a cura di Francesco Diaco
[Dal 25 dicembre al 4 gennaio LPLC sospende la sua programmazione ordinaria. In questi giorni, per non lasciare soli i nostri lettori, ripubblicheremo alcuni post. L’intervista che segue è uscita il 24 settembre 2012]
FD: Iniziamo con una domanda su editoria e web. Alla luce della situazione dell’editoria contemporanea, segnata dal passaggio da una politica di profitto sul totale delle pubblicazioni a un’altra di profitto su ogni singolo addendo1, qual è la sua opinione sulle novità apportate dalla diffusione di blog letterari e dalle pratiche di self-publishing? Nel suo ultimo libro, Il Sessantotto realizzato da Mediaset2, si leggono posizioni piuttosto nette relative alla necessità di un filtro costituito dalla critica.
VM: Devo confessare che ho un’unica forte riserva sui blog: la questione delle competenze. Per non cadere in equivoci, preciso subito che la differenza tra rete ed editoria non ha nulla a che fare con il supporto, cioè con il cartaceo. L’attendibilità e il valore di un editore non dipendono dalla cellulosa, bensì da un sistema di filtri, di cooptazione. Recentemente mi è capitato di ripubblicare un libro che avevo tradotto e ho passato un mese al telefono, parlando di virgole e paragrafi. Io ero entusiasta, il redattore era stupefatto. Per me sembrava un sogno l’idea che un’altra persona si dedicasse esclusivamente a migliorare il mio lavoro. Dunque, durante questa esperienza c’è stata una vera collaborazione: in molti casi ho rifiutato quanto mi suggeriva, in moltissimi l’ho accettato, a cominciare dai refusi per arrivare a soluzioni vere e proprie. Cosa significa un editore? L’editore è per me un sistema di protezione e di vaglio che, se funziona, drena – letteralmente – i materiali dell’organismo sociale e culturale. Ecco perché un tempo sul «Corriere della Sera» c’erano Caproni e Macchia e oggi c’è D’Orrico. Quello che sta accadendo è che siamo in dialisi, dal momento che non ci sono più filtri. Infatti, D’Orrico non è un critico letterario – l’ha detto molto bene Tiziano Scarpa – D’Orrico è un book-jockey, così come esistono i disc-jockey. Chiamereste voi musicologo Albertino? No, semplicemente si tratta di cose ben diverse. D’Orrico ha meno competenze, certamente non è al livello di Mengaldo, eppure sul «Corriere» non scrive Mengaldo. Ma arrivo al punto: il mio problema verso i blog è l’equivoco che alimentano nell’interpellare il lettore. A mio avviso, il lettore – voglio essere molto drastico – non deve avere voce in capitolo, come si diceva un tempo nelle abbazie. Durante il capitolo, l’assemblea, il lettore non ha il diritto parlare perché parlano gli specialisti, i competenti. Come si creano queste competenze? Attraverso un sistema di selezione che un tempo funzionava: laurea, biennio, dottorato, ricercatorato, etc. Quando questo non funziona, ci sono comunque altre forme di formazione: conosco varie persone di valore che non sono nell’accademia. Ecco, io proporrei il sistema delle ore di lettura, come i piloti d’aereo. Quando si può pilotare un jumbo? Quando, per ricorrere a un’iperbole, si sono fatte 8000 ore di volo. Quando puoi scrivere il tuo parere su un libro? Quando hai letto 8000 libri di teoria, di narrativa, di poesia; altrimenti non puoi parlare. Io non voglio sapere i pareri dei lettori, non mi interessano: deve essere vietato al lettore di parlare. Ma parto dalla grande idea di Borges per cui io vado molto più fiero del mio lavoro di lettore che di quello di scrittore. Essere lettori è una cosa importantissima. Questa specie di todos caballeros, questa gara a diventare tutti critici è insensata perché il lettore ha di per sé un’enorme, un’immensa dignità. I blog hanno questo rischio, trasformano i lettori in studiosi: questo non è possibile. FD: C’è anche un elemento di narcisimo? VM: Certamente, di narcisismo. Non parliamo poi delle discussioni che si trasformano in risse. Io non ho mai visto un’aggressività tale, attacchi personali pieni di violenza e astio. Ma tutto ciò è solo un lato sociologicamente interessante. Quello che per me è importante è dare allo studioso la competenza che gli spetta. Io non mi farei cavare i denti da un lettore di “Ortopedia oggi”, voglio un dentista. Non capisco perché quando si parla di letteratura le competenze debbano svanire. Lo stesso per quanto riguarda il cinema, è un’arte complicata. Certo è giusto che si discuta sui film, ma al bar, al caffè con gli amici. FD: Talvolta gli stessi letterati si improvvisano esperti cinematografici. VM: Per me è sbagliatissimo, ha potuto funzionare per Moravia o Lodoli, ma queste sono geniali eccezioni. Per parlare di cinema bisogna averlo studiato a fondo, conoscere la teoria e la prassi del montaggio, la sua storia, i rapporti tra sceneggiatori, produttori e attori. Come in storia dell’arte bisogna conoscere i committenti. Ecco, io trovo che il blog tenda a cancellare tutto questo, fenomeno per me estremamente grave. Il lettore legga, mi sembra già moltissimo.
FD: Spesso si afferma che lei è un poeta ironico. Io non sono affatto d’accordo con questa vulgata: in Ora serrata retinae3 riconosco, semmai, un’ironia romantica, schlegeliana, nel senso di sdoppiamento, fino al vedersi vedersi di Valéry. Ma la Stimmung di fondo mi pare sia seria e tragica. Gli elementi di ironia e autoironia fanno la loro comparsa quando cade una prima barriera, quella della sublimazione, cioè quando, in particolare a partire da Esercizi di tiptologia4, si parla del sé in modo più esplicito (infanzia, manie, viaggi). La presunta cifra ironica, associata all’anno del Suo esordio (1980 come soglia simbolica epocale) e ai temi dominanti nelle prime raccolte, l’ha fatta spesso associare al Postmodernismo. In effetti, inizialmente lei ha indagato questioni gnoseologiche, filosofiche e percettive piuttosto che politico-sociali. Se pensiamo a Pasolini o a Fortini si nota subito la differenza. Tuttavia, in seguito lei è arrivato a legare queste due dimensioni (penso a Disturbi del sistema binario5). Riassumendo: lei si riconosce in una posizione ironica, ludica e postmoderna o, piuttosto, il suo intento è di associare l’aspetto filosofico a quello sociale, in un percorso che partendo dalla fondazione del soggetto conoscente giunge poi ad aprirsi verso l’altro (famiglia e mondo), l’azione e la storia?
VM: Rimasi molto colpito da una conferenza di Sanguineti in cui, alla domanda «Perché si scrive poesia?», lui rispose che si scrive per antipatia. Gran parte delle mie posizioni sono state dettate (penso al bellissimo libro di Starobinski, Azione e reazione6) da una forma di reazione. Il primo libro era veramente, anche se non si vedeva, ai limiti del pamphlet, era violentemente ipocondriaco. Io rispondevo a questa effusività che vedevo nell’aria con un dettato chiuso, millimetrico, gnoseologico appunto. Detto ciò, molto francamente quando sento «Postmoderno» la mia reazione è quella di fronte a un’offesa, né più né meno, nonostante io ami alcuni grandi autori del Postmoderno americano. Dire «giocoso e ironico» è definire un atteggiamento che è agli antipodi rispetto al mio. Anzi, quest’idea della tragicità proprio come pulsione primaria (mi fa piacere sia stato notato) è veramente ciò che io avverto come strada, come traccia. Tutto il resto, mi dispiace se si intuisce perché è completamente al di fuori delle mie intenzioni. Nulla per me è più inimmaginabile che giocare. Il gioco esiste, sì, ma solo quando, in forma di calligramma, di anagramma, si innesta su un tessuto esperienziale. Il campione di tutto questo per me è Perec, La disparition7. Lì lui fa del gioco, fa un lipogramma, ma come simbolo di questa amputazione di eux, di loro che sono i suoi genitori e gli Ebrei deportati. L’avevo scritto: a me piacciono le parola crociate in quanto parole messe in croce. Questo vale sempre per me, anche nelle forme più divertite, come nelle Didascalie8. FD: Ricordo una sua poesia9 sul gioco dello Scarabeo volto in senso mortuario, col macabro bisticcio scorso-scorsoio. VM: Esattamente. Tra l’altro tengo molto a quella poesia perché poi lessi del «progresso scorsoio» di Zanzotto10, e io avevo proprio scritto sul «secolo scorsoio», in omaggio a Mandel’štam.
FD: Lei è stato spesso associato a Calvino per la Sua scrittura tersa e razionalistica. Nel suo ultimo libro, inoltre, (sebbene non sia possibile attribuire immediatamente le posizioni dei personaggi dialoganti a quelle dell’autore) si trova una dura requisitoria contro La dialettica dell’Illuminismo11. Sempre nello stesso testo, si rivendica da una parte l’esigenza di una sinistra di governo, socialdemocratica, capace di assumersi le responsabilità del riformismo, dall’altra l’imprescindibilità di un progetto alternativo anche radicale, senza cedimenti a una Realpolitik intesa come cinico opportunismo. Lei sostiene che bisogna puntare a poco per ottenere molto, che si deve essere ragionieri, ma della propria utopia. Per quanto riguarda la poesia, poi, che valore etico-civile ha per lei la scrittura12 e che importanza riveste la scelta dello stile adottato? Poesia come resistenza a uno sfruttamento della lingua in senso propagandistico-pubblicitario (la tesi del Sessantotto realizzato da Mediaset è che il potere mistificante della parola ha fatto trionfare le esigenze dell’immaginazione sui bisogni concreti, sull’analisi realistica delle condizioni socio-economiche), come possibilità di declinare la realtà al congiuntivo prospettando altri mondi possibili, altre sintassi; infine poesia come comunicatività che permetta la sociabilità (mi riferisco alla chiarezza del suo dettato).
VM: Sulla poesia, spesso cito una bellissima frase di Brodskij che la definisce come autentica meta antropologica, in quanto espressione di massima solidarietà linguistica. Se l’uomo si differenzia dalla bestia – dice – in quanto animale politico e dotato di un linguaggio, allora la poesia, che è la massima espressione linguistica, sarà, appunto, meta-antropologica. Anche Octavio Paz ha scritto pagine splendide su questo. Ma tornando alla questione di fondo, ho avuto una vera e propria trasformazione nel corso di trentacinque anni di scrittura (alcuni testi uscirono già in riviste e antologie nel ’77-’78, ma erano stati scritti prima), che riassumo in una battuta: «sono passato da Ponge a Brecht. Il motivo è stato che la società è passata da Brecht a Ponge». È come se lo avessi capito da poco, ma ho preso atto di questa mia natura di “bastian contrario”, è come se lo fossi sempre stato. Sotto una veste mite, quasi pavida, di timore e preoccupazione, in realtà poi finivo sempre per andare contro. Un tempo avevo tutti amici che naturalmente durante le assemblee – avevamo l’assemblea fissa, tutti i giorni, non c’era bisogno di bandirla – invitavano ad uccidere i fascisti ecc. Eravamo troppo piccoli per entrare nel terrorismo, quella era la generazione precedente alla nostra, ma il clima era condiviso. FD: Quindi la sua scelta era un’antiretorica. VM: Sì, anche perché – è inutile dirlo – tutti questi sono finiti a Mediaset, nelle grandi aziende di petrolio, tutti manager, banchieri… Ma come sarebbe, erano a «Potere operaio»? Penso a un grande aneddoto di Ionesco. Ionesco era a cena da amici, a Saint-Germain, quando sente i primi rumori delle manifestazioni; allora si affaccia e grida: «Basta, lasciatemi mangiare in pace, tanto diventerete tutti notai». Ma anche senza generalizzare, io veramente ero l’unico nella mia scuola a evitare quegli slogan (naturalmente ero considerato di destra, nel senso che ero del Manifesto, non mi davano neanche la parola…). Poi devo aggiungere che mio padre era una specie di Montanelli, cioè ha passato metà della sua vita terrorizzato da Stalin, la seconda metà terrorizzato da Berlusconi. E io lo trovo effettivamente lucidissimo. Solo che lui, così, mi metteva in una situazione invivibile; non potevo essere antistaliniano immerso in un ambiente di quel tipo. Mi ricordo un grande scontro che ebbi con lui in cui gli dissi: «Hai ragione, ma ti prego non mi parlare più di politica, perché io non ce la faccio più». Ma aveva ragione mio padre contro tutti gli altri, e non per nulla tutti gli altri sono entrati in Mediaset. Ecco da dove nasce questa mia irritazione. Allora, per sfuggire alla retorica dell’impegno, mi rifugiai in Berkeley, Hume, nel linguaggio analitico, finché scoprii Ponge. Andando avanti, vedendo lo smantellamento dello stato democratico, sono cambiato. Il pericolo ormai ha preso una forma tale che rischiamo di retrocedere al 1788: stiamo perdendo quanto ottenuto con la Rivoluzione Francese. Il governo Monti che intende tagliare l’università pubblica per finanziare la privata appartiene al 1788. Ma l’88 prelude all’89. Io, che sono sempre stato una persona mite e tranquilla, oggi credo che siamo arrivati al punto in cui sia giustificata un’insurrezione. Non posso tollerare migliaia di professori di religione che senza un concorso vengono pagati dallo stato. Ormai siamo in una teocrazia (e penso a Montaigne, a Étienne de La Boétie, al Contr’un13). Ma torniamo all’Illuminismo. L’Illuminismo per me è sempre stato l’ago della bussola, vi sono arrivato studiando i libertini, ma addirittura parto dai primi movimenti libertari nella filosofia araba poi soffocati. FD: I pensatori per i quali la filosofia va anteposta alla rivelazione. VM: Esatto, l’hanno detto mille anni fa… Quando sento le rivoluzione gridare « Allah è grande!» mi sconforto, anche la rivoluzione va giustificata così… Quindi, l’Illuminismo per me è quel movimento che ha portato kantianamente alla maggiorità dell’uomo. Quando mi sento dire che dall’Illuminismo derivano le SS, rispondo con un invito a venire a Roma: una città piena di autobus turistici pagati dallo stato che servono al Vaticano. Siamo in una teocrazia.
FD: Tornerei sulla questione del linguaggio. Mi vengono in mente una lettera di Fortini14 a Calvino e un suo articolo (Scrivere chiaro15). Quanto è importante essere comprensibili e quanto, invece, uno stile immediatamente accessibile comporta una concessione a un buon senso superficiale, un compromesso con l’ideologia dominante?
VM: Io sono proprio agli antipodi rispetto a Fortini. Quanto lo stimo come critico e come poeta, tanto lo disistimo come maestro politico. A mio parere, ha fatto delle scelte indifendibili (andare a insegnare nelle università del Sudafrica dell’apartheid, o scrivere su «Il sole 24 ore»), attirandosi delle critiche più che legittime. Per esempio Beniamino Placido, sebbene fosse un polemista incommensurabilmente inferiore, disse giustamente che Fortini gli ricordava le signore che si affacciano dal taxi invitando gli altri a prendere l’autobus. Io, invece, seguii le lezioni di Pagliarani e fui legato all’inizio al Gruppo ’63, però commisi l’errore di scrivere una monografia sul Dadaismo16. Quindi, quando mi resi conto che un secolo prima era stato tutto già fatto e detto, lasciai quel solco. Christian Morgenstern è di fine Ottocento, cioè dell’epoca di mio bisnonno. Steiner ha detto bene che tutta l’arte concettuale è una nota a piè di pagina del Dadaismo. Sempre sull’Illuminismo, la prima volta che presi la parola in pubblico, fu in un grande dibattito a cui partecipava Ludovico Geymonat. Allora, presi la parola con trepidazione, visto che avevo quindici anni, per difendere l’Illuminismo in quanto movimento che ci ha liberato dalla Chiesa. In quegli anni le vittorie sul divorzio e l’aborto ci avevano fatto dimenticare che la Chiesa è un esercito. I carri armati del Papa si chiamano Marcinkus. I nostri diritti sono un bottino a rischio. Noi dimentichiamo che, si scusi la generalizzazione, l’unica differenza tra Occidente e Oriente è consistita nella vittoria, o meno, dell’apparato ecclesiastico. Legare tutto ciò ai lager è per me un insulto ai martiri del movimento libertino, da Vanini a cui strappano la lingua prima del rogo, a Giordano Bruno. Questi erano resistenti, erano dei partigiani torturati da un potere ecclesiastico invece che politico. Dimentichiamo che ogni concessione di cui usufruiamo è stata imposta alla Chiesa. Due mesi prima di Porta Pia il Papa poteva eseguire le sue condanne a morte.
FD: Ricollegandomi allo spunto sul Dada, vorrei chiederle qual è il suo rapporto con la tradizione e con l’innovazione, la rottura. Già in passato lei ha chiarito che, scrivendo in un’epoca in cui era di moda essere avanguardisti, l’originalità paradossalmente consisteva nella scelta di un classicismo moderno. Più precisamente, quanto Montale ha contato per Lei, al di là delle citazioni aperte e degli omaggi (Non chiederci la parola in Rosebud17, Il carnevale di Gerti, In limine, Spesso il male di vivere in altri testi)? Qualche analogia si può riscontrare nell’ethos, nell’atteggiamento, e forse anche nelle rispettive parabole poetiche.
VM: In Didascalie per la lettura del giornale, per esempio, fondo Montale e Gozzano, «nel salotto borbotta la parietti»18. Da un punto di vista tecnico, partirei dalla voce Zeppa che ho scritto in Che cos’è la poesia19. C’è una lettera di Montale commentata da Gorni in cui, dopo secoli di uso della zeppa per far tornare il verso, Montale confessa di averla impiegata per non fare l’endecasillabo. Lo trovo straordinario, questo è il suo primo insegnamento per me. FD: Questo va nel senso della Sua straordinaria perizia metrica nascosta da una sobria sprezzatura. VM: Il secondo dato è l’immensa delusione che si avverte quando si leggono le sue ultime poesie, quelle più quotidiane, da Satura ai Diari. E infine ci sono delle poesie che mi hanno proprio marchiato a fuoco: «pallido e assorto», tanto mi basta. Degli stilemi minimi che mi hanno davvero alimentato. Oltre al primo Montale, è per me importantissimo il primo Ungaretti. Tuttavia, avendo io studiato filosofia, lingue e letterature straniere, sono arrivato alla poesia italiana molto tardi. Anche in questo caso una reazione alla scuola.
FD: Infatti la sua esterofilia costituisce un unicum. Legato a questo aspetto, vorrei farle notare che lei e De Angelis siete gli unici due poeti contemporanei presenti in pressoché tutte le antologie. Lei, però, è un outsider, un isolato che non ha fatto scuola o proseliti. De Angelis, invece, si inserisce in un nutrito filone di mistica della parola poetica. Stranamente comparivate entrambi ne La parola innamorata20. Eppure le vostre poetiche sono molto diverse tra loro.
VM: È vero. Ci conoscemmo a Orvieto, dove si tenne un grandissimo festival della poesia, dopo Castelporziano. Arrivai in treno, senza conoscere nessuno, e finii dividendo una stanzetta d’albergo con altri quattro ragazzi incontrati per caso. Lì si poteva ascoltare di tutto: Manganelli, Eco, Einaudi, Arbasino, Giuliani, Porta, Pagliarani, finché arrivarono gli operai ad occupare… Fu una specie di happening.
FD: Una curiosità puntuale. Alcuni critici avanzano l’ipotesi che Patrizia Cavalli possa avere avuto un’influenza sulle sue prime poesie per quanto concerne l’aggettivazione, il ritmo e una particolare disposizione delle parole. VM: No, perché non l’avevo letta. Aggiungerei che è un’ipotesi molto plausibile e molto acuta, ma non è così. Aggiungo ancora che molti critici mi hanno detto che sarei molto legato a Cattafi, che invece ho letto tardi per la prima volta, e senza avvertire alcuna vicinanza, anzi.
FD: Studiandola ho riscontrato una dialettica profonda che, forse, appartiene all’intera contemporaneità, partendo da riflessioni di Blanchot, ma anche di Foucault22. Se il Rinascimento si basava sul concetto di somiglianza, su un’armonia universale di rimandi, se l’età moderna si reggeva sulla teatralità, su una distanza percepita come misurabile, la contemporaneità nasce da una nuova idea di profondità verticale, da una frattura. Si pongono, infatti, due livelli ben distinti: uno è il livello del Senso – sia esso Lavoro, Vita o Parola -, l’altro è il livello positivistico degli oggetti, della datità. Secondo me, la sua poesia delinea una teoria della letteratura e della conoscenza a partire da premesse simili. Per esempio, è possibile rintracciare una serie di figure della profondità ( già presenti nel Romanticismo) quali la miniera, il sottosuolo, il magma ipogeo. Vorrei sapere come lei ha declinato questa biplanarità. Mi riferisco anche all’allegorismo, in cui si ha un’attribuzione di senso non garantita intrinsecamente. Nella sua produzione evidenzierei, perciò, un amore e una nostalgia per l’Origine corrette dalla lucida consapevolezza di quanto sia pericoloso il culto dell’ineffabile, da una critica al Mito di derivazione benjaminiana e adorniana. Ancora nel Sessantotto lei cita Musil (un anello perennemente attratto da un nucleo inattingibile) e Heidegger. A mio parere, anche in Freud è presente quest’idea di un fondo indicibile da cui nasce o è influenzato quanto è visibile in superficie. Una sorta di teologia negativa in cui, avvertendo l’ineludibilità del carcere linguistico, Lei punta l’attenzione soprattutto sulla traduzione, sul processo che rende l’afasico nuomeno comunicabile a tutti (segnalo le isotopie sacre), e valorizza i disturbi della parola, la diffrazione in absentia. Tornando al parallelo con l’Inconscio, citerei anche la teoria di Orlando: il suo ritorno del represso formale forse è accostabile alle Venature (intese come figure retoriche, slittamenti metaforici, regressione ludica e infantile) in cui si celano, contemporaneamente rivelandosi, le Nature.
VM: Per quanto riguarda Blanchot, la mia tesi di laurea su Joubert, un autore totalmente sconosciuto, nasce proprio dall’averlo scoperto in Blanchot, che gli dedica ben due saggi, ne Le livre à venir21. Questo per dire quanto Blanchot è stato importante per me. Mi ritrovo perfettamente in quello che hai detto. C’è in me un atteggiamento certo allegorico, ma anche molto animistico. Per me è stato molto importante scoprire i libri di Alexander Lurija23, un grande neurologo russo il quale, a differenza di Freud che seguiva molti casi per breve tempo, seguì solo due casi, ma per vent’anni. Questi due casi sono mirabilmente simmetrici. Il primo è la storia di un ufficiale che durante la guerra riporta una ferita al cervello, alle cellule stellate, per cui si verifica in lui la disintegrazione del linguaggio. Per esempio, non riesce a pronunciare la parola «cavallo» perché arrivato alla l ha già dimenticato la c. È come se avvertisse una curvatura dell’orizzonte verbale, ragion per cui non riesce a tenere tutto insieme. La via di uscita che Lurija genialmente gli propone è di ricorrere all’elemento cinetico. Gli suggerisce, cioè, di scrivere la sua vita senza pensare, affidandosi al movimento, a una specie di melodia interiore. Così il paziente scrive settecento pagine di autobiografia che non può leggere. Il caso opposto, che è quello che mi interessa di più, è quello di un mnemonista, molto simile al personaggio di Borges, Funes el memorioso, che finisce in un circo ad esibirsi. Lurija trova un modo per fargli, talvolta, dimenticare le cose facendogli immaginare di scrivere tutto su un foglio e di dargli fuoco. Perché non riesce a dimenticare? Questa è la cosa splendida: perché ha avuto un arresto nello sviluppo del linguaggio. In lui resta fortissimo il legame sinestetico, che assicura un peso e una presenza alle parole per noi inimmaginabili. Per esempio, nel circo a inizio spettacolo si faceva dire decine e decine di sillabe senza senso, e a fine serata le ripeteva senza errori. Come faceva? La risposta era questa: «Come potrei non ricordarle? La r così amara, ruvida, la v così luminosa, accecante», etc. L’esempio più divertente è quando in un ristorante apre il menu e vede un errore di stampa: immediatamente scappa in preda a conati di vomito. Non poteva più mangiare, era come se avesse visto uno scarafaggio nella minestra. Per lui il linguaggio era realtà e ciò gli conferiva una forza estrema. Questo per dire che secondo me chi scrive ha una sorta di ipersensibilità, di ulcerazione che lo rende particolarmente reattivo al linguaggio, quasi una sua preda. Il libro più bello su questo sono i Detti e contraddetti di Kraus24, in cui ci sono alcune pagine sulla differenza tra lo scrittore e il giornalista che ritengo definitive: il giornalista usa il linguaggio, per lo scrittore è il contrario. Quindi, anche la stessa persona magari può fare entrambe le cose, ma c’è un vero cambio di regime. FD: Però lei tende sempre anche ad uscire, per dir così, dal linguaggio, in senso referenziale. VM: Sì, questo è vero. Un’altra cosa importante per me – ne parlavo nell’introduzione quando ho radunato le prime tre raccolte25 – risiede proprio nello smarrimento preliminare: a me interessa andare a tentoni. Anzi, ciò che mi successe col primo libro fu di riscriverlo praticamente uguale, in bella copia, di farne il verso. Allora, a un certo punto capii che questo secondo libro andava buttato. Il mio secondo libro in realtà è il terzo, perché prima di Nature e venature avevo scritto un libro-fantasma che restava nel recinto di Ora serrata retinae. Alcuni hanno bollato come forzata questa ricerca di cambiamento, ad ogni pubblicazione, invece per me è essenziale. FD: Anzi, la capacità di non ripetersi, di non diventare maniera, è un punto di forza. VM: Esattamente. Per me è fondamentale perché reca con sé un divertimento profondo. Il divertimento massimo lo ebbi proprio con Didascalie, fu una vera festa della scrittura: i testi si snocciolavano uno dietro l’altro. Fui molto felice di avere trovato una soluzione tecnica, perché avevo un gruppo di poesie in prima persona, quindi non potevano entrare direttamente nella raccolta, finché mi venne l’idea di inserire la «posta dei lettori». FD: Quest’idea del perdersi si collega con l’eterna circolarità di cui abbiamo parlato. Rimanere uguali a se stessi significa colpire quel bersaglio che, invece, si manca sempre. Il suo «miro alla mira» indica proprio questo scarto necessario. VM: Questo è vero, anche se non ci avevo riflettuto prima, ma è esattamente ciò in cui mi riconosco.
FD: Vorrei ora chiedere cosa rappresentano gli oggetti per lei (penso all’indimenticabile sospiro degli autobus26, vuoti, la notte). In generale, nella sua poesia abbiamo un décor, una situazione di infraquotidiano27, messi in cortocircuito con una vivissima accensione metaforica. Nel suo utilizzo degli oggetti identificherei un procedimento allegorico (un’immagine ricorrente è quella della costellazione benjaminiana), in cui la foresta di simboli si è trasformata in selva di segni. Quando, però, si tolgono gli occhiali (tema della miopia), questo ordinamento si rivela come proiezione di una griglia interpretativa discreta su un continuum sfuggente. Nel suo caso mi sembra sia particolarmente rilevante anche la presenza di un elemento magico, (l’idea di mana, di un campo di forze), di un animismo leggibile come quel ritorno del superato che genera la sensazione di Unheimliche. Quindi, se vogliamo ricorrere alle formule: correlativo oggettivo, sebbene il suo montaggio non sia mai secco e impersonale come in Eliot (che pure è un modello, insieme ai Metafisici inglesi); paesaggio-stato d’animo, data la sicura espansione delle emozioni del poeta sul mondo. Tuttavia, è come se gli oggetti e la natura possedessero un’identità e una storia proprie, cui noi possiamo solo tentare di avvicinarci, sebbene siano destinati a conservare la propria alterità. Tra Ora serrata e le Nature si registra anche un passaggio da un presente astorico a varie forme di passato: le cose sono rivestite da un‘aura data loro proprio dalla memoria, dalle esperienze vissute (e non solo lette). Fino a dispiegare, in seguito, un campionario da oggetti desueti orlandiani. Infine, nei suoi primi testi dominava una patina di morte, legata forse al carattere simbolico della parola (linguaggio comunicante, montaggio, ecc.), alla ricostruzione interiore di oggetti persi per sempre (Hanna Segal).
VM: Tutto ciò che hai detto è molto vero… spesso infatti adotto un tono elegiaco. Poi, quando arrivò la fortissima contrapposizione tra orfici e avanguardisti (fino al Gruppo ’93), io mi tiravo fuori o, meglio, volevo restare in mezzo ma non come mediatore, perché prendevo una parte dagli uni e dagli altri, pur restando completamente separato da entrambi. Sulla scorta della lezione di Pagliarani (anch’essa però epigonica), mi interessa il fatto – come lui diceva – che il nostro paesaggio è fatto da ventilatori, da telefoni. Perciò bisogna parlare di questo, non dei gabbiani e del tramonto! Anzi, dico che i gabbiani sono la criptonite della poesia, la uccidono immediatamente. Questa è la nostra realtà, in questa scelta non c’è nulla di postmoderno o di manierato (c’è un altro tipo di Manierismo semmai..). Perciò, aderisco a questa forma ma non mi interessa immettere l’elemento del plurilinguismo, dei linguaggi tecnici intesi semplicemente come materiali morti. A me interessa, paradossalmente, il pathos della tecnologia. Il tuo esempio dell’autobus è bellissimo, l’atteggiamento che ho è esattamente quello di un sospiro straziante che viene dalla porta che si chiude o dal cilindro del freno. Questa non è una poetica, questa è una linea che ho seguito e ho cercato di comprendere. Forse non l’avrei detto vent’anni fa, ma per me è fondamentale un simile atteggiamento di ricerca, di sintonizzazione di carattere neuronale-linguistico (non simbolico) col mondo. FD: A tale proposito, lo psicologo americano Bruner28, dopo una serie di ricerche, sostiene che i bambini prima di spiegare i fenomeni del mondo con la causalità, li ordinano con l’intenzionalità, donando un’anima e un carattere agli oggetti. VM: È proprio così, una logica altra ma anche molto rigorosa, a suo modo. Mi viene in mente uno splendido testo di Ernst Bloch sul Rinascimento29. A un certo punto si spiegava il motivo per cui molti mistici tedeschi, tra cui Jakob Böhme, erano calzolai di professione. La ragione è semplice: anzitutto stavano raccolti sul loro deschetto, concentrati, curvi per ore e ore, battendo con un martelletto – quindi entrava in gioco il ritmo, in forma quasi ipnotica; ma soprattutto usavano colle, materiali chimici, psicotropi, erano grandi tossici visionari! Questo mi ha molto interessato quando scrissi una poesia sulle chiavi, in cui a un certo punto compare la frase «il suo valore | il mio Valerio»30. È l’unica volta che ho inserito il mio nome in un testo. Mi ricordo ancora perfettamente quel brivido: il mio nome che sbuca all’improvviso, con violenza… e poi lo lasciai. FD: Lei parlava proprio del poeta come enigmista e invasato, riprendendo l’opinione di Valéry secondo cui alcuni versi piovono dal cielo già perfetti, mentre il resto è duro lavoro di costruzione. VM: Sì. Questa parola, il mio nome, mi sorse di fronte con vera prepotenza. Un altro caso simile è nella poesia Treno-cometa31, che poi ho commentato ne La vicevita32. Qui, a un certo punto passo alla prima persona; anche in questo caso, quasi involontariamente, il testo mi sfuggì di mano. A me piacciono molto queste forme di espropriazione, questi stati di allucinazione. Certo non arrivo a dire che il poeta debba perdere il controllo; la scrittura automatica mi è del tutto estranea, però bisogna lasciare dei varchi.
FD: Spessissimo nei suoi testi si trovano figure di aperture, porte, ferite, ecc. Il Suo cronotopo tipico è quello del limen, della soglia, anche come momento proustiano del dormiveglia. Si deve permettere sempre un qualche passaggio se si vuole vivere e scrivere, se si vuole evitare una purezza asettica ma sterile e muta, sebbene ciò che passa sia solo un residuo deformato. Questa è la dialettica di fondo delle prime raccolte : espunzione o mineralizzazione del corporeo (il cristallo, l’alto vs il basso), timore e attrazione per le forze dirompenti della natura, (fuoco o acqua). Addirittura c’è una sorta di riscrittura33 de I fiumi in cui il soggetto rifiuta l’immersione panica, anzi aspira a dissolversi nella pagina. Finché gli Esercizi opteranno decisamente per il fecondo contagio della materia, aprendosi allo spurio. Per questo, in Treno-cometa e in altri testi leggerei la rappresentazione di una freudiana formazione di compromesso, la compresenza inconciliata di un’istanza che reprime, che frena, e di una pulsione che spinge; da questo conflitto nasce la scintilla della poesia. Infine, alla razionalità del movimento argomentativo si associa, contrapponendosi, il barocco delle metafore, veicolo della logica simmetrica individuata da Matte Blanco (o, meglio, del modo indivisibile ). Per Freud – ripreso da Agosti – il motto di spirito era tanto più riuscito quanto più lontani, ma sotterraneamente legati, erano i campi messi in relazione. E Giacomo Magrini34, a proposito di Baudelaire, parla della fatica e del lavoro necessari alla similitudine.
VM: Non è affatto esagerato scorgere spesso un discorso metapoetico nei miei versi. Penso al grande modello di Brecce35 di Michaux, un altro poeta che per me è stato fondamentale. La scoperta di Michaux è stata davvero emozionante, insieme a quella di Mandel’štam e Bruno Schulz: Le botteghe color cannella36, ha degli “ultravioletti” che mancano ad altri scrittori. La formula di Magrini è bellissima, in effetti anche io faccio attraversare tutta la distanza percorsa nell’associazione. Inoltre nelle prime raccolte le metafore rimanevano coerenti. Per quanto riguarda Freud, mi ritrovo perfettamente: concessione al processo primario ma anche controllo razionale.
FD: Passerei ora ad una domanda sulla musica. Nel Sessantotto, ma anche in alcuni articoli, lei ha definito antisociale la musica perché si impone necessariamente all’orecchio del vicinato, inquinando al pari della plastica. Inoltre, lei ha riassunto la posizione di Valéry come un tentativo di controllare il fascino della musicalità languida e sensuale di Verlaine con la rigorosa, geometrica astrazione di Mallarmé. Siamo di nuovo sul côté del Mito: la musica come subdolo veicolo di propaganda. Però la musica, su cui ha anche scritto un saggio37, è per lei un’arte da amare e praticare.
VM: In Valéry è così. Per quanto mi riguarda, se ho mai provato qualcosa di simile a uno stato di trance, è stato quando mettevo la musica ai miei figli piccoli e la dirigevo per trasmettere loro l’emozione del brano. Il secondo concerto di Brahms per pianoforte e orchestra, per esempio, per me era potentemente regressivo, come una deriva verso le Madri… FD: Quando la si dipinge come un ipocondriaco che cerca di continuo un controllo assoluto, si dimentica l’istanza opposta. VM: Il controllo certo è necessario, altrimenti sarebbe un cedere incondizionato, una resa.
FD: La prossima domanda, per rimanere in tema, riguarda il rapporto della poesia con la musica leggera. Secondo Guido Mazzoni38, la piramide individuata da Bourdieu – secondo cui al vertice si trovano gli artisti (divinità), seguiti dalle figure di mediazione e diffusione, cioè i critici (sacerdoti), per arrivare alla base costituita dal pubblico (i fedeli) – sarebbe ormai implosa in una situazione dove tutti scrivono e pochi leggono o, al massimo, lettori e scrittori coincidono in un’evidente autoreferenzialità. L’elemento musale che in passato apparteneva alla poesia (inteso come mandato sociale, capacità di forgiare identità collettive per le grandi folle) ormai sarebbe migrato verso la canzone. Oggi, perciò, vigerebbe una divisione di compiti per cui la poesia si specializzerebbe nella rappresentazione della complessità e delle sfumature interiori. Tuttavia, mi pare che lei non sia d’accordo con questa lettura del presente. Inoltre, nel Sessantotto leggiamo parole piuttosto severe sull’equiparazione della canzone alla letteratura.
VM: Non sono d’accordo con Mazzoni. Infatti, per me la piramide non solo non deve, ma non può davvero implodere, perché la funzione ermetica del critico, quasi uno psicopompo, non può venir meno. È una gerarchia, un gioco delle parti che non può scomparire. Sulla musica leggera ho scritto alcune poesie, dove riprendo una vecchia idea di Adorno per cui una musica può diventare familiare come il saluto di uno che passa. Mi colpì questa idea di familiarità, perciò scrissi39 sui motivetti, sulle melodie che rimangono in mente come colonie, come tarli. Perciò, sono rimasto davvero stupito quando di recente è uscito Musicofilia40 di Oliver Sacks in cui l’autore ripercorre la storia degli studi neurologici e sostiene che questo tipo di insediamento musicale, acustico, venne battezzato nel 1987 (perciò molto di recente) col nome di musical worms, vermi musicali. Sacks fa l’esempio di alcuni sfortunati pazienti che non riescono a sottrarsi a queste melodie anche per quindici anni. Tornando alla musica leggera, per me è una vera fissazione il fatto di impedire la confusione. I cantautori fanno un prodotto che ha la poesia solo come ingrediente. Ho trovato una bellissima pagina di Pessoa in cui si dice che la poesia non può avere musica perché è già linguaggio reso musicale; sarebbe come mettere dello zucchero sullo zucchero, una pura ridondanza. Ho avuto al riguardo una discussione con Giulio Ferroni che mi ricordava come questa sia una visione molto particolare e che in passato non era così. Certamente è vero se risaliamo a Omero, agli aedi, o ai trovatori. Ma io sto parlando di quanto accade ora e quella di Pessoa è la mia visione. Che propongano Bob Dylan come candidato al Nobel, al di là del suo valore musicale, mi sembra atroce, una bestialità indicibile. È come paragonare un centometrista a un saltatore con l’asta: uno ha l’asta, l’altro no. La musica è un moltiplicatore potentissimo, tanto è vero che i più bei lieder tedeschi hanno delle parole spesso mediocri, per esempio Die schöne Müllerin.
FD: Vorrei ora chiederle come il suo dettato riflessivo, la sua tendenza al pensiero filosofico, possono aver rivoluzionato la nostra tradizione lirica, pur rimanendone all’interno. Penso ai lunghi avverbi in -mente o alle clausole saggistiche. Soprattutto le prose degli Esercizi hanno segnato una frattura epocale, ponendosi come esempio da seguire (sebbene alcune prose ci fossero già in Montale). La sua, però, non è mai prosa poetica e, in fondo, non diventa pienamente narrativa nemmeno nei libri successivi.
VM: È vero. Ora tengo molto a un libro che uscirà a febbraio e che, per me, chiude, come quarto e ultimo capitolo, questa digressione prosastica. È altrettanto massiccio e importante de Nel condominio di carne, sono quasi i due propilei; racchiudono al centro le due parentesi più leggere, più interlocutorie, de La vicevita e di Addio al calcio41, che pure hanno una loro funzione di alleggerimento. L’idea è proprio quella di una volta, con questi due pilastri alle estremità. Ho lavorato quasi dodici anni al libro che uscirà, mentre La vicevita è stato scritto in un anno e mezzo.
FD: Concluderei con una domanda sulla soggettività. Attraverso l’intero arco sua produzione si può scorgere un percorso di ricerca identitaria, dalla sublimazione di Ora serrata retinae fino alla discesa negli inferi corporei del Condominio. Riprendendo alcune considerazioni di Agamben su Monsieur Teste42 di Valéry, parlerei per la sua poesia della raffigurazione di un io teatrale-verbale, costruito e impersonale, esito dell’alienazione in un’alterità che lo precede e lo fonda (penso a Lacan: lo stadio dello specchio, l’Immaginario e il Simbolico, la discrasia tra moi e je). Il soggetto nella sua unicità sarebbe, perciò, ridotto a un io del limite, millimetrica deviazione dello sguardo, minima incongruenza del punto cieco da cui, secondo la Fenomenologia, parte ogni conoscenza.
VM: Certo, è proprio Merleau-Ponty. Su tutto ciò che hai detto mi trovo assolutamente d’accordo. Per quanto riguarda la soggettività, di nuovo la mia era una posizione antieffusiva. Anzi, questa idea della quête identitaria è centrale nella mia poesia. Rimando alla voce gnarus di Che cos’è la poesia43. Noi conosciamo l’aggettivo contrario, ignaro, mentre gnarus significa bene informato. Ecco, io contrappongo il narratore al poeta. Il poeta, per me, è ignaro nel senso che letteralmente non conosce il prossimo verso. Se ci si riflette, è qualcosa di entusiasmante. Segnalo anche la voce sull’explicit. Mentre tutti si interrogano sull’incipit, io faccio notare l’importanza dell’explicit, problema in realtà già sollevato da Valéry. Comunque, per me l’elemento euristico è veramente la molla del gioco poesia. Bisogna sempre scoprire che cos’è la poesia, che cos’è chi la scrive. Di nuovo finiamo in forme di allucinazione: basti pensare ad esempio a quanto accade quando si ripete di continuo una parola: si ha una sorta di sdoppiamento, come in una terra di nessuno della conoscenza, in uno stato liminare, come dicevi appunto tu. Tutto ciò ha a che vedere con la caccia magica; la poesia per me ha davvero qualcosa di rituale.
FD: Quindi un’instancabile ricerca, un forte accento posto sull’aspetto euristico della letteratura che la allontani dal rischio di essere ornamento e retorica sovrapposti a un’ideologia dogmatica.
VM: Proprio così. Per esempio, per me è impensabile scrivere una biografia, un lavoro meccanico, di mera trascrizione. C’è uno scambio di battute che trovo assai istruttivo tra Gide, ampolloso ed enfatico, e Valéry. Gide dice: «Se mi vietassero di scrivere, mi ucciderei». Valéry gli risponde: «Se mi obbligassero a scrivere, mi ucciderei». Il bello della poesia è proprio questo smarrirsi, questo continuo perdersi.
1André Schiffrin, Editoria senza editori, Bollati Boringhieri, Torino 2000.
2Valerio Magrelli, Il Sessantotto realizzato da Mediaset. Un Dialogo agli Inferi, Einaudi, Torino 2011.
3Id., Ora serrata retinae, Feltrinelli, Milano 1980.
4Id., Esercizi di tiptologia, Mondadori, Milano 1992.
5Id., Disturbi del distema binario, Einaudi, Torino 2006.
6Jean Starobinski, Azione e reazione. Vita e avventure di una coppia, Einaudi, Torino 2001.
7Georges Perec, La scomparsa, Guida, Napoli 1995.
8Valerio Magrelli, Didascalie per la lettura di un giornale, Einaudi, Torino 1999.
9Due dichiarazioni (da Esercizi di tiptologia). Ora in: Valerio Magrelli, Poesie (1980-1992) e altre poesie , Einaudi, Torino 1996, p. 282.
10Andrea Zanzotto, In questo progresso scorsoio. Conversazione con Marzio Breda, Garzanti, Milano 2009.
11Max Horkheimer, Theodor W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino 1966.
12Segnalo che il Sessantotto si conclude con una definizione degli umanisti come cavie (il cane che cade per primo).
13Étienne de La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, Liberlibri, Macerata 2004.
14Italo Calvino-Franco Fortini, Lettere scelte 1951-1977, in L’ospite ingrato, I, 1998.
15Franco Fortini, Insistenze. Cinquanta scritti 1976-1984, Garzanti, Milano 1985, pp. 116-8.
16Valerio Magrelli, Profilo del Dada, Lucarini, Roma 1990.
17Rosebud, da Id., Nature e venature, Mondadori, Milano 1987. Ora in: Id., Poesie (1980-1992) e altre poesie , cit., p. 177.
18Id., Didascalie, cit., p. 40.
19Id., Che cos’è la poesia?, Luca Sossella Editore, Roma 2005, pp. 28-29.
20Giancarlo Pontiggia, Enzo Di Mauro, La parola innamorata. I poeti nuovi 1976-78, Feltrinelli, Milano 1978.
21Maurice Blanchot, Il libro a venire, Einaudi, Torino 1969.
22Michel Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, R.C.S. Libri, Milano 1967.
23Aleksandr Lurija, Un piccolo libro una grande memoria, Editori Riuniti, Roma 1991.
24Karl Kraus, Detti e contraddetti, Adelphi, Milano 1972.
25Valerio Magrelli, Poesie (1980-1992) e altre poesie , cit.
26Ivi, p. 210.
27Questa applicazione di Perec alla poesia contemporanea è di Guido Mazzoni.
28Jerome Bruner, La mente a più dimensioni, Laterza, Roma Bari 2003.
29Ernst Bloch, Filosofia del Rinascimento, Il Mulino, Bologna 1997.
30Valerio Magrelli, Poesie (1980-1992) e altre poesie , cit., p.175.
31Ivi, p. 286.
32Id., La vicevita. Treni e viaggi in treno, Laterza, Roma Bari 2009, pp. 98-103.
33Id., Poesie (1980-1992) e altre poesie , cit., p. 20.
34Giacomo Magrini, Figura e figure. Una questione retorica, in Riccardo Castellana (a cura di), La rappresentazione della realtà. Studi su Erich Auerbach, Artemide, Roma 2009.
35Henri Michaux, Brecce, Adelphi, Milano 1984.
36Bruno Schulz, Le botteghe color cannella. Tutti i racconti, i saggi e i disegni, Einaudi, Torino 1970.
37Valerio Magrelli, Il violino di Frankenstein: scritti per e sulla musica, Le lettere, Firenze 2010.
38Guido Mazzoni, Sulla poesia moderna, Il Mulino, Bologna 2005.
39Valerio Magrelli, Didascalie, cit., p.77.
40Oliver Sacks, Musicofilia. Racconti sulla musica e il cervello, Adelphi, Milano 2010.
41Valerio Magrelli, Addio al calcio. Novanta racconti da un minuto, Einaudi, Torino 2010.
42Paul Valéry, Monsieur Teste, SE, Milano 1988, con postfazione di Giorgio Agamben, L’Io, l’occhio, la voce.
43Valerio Magrelli, Che cos’è la poesia?, cit., pp. 13-14.
[Immagine: Greenpea, Lassen Sie uns modern sein (gm)].
Magrelli ha avuto il suo momeno d’oro agli esordi e ha influenzato poeticamente moltissimi della mia generazione, salvo poi venirne ripudiato. Questa intervista restituisce la voce di un chierico che sta vedendo sparire il proprio hortus conclusus. Eppero’, Il web 2.0 lancia spallate a Stati teocratici e vere oligarchie, figuriamoci cosa puo’ fare al sapere umanistico su base cooptativa, gia’ messo in crisi negli ultimi cinquant’anni dai progressi della tecnica e dal metodo scientifico (tesi, antitesi, tenzone dialettica, conclusioni… tutto alla luce del sole).
Soprattutto, il web 2.0 facilita l’accesso alla scena pubblica e dunque ben altro che stare zitti e leggere. Se non fosse altamente stupido augurarsi che grilli e grillini del sottobosco travolgano la cittadella (che pure ha un suo valore di metodo, seppur appannato), verrebbe da dire che alcune volte tale dinamica eruttiva e’ fisiologica. Rimane pero’ la considerazione che i chierici hanno perso la voce, poi il seguito degli hopeful e infine la propria stessa maschera. Resta un buono stipendio a vita da dipendente statale e un’ancora ottima pensione, che a troppi non sono dati sperare. Forse da qui potrebbe essere piu’ chiaro a chi e’ dato oggi tacere e a chi e’ dato parlare.
@Il fu GiusCo
ottimo intervento, complimenti!
Magrelli in questa intervista dice molte cose sensate, e alcune, credo, discutibili, ma parla mantenendo sempre un livello intellettuale e culturale rigoroso, di alto profilo. Ma non ne avete mai abbastanza del vostro risentimento, delle vostre frustrazioni da scrittori falliti? Non vi stanca mai? I vostri messaggi trasudano ignoranza, grettezza, miseria umana indicibile.
letta una complessa intervista… letti il rancoroso commento…
no, non sono su il fatto quotidiano o su comedonchisciotte…
sono su leparoleelecose…
Penso (spero) che Magrelli, nel suo inveire contro i commentatori dei blog, non si riferisca alle critiche radicali di Fu GusCo, che penso abbia le regolari 8.000 ore di lettura alle spalle, ma alle manifestazioni manganellatorie di pienelepalledeifrustratidelweb.
Io non mi sento fallito nè come uomo nè come scrittore. E l’unica miseria umana che vedo è quella della classe intellettuale, che non sa far altro che cinguettare frasettine “politicamente corrette”…
«ALTRIMENTI NON PUOI PARLARE»!
TANTO DI CAPPELLO A SPECIALISTI E COMPETENTI (VERI), MA…
Magrelli sarà intelligentissimo, coltissimo, bravo poeta. E avrà letto non 8.000 bensì 16.000 dei libri di teoria, di narrativa, di poesia che ci consiglia di leggere prima di parlare. Eppure, incoraggiato dal suo compiacente intervistatore, sbaglia a indirizzare la sua lezione a lettori e blogghisti e difende un’astrazione – la Competenza – proprio in un momento in cui è palese il trionfo dell’Incompetenza mascherata da competenza. (Vedasi – è solo un esempio tra i tanti – le errate previsioni sulla Crisi che ci affligge da parte degli economisti con Nobel o senza).
È giusto allora in questo momento fare l’elogio dei Pierini? Ci salveranno loro dal caos che ci ha invasi? Prima di rispondere inviterei Magrelli e i suoi colleghi (quegli “intellettuali” su certe cose fin troppo silenziosi e a cui il nostro appello «Noi accusiamo» non ha fatto neppure il solletico) a un esame di coscienza o almeno ad una riflessione supplementare. E nel frattempo mi permetto alcune domande per stimolarli: dalle vostre cattedre si possono oggi dire o vietare autorevolmente alcunché? È sicuro – lui, Magrelli – di essere competente su tutte le cose che tocca nell’intervista? E lo sono, altrettanto e di sicuro, tutti i suoi colleghi d’università? E gli argomenti, che qui porta a sostegno della sua tesi e del suo divieto, sono solidi?
Ne dubito per almeno due ragioni:
1. Non mi risulta che quel «sistema di selezione, che un tempo funzionava» e di cui Magrelli tesse un idealistico elogio, funzionasse ancora quando egli e un’altissima percentuale dei suoi colleghi universitari entrarono nelle varie “infornate” sulla diligenza universitaria. Magrelli è del 1957. E sarà, assieme ad altri, entrato come competente nell’università almeno dopo il ’68. E, dunque, in regime di “liberalizzazione”, in tempi cioè che, secondo la logica del suo discorso, dovrebbero essere considerati abbastanza sospetti quanto a selettività. Entrò/entrarono nel tempo delle vacche grasse. E quando venne quello delle magre, hanno sbattuto la portiera in faccia a masse di dottorandi ora condannati al precariato a vita. E fanno lezione a masse di studenti destinati alla stessa sorte. E da allora – credo – che il discorso sulla Competenza ha preso quota ed è condotto con la pervicacia di cui egli fa mostra nell’intervista.
2. Varie e ricorrenti sono state, persino sulla stampa, le denunce di nepotismi e clientelismi partitici nel reclutamento del personale e nella gestione delle “nostre” pubbliche università. Quanto giovino tali pratiche alle crescita o alla conservazione delle competenze lo si capisce a volo.
È sicuro, allora, il Magrelli che oggi i competenti siano competenti e gli incompetenti incompetenti? Tutti? È certo che lui e tutti i suoi colleghi che pilotano le università abbiano letto gli 8000 libri (misura standard sia pur iperbolica da lui fissata) prima di aprire bocca su questo e quello o su tutto? E che queste letture (ammesso che siano state fatte rigorosamente) abbiano significato e significhino produzione di scienza originale o efficace divulgazione e mai polverosa erudizione che appesantisce i cervelli e gonfia il petto?
Aggiungo qualche altro ragionamento:
1. A uno davvero competente, che frequenta persone competenti e tiene acceso con la competenza sua e altrui il sacro fuoco del sapere (letterario, politico, filosofico, poetico), quale danno mai potranno arrecare le opinioni dei lettori o dei commentatori di un blog, fossero pure tutti incompetenti o “aggressivi”? Se stupide, male argomentate o inconsistenti, si squalificano da sole e al massimo danno fastidio. Possibile, invece, che egli invochi addirittura un divieto?
2. Lo scarto tra competenti e incompetenti (in tutti i campi però, non solo in quello letterario o dei blog) è solo una maschera (da interpretare) delle divisioni della nostra società. Mi chiedo: è vietando agli incompetenti (presunti o effettivi) di parlare che si risolve il problema di una buona o migliore elaborazione e trasmissione culturale, oggi inquinate o ridondanti o perfino menzognere (e per ragioni un po’ più serie, di cui gli incompetenti non sanno dir nulla, ma che i competenti eludono)?
3. Fortini, il cui insegnamento politico Magrelli disdegna, era per il dialogo del filosofo (il competente) col tonto. Cosa è cambiato da indurre Magrelli a tessere le lodi dei competenti e a silenziare i tonti? E cosa dell’idea di società o del ruolo degli intellettuali in essa?
4. Sarà di certo più piacevole parlare solo tra competenti o fra chi su una questione ha voce «in capitolo». Ma non siamo più nella Chiesa del medioevo. E non esiste da tempo un universalismo e un sapere unitario gestito esclusivamente da riconoscibili e riconosciuti competenti in una bella Istituzione riconoscibile e riconosciuta. Le cose si sono complicate. O mi sbaglio? E spesso i competenti ufficiali le sparano grosse e prendono lucciole per lanterne. E, dato il ruolo di potere pubblico riconosciutogli (da competenti – veri o presunti – loro alleati per ragioni di classe, di ceto, di corporazione, di mafia o per ragion di Stato), fanno sicuramente più danni degli incompetenti senza potere.
5. Appare davvero contraddittorio che da una parte Magrelli si dichiari illuminista e dall’altra sveli tanta nostalgia per una gerarchia quasi chiesastica programmata per discutere solo al suo interno. Mi fa dubitare sia della natura del suo illuminismo sia del suo recente passaggio da Ponge a Brecht.
6. Che personalmente se ne sbatta dei pareri dei lettori può essere reazione umana e comprensibile. (Però non ci credo: se ne sbatte solo dei pareri di certi lettori, a naso quelli ostili o troppo critici e che lo mettono o potrebbero metterlo in difficoltà). Ma volere imporre (magari con toni sornioni e paradossali, in modo da attenuare la portata ideologica del suo messaggio) nei residui spazi pubblici un divieto assoluto («deve essere vietato al lettore di parlare»), ha qualcosa di reazionario e di insopportabile. No, non sta bene oggi sparare sui blog. Non tutte le domande o le osservazioni o le obiezioni, che i lettori anche incompetenti fanno, sono stupide o fanno perdere tempo o sono dettate da risentimento, invidia o frustrazione. La pratica del *todos caballeros*, se è questo che scandalizza, non è cominciata coi blog, che sono venuti ben tardi, semmai con il ’68 e proprio nelle università, cioè nei supposti Templi delle Competenze. Anzi, per essere precisi: con la sconfitta del ’68. Ed è durata finché ha fatto comodo a certe politiche clientelari sorte all’ombra del «compromesso storico».
Conclusione. Criticare (diritto sempre rivendicato e da rivendicare da tutti quelli che non hanno «voce in capitolo» e sempre condannato dalle clericature d’ogni epoca) anche nello spazio minimo di un blog è il minimo che si possa fare oggi. Visto che proprio quella «funzione ermetica del critico, quasi uno psicopompo», esaltata da Magrelli, è venuta ampiamente meno negli ultimi trenta-quarant’anni (cfr. post “Otto tesi sugli intellettuali” di R. Luperini). È una critica “scalza”, malvista, e pur essa un po’ “sporca” quella dei blog (e dei commentatori dei blog). Ma supplisce il vuoto creato dal silenzio sulle cose di sostanza di troppi competenti ben pagati. E in parte apre strade che l’accademia snobba o teme. Quanto poi alle risse che si scatenano sui blog, io non so dove viva Magrelli, ma mi pare che abbondino in ogni luogo e sarebbe il caso di indagarne le ragioni e di distinguere tra rissa e conflitto di idee, piuttosto che lamentarsene o invocare censure.
Magrelli inveisce contro chi vuole. Io mi limito a constatare che, in margine a un’intervista seria, articolata e interessante, la quale rende onore tanto all’intervistato quanto all’intervistatore, sorgono i soliti, inevitabili commenti degli accattoni della letteratura, dei risentiti cronici, degli sconfitti non solo dalla vita, ma da ogni suo surrogato. Il politicamente corretto consiste nel dare voce, per fortuna non ancora in capitolo, a simili cialtroni.
E ci mancava Abate, col suo solito commento di dieci cartelle.
Abate, lei mi fa pensare a certi pazzi eretici del Cinquecento, ma i peggiori, quelli proprio stralunati. Le do un consiglio da simpatizzante: faccia per un po’ il vecchio satiro, si compri un’arma e spari qualche colpo, e poi ritorni a parlare di letteratura e società con animo ardente, quale è il suo, ma un po’ meno prolisso, più sintetico.
Io trovo semplicemente fascisti i due commenti inviati da @pienelepalle, che evidentemente mi ama da anni. Se sulle *parole* c’e’ poco da dire, sulle *cose* c’e’ ancora tanto da lavorare, ma l’educazione avrebbero dovuta insegnarla da piccoli e ora mi sa che e’ tardi. Saluti libertari.
Non è che leggiamo i blog per mestiere, come lei. Fra un post e l’altro, nonostante i travagli della Storia, abbiamo anche i cazzi nostri a cui pensare. Lei ha figli? Lavora? dove lo trova il tempo per post giornalieri di dieci cartelle?
Le stesse cose potrebbe dirle in un quinto, se non in un decimo, dello spazio solitamente occupato. In attesa di tempi migliori per fare la rivoluzione, non potrebbe fare uno sforzo di sintesi nell’espressione delle sue tesi?
pienelepalledeifrustratidelweb scrive “abbiamo anche i cazzi nostri a cui pensare. Lei ha figli? Lavora? dove lo trova il tempo per post giornalieri di dieci cartelle?”
Magrelli è un poeta che non ho mai amato, e credo che la critica abbia fatto un pessimo servizio nel renderlo uno dei più noti e stimati poeti italiani di oggi. Mi ha sempre dato l’impressione di un ottimo, coltissimo prodotto intellettuale da esportazione, di quelli che ci propinano continuamente dalla Francia. D’altronde non è assolutamente vero che non abbia avuto un seguito di discepoli ed epigoni: forse meno evidenti o meno riusciti, ma il magrellismo è un fantasma che infesta i dipartimenti universitari, e spesso possiede gli studenti più ligi e meritevoli. In quest’intervista, assai competente ma troppo innamorata del suo intervistato, Magrelli dice cose assai ragionevoli, troppo. Giudico la sua ragionevolezza e cautela, a mio avviso non prive di calcolo, piuttosto fastidiose e fuori tempo massimo. Condivido in parte, per la prima volta da quando leggo questo blog, le critiche che gli sono state mosse. Ma l’atteggiamento è il solito, la nebbia di un risentimento smodato che ottunde il giudizio. Non è un problema di verve polemica, a mio avviso: la violenza delle argomentazioni è sacrosanta, quando necessaria. Il problema è la retorica della violenza – una retorica tra l’altro di primo grado – troppo accondiscendente con se stessi e con le proprie posizioni: ne mina l’autorità agli occhi dei contendenti.
Al tizio che ce l’ha piene e fa il proletariaccio.
Vedo che Magrelli dispone anche di una vergine Cuccia che abbaia se gli toccano il padroncino.
Un consiglio: le si sgonfierebbero un po’ se imparasse a entrare nel merito delle cose.
“Gli allievi mangiano ciò che i professori hanno digerito.”
Karl Kraus
L’antipatia, come forma di provocazione, è esilarante, e il primo scambio di battute tra Magrelli e Diaco contro il lettore sprovveduto e blaterone sembra essere stato scritto da un Flaubert che fa una seconda stesura del “Bouvard e Pécuchet” in chiave più misantropa. La frase: “Io non voglio sapere i pareri dei lettori, non mi interessano: deve essere vietato al lettore di parlare.” è smagliante nel suo anti-modernismo. Se la immagino pronunciata da un attore che veste i panni di Shylock l’effetto umoristico è apicale.
Io condivido in pieno. I pareri dei lettori non devono interessare agli autori: sono occasioni di confronto tra i lettori stessi, per lo più.
Da parte mia, se ho continuato a leggere il dialogo, nonostante Magrelli fosse così d’accordo con l’ermeneutica che ne faceva Diaco – Diaco parlava come se davanti a sé non ci fosse Magrelli, ma una sua opera omnia da farsi autografare – è perché il dialogo è una miniera di spunti e riflessioni che si fa fatica ad appuntare tutti: lo stimolo maggiore mi è provenuto dal suo riferimento alle opere di Aleksandr Lurija: due biografie segnate dalle patologia legate al linguaggio, quando i casi della vita raggiungono radicalità che si riescono a testimoniare ma non a anticipare – ad immaginare – prima. A patto non si sia un Borges.
Va da sé che l’autorevolezza che si guadagna Magrelli proviene dalle sue poesie e non dalle sue “mila” ore di lettura di opere critiche: azione meritoria, che per un critico-di-mestiere reputo indispensabile, che al fare-poetico saranno di grande supporto, ma che, per quanto sicuramente faticose e a tratti atroci come devono essere state, non possono valere come pretesa di risarcimento professionale. Come dire: studiare è condizione necessaria ma non sufficiente per garantire che si dicano poi cose degne di essere ascoltate.
Per questo piccolo e banale motivo la letteratura non è una scienza umana. Perché le Leggi, in questi ambiti, durano giusto il tempo che qualcuno impiega a beffarle tutte.
Un saluto!,
Antonio Coda
Il commento di dp, del 26 settembre, ore 3,10, è un capolavoro di lucidità, acutezza e chiarezza. Lo sottoscrivo parola per parola e auspico che la riflessione possa ripartire da lì.
Illustri intelletttuali datati ? Illustri poeti datati? Ormai regna la maggioranza del fai da te, vedi commentatori e molti blogger, che s’incazza a sua volta se cerchi di disubbidirla. Ignoranza? Ma decide la maggioranza!…
A meno che… questa sia una transizione penosa e alcuni stiano lavorando per qualcosa di nuovo e nuovamente serio (puntini puntini)
Ma quale “discussione”, cari signori!
Trovo che il discorso di Magrelli si spinga troppo in là. Farei un’ulteriore distinzione tra competenti e specialisti. Esempio: Magrelli è poeta e specialista di letteratura francese. Se volessi leggere un’autorevole recensione su un romanzo tedesco contemporaneo, a chi dovrei rivolgermi? Non mi basta un qualsiasi ordinario di letteratura, vorrei un germanista. Ma non vedo perché impedire a Magrelli di commentare la recensione…
Da un lato, corriamo il rischio dell’iperspecializzazione. La poesia letta solo da poeti, o i romanzi russi riservati solo agli slavisti, diventerebbero settori autoreferenziali, se non del tutto sterili. Dall’altro, siamo già arrivati al fenomeno contrario. Hai pubblicato un libro? Allora puoi dare il tuo parere su qualsiasi opera, dalla Bibbia a Harry Potter. A me resta il dubbio: questo parere aiuta il grande pubblico ad avvicinarsi ai classici, o l’autore a farsi bello per conquistare la patente di grande intellettuale?
@Il fu GiusCo: Magrelli dice: “Un’altra cosa importante per me[…] risiede proprio nello smarrimento preliminare: a me interessa andare a tentoni. Anzi, ciò che mi successe col primo libro fu di riscriverlo praticamente uguale, in bella copia, di farne il verso. Allora, a un certo punto capii che questo secondo libro andava buttato. Il mio secondo libro in realtà è il terzo, perché prima di Nature e venature avevo scritto un libro-fantasma che restava nel recinto di Ora serrata retinae. Alcuni hanno bollato come forzata questa ricerca di cambiamento, ad ogni pubblicazione, invece per me è essenziale”.
Mi limiterei a questo aspetto per ribadire l’importanza, cui accenni, che ha avuto l’autore in questione per quelli della nostra generazione. Ricordi i dibattiti, anche nabanssariani, sul problema indentitario, sullo stile e sull’inclusività che hanno fondato le basi delle nostre poetiche? Non possiamo dimenticare l’opera, lo straniamento percettivo leggibile nel lavoro di Magrelli ci ha illuminato sulle difficoltà di lettura del nostro presente. E’ vero, l’intervento del nostro in questa intervista è anodino, soprattutto per ciò che riguarda i blog e i criteri che certificano le competenze specialistiche di chi si interessa di letteratura. Il web, è vero, permette che la cultura esca dalle strettoie accademiche ma la fa ricadere nel mare magnum della relatività… penso sempre non esista una soluzione, penso al limite, in termini latouchiani, a un sacrificio da parte del lettore, al saper lasciare vuoto lo specchio che la libertà d’intervento sempre più spesso rende disponibile, giusto per non dare ragione alla teoria warholiana ;).
Non mi ci arrovellerei troppo, caro peppe, continua a lavorare piuttosto e incanala bene la rabbia. Semmai di torri il nostro caro web ne sta creando innumerevoli, mi concentrerei su questa frammentazione medievale dei poteri piuttosto che attenzionare un presunto potere centrale che ha ormai ceduto. un abbraccio.
@ Gianluca – E’ la vivida ruvidezza delle *cose* che qui si antepone alle *parole*, derubricarla a rabbia individuale e’ disinnescarne la sostanza. Qui nei commenti sono state scritte robe da Polizia Postale e non certo da me. Ciao. Giuseppe
@ Peppe – non capisco allora contro cosa ti muovi pep? perché ti inquietano quei commenti? Ciao.
@Gianluca
La dimensione pubblica del discorso, compreso il web 2.0 aperto ai molti, e’ inevitabilmente un agone fondato sulle *cose*, cioe’ sul dato materiale, sulle chiavi di lettura e sulle prassi decisionali che si vorrebbe ne conseguissero. Il discorso sulle *parole* pertiene ad un livello differente e su quello un accordo e’ spesso possibile, come da valutazioni estetiche condivise anche con tanti che scrivono su questo sito.
Nello specifico dello specifico ambito umanistico, Magrelli -dalla sua autorevole posizione di poeta con discepoli, studioso raffinato, nonche’ docente accademico ordinario- sostiene qualcosa sulle *cose* che alla pratica del campo e in un rapporto costi/benefici per i molti, risulta insostenibile.
Mi stupisce che, quando si parla delle *cose*, sulla pars destruens si sia grossomodo d’accordo in tanti, ma che poi la pratica corrente e condivisa replichi quegli stessi automatismi che in tanti stessi dicono di non gradire e di voler assolutamente cambiare. Che rapporto puo’ fondarsi, fosse anche solo sulle *parole*, con chi ci appare lontanissimo nelle *cose*? Questo e’ un tema bisecolare noto a te e a tanti, ma che nelle dinamiche del tempo presente non si risolve in un saggio comparativo, bensi’ nella vita di ognuno e di tutti i giorni.
Finisco sui commenti dell’anonimo inquieto: incanalare la rabbia andrebbe detto a lui, non certo a me, visto che ambasciator non porta pena. Io tengo molto all’hortus conclusus e starei per ore ad ascoltare Magrelli disquisire di letteratura. Peccato che nel 2012 le *parole* debbano necessariamente fare i conti con le *cose* e non solo in Italia. Qualcuno deve pur dirlo.
Ok chiudo. Saluti. Giuseppe
È davvero buffo che il manganello del fascistoide “pienelepalledeifrustratidelweb” sia il migliore e più convinto e zelante fiancheggiatore di un poeta da esportazione quale V.M. – Non credo che ciò accada per caso.