di Rino Genovese
1. Ciò su cui occorrerebbe riflettere è lo spazio ristretto del riformismo oggi; non mi riferisco alla ben nota diagnosi intorno alla perdita di capacità ridistributiva del sistema capitalistico dopo il ciclo alto dei famosi trent’anni del periodo postbellico; mi riferisco a un’altra cosa. L’ambito teorico entro cui, nei primi decenni del Novecento, si erano misurate le diverse opzioni socialiste, riformista e massimalista (o, se preferite, rivoluzionaria), era pur sempre quello di un superamento del capitalismo. Gli uni, i riformisti, pensavano di arrivarci per evoluzione; gli altri, i massimalisti o rivoluzionari, puntavano su una crisi o un più o meno inevitabile crollo del sistema, entro cui si sarebbero inserite le forze proletarie vittoriose.
Un po’ alla volta, come si sa, ambedue queste opzioni si sono dissolte. Il riformismo socialista europeo, da Bad Godesberg in poi, ha messo da parte il superamento del capitalismo (l’ultimo che ci abbia creduto è stato forse Olof Palme). Teorici come Marcuse, che intorno al ’68 puntavano su un rovesciamento del sistema, se non altro possibile, vedevano il processo rivoluzionario come una “lunga marcia”, che avrebbe dovuto fare i conti con la tendenza all’integrazione della classe operaia in Occidente, e che partiva perciò dai movimenti di liberazione del Terzo mondo, oltre che dalle rivolte giovanili.
Che cosa accade oggi, oggi che pure si è ritornati a parlare di una crisi di sistema? Perché non soltanto la questione del superamento del capitalismo non si pone, né in un modo né in un altro, ma finanche una semplice prospettiva di ridistribuzione del reddito fatica a farsi strada in Europa? Perché paesi come la Grecia, in cui ci sono, o ci sono stati, forti movimenti di protesta contro la politica di austerità, non vedono, tuttavia, nessuna proposta davvero alternativa?
Per rispondere a questa domanda, bisogna chiamare in causa il concetto antropologico di cultura. Non quello di semplice ideologia come sovrastruttura; proprio di cultura, nel senso di una tenace infrastruttura di abitudini, di usi, di costumi, di rapporti affettivi e al tempo stesso economici, che cancellano o mettono nell’impasse qualsiasi alternativa sociale e politica. In Occidente questa cultura, certo intrecciata con il capitalismo ma non riducibile ad esso, è costituita soprattutto da una forma d’iperconsumo estetizzato. Gli stessi migranti, spinti sulle nostre sponde dalla miseria, non aspirano tanto a una vita degna, quanto a diventare dei piccoli fruitori delle briciole di questa cultura. L’analisi di un Marcuse andrebbe perciò aggiornata e modificata: non più integrazione della classe operaia (in gran parte scomparsa), quanto piuttosto assorbimento di mano d’opera straniera puramente servile, deculturalizzata e insieme riculturalizzata nel senso del consumo.
E l’aspetto più inquietante della cosa è che, anche quando questo mondo emergente dalla miseria si ribella, lo fa in nome di valori religiosi, nel segno di una ripresa o di una riappropriazione della tradizione culturale. Non ci sono alternative di sorta: o una cultura o l’altra; o la liberalizzazione occidentalizzante o la ricaduta, con gradi minori o maggiori di oscurantismo, sotto l’incantesimo dei tempi antichi. Altro che processo di disincantamento del mondo e di secolarizzazione, dunque! La mancanza di idee e l’impasse dello stesso riformismo sono in stretto rapporto con questa culturalizzazione a tutti i livelli, banalmente modernizzante o neotradizionale in modo protervo, che eclissa le potenzialità del conflitto sociale, punto di riferimento per qualsiasi cambiamento piccolo o grande che sia.
2. Il passaggio dalla società di massa novecentesca al cosiddetto individualismo di massa contemporaneo può essere visto come un volgersi della società nella cultura. Nell’ambito delle scienze sociali è come se la sociologia perdesse terreno nei confronti dell’antropologia culturale. Se prima, con atteggiamento più o meno colonialista, era la sociologia a pretendere di dettare i ritmi di evoluzione dalla “società primitiva” alla più sviluppata civiltà europea, adesso, al contrario, è lo sguardo dell’ “altro” – lo sguardo propriamente etnologico – a essere applicato all’Occidente dall’Occidente stesso, che diventa perciò straniero a se stesso, frastagliandosi – da unitario e insieme percorso da forti contrasti di classe che era – in una miriade di differenze individuali, che solo la de-differenziazione indotta dalla cultura dell’iperconsumo estetizzato può compensare. Insomma, la spinta alla individualizzazione crescente della società (che, secondo certe visioni, sarebbe dovuto essere un puro effetto di superficie della più profonda differenziazione funzionale moderna), e in cui è innegabile un contenuto di emancipazione (per esempio nel caso delle donne), è controbilaciata da una spinta uguale e contraria di tipo culturale-simbolico, che finisce col creare la strana situazione d’impasse espressa dall’ossimoro “individualismo di massa”.
La situazione che ne risulta è paradossale ma non troppo. Con una lettura rovesciata del pensiero di Karl Polanyi, se ne possono cogliere alcuni aspetti centrali – e così, forse, si può cominciare a reagire ad essi. Non è il momento astrattamente economico, il mercato, a scorporarsi dall’intero, a rompere il legame essenziale con la cultura in senso ampio; è piuttosto quest’ultima ad assorbire il mercato capitalistico, facendone il princeps (nella prima fase del consumismo, quella ancora fordista), e in seguito sviluppandosi come iperconsumo estetizzato e proliferazione di “differenze”, cui corrisponde la de-differenziazione tipica della ibridazione dei tempi storici e delle culture (grazie anche a una “mitologia a bassa intensità”, come la chiama Peppino Ortoleva, diffusa dai mass media), che manda in soffitta il processo di secolarizzazione.
Il neoliberismo contemporaneo è probabilmente il migliore esempio di quanto sto tentando di mettere a fuoco. Questo nuovo liberismo, infatti, non ha quasi nulla a che spartire con il liberoscambismo dei tempi andati, e nemmeno qualcosa in comune con il capitalismo “manchesteriano”. Esso è piuttosto finanziarizzazione tendenzialmente integrale dell’economia – una specie di nuova utopia rovesciata di segno capitalistico – che, sulla base delle odierne tecnologie “in tempo reale”, aspira ad assorbire dentro di sé l’intero mondo. È quindi cultura – né economia, né politica – nel suo senso più pieno, olistico e de-differenziante.
[Immagine: Andreas Gursky, 99 Cent (1999) (gm)].
Quando una nuova visione del mondo non si è ancora sviluppata, è ovvio che tutti si rivolgano alle culture già esistenti, non credo vi sia nulla di sorprendente in tutto questo. Il punto è che una nuova visione del mondo richiede nuove lenti attraverso cui guardare, e questo è un atto puntiforme, non graduale, avviene tutto in una volta. Non trovo così sorprendente che una rivoluzione si preannunci attraverso un processo di crisi delle culture esistenti, trovo invece sbalorditiva l’ignavia e la sostanziale pusillanimità dei ceti intellettuali, incapaci di interrogarsi su nuoive prospettive e di organizzarsi costituendo massa critica.
Dissento del tutto dalla conclusione.
La finanza è economia, non è qualcosa di differente, è semplicemente un sottotipo di economia. E’ la sua forma estrema per tentare di mantenere un’ormai impossibile egemonia economica al centro dell’impero mondiale.
La malattia sta sempre, a mio parere, nel rapporto capovolto tra economia e politica, dove la prima che dovrebbe sottostare alla seconda, è riuscita ad invertire i ruoli.
Credo anche che la politica non sia la passiva manifestazione di una culktura, ma che ne sia invece la aprte più attiva, quella che, pur traendo spunto dal patrimonio di tradizioni e conoscenze consolidatesi, sia nello steso tempo in grado di esercitare su di essa un potente feedback.
“salpa l’ancora ragazzo: e abbandona ogni cultura”, (Epicuro)
Non riesco a capire il senso di questo pezzo. Il capitalismo infatti ha realizzato i sogni secolari delle ideologie progressiste: cancellare la sovranità delle nazioni, assegnare un potere assoluto alle donne, divinizzare l’omosessualità…
Non stupisce quindi che le uniche reazioni al sistema siano di segno reazionario: sono le uniche possibili!
Che una antropologia profonda dell'”iperconsumo estetizzante” e dell'”individualismo di massa” abbia un ruolo fondamentale nella stabilizzazione del nostro sistema sociale mi sembra una tesi corretta e importante. E’ giusto quindi metterla in evidenza. Mi sembra tuttavia che qui sia formulata in modo paradossale, in un certo senso al contrario. Se ho capito bene, questa nuova antropologia si appropria dell’economia di mercato e del sistema capitalistico e li rende perciò inattaccabili, perché li “protegge” ideologicamente dalla possibilità di pensare una alternativa a essi.
Io invece la vedo in senso opposto, più alla Luhmann (e quindi, in questo caso, in termini più classicamente marxisti): il sistema economico si rende sempre più autonomo dagli altri sistemi, e questo almeno dal XVIII secolo; la sua logica autonomizzata sfugge al controllo del sistema politico, che diventa quindi solo un ambiente della sua azione; inoltre, la forza del sistema economico tende a “colonizzare” gli altri ambiti di azione, assoggettandoli alla propria logica. In termini economici, la creazione costante di nuovi bisogni, indispensabile per garantire la crescita della domanda e quindi lo sviluppo, si impone nelle pratiche sociali e nella cultura, alimentando il fenomeno del consumo di massa individualistico, falsamente differenziato. Questa struttura sostiene, nel bene e nel male, anche spinte moderne all’individualismo e all’emancipazione che hanno altre radici, legate al conflitto sociale e all’affermazione delle soggettività. Radici che vengono però sempre più inaridite da quella logica sistemica, che “riduce” l’individualismo moderno alla dinamica funzionale al mantenimento del sistema. A questo aggiungo, come conseguenza, una interessante tesi di Hauke Brunkhorst: le religioni si ripresentano con virulenza perché anch’esse sono il frutto di questa esasperata logica di autonomizzazione, e tendono a colonizzare altri contesti.
Tutto questo per la dinamica sociale. Va detto che, in termini politici, bisogna anche interrogarsi sulla possibilità di un superamento del capitalismo e dell’economia di mercato. Io credo che non sia pensabile, questa possibilità (ho già cercato di spiegarlo). Il problema è il controllo politico del capitalismo, pur nel rispetto delle logiche sistemiche proprie. Quindi, certo, il problema della redistribuzione della ricchezza. Su questo piano, è legittimo dire che una certa antropologia impedisce di pensare anche questo, in parte; ma mi sembra che la basi di questa antropologia siano materiali, non autonome.
E poi comunque bisogna riconoscere anche la legittima richiesta delle persone di arricchirsi, di uscire dalla miseria. Anche comprando i prodotti del capitalismo avanzato.
Il senso del pezzo, da un punto di vista teorico, starebbe appunto nel suo significato antiluhmanniano: la società differenziata non è più molto differenziata ma avvolta in una cultura totalizzante, che è quella del consumo. È una risposta “francofortese”, corretta mediante l’abbandono della nozione d’ideologia e l’uso di un concetto di cultura nel senso dell’antropologia culturale. All’opposizione, nel mondo, ci sono soltanto altre culture – in particolare quella arabo-musulmana.
Da un punto di vista politico, lo “spazio ristretto del riformismo” consiste proprio nel non potere fare altro che stare all’interno di tutto questo (io aggiungo, rispetto a Mauro Piras, un “purtroppo” ma, in sostanza, sono d’accordo con lui). Nessun’autentica progettualità anticapitalistica è visibile oggi. Lo si vede perfino in questo “blog”: quelli che sembrano i più radicali sono i più conservatori, e lo dicono anche senza remore.
@Piras
Ma non le sembra una palese contraddizione affermare l’autonomizzazione dell’economia e nello stesso tempo invocare il suo controllo da parte della politica?
L’autonomizzarsi non implica di per sè l’incontrollabilità? Il problema sta nel fatto che una tale economia asservisce la politica, è inevitabile che lo faccia.
Una nuova società richiede non la fine della proprietà privata dei mezzi di produzione, ciò non è in verità necessario, quanto piuttosto che l’attività imprenditoriale operi all’interno di una pianificazione economica definita dagli obiettivi sociali, stabiliti dalla politica.
ma data la politica come ambiente di azione dell’economia appare impossibile il ripristino di qualsivoglia controllo. può una variabile controllare l’invariante che la determina? e se poi l’economia si riconoscesse come volta ambiente d’azione della bestialità umana slittata nella sopraffazione mediata dalla tecnica?
sono cose vecchie, lo so.
me ne scuso, ma da solo non ne vengo a capo. magari qualcuno può aiutarmi.
*”e se poi l’economia si riconoscesse A SUA VOLTA come…”
@Genovese
Forse, sarebbe il caso di mettere ordine nell’uso dei termini. Che io sappia, il termine cultura è utilizzato ormai direi quasi unanimamente in opposizione a natura. In questo senso, trovo azzardato distinguere più culture in un contesto in cui la comunicazione opera liberamente. L’antropologia culturale che lei cita, può parlare di pluralità di culture in riferimento a tribù e popoli sostanzialmente isolati l’uno dall’altro,e difatti, nell’era della comunicazione straripante, quella contemporanea, sono rimaste forse soltanto alcune remote località del Borneo in cui civiltà differenti dalla nostra possono tuttora esistere, e non si sa quanto ancora a lungo.
Capisco la difficoltà di utilizzare il termine ideologia così controverso e così pieno di connotati negativi. Forse si potrebbe usare il termine tedesco “weltanschauung”.
… e il mondo nel quale viviamo resta orribile. Beati voi che avete tempo da perdere.
@l’angelo misterioso
Possibile che non si renda conto dell’inerente contraddizione in cui cade? Per farci sapere che ritiene i nostri interventi una pura perdita di tempo, il tempo lo perde anche lei.
Esprimere un’opinione richiede un certo investimento in tempo, ma che si tratti di uno spreco è una questione aperta.