di Elena Porciani

Lo scorso 18 agosto è ricorso il centenario della nascita di Elsa Morante e vari eventi stanno scandendo dall’inizio dell’anno la ricorrenza. Se un’anticipazione si è avuta nel febbraio del 2011 con il Seminario MOD di Perugia dedicato alla Storia, di cui sono in dirittura di arrivo gli atti curati da Siriana Sgavicchia, quest’anno le celebrazioni si sono aperte a fine maggio all’Universitad Complutense di Madrid con il convegno organizzato da Elisa Martinez Garrido e Flavia Cartoni, cui seguiranno altri quattro in programma in autunno a Washington, Amsterdam, Roma e Varsavia – e la geografia delle sedi conferma la fortuna critica internazionale dell’autrice. Non sono mancate le iniziative editoriali: uno speciale di «Nuovi Argomenti» affidato a cinque voci femminili della narrativa italiana, il corposo numero monografico del «Giannone», diviso in testimonianze e saggi, una sezione di «Studium» in corso di stampa. Soprattutto c’è grande attesa per l’edizione dell’epistolario a cura di Daniele Morante, che uscirà a ottobre per Einaudi, e si vocifera di un volume di fotografie curato da Patrizia Cavalli. Si segnala poi la biografia letteraria di Graziella Bernabò La fiaba estrema. Elsa Morante tra vita e scrittura, mentre è in preparazione il profilo critico di Giovanna Rosa che uscirà presso Il Mulino. Infine, dalla metà di ottobre fino a dicembre avrà luogo alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma la mostra curata da Giuliana Zagra Santi, Sultani e Gran Capitani in camera mia. Inediti e ritrovati dall’Archivio di Elsa Morante con le nuove acquisizioni donate da Carlo Cecchi e Daniele Morante nel 2007.

Di fronte a questa indubbia vivacità di iniziative e pubblicazioni non è possibile non esprimere l’auspicio che, al di là delle giuste celebrazioni e del dovuto omaggio a una delle massime voci romanzesche del Novecento, il centenario sia anche l’occasione per riflettere sulla storia della ricezione dell’autrice e per stilare una dichiarazione di intenti critici. Al riguardo sembra urgente colmare, in primo luogo, la scollatura che si avverte tra i risultati della critica e la fruizione ‘comune’ di Elsa Morante, affidata a volumi i cui apparati, per quanto preziosi e prodotti da una penna di rara finezza interpretativa come quella di Cesare Garboli, non possono più costituire quell’aggiornato viatico di cui chi si avvicina a Morante ha bisogno per affacciarsi sull’universo poietico della scrittrice. Si rischia, anzi, il paradosso che se in vita Morante ebbe a soffrire, a torto o ragione, della contiguità letteraria del marito Moravia, in morte possa pendere su di lei l’ombra affettuosa del critico toscano; ne fornisce una dimostrazione proprio lo speciale di «Nuovi Argomenti» dove Garboli sostanzialmente è l’unico studioso citato da redattori e contributrici che, invece, non fanno pressoché parola dei pur non pochi studi apparsi negli ultimi due decenni. Eppure, perlomeno dal 1990, anno in cui, oltre al secondo Meridiano, uscì il volume collettaneo della scuola pisana Per Elisa. Scritti su “Menzogna e sortilegio” – con contributi, tra gli altri, di Lucio Lugnani, Emanuela Scarano e Marco Bardini –, si è sviluppata tutta una critica morantista che, dopo i pioneristici studi apparsi con la scrittrice ancora in vita, si è programmaticamente concentrata sui testi lasciando da parte sia le polemiche contingenti divenute nel frattempo inattuali sia le testimonianze degli amici e discepoli, importanti ma a rischio di (comprensibile) parzialità emotiva. Sia chiaro: i saggi e la cura di Garboli sono stati e continuano a essere fondamentali nella storia della critica morantiana, però alcuni giudizi – che «questo Autore, letterariamente, non si sa da dove venga», l’«originalità tardiva» nonostante la precocità degli esordi, la divisione della sua attività in una «beata fase» che si estende sino al Mondo salvato dai ragazzini e in una fase più tarda segnata dalla pesanteur –, devono essere ripensati alla luce della stessa metamorfica ricchezza culturale dell’opera di Morante, palpabile sia quando la si osservi nel rapporto con gli autori prediletti sia quando ci si volga alla dinamica interna della sua «metastasi» tematica – e si deve l’efficace metafora a Giuseppe Nava, che la utilizzò nel suo intervento al seminale convegno organizzato nel 1994, sempre a Pisa, da Concetta D’Angeli e Giacomo Magrini.

Prima di procedere oltre nella definizione di quelle che mi sembrano le più impellenti questioni, vorrei introdurre, non senza una punta di scherzosità – del resto, come si legge nella Storia, «È uno scherzo / uno scherzo / tutto uno scherzo!» –, una distinzione, tra morantisti e morantiani, che qualche utilità mi sembra possedere nel rendere conto delle sorti critiche di Elsa Morante. Una definizione di “morantiano”, al di là dell’aggettivo riferito a cosa/qualità inerente l’autrice, potrebbe essere: uomo o donna ammaliato/a da Elsa Morante, vuoi per un’amicizia giovanile vuoi per il sortilegio della sua scrittura – e già si intuisce perché una simile definizione non sia esente dalla ‘malattia’ stessa: perché di Elsa Morante effettivamente ci si ammala/ammalia e grazie a lei si ascende al Paradiso degli F.P. (Felici Pochi), che poi così P. non sono, ma sempre meno degli I.M. (Infelici Molti) che sul pianeta Terra non la amano o non la conoscono, «troppo tristi troppo tristi tristi TRISTI» (dalla Canzone degli F.P. e degli I.M.). L’unica cura possibile di fronte al morantianesimo sembra essere il morantismo: il morantiano o la morantiana dovrebbe cercare di essere anche morantista, secondo un trasmutarsi dell’esperienza personale nel metodo, in uno sforzo di oggettività critica di fronte ai testi. Direi quasi, con una dialettica basso/alto presente nella scrittrice sin dagli esordi, un elevarsi delle viscere straziate e conturbate nell’aerea grazia della letterarietà, simile alla capacità del lavoro onirico, riconosciuta dalla stessa autrice, di alleggerire la pesantezza dei ‘sogni processi’: «Un dieci con lode, autore dei sogni» si legge nelle Lettere ad Antonio, note anche come Diario 1938 – ed è questo un testo che è quanto mai importante considerare non un mero diario di sogni, ma una sorta di vademecum della concezione morantiana, al tempo in fieri, della scrittura e, di conseguenza, come un testo che faccia da modello per chi di Elsa Morante vuole scrivere. O, detto altrimenti, ricordarsi che per la Velivola della deliziosa autofinzione Giardino d’infanzia (1939-40) l’uomo favoloso che l’avrebbe rapita e domata era nientemeno che Lindbergh, non certo il miserrimo compagno di scuola che le scriveva «Puella, ego amo te». Questo per dire che se per la giovane Elsa l’amore andava di pari passo con il desiderio di essere domata dall’eroe dei cieli, si può supporre che l’autrice celebrata nel centenario non si accontenterebbe di essere oggetto di una fanhood letteraria. Così, felici i morantiani e le morantiane, ma non meno felici i morantisti e le morantiste che, per quanto stregati/e e innamorati/e, lottano strenuamente con i suoi testi.

Ciò (morantianamente) premesso, qual è lo scopo di questa lotta? Rispondere significa, a mio avviso, enunciare i propositi critici (da morantisti) che il centenario richiede. Direi, quindi, per parafrasare la frase finale dell’Introduzione di Menzogna e sortilegio, che lo scopo complessivo è di uscire dalla camera dei cliché. Che, al di là del suo talento letterario, Elsa Morante fosse, nel bene e nel male, nelle fedeltà e nelle intransigenze, nell’allegria e nella sofferenza, una donna straordinaria – e felici davvero coloro che hanno potuto conoscerla – è talmente fuori discussione che quasi non sembra avere più senso ribadirlo. Voglio dire, di fronte alla stramba situazione familiare dei Morante, alla decisione di andare a vivere da sola a diciotto anni, al matrimonio con Moravia, all’amore ormai reso noto ai quattro venti per Visconti, alla morte dell’amato Bill Morrow, alla malattia senile – e nessuna rivelazione è stato risparmiata, bisogna dire, a un’autrice che alle sue eccentricità private ben poca visibilità pubblica aveva riservato –, nessuno nega la rilevanza di tali dati biografici nella costruzione delle sue opere, così come non difficile è rilevare l’incidenza di alcune costanti psicologiche, come ha fatto Alessandra Ginzburg a proposito del rapporto con la madre. Tuttavia, nel rispetto peraltro di procedure ormai consolidate nella critica di ispirazione biografica o psicoanalitica, si tratta di non trasformare le categorie esistenziali in categorie stilistiche e di considerare il materiale di vita non in rapporto diretto o im-mediato con l’opera, ma all’interno di quello spazio autobiografico in cui matura – ed è quasi lapalissiano ricordarlo – il repertorio tematico di un autore. Così, se i dati biografici ricapitolati sono significativi, lo sono nel momento in cui entrano nei testi e vengono sottoposti a un trattamento letterario: «nei romanzi di Elsa, neppure tanto trasfigurate, ci sono lei e le persone della sua vita e le situazioni tra lei e queste persone. […] il realismo che faceva talmente orrore ad Elsa prendeva la sua rivincita in una capacità sorprendente di rappresentazione del reale quotidiano e autobiografico» ricordava Moravia, come riporta Graziella Bernabò, ed è un’osservazione che, opportunamente filtrata, ci aiuta a comprendere come, ad esempio, in Useppe si possa riconoscere anche una lenta elaborazione del lutto per Bill Morrow. Tanto più rilevante, quindi, all’interno di un simile spazio autobiografico il corpus dei troppo a lungo trascurati testi giovanili, vero e proprio palinsesto dell’opera a venire che quanti intendono occuparsi delle opere maggiori dovrebbero conoscere non solo ‘ad orecchio’.

Se un primo obiettivo critico consiste nel fornire il giusto ruolo – che non è indifferente, ma non può essere prevaricante – agli aspetti biografici, un secondo stereotipo di cui liberarsi riguarda la presunta irriflessività della scrittura morantiana. Ormai quasi vent’anni fa in un contributo compreso in uno dei primi volumi dedicati all’opera morantiana – Per Elsa Morante nella collana di «Linea d’ombra» – Alfonso Berardinelli elencava tre categorie di avversari di Morante: «il fronte […] avanguardistico in senso lato», «un fronte politico, prima prevalentemente populista e poi prevalentemente super-marxista» e «il fronte, infine, definibile “degli scienziati della letteratura”». Ecco, a mio avviso, una disanima del genere rischia di essere, oltre che rivelante delle posizioni del critico, anch’essa stereotipata; fatto salvo il sostanziale anarchismo antiborghese dell’autrice, la sfida è di dimostrare che se l’opera di Morante non può essere certo ricondotta allo sperimentalismo, specie di marca neoavanguardista, non è però meno priva di un’acuta sensibilità metaletteraria. Elsa Morante è una scrittrice fornita di un sapere non sistematico, ma non per questo meno lucido, meno fornito di intrinseca coerenza autoriale: i suoi testi sono labirinti nei quali le scienze letterarie, se tentano di affrontarli con formule o scorciatoie, ottengono solo di smarrirsi, ma che non per questo necessitano di un minore impianto teorico e metodologico. Le opposizioni tematiche all’insegna del doppio, i riusi melodrammatici del tragico, il gioco reciproco tra novel e romance, il sistema dei personaggi affidato alle tre matrici di Achille, Don Chisciotte e Amleto, la dialettica di maschile e femminile, le variazioni sulla parodia, la riduzione narrativa delle suggestioni filosofiche e psicoanalitiche: per studiare Elsa Morante serve una solida consapevolezza teorico-letteraria e metacritica, pena la banalizzazione delle sue scelte diegetiche e delle sue trame, persino dei suoi vezzeggiativi.

E qui si tocca il terzo cliché di cui liberarsi, cioè che Elsa Morante sia una scrittrice apparsa quasi per miracolo nel panorama delle lettere italiane, laddove per capirla è necessaria una chiave comparatistica-intertestuale che la inserisca nelle vicende del romanzo europeo, a partire dal Don Chisciotte e da Madame Bovary, ma senza tralasciare il modernismo e il fantastico psicologico novecentesco – e non sarà un caso che il convegno di Washington si proponga di indagare il rapporto tra la scrittura morantiana e le arti mentre quello di Varsavia si concentrerà sulle tracce dell’intertestualità. A ben vedere, è stato anche a causa di questa dimensione internazionale, su cui, al momento della composizione di Menzogna e sortilegio, si innestava il desiderio di scrivere «l’ultimo romanzo possibile» (dall’intervista del 1968 a Michel David), che Morante può essere risultata indigesta a certa italianistica: non solo perché il suo respiro metaletterario non è riconducibile al mainstream critico dello sperimentalismo, ma perché è un’autrice i cui romanzi, se ci si limita al contesto italiano, sembrano fare storia a sé, scorbutici e insofferenti della mediocrità – e si perdoni qui l’accenno di morantianesimo. Invece, di contro all’idea di un’autrice isolata tanto nell’ispirazione che nella gestione di se stessa, vari studiosi e studiose si sono pazientemente applicati a riconoscere fonti e modelli dietro i travestimenti della morantizzazione dei generi: il Familienroman, il romanzo di formazione, il romanzo storico, ciascuno nei tre primi romanzi e poi tutti insieme rimescolati in Aracoeli. Così, ad esempio, Donatella Diamanti ha rilevato la presenza di Leopardi, Dostoevskij e Baudelaire in Menzogna e sortilegio, Stefania Lucamante ha seguito le tracce di Proust, Concetta D’Angeli ha investigato l’influenza di Simone Weil, così come Claude Cazalé Berard che ha letto Morante anche in parallelo con Pirandello, Saba e Nelly Sachs, per non parlare della densissima monografia di Marco Bardini che ha ripercorso anche itinerari freudiani ed esistenzialisti. In questa direzione sarà rilevante soprattutto riferirsi al riuso morantiano, più che dei generi, dei modi narrativi, ripresi anche attraverso la parodia, come ha mostrato Lucia Dell’Aia. In particolar modo, risulta significativo il rapporto tra l’universo romanzesco e il modello tragico, che trova una speciale realizzazione nella Serata a Colono, ma si dipana nel corso delle opere in nome di una teatralizzazione del narrativo su cui possono esercitarsi anche indagini body oriented, queer e persino transgender, come già accaduto a proposito di Aracoeli nel convegno berlinese del 2008 organizzato da Manuele Gragnolati. Sotto il segno di Dioniso, al quale contrapponeva lo sforzo apollineo della forma, l’opera di Elsa Morante si rivela così un campo fertile anche per gli studi culturali, come può mostrare, a partire da un recentissimo saggio di Massimo Fusillo, la possibilità di prendere in esame la ricorrenza degli oggetti-feticcio nella sua opera. E c’è da dire che di fronte a questi nuovi itinerari di ricerca sorge il sospetto che si possa coinvolgere la figura di Morante anche in un discorso sul complesso e non privo di contraddizioni passaggio in Italia dal modernismo al postmodernismo.

Come fare per raggiungere questi obiettivi critici? Anzitutto, si tratterà di concentrarsi sempre più sui testi, come già avviato negli anni novanta dalla scuola pisana nonché da Giovanna Rosa e Hanna Serkowska, anche alla luce dei materiali adesso consultabili presso la Biblioteca Nazionale di Roma dopo le donazioni degli eredi. I manoscritti e i materiali vari, ordinati con precisione dall’autrice stessa, tra cui spiccano i quaderni dove è stratificata la redazione dei romanzi, già da tempo sono esplorati dai/dalle morantisti/e, non di rado giovani laureandi/e o dottorandi/e che con entusiasmo si sono avventurati/e, per dirla con spirito morantiano, nell’Estero genetico che circonda i libri licenziati dalla scrittrice; più che costruire titaniche edizioni critiche si tratterà, però, di capire il gioco delle varianti, di trovare appunti o riferimenti che possano costituire fari per la rotta delle interpretazioni e bussole per orientarsi nei labirinti dei testi definitivi. Soprattutto – ed è questo l’orizzonte di attualità nel quale si dovrà inserire ogni ricerca –, si tratterà di capire quale possa essere il valore modellizzante della prosa di Elsa Morante nella scrittura contemporanea: è un’autrice che, al pari di altri giganti novecenteschi, ci fa l’effetto di un amatissimo dinosauro estinto oppure si può riconoscere una qualche funzione-Morante ancora attiva e vitale? Ai critici militanti l’ardua sentenza, ma sembra difficile, anche alla luce dei nuovi possibili percorsi interpretativi cui si è accennato, trascurare la finezza rappresentativa dei caratteri e degli ambienti; in più, da Elsa Morante proviene una lezione di equilibrio tra coscienza metaletteraria e affabulazione romanzesca che sia i virtuosi della sperimentazione che i gigioni dell’ultraleggibilità non farebbero male, in questi tempi di post-postmodernismo o ipermodernismo che dir si voglia, a tener presente.

[Immagine: Valeria Cardemartori, Elsa Morante (gm)].

4 thoughts on “Uscire dalla camera dei cliché. La critica su Elsa Morante nel centenario dell’autrice

  1. “Il disonore dell’uomo è il Potere. Il quale si configura immediatamente nella società umana, universalmente e da sempre fondata e fissa sul binomio: padroni e servi – sfruttati e sfruttatori”. Elsa Morante, Piccolo manifesto dei comunisti (senza classe e senza partito), 1970 (o ’71).

    “Il mondo per me non ha più un senso”, ripeteva la Morante negli ultimi anni. Un dialogo con lei, in quei momenti, era difficile; anche per gli amici. Anna Banti diceva che, al tentativo di conversazione per telefono, avvertiva dall’altra parte solo un pianto ininterrotto. Vi sono luoghi e situazioni – le cliniche, per esempio – che non destano altro che disperazione. Ad Elsa Morante sembrava di essere uscita dal proprio mondo, di averlo perduto; forse per sempre. Pochi amici intimi approdarono a quella stanza: Natalia Ginzburg, qualche familiare, la fedele Lucia. Si alternavano le infermiere, tra cui l’assistente Patrizia Santini e spesso i suoi amici, Carlo Cecchi, Goffredo Fofi, Alfonso Berardinelli.

    Elsa Morante era ricoverata nella sezione neurochirugica di Villa Margherita, a Roma. La paziente si era anche rotta il femore per la seconda volta. Era seguito un tentativo di suicidio. Dice il saggista Goffredo Fofi: “Dopo il suo ultimo ricovero in clinica, Elsa era rimasta appena un giorno e mezzo nella sua casa di via dell’Oca a Roma. Più grave era la confusione, più grande la disperazione. Ma la disperazione della paziente costituiva un ostacolo alla cura, una sorta di ‘resistenza’ che la stessa paziente opponeva alle cure mediche. Ma stava già male mentre scriveva Aracoeli. La Morante era abituata a fare tre, quattro stesure di un suo libro. Questa volta non era arrivata alla seconda poiché le tremava troppo la mano”.

    Già dagli anni settanta (La Storia è uscita nel 1974), eravamo abituati a vedere la vita della Morante come una successione discontinua di stati frammentari, con questo solo di comune: la direzione verso la morte. Ma perché questa profonda disperazione individuale? La risposta a questo interrogativo è dell’italianista e critico letterario Alfonso Berardinelli, grande amico della scrittrice: “Ogni sforzo per analizzare la vita privata della Morante attraverso dei dati esterni è inutile. Tutto quello che apparteneva alla sfera intima della Morante si ritrovava all’interno di Aracoeli. Tutte le vicende degli ultimi suoi anni erano scritte nel libro”.

    Che la Morante fosse un campione di tolleranza, soprattutto con i cronisti indiscreti (e pettegoli) che l’assediavano, non si poteva proprio dire. Le pareva una profanazione di cattivo gusto il tentativo di inquisire e giudicare, in un’esistenza. Dall’ultimo suo romanzo, Aracoeli, giunge quasi un divieto: “Da vedere non c’è niente” e “non c’è niente da capire”. E’ arrivato il momento di porsi la domanda: la disperazione ha un senso? Per quanto riguarda la disperazione nella cultura contemporanea, più specificatamente nella narratrice Morante, essa si ricollega in parte alle disillusioni di origine storica o ideologica (… quanti compagni del ’68 tra le persone a lei care!); ma soprattutto questa perdita di speranza era legata ai fatti concreti della vita, agli affetti o memorie (spesso tragiche) di alcuni intellettuali suoi amici: Saba (morto disperato), Penna (morto nell’indigenza), Pasolini (morto ammazzato). Ma anche a vicende meno note come il suicidio dell’amico pittore Bill Morrow; un caso di suicidio di cui era quasi una testimone. Era proprio lei, infatti, a sostenere che il suicidio è il peggiore dei delitti, perché non comporta pentimento. Quindi, un processo continuo di identificazione ed introiezione. Infine, con l’immobilità fisica, con le complicazioni cerebrali, i pochi tentativi di risollevarsi finivano per alienare ancor di più la persona da se stessa. Non poteva più scrivere, né agire come una persona viva. Inutile dire come una tale rigida restrizione nei movimenti non solo le impoveriva la vita, ma rendeva sempre più grave la sua dipendenza dagli altri.

    E’ possibile formulare delle ipotesi sulla personalità psichica della Morante e tentare una psicoanalisi della sua vita affettiva? E’ la domanda posta ad Alfonso Berardinelli. E la sua risposta: “Ancora una volta devi trovare le ragioni dell’ultima Morante in Aracoeli. E’ un processo di sdoppiamento e di diversificazione che la stessa Morante tende a spiegare: ‘Arrivo a consumare intere giornate in dibattiti a più voci… Dico a più voci, sebbene, in realtà, la voce fosse una sola: la mia… la mia propria voce che parla. E, in certi casi, varia timbri e toni: e si raddoppia, e si moltiplica e disputa e si affolla’”.

    In un incontro tra amici, in compagnia del musicologo Paolo Terni e di Ida Einaudi, figlia dell’editore Giulio Einaudi, Elsa Morante parlava dei ricordi che le aveva suggerito la partita di football del ragazzo Useppe ne La Storia. Sembrava il resoconto di un sogno. Elsa raccontava di sé bambina e adolescente: una progressione di episodi felici, e rideva. Diceva che Useppe de La Storia era quasi suo figlio, e ricordava come, per narrare una partita a pallone del ragazzo, era andata ad osservare la frequenza del riso nei bambini che si rincorrono. La solennità dei giochi infantili!… “Da bambina vivevo in un quartiere della periferia romana (Testaccio), con dei campi da gioco, non molto lontano. Nei giorni di festa, i ragazzi infilavano la maglia e correvano ad improvvisare due porte per giocare a pallone. La mattina, il pomeriggio, tiravano calci al loro bel pallone e segnavano dei goals. Nella mia stanza udivo il rumore del pallone che rimbalzava e la gioia mi riempiva il cuore. Tornavano a casa affamati, rossi in volto e senza fiato”.

    Ma, subito dopo, l’onda grigia e acre del rimpianto travolgeva la sua mente: “Qual è la persona che hai amato di più?”, le chiedevano. Risposta: “Moravia. Perché è innocente. Da giovane, mi piaceva credere che l’infanzia, l’innocenza dell’infanzia non sarebbe cambiata mai. Invece, tutto è cambiato e adesso né di quell’immagine, né di me stessa resta più nulla di com’era un tempo”.

    Elsa nella casa di via dell’Oca: vetrine di legno chiaro, poltrone di canapa, tappeti di spago, i libri nascosti nel sottotetto. Parlava di gatti, della sua Marzolina. Armonizzava la gioia con una disperata meraviglia. Raccontava di sé bambina e adolescente, una progressione di episodi felici, e rideva: un riferimento costante all’epoca in cui tutto era ancora da decidere. Nutriva una speranza così grande per un ragazzo suo coetaneo ch’era sproporzionata per il suo piccolo cuore. Perfino il linguaggio era troppo ridotto per potersi esprimere. Si faceva bella, poiché le era più caro della vita, ma il ragazzo aveva un viso duro e un pudore selvaggio che a lei pareva disinteresse.

    Il resoconto d’un sogno! Tutta l’opera della Morante pare essere sotto l’effetto onirico. Un sogno autobiografico. Un sogno riferito da un io recitante, protagonista e interprete.

    La prima impressione che sapeva suscitare era d’irrealtà, di freddo, di timore. Poiché, se qualcuno la incontrava mediante i canali ufficiali, lei manifestava un timore quasi patologico. Allora i suoi tratti si irrigidivano e conservavano a lungo un’espressione di sofferenza e di stupore.

    Considerava Useppe de La Storia il proprio figlio. A se stessa, più che ai lettori, affidava quel personaggio suscettibile di ulteriori destini nella vita nascosta di ciascuno di loro. Verso la fine del romanzo, prega: “Che mi si lasci, dunque, restare ancora per un poco in compagnia del mio pischelluccio, prima di tornarmene sola al secolo degli altri”.

    E’ compito arduo, dunque, formulare delle ipotesi sulla personalità psichica della Morante e tentare una psicoanalisi della sua vita affettiva. Parole, pause della voce, qualità del silenzio, linguaggio indicavano in lei un processo continuo di depersonalizzazione a tutto vantaggio dell’opera, del romanzo. Peccato che la letteratura possa esprimersi solo mediante la scrittura e non mediante la parola gestuale, il linguaggio pittorico dei sogni, delle visioni, che hanno particolarità idiomatiche speciali, se contrapposte alla lingua dei “linguisti”. Così, il linguaggio della Morante è costituito da un’eterogeneità del significante per cui sarebbe da preferire il termine di “discorso” o “flusso” psichico. Scoperto, il meccanismo psichico dell’identificazione nel racconto di Elisa in Menzogna e sortilegio: “Finito è d’ora innanzi il mio privilegio d’assistere, sola spettatrice, a una commedia di spiriti. Non udirete più da me la voce molteplice della dormiente. Una lucida insonnia s’impadronisce di me, e io, nella camera taciturna e spopolata, altro non potrò interrogare d’ora innanzi che la mia vera memoria”.

    E’ solo una traccia di quell’”ansia espressiva abnorme” di cui parla Pasolini riguardo all’autentica freudiana Elsa Morante, che raggiunge profondità di scrittura grazie agli “abissi” dell’inconscio.

  2. “Il disonore dell’uomo è il Potere. Il quale si configura immediatamente nella società umana, universalmente e da sempre fondata e fissa sul binomio: padroni e servi – sfruttati e sfruttatori”,
    Elsa Morante,
    Piccolo manifesto dei comunisti (senza classe e senza partito),
    1970 (o ’71).

    “Il mondo per me non ha più un senso”, ripeteva la Morante negli ultimi anni. Un dialogo con lei, in quei momenti, era difficile; anche per gli amici. Anna Banti diceva che, al tentativo di conversazione per telefono, avvertiva dall’altra parte solo un pianto ininterrotto. Vi sono luoghi e situazioni – le cliniche, per esempio – che non destano altro che disperazione. Ad Elsa Morante sembrava di essere uscita dal proprio mondo, di averlo perduto; forse per sempre. Pochi amici intimi approdarono a quella stanza: Natalia Ginzburg, qualche familiare, la fedele Lucia. Si alternavano le infermiere, tra cui l’assistente Patrizia Santini e spesso i suoi amici, Carlo Cecchi, Goffredo Fofi, Alfonso Berardinelli.

    Elsa Morante era ricoverata nella sezione neurochirugica di Villa Margherita, a Roma. La paziente si era anche rotta il femore per la seconda volta. Era seguito un tentativo di suicidio. Dice il saggista Goffredo Fofi: “Dopo il suo ultimo ricovero in clinica, Elsa era rimasta appena un giorno e mezzo nella sua casa di via dell’Oca a Roma. Più grave era la confusione, più grande la disperazione. Ma la disperazione della paziente costituiva un ostacolo alla cura, una sorta di ‘resistenza’ che la stessa paziente opponeva alle cure mediche. Ma stava già male mentre scriveva Aracoeli. La Morante era abituata a fare tre, quattro stesure di un suo libro. Questa volta non era arrivata alla seconda poiché le tremava troppo la mano”.

    Già dagli anni settanta (La Storia è uscita nel 1974), eravamo abituati a vedere la vita della Morante come una successione discontinua di stati frammentari, con questo solo di comune: la direzione verso la morte. Ma perché questa profonda disperazione individuale? La risposta a questo interrogativo è dell’italianista e critico letterario Alfonso Berardinelli, grande amico della scrittrice: “Ogni sforzo per analizzare la vita privata della Morante attraverso dei dati esterni è inutile. Tutto quello che apparteneva alla sfera intima della Morante si ritrovava all’interno di Aracoeli. Tutte le vicende degli ultimi suoi anni erano scritte nel libro”.

    Che la Morante fosse un campione di tolleranza, soprattutto con i cronisti indiscreti (e pettegoli) che l’assediavano, non si poteva proprio dire. Le pareva una profanazione di cattivo gusto il tentativo di inquisire e giudicare, in un’esistenza. Dall’ultimo suo romanzo, Aracoeli, giunge quasi un divieto: “Da vedere non c’è niente” e “non c’è niente da capire”. E’ arrivato il momento di porsi la domanda: la disperazione ha un senso? Per quanto riguarda la disperazione nella cultura contemporanea, più specificatamente nella narratrice Morante, essa si ricollega in parte alle disillusioni di origine storica o ideologica (… quanti compagni del ’68 tra le persone a lei care!); ma soprattutto questa perdita di speranza era legata ai fatti concreti della vita, agli affetti o memorie (spesso tragiche) di alcuni intellettuali suoi amici: Saba (morto disperato), Penna (morto nell’indigenza), Pasolini (morto ammazzato). Ma anche a vicende meno note come il suicidio dell’amico pittore Bill Morrow; un caso di suicidio di cui era quasi una testimone. Era proprio lei, infatti, a sostenere che il suicidio è il peggiore dei delitti, perché non comporta pentimento. Quindi, un processo continuo di identificazione ed introiezione. Infine, con l’immobilità fisica, con le complicazioni cerebrali, i pochi tentativi di risollevarsi finivano per alienare ancor di più la persona da se stessa. Non poteva più scrivere, né agire come una persona viva. Inutile dire come una tale rigida restrizione nei movimenti non solo le impoveriva la vita, ma rendeva sempre più grave la sua dipendenza dagli altri.

    E’ possibile formulare delle ipotesi sulla personalità psichica della Morante e tentare una psicoanalisi della sua vita affettiva? E’ la domanda posta ad Alfonso Berardinelli. E la sua risposta: “Ancora una volta devi trovare le ragioni dell’ultima Morante in Aracoeli. E’ un processo di sdoppiamento e di diversificazione che la stessa Morante tende a spiegare: ‘Arrivo a consumare intere giornate in dibattiti a più voci… Dico a più voci, sebbene, in realtà, la voce fosse una sola: la mia… la mia propria voce che parla. E, in certi casi, varia timbri e toni: e si raddoppia, e si moltiplica e disputa e si affolla’”.

    In un incontro tra amici, in compagnia del musicologo Paolo Terni e di Ida Einaudi, figlia dell’editore Giulio Einaudi, Elsa Morante parlava dei ricordi che le aveva suggerito la partita di football del ragazzo Useppe ne La Storia. Sembrava il resoconto di un sogno. Elsa raccontava di sé bambina e adolescente: una progressione di episodi felici, e rideva. Diceva che Useppe de La Storia era quasi suo figlio, e ricordava come, per narrare una partita a pallone del ragazzo, era andata ad osservare la frequenza del riso nei bambini che si rincorrono. La solennità dei giochi infantili!… “Da bambina vivevo in un quartiere della periferia romana (Testaccio), con dei campi da gioco, non molto lontano. Nei giorni di festa, i ragazzi infilavano la maglia e correvano ad improvvisare due porte per giocare a pallone. La mattina, il pomeriggio, tiravano calci al loro bel pallone e segnavano dei goals. Nella mia stanza udivo il rumore del pallone che rimbalzava e la gioia mi riempiva il cuore. Tornavano a casa affamati, rossi in volto e senza fiato”.

    Ma, subito dopo, l’onda grigia e acre del rimpianto travolgeva la sua mente: “Qual è la persona che hai amato di più?”, le chiedevano. Risposta: “Moravia. Perché è innocente. Da giovane, mi piaceva credere che l’infanzia, l’innocenza dell’infanzia non sarebbe cambiata mai. Invece, tutto è cambiato e adesso né di quell’immagine, né di me stessa resta più nulla di com’era un tempo”.

    Elsa nella casa di via dell’Oca: vetrine di legno chiaro, poltrone di canapa, tappeti di spago, i libri nascosti nel sottotetto. Parlava di gatti, della sua Marzolina. Armonizzava la gioia con una disperata meraviglia. Raccontava di sé bambina e adolescente, una progressione di episodi felici, e rideva: un riferimento costante all’epoca in cui tutto era ancora da decidere. Nutriva una speranza così grande per un ragazzo suo coetaneo ch’era sproporzionata per il suo piccolo cuore. Perfino il linguaggio era troppo ridotto per potersi esprimere. Si faceva bella, poiché le era più caro della vita, ma il ragazzo aveva un viso duro e un pudore selvaggio che a lei pareva disinteresse.

    Il resoconto d’un sogno! Tutta l’opera della Morante pare essere sotto l’effetto onirico. Un sogno autobiografico. Un sogno riferito da un io recitante, protagonista e interprete.

    La prima impressione che sapeva suscitare era d’irrealtà, di freddo, di timore. Poiché, se qualcuno la incontrava mediante i canali ufficiali, lei manifestava un timore quasi patologico. Allora i suoi tratti si irrigidivano e conservavano a lungo un’espressione di sofferenza e di stupore.

    Considerava Useppe de La Storia il proprio figlio. A se stessa, più che ai lettori, affidava quel personaggio suscettibile di ulteriori destini nella vita nascosta di ciascuno di loro. Verso la fine del romanzo, prega: “Che mi si lasci, dunque, restare ancora per un poco in compagnia del mio pischelluccio, prima di tornarmene sola al secolo degli altri”.

    E’ compito arduo, dunque, formulare delle ipotesi sulla personalità psichica della Morante e tentare una psicoanalisi della sua vita affettiva. Parole, pause della voce, qualità del silenzio, linguaggio indicavano in lei un processo continuo di depersonalizzazione a tutto vantaggio dell’opera, del romanzo. Peccato che la letteratura possa esprimersi solo mediante la scrittura e non mediante la parola gestuale, il linguaggio pittorico dei sogni, delle visioni, che hanno particolarità idiomatiche speciali, se contrapposte alla lingua dei “linguisti”. Così, il linguaggio della Morante è costituito da un’eterogeneità del significante per cui sarebbe da preferire il termine di “discorso” o “flusso” psichico. Scoperto, il meccanismo psichico dell’identificazione nel racconto di Elisa in Menzogna e sortilegio: “Finito è d’ora innanzi il mio privilegio d’assistere, sola spettatrice, a una commedia di spiriti. Non udirete più da me la voce molteplice della dormiente. Una lucida insonnia s’impadronisce di me, e io, nella camera taciturna e spopolata, altro non potrò interrogare d’ora innanzi che la mia vera memoria”.

    E’ solo una traccia di quell’”ansia espressiva abnorme” di cui parla Pasolini riguardo all’autentica freudiana Elsa Morante, che raggiunge profondità di scrittura grazie agli “abissi” dell’inconscio.

  3. ELSA MORANTE, PICCOLO MANIFESTO DEI COMUNISTI (SENZA CLASSE E SENZA PARTITO

    Ritrovato da Carlo Cecchi e Cesare Garboli tra le carte della Morante, questo testo aveva una precedente stesura, poi rielaborata, compresa in una lettera non spedita, scritta presumibilmente attorno alla Pasqua del ’70 o ’71. Essa iniziava così: “Caro Goffredo, da parte dell’amico nostro Bellarmino ti mando questo” e così terminava: “Firmato: Un commensale contenuto nel Dizionario e contenente il Dizionario nell’imminenza del Ta-ta-ta”. Elsa Morante si riferiva al romanzo di Ramòn Pérez de Ayala Bellarmino e Apollonio, ristampato dalla Sansoni, fattole leggere da Goffredo Fofi, il cui protagonista è un ciabattino filosofo che sintetizza la sua “visione del mondo” nella affermazione: “Chi mangia sta di fronte al Dizionario nel parapiglia fino al Ta-ta-ta”.

    1. Un mostro percorre il mondo: la falsa rivoluzione.

    2. La specie umana si distingue da quella degli altri viventi per due qualità precipue. L’una costituisce il disonore dell’uomo; l’altra, l’onore dell’uomo.

    3. Il disonore dell’uomo è il Potere. Il quale si configura immediatamente nella società umana, universalmente e da sempre fondata e fissa sul binomio: padroni e servi – sfruttati e sfruttatori.

    4. L’onore dell’uomo è la libertà dello spirito. E non occorrerebbe precisare che qui la parola spirito (non foss’altro che sulla base delle scienze attuali) non significa quell’ente metafisico-etereo (e alquanto sospetto) inteso dagli “spiritualisti” e dalle comari; ma anzi la realtà integra, propria e naturale dell’uomo.
    Questa libertà dello spirito si manifesta in infiniti e diversi modi, che tutti significano la stessa unità, senza gerarchie di valori. Esempio: la bellezza e l’etica sono tutt’uno. Nessuna cosa può essere bella se è un’espressione della servitù dello spirito, ossia un’affermazione del Potere. E viceversa. Così per esempio il Discorso sulla montagna, o i Dialoghi di Platone, o il Manifesto di Marx-Engels, o i Saggi di Einstein sono belli; allo stesso modo che sono morali l’Iliade di Omero, o gli Autoritratti di Rembrandt, o le Madonne di Bellini, o le poesie di Rimbaud. Difatti tutte queste opere (né più né meno delle tante possibili azioni che le equivalgono) sono tutte, in se stesse, affermazioni della libertà dello spirito, e di conseguenza, qualunque siano le contingenze storiche e sociali nelle quali vengono a esprimersi, esse non sono determinate essenzialmente da nessuna classe e appartengono finalmente a tutte le classi. Giacché per definizione esse negano il Potere, di cui la divisione degli uomini in classi è una delle tante pretese aberranti.

    5. In quanto onore dell’uomo, per definizione la libertà dello spirito sia come espressione che come godimento, è dovuta a tutti gli uomini. Ogni uomo ha il diritto e il dovere di esigere per sé e per tutti gli altri la libertà dello spirito.

    6. Tale esigenza universale non può essere attuata finché esiste il Potere. Difatti è evidente che essa è negata in principio sia allo sfruttato che allo sfruttatore, sia al padrone che al servo.

    7. Ne deriva l’assoluta necessità della rivoluzione, che deve liberare tutti gli uomini dal Potere affinché il loro spirito sia libero. Il solo fine della rivoluzione è di liberare lo spirito degli uomini, attraverso l’abolizione totale e definitiva del Potere.

    8. Per una legge inevitabile (e sempre confermata dai fatti) è impossibile arrivare alla libertà comune dello spirito attraverso il suo contrario. La rivoluzione, per attuare il proprio fine di liberazione, deve porselo anzitutto come inizio e principio. Chiunque schiavizza il proprio e l’altrui spirito con una promessa di una liberazione “mistica” e postrema è lui stesso uno schiavo, e in più un truffatore e uno sfruttatore. Né più né meno dei Gesuiti e controriformisti – di Maometto che mandava i suoi “fedeli” a distruggersi in vista del “Paradiso” delle Urì – di Hitler e Mussolini che sterminavano le nazioni in vista delle “glorie nazionali” – di Stalin che castrava e martirizzava i popoli in vista del “bene del popolo” ecc. ecc. ecc.

    9. Una rivoluzione che ribadisce il Potere è una falsa rivoluzione. Nessun proletariato (né più né meno che se fosse una monarchia, o aristocrazia, o teocrazia, o borghesia, o via dicendo) potrà mai attribuirsi o attuare la rivoluzione, se non ha lo spirito libero dai germi del Potere. Nessuno infatti può comunicare agli altri quello che non ha, e non si può presumere di far crescere la guarigione coi semi della peste.

    10. In una società fondata sul Potere (come TUTTE le società finora esistite e oggi esistenti) un rivoluzionario non può fare altro che porsi (foss’anche solo) contro il Potere, affermando (coi mezzi e dentro i limiti personali, naturali e storici che gli sono concessi) la libertà dello spirito dovuta a tutti e a ciascuno. E questo, è suo diritto e dovere di farlo a qualunque costo: anche, in ultima istanza, a costo di creparci. E’ quanto hanno fatto Cristo, Socrate, Giovanna D’Arco, Mozart, Cechov, Giordano Bruno, Simone Weil, Marx, Che Guevara, ecc. ecc. ecc. E’ quanto fa un bracciante che si rifiuta a un sopruso, un ragazzino che si nega a un insegnamento degradato, un insegnante idem, un fabbro che fabbrica un chiodo quadripunte contro gli automezzi nazisti, un operaio che sciopera per opporsi allo sfruttamento, ecc. ecc. ecc. Simili opere, o azioni, nell’affermare, ciascuna coi propri mezzi, la libertà dello spirito contro il disonore dell’uomo, sono tutte allo stesso titolo belle e morali. E per definizione, esse non sono distinzione e proprietà di una classe, ma dell’uomo assolutamente in quanto tale, secondo quanto è affermato ai paragrafi 2 e 4.

    11. Se in nome della rivoluzione si riafferma il potere, questo significa che la rivoluzione era falsa, o è già tradita.

    12. Qualunque rivoluzionario (foss’anche Marx o Cristo) che si riadatti al Potere (o assumendolo, o amministrandolo, o subendolo) da quel momento stesso cessa di essere un rivoluzionario, e diventa uno schiavo e un traditore.

    13. Supponiamo adesso un individuo solo, davanti a un fabbricato in preda a un incendio. Attraverso una finestra aperta (unico adito accessibile, anche se rischioso) l’individuo scorge un bambino solo, che sta per essere investito dalle fiamme. L’uomo penetra nel vano e a proprio rischio salva il bambino. E sarebbe evidentemente un pazzo criminale, chi lo accusasse di avere commesso un atto antisociale e ingiusto, perché, nell’impossibilità di salvare gli altri abitanti del fabbricato, non ha lasciato bruciare vivo anche quest’unico bambino. L’uomo che (c.s. coi mezzi e dentro i limiti personali, naturali e storici che gli sono concessi) afferma la libertà dello spirito contro il Potere, e dunque anche contro le false rivoluzioni, compie la vera Lunga Marcia, anche se rimane chiuso tutta la vita dentro un carcere. Questo ha fatto Gramsci. In mancanza di compagni o di seguaci, di ascoltatori o di spettatori, lo spirito libero è tenuto alla sua lunga marcia lo stesso, anche solo di fronte a sé stesso e dunque a Dio. Niente va perduto (v. il granello di senape e il pizzico di lievito); e, in conseguenza, chiunque schiavizza, sotto qualsiasi pretesto, il proprio spirito, si fa agente con questo del disonore dell’uomo. Doppiamente disgraziato è chi si adopera a diffondere il contagio fra gli altri e tanto più miserabile se lo fa in vista o per il gusto di un proprio potere personale.
    Servirsi a fini di potere degli sfruttati (anche solo del loro nome) è la peggiore forma di sfruttamento possibile. Peggio per chi lo fa a proprio beneficio personale. Proclamare il proprio amore per gli operai può riuscire un comodo alibi per chi non ama nessun operaio, e nessun uomo.
    Una folla consapevole che afferma la libertà dello spirito è uno spettacolo sublime. E una folla accecata che esalta il Potere è uno spettacolo osceno: chi si rende responsabile di una simile oscenità farebbe meglio a impiccarsi.

  4. Elsa Morante, è una delle scrittrici più strane e misteriose della letteratura italiana. Di gran valore e portatrice d’innovazioni straordinarie. “L’isola di Arturo” è un testo meraviglioso, pieno di freschezza e di dolcezza.

    La vidi di persona una volta in un congresso al Parco dei Principi di Roma, dedicato alla Spagna dopo il 1975, che nascosta dietro gli occhiali da sole e un foulard in testa era accompagnata da un amico (non so chi potesse essere) che parlò per lei, dopo gl’interventi di diversi giornalisti. Era un breve testo in cui si lamentava (giustamente) dei tagli che avevano infflitto a un suo romanzo tradotto allo spagnolo. Poteva essere “la Storia”? Comunque, mi dispiacque molto per la ingiustizia e soprattutto per la brutta figura che faceva allora ( solo allora?) la Spagna. La ricordo piccola, un po’ nascosta, che voleva passare inosservata. Ma cionostante era impossibile non accorgersi dell’aura che emanava il suo volto. Non lo dimenticherò mai.
    Non conosco tutta la sua opera. Ma per quello che ho letto, la considero una autrice di gran taglia, e quest’anno nel centenario farò di tuuto per leggere più libri suoi. “La Storia” mi piace tanto quanto mi fa stare male. Struggente è una parola addata?

    Mi piace molto tutto quello che Garboli ha scritto su di lei. Sono pagine si rara conoscenza di un critico per uno scrittore e la sua esemplarità è clamorosa.Di sicuro averla conosciuta da vicino deve essere stato determinante.

    Ma sono davvero interessanti le molte notizie nuove che l’articolo di Sergio Falcone apporta.

    Sopprattuto il lato così tragico e umano della scrittrice viene svelato con gran delicatezza e acume.

    Tutti i miei complimenti più entusiasti per contibuire a far conoscere ancor di più la vostra grande Elsa Morante.

    Tanti Complimenti per Le parole e le cose e Auguri . anna maria saludes amat

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