di Emiliano Morreale
Federico Fellini diceva spesso che di mestiere faceva l’aggettivo. Eppure l’aggettivo “felliniano” è ingannevole, rimanda a un mondo di sogni e nostalgie fuorviante rispetto a quello che oggi l’opera del maestro riminese ci dice. La forza del suo cinema, dalla risonanza planetaria, risiede in una immersione di intensità unica nelle profondità della cultura italiana del ‘900, quella alta e quella bassa. L’opera di Fellini è anche quella di un grande antropologo, e i primi ad accorgersene furono certi scrittori, da Oreste Del Buono a Italo Calvino, che a partire da Amarcord scrisse la memorabile Autobiografia di uno spettatore. A raccontare il rapporto tra Fellini e la realtà politica dell’Italia è ora il libro di un giovane studioso, Andrea Minuz, Viaggio al termine dell’Italia. Fellini politico (Rubbettino, 242 pp., 16 euro) che tra l’altro ospita in appendice dei brani dell’epistolario tra Fellini e Giulio Andreotti. In effetti, l’interesse di Fellini per Andreotti non stupisce. Secondo quanto dichiarò, il regista oscillava politicamente tra il Psi e il Pri, e votò per la Dc solo nel ’76 (turandosi il naso secondo l’invito di Montanelli); ma se poteva affidare il voto a un riformista sanguigno come Nenni, o a un laico come il suo amico La Malfa (e partecipare al picchetto d’onore dei funerali di Berlinguer), il suo mondo era assai più prossimo a quello cattolico-romano di “Belzebù”. Nelle lettere tra gli anni ’70 e gli ’80 i due passano dal “lei” al “tu”, si scambiano affettuosi messaggi (anche tramite Franco Evangelisti), e Andreotti cerca invano di coinvolgere il regista in varie iniziative, dalla Fondazione Fiuggi alla “Casa di Dante”. Un motivo di attrito sarà la legge sulle interruzioni pubblicitarie, difesa da Andreotti. Fellini, in un’intervista a “Repubblica”, vi vedrà “tutti i segni di uno smarrimento morale prima ancora che di un palpabile smarrimento politico”. Ma i rapporti tra i due continueranno. Al regista, Andreotti sembrava “inventato da un grande romanziere”, un personaggio “da corte shakespeariana come Otello”. Viene da pensare che, per le stesse ragioni per cui avvertiva il fascino dell’uomo, Fellini avrebbe apprezzato un film come Il divo.
Ma al di là degli aneddoti, il viaggio di Fellini nella società italiana è tutto appassionante: e non solo quando, con La dolce vita e 8 e ½, è in perfetta consonanza con un’epoca (come ci ricorda un altro libro appena uscito, C’era una volta il futuro. L’Italia della Dolce Vita di Oscar Iarussi, Il Mulino). Dalla metà degli anni ’60, il cinema di Fellini è più cupo e claustrofobico, ma sempre ossessionato dall’Italia presente. Un’eccezione sembrerebbe Amarcord, che fin dal titolo sembra sprofondare nella memoria dolceamara. Ma qui si tocca ancora l’ambiguità geniale di Fellini: perché quella sembrava un’elegia sul tempo che passa, a rivederla oggi è soprattutto uno dei film più profondi sulle radici del fascismo. Dopo il Casanova (film in maschera, e archeologia del “vitellone fascista”), verranno i due film più politici, Prova d’orchestra (1978) e La città delle donne (1980). Il secondo, tra le sue cose meno riuscite, è però tra i pochi film italiani ad affrontare la novità del femminismo. Ed è divertente, nel libro di Minuz, rivedere la diplomazia felliniana all’opera, i tentativi di coinvolgere Adele Cambria o Germaine Greer (che continua a ripetergli: “Ma Federico, che ne sai tu delle donne?”). Prova d’orchestra poi venne apprezzato come pamphlet politico in maniera tanto unanime da risultare imbarazzante. Ma la testimonianza d’epoca che colpisce di più è la recensione di “Lotta Continua”, che con un brivido riconosce parti del Movimento nelle figure in scena: “Se ne esce sconcertati e si resta a lungo inseguiti dal pensiero- ma sono proprio io quello? O meglio siamo proprio noi?” E pur “sviliti, ridicolizzati”, la risposta forse è sì.
Negli anni ’80, gli interventi pubblici del regista saranno sempre più violenti e amareggiati, specie nell’inutile battaglia contro le interruzioni pubblicitarie dei film. Minuz sembra imbarazzato davanti al Fellini “apocalittico” di quel decennio, alle prese con film sempre più diretti, cupi, letteralmente pesanti. Ma non era, quello dell’ultimo Fellini, solo lo sguardo di un vecchio che non capiva più il presente. Era anche la libertà che molti artisti trovano alla fine della loro carriera, presi da un’urgenza violenta e “anti-estetica” di dire le cose. L’ultimo Fellini mostra senza veli il proprio lato nero. Ci libera dagli equivoci sul “fellinismo” e restituisce l’immagine di un artista radicale e spietato. Emblemi del degrado sono la sagra dello gnocco in La voce della luna, e più ancora il cavalier “Lombardoni”, padrone di quella tv che in Ginger e Fred è vista come un mondo circense e claustrofobico, quasi una versione deforme dell’amato mondo di Cinecittà. È questo l’elemento tragico e ironico: ciò che nell’Italia degli anni ‘80 indignava di più Fellini era la versione patologica di qualcosa che lo aveva sempre attratto e respinto, e ispirato; insomma qualcosa di oscenamente “felliniano”.
[Immagine: Marcello Mastroianni in Otto e mezzo di Federico Fellini (gm)].
Mah, Fellini politico è sinceramente un titolo che non mi piace troppo. Fa dire di più di quel che sia.
Per esempio Amarcord. Quello è un film pericoloso per il regista, per molti aspetti. Dice è una satira contro il fascismo… ma sappiamo bene che non è solo quello, la nostalgia c’è, la nostalgia per un mondo di ricordi, per i chiaroscuri (estate-inverno) del paese, la vita provinciale, per la giovinezza (con tutte le sue dolorose iniziazioni famigliari e sessuali, come per il protagonista e alcuni suoi amici). Fellini mette in scena un fascismo cialtronesco, sbruffone, gaudente, che porta praticamente tutta l’indolente nomenclatura di partito a sparare alla chiesa e alla campana per abbattere un grammofono anarchico che suona l’Internazionale; un fascismo da caciara che sfila come una grande papera nera nelle parate… ma Fellini non avvertiva che provare tanta melanconia per un’epoca dove per anni aveva dimorato il fascismo (nonostante le parodie) potesse contenere in qualche maniera una sfumatura reazionaria e meno distante dal fascismo di quanto egli non credesse? non dico di appoggio del fascismo, non dico questo, ci mancherebbe. Dico che in realtà Fellini non si rende conto di accettare in buona parte alcune componenti ambientali dell’era fascista e di provarne nostalgia. Lo fa del tutto inconsapevolmente, ma lo fa, perché Fellini non era davvero in possesso di categorie storico-politiche per compiere analisi autonome che andassero tanto oltre il senso popolare dell’antifascismo del dopoguerra. Nella letteratura felliniana si produce piuttosto molto più una sorta di sentimento politico in pillole, un po’ ingenue un po’ esplicite, dal sapore didascalico e quasi aneddotico che denunciano ancora una volta la carenza di una visione politica globale… mi riferisco per esempio alla poesia “I mattoni” del manovale Calzinazz “mio nonno fava i mattoni, mi’ babbo fava i mattoni, faso i mattoni anche a me ma la casa mia ndov’è?”, Fellini deve far dire ad un manovale quella poesia, ma non è nelle sue corde, ammazzerebbe il suo cinema, rappresentare diversamente il mondo operaio dell’era fascista (qualcuno potrebbe obiettarmi che la distensione e la serenità che si respirano nel cantiere sulla sabbia di Amarcord dimostrerebbero la benevolenza e l’umanità del capomastro, il padre di Titta, la messa in opera delle idee del collerico anarchico… ma vi pare che l’operazione sia davvero voluta tanto da risultare così in secondo-terzo piano rispetto all’apparizione della pazza lasciva del paese e della poesia di Cazinazz? siamo sicuri che ci abbia pensato? secondo me no)… Il cinema di Fellini non ha alcuna carica politica reale… C’è o non c’è una bella differenza tra I vitelloni di Fellini e i Vitelloni di Pasolini (Accattone)? C’è differenza tra i film di Fellini e quelli di Ferreri (in quelli di Ferreri la carica politica è in perfetto equilibrio con la sua estetica cinematografica)?
Ci sono schegge, in Fellini, pilloline politiche, che dimostrano l’umanità di Fellini, ma anche l’ingenuità delle sue sintesi politiche: il suo cinema in generale insegue un mondo che è più vicino alla fantasmagoria, al lirismo puro che alla analisi etico-politica… e si sa (volenti o nolenti) le fantasmagorie da quale parte politica tirano (a prescindere dalle intenzioni di Fellini).
Quello che voglio dire è che Fellini era sicuramente un antifascista e sicuramente aveva idee socialiste nella vita, però nei suoi film sono espresse in maniera del tutto didascalica, sono momenti isolati e marginali, inseriti a forza, quasi a voler esprimere una posizione, senza una vera analisi socio-politica né di un’assimilazione completa nei suoi registri cinematografici… così da non rendersi conto della vicinanza degli amarcord (inteso nel senso dialettale) col fascismo, al di là di tutta la retorica anti-fascista che egli poi produce….