole e dei Cavalieri Teutonici, c’è un ragazzino che deve costruire una megacampana.
Nella cultura e nel folklore russo la campana è il simbolo dell’unità della patria – la patria-villaggio come la patria-Russia – e della verità, la verità che è anche la voce del popolo e la voce di Dio (per questo A. Herzen chiamò il suo giornale, voce del rinnovamento liberale e progressivo della Russia, “Kolokol”, campana).
Il ragazzino è allievo di un famoso fonditore di campane, ma non è ancora un maestro della sua arte: è solo un apprendista, ha visto fare ma non ha mai fatto di persona, insomma non sa come si fa. Sbagliare una campana è facile, facilissimo: se sbagli la lega di bronzo e argento, se la fusione non è perfetta, la campana ti esce muta o stonata.
Se il ragazzino sbaglia la campana, il principe locale che glie l’ha commissionata gli ha già anticipato che finisce con la testa sul ceppo del boia.
Bè: il ragazzino ci prova, e visto che siamo nel film di un umanista e di un patriota russo come Tarkovkskij, la campana riesce bene, e il suo rintocco si ode fino ai confini della Madre Russia. (E in effetti possiamo dire, a distanza di quasi cinquant’anni, che la Russia sta ritrovando la sua identità, la sua forza e il suo destino dopo un periodo di orrenda umiliazione).
Io non dico che la campana verrà bene. Però, dico che il ragazzino ha fatto bene a provarci. Che ne dice lei?
Roberto, tanto come passo preliminare sulla strada del ragazzo campanaro, mi farebbe piacere leggessi il libro che ho scritto. Te ne mando volentieri una copia se so come fartelo avere. Scrivimi pure a cucen9@yahoo.it
Tanto per parlar chiaro, sulla scia dei “Noi Accusiam!”: decurtazione di 400.000 euro alle spese sociali dell’ULSS 6 (Vicenza) Regione Veneto. Conseguenza: proposta di taglio ai servizi diurni e residenziali per le persone con disabilità; riduzione dei giorni di apertura dei centri per disabili; riduzione dell’orario degli operatori o licenziamento degli operatori; taglio finanziario ai trasporti per disabili. Ciò, tra l’altro, significherà che un disabile grave resterà maggiormente in carico alle famiglie, costringendo uno dei due genitori a licenziarsi per seguire il figlio. Inoltre, l’unica inclusione sociale si giocherà solo nella scuola, con il conseguente aggravio ad un ente già martoriato. Questo, come altri, non sono “tagli”, bensì una strategia pensata e voluta per abbattere la “quarta” gamba del welfare italiano: il sociale. E rendere il welfare sociale, un “welfare residuale”, “sanitarizzando” il più possibile (la lobby dei medici lamenta di tutto, e razzola altrettanto bene…). La questione è sia come resistere, sia come riportare la domanda “sociale” all’interno della società, appunto; e non renderla nè sanitaria nè ideologica. Intanto, se almeno i sindacati intervenissero, sarebbe gradito. Grazie, Giovanni Turra Zan