di Alberto Casadei
[Le precedenti uscite di questi Assiomi si possono leggere qui: 1, 2, 3, 4 e 5. Gli assiomi sono un esperimento di scrittura critica pensata per la rete. L’argomentazione è minima per ridurre uno dei problemi più forti della comunicazione su internet, la sua tendenza a dividersi in sottoinsiemi che diventano, di messaggio in messaggio, sempre più esili e dispersivi. Lo scopo è anche quello di definire obiettivi concreti, e non solo astrattamente plausibili, all’interno di una concezione del ‘fare letterario’ che vorrebbe confrontarsi con alcuni fondamenti dell’archeologia del sapere contemporaneo].
1. Dalla svolta romantica in poi, lo stile è diventato il tratto distintivo di ogni opera artistica che aspirava a un riconoscimento duraturo. Il concetto non solo si è modificato, ma ha anche progressivamente pervaso le modalità di valutazione delle opere classiche, oggetto sin dall’antichità di giudizi basati su criteri retorici ed etici.
2. Nel XX secolo, la nozione dominante nell’ambito della stilistica letteraria (e l’analisi si potrebbe facilmente estendere) è stata quella dello scarto (écart). In realtà, più che una definizione quella di ‘scarto’ era la segnalazione di un problema: tra la realizzazione individuale di un testo (di qualunque tipo) e la sua matrice generale (ogni Langue) esiste uno iato non colmabile sulla base di regole. Ciò lascia spazio all’ermeneutica, sebbene non siano mancati i tentativi, specie da parte di Roman Jakobson e della sua scuola strutturalista, di ridurre al minimo quello iato (ma altrettanti sono stati quelli di enfatizzarlo, da Blanchot e Lacan in poi).
3. Oggi è possibile cominciare a riempire lo spazio dell’inventio stilistica grazie a una rimotivazione cognitiva tanto dei tratti formali quanto di quelli contenutistici che vanno a formare lo stile. In questa prospettiva, ogni creazione linguistica mobilita un’intera visione del mondo, che può andarsi a collocare nel già noto, oppure tentare di esprimere gli aspetti bio-culturali consci e inconsci che caratterizzano solo e soltanto una individualità.
4. Lo stile è un interfaccia tra mondo interiore e mondo esterno, che si fonda su un processo di attrazione, ovvero sull’uso orientato di elementi cognitivamente e/o culturalmente marcati.
5. Lo stile non è un semplice insieme di tratti formali: ogni stile riuscito deve costringere a riorganizzare la nostra percezione del mondo, così come fanno, a un livello basilare, le terzine di Dante o i periodi di Proust, che in questa prospettiva nascono come operazioni stilistiche.
6. La stilizzazione corrisponde a una delle modalità dell’appercezione.
7. Individualmente, lo stile è l’esito del tentativo di fissare in un ordine riconoscibile, ma non necessariamente regolare e razionale, il coacervo di esperienze ontogenetiche che si collocano nel nostro inconscio cognitivo. I motivi che inducono a quel tentativo riguardano la biografia (e spesso le patologie) del singolo, ma l’esito si colloca su un piano diverso rispetto all’occasione-spinta.
8. Collettivamente, lo stile è la garanzia dell’importanza ermeneutica di un’opera, sia dal lato dell’autore che da quello del lettore-fruitore.
9. Non si dà un’opera totalmente priva di stile, anche se esistono l’inerzia dell’inventio e la sclerotizzazione dei processi di produzione e ricezione delle opere.
10. Della stilizzazione, la moda è una versione momentaneamente iperattiva, perché incentrata sull’aspetto del nuovo in sé, ma di rapido decadimento. (L’avanguardia è la versione eretica della moda). Viceversa, al cuore dello stile duraturo si colloca una rielaborazione del punctum, il nesso inscindibile di biologia e cultura del singolo, e sua capacità di segnalare un quid significativo per tutti.
11. Parafrasando Wilde, si può affermare che la verità dell’arte è interamente e assolutamente una questione di stile, posto che la verità artistica è la più forte e ricca condensazione della filogenesi e dell’ontogenesi di un essere umano.
[Immagine: Pink Floyd, The Wall (gm)].
Per niente d’accordo. Mi spiego: mi sembra di parlare due lingue diverse.
Io studio stilistica in UK, apprezzo i saggi retorico-stilistici di Mengaldo, quelli di Sylvia Adamson, lo studio del lessico poetico, delle strutture sintattiche, i saggi illuminanti di Riffaterre sulla stilistica strutturale ecc. Per me lo stile non è affatto questo insieme culturalmente carico, non-verificabile tramite esempi. La stilistica è lo studio dello stile, e lo stile come oggetto di indagine non può essere che qualcosa di riferibile al testo, ai suoi aspetti formali. Quello che viene dopo (che lo stile implichi una diversa visione del mondo ecc.) è vero, ma non si può più parlare di stile allora. Descrizione dello stile e interpretazione dello stile sono momenti diversi, come giustamente rimarcava Riffaterre.
Mai che si affronti lo studio linguistico dei testi. Perfino quando si parla di stile, lo si deve ricondurre per forza a prospettive post-strutturaliste, diffidenti nei confronti della materialità dello stile.
Questo post è quanto di più antagonistico possa esserci nei confronti dello stile. Perché? perché non è verificabile sui testi, perché è un insieme aforistico di sentenze più in odore di filosofia o sociologia che di filologia, strutturalismo e studio empirico della letteratura.
Allora, può anche starmi bene, ma la cosa importante è che si definisca quale concezione si ha dello stile: lo stile, per me, è un complesso dato da elementi rintracciabili (registro lessicale, lunghezza e struttura delle frasi, fonte dell’enunciazione, modalità dell’enunciato, uso della punteggiatura, ecc.) e caratterizzati dalla loro presenza o assenza, intensità e distribuzione.
Mi dà poi fastidio che un genere di scrittura come quello qui proposto si appoggi alla scusante che internet inibisce l’argomentazione e che dunque argomentare diventi non più necessario, ma solo sentenziare senza poter essere smentiti (perché il discorso è fumoso, non verificabile: non sto cercando di catalogare metafore in base alla loro forma grammaticale, non sto vedendo in che modo la poetica ermetica preferisce abolire gli articoli per ottenere effetti di assolutizzazione professati in sede teorica e poetica. eccetera)
A tutti coloro che vogliano apprendere cosa è lo stile, consiglio di leggere:
– Essays de stylistique structurale (M. Riffaterre, Flammarion 1971)
– Literary language (S. Adamson, 1999)
– Il linguaggio della poesia ermetica (P. V. Mengaldo, 1989; leggibile qui: http://it.scribd.com/doc/99545746/Pier-Vincenzo-Mengaldo-Il-Linguaggio-Della-Poesia-Ermetica)
“tra la realizzazione individuale di un testo (di qualunque tipo) e la sua matrice generale (ogni Langue) esiste uno iato non colmabile sulla base di regole. Ciò lascia spazio all’ermeneutica, ”
molto interessante e azzeccata l’immagine dello iato come distanza incolmabile tra forma del pensiero di una mente e sua canonizzazione – e relativa apertura all’ermeneutica. Discorso che sfocia inevitabilmente sulla questione della confusione tra ontologia, epistemologia ed ermeneutica che fonda il postmoderno.
non riesco ad inquadrare bene l’ “inconscio cognitivo” (??). L’inconscio è inconscio, no?
Lettura stimolante (come le precedenti di Casadei).
Luigi B.
Leggo solo ora il commento di Castiglione.
Davide, io credo che Casadei non dica nulla di diverso da quanto tu affermi. Dire che “lo stile, per me, è un complesso dato da elementi rintracciabili (registro lessicale, lunghezza e struttura delle frasi, fonte dell’enunciazione, modalità dell’enunciato, uso della punteggiatura, ecc.) e caratterizzati dalla loro presenza o assenza, intensità e distribuzione.” è, credo, lo stesso che dire “La stilizzazione corrisponde a una delle modalità dell’appercezione.”
Più che altro, io credo (ma è una interpretazione personale) che Casadei ponga l’enfasi più nello iato tra stile (come tu lo descrivi) e le sue radici/origini. In questo iato, in questo scarto ha luogo l’operazione ermeneutica (di chi scrive e di chi legge).
Per quanto si possa cercare di “standardizzare” lo stile individuando presenza o assenza quantificabili di elementi, resta sempre la ineliminabilità di quella parte di non detto che il testo dice. Ecco perché pur non cambiando lo stile, un testo può dire cose differenti a persone differenti.
Luigi B.
Ringrazio come sempre per questi primi commenti. Devo dire che la forma dell’assioma (termine da intendersi in senso metaforico, ovviamente), volutamente netta e tranciante, è stata da me scelta apposta per orientare la discussione in una direzione ‘precostituita’. Però, chi conosce la mia esperienza come critico sa che ho sempre fatto analisi stilistiche puntuali, su Ariosto come su Montale o Fenoglio o autori contemporanei. Il problema che qui affronto è più generale, ossia quello di una ridefinizione del nostro concetto di stile letterario, che vada oltre i limiti del concetto di ‘scarto’ che ha dominato le concezioni novecentesche. Proprio per chiudere il circolo ermeneutico, occorre ancora interrogarsi su che cose spinge l’autore a determinate scelte, e che cosa poi può ricavare il lettore da quelle scelte. Per esempio, io sono convinto che le scelte stilistiche siano quelle che permettono di interpretare anche i testi oscuri: ho sperimentato questo metodo con Amelia Rosselli, per cercare di ri-comprendere alcuni presupposti biografici nei suoi tratti stilistici più marcati, anafore sovrabbondanti, ossimori ecc. Tutto questo si può giustificare se si prova a costruire una teoria, o almeno un metodo, che per esempio comprenda le acquisizioni delle scienze cognitive, a cominciare dalla linguistica ma non solo. Perché l’inconscio cognitivo, secondo le categorie di Lakoff e Johnson, comprende non solo gli aspetti che siamo abituati ad analizzare con la psicanalisi, e in particolare le varie patologie, ma anche la continua attività prerazionale di modellizzazione e rimodulazione del mondo. In questa prospettiva, appunto, lo stile, nel suo senso più forte, diventa il tratto che segnala il modo con cui l’io dell’artista (in tutte le sue componenti, consce e inconsce) si rapporto con l’esterno, persino in testi che vanno contro le regole normali della comunicazione. Nessun problema quindi a cercare come sempre tratti distintivi, immagini-chiave, ecc. Il problema che mi pongo, e pongo a chi vuole riflettere sulle concezioni attuali dello stile, è se non siamo finalmente in grado di fare un piccolo passo avanti, persino oltre Spitzer e Contini.
Grazie per la risposta.
Mi rendo conto di essere più d’accordo di quanto pensavo. Anche a me piace l’idea di rintracciare l’autore nelle scelte stilistiche, ma credo che sia una strada difficile: perché l’autore ha comunque facoltà di cambiare stile da opera a opera, di compiere un atto “arbitrario” che forse manda in frantumi l’idea di organicità di molti poeti del Novecento. Forse è più proficuo studiare i tratti dello stile in concomitanza con la persona poetica proiettata, per non cadere in pericolosi psicologismi, suggestivi ma forse limitanti per comprendere l’opera (è necessario conoscere la biografia dell’autore, mi chiedo? non vale di più capire come, dal testo, si formi la voce enunciante e dove si ponga? cosicché quando parliamo degli autori parleremmo semplicemente delle posture di un soggetto all’interno di un testo, e dalla somma di queste posture deriva l’autore (ma non l’uomo che ha scritto le opere).
Leggendo la puntata precedente di questi assiomi mi interrogavo proprio sul significato che Casadei dava al concetto di stile. Qui raccolgo qualche altro elemento e trovo la direzione tracciata decisamente interessante e da approfondire (per quanto mi riguarda), sostanzialmente per le ragioni che già ha segnalato Luigi B., cui aggiungerei il decimo assioma.
Interessante anche il tentativo di gettare un ponte verso le scienze cognitive. Perché? Perché un dialogo con quel vario insieme di saperi scientifici che sta tra psicologia, linguistica, neuroscienze, ecc.. può tornare a valorizzare la letteratura come forma di conoscenza e risvegliarla dal tanto entertainment e chiacchiera ed effusività e orgoglio d’esser fictitious cui è oggi ridotta (in tanti casi). Quel dialogo è importante perché il paradigma delle scienze cognitive è diventato centrale per lo studio dei modi e forme del conoscere sul versante delle scienze naturali: insomma, si tratta dell’interlocutore più forte e stimolante in quel campo.
Tutto può dialogare con tutto e l’unico ostacolo a questa dimensione dialettica è l’erigere steccati, come mi pare faccia @ Castiglione. Se anche Casadei volesse fare una critica sociologica o filosofica (anche se mi pare che tenti ben di più, cioè una critica pluridimensionale, tra linguistica, epistemologia, ermeneutica; ma lo desumo solo dai suoi assiomi e mi scuserà – e mi correggerà – se non ho ben inteso), che male ci sarebbe? Davvero non capirò mai la passione dei miei simili per i riduzionismi di ogni genere, per cui, se non è positivamente fondato e quantificabile, non esiste o almeno non è degno di discorso.
(Poi, caro Castiglione, ho letto con interesse anche le sue parole e la ringrazio della segnalazione di Adamson, che non conoscevo. E amo come lei Mengaldo, ma sono fedifrago e plurigamo, per cui lo tradisco con molti altri! Ah, e grazie del link: non par vero di poter leggere un saggio con un semplice click!).
In coda direi solo più una cosa: bisogna nutrirsi di tutto, però io rimarcherei la centralità (o fondatività) del momento ermeneutico rispetto a ogni altro. La letteratura è scritta per esser letta, per andare per il mondo e produrre effetti e passioni, dunque ogni approccio critico dovrebbe, in ultima istanza, pure quando si dota di strumenti rigorosissimi e raffinatissimi, tentare di dire qualcosa di (e di giovare a) quell’incontro tra lettore e testo che si chiama interpretazione, in forme le più prossime e utili possibili all’uomo (ricordando inoltre che soggetto e oggetto possono incontrarsi solo se non si crea una frattura ontologica fra di essi e si pone l’uno di fronte o contro l’altro, come il tentativo di fondare le scienze dello spirito sul modello di quelle naturali ha finito per fare: qui mi fermo, tanto sto riassumendo Gadamer, per cui etc etc etc…).
@ Daniele: Forse l’impeto del mio intervento ha oscurato il fatto che non voglio affatto tracciare steccati: tutto il contrario. Quello che nella mia ricerca sto cercando di fare è proprio di sustanziare osservazioni stilistiche con le scoperte della psicolinguistica, delle scienze cognitive… puntare alla interdisciplinarità insomma, ma controllandola altrimenti si ottengono brutti pasticci come ho osservato in alcuni saggi e articoli (uno di tale Lattig, per esempio, che era un semplice copia-incolla di posizioni desunte da altre discipline, ma poi non diceva nulla di illuminante su un testo che pure si proponeva di analizzare)
Il mio era un intervento di metodo: facciamo dialogare tutto con tutto, ma – proprio per il bene del momento dialettico – diamo i nomi chiari alle cose: una cosa è investigare lo stile – indagine che non può non essere empirica – un altro dare dei contenuti a questo stile (intervento ermeneutico, che può o non può esserci, e che comunque viene dopo, dopo la descrizione delle strutture).
Poi io ultimamente sono sfiduciato nei confronti dell’ermeneutica, penso in ogni caso che l’incontro iniziale col testo nudo sia essenziale, e sul testo e solo sul testo ogni interpretazione/divagazione/discorso possa misurarsi, se si fa critica letteraria (altrimenti si fa altro)
interessante . . ma dovremmo tradurre parola per parola: noi abbiamo una personalità, un’emotività, una cultura, una concezione artistica, una formazione, ci ricolleghiamo a tradizioni, convenzioni e generi e elaboriamo novità, compiamo una ricerca compositiva, cerchiamo e proponiamo soluzioni che sono una risposta alle tendenze e ai problemi che ci circondano. lo stile non è solo un fatto personale ma anche una proposta storica , una soluzione sociale. la nostra differenza è la nostra umanità, esperienza. iniziamo a muoverci dentro regole che non ci comprendono totalmente e le nostre proposte si affermano o no perché rispondono a esigenze, bisogni, problemi, interpretazioni e rappresentazioni che mostrano le tensioni o le alleviano. se ci confrontiamo con la linguistica del 900 ostinandoci a usarne il linguaggio, vi restiamo imprigionati . . per carità: la faccenda è complessa e delicata.
bisognerebbe davvero ragionare su e tradurre ogni punto, lo stesso linguaggio e le argomentazioni
@ Castiglione. Grazie della risposta e delle puntualizzazioni. Capisco la distinzione che fa tra fase della descrizione e della interpretazione e la richiesta di riscontro empirico. E’ un problema di metodo, però non tutto ciò che riguarda i fatti letterari può transitare da quel filtro.
Le spiego allora quale punto di vista, quale presupposizione mia, è alla base delle mie parole. Faccio l’insegnante e per me il problema dell’approccio al testo è in primo luogo un problema pratico di triangolazione (anzi, quadrangolazione) tra testo, mia lettura, letture degli studenti, letture degli esperti. Posso garantirle per esperienza che gli approcci oggi ancora in voga nella scuola, e solo per trita inerzia, dello storicismo dei trienni (= autoritaria priorità se non addirittura esclusivo diritto di parola delle interpretazioni della critica) e del formalismo strutturalista nei bienni (= analisi di tipo notomizzante sui testi, allo scopo di fornire generici “strumenti”) sono mortali per l’iniziazione estetica. Non ci sono molte soluzioni: o la classe diventa una comunità ermeneutica, come suggerisce Luperini, o l’apprendimento della letteratura resta al livello di una ripetizione del compitino (il tema è vasto e mi scusi se mi fermo, apoditticamente, qui).
A rischio di leggere tutto sub specie paedagogica, questo tema dovrebbe essere centrale per tutti e auspico che l’università, gli studiosi, i critici, escano dalla turris eburnea e tornino a contribuire fattivamente alla discussione pubblica sulla scuola e all’azione in essa. La centralità della cultura umanistica nella scuola è a pezzi da un bel po’ e va rifondata. Tutte le migliori intelligenze dovrebbero contribuirvi, come una pluralità di approcci critici.
Mi domando se la sua sfiducia verso l’ermeneutica non dipenda dalla deriva decostruzionista e poststrutturalista. Su questi approcci sono scettico come lei (anche se credo che persino leggere quei libri là male non farà. Avendo tempo ovviamente: è la scarsità di questo, ahimé, che ci porta ad esser parziali…). Ma io citavo il capostipite Gadamer non a caso: per me l’ermeneutica è un invito complesso all’equilibrio tra libertà e vincoli e non l’autorizzazione alla deriva infinita degli interpretanti (per dirla alla Peirce).
Sempre per questo trovo stimolante il tentativo di Casadei di tornare a valorizzare la funzione gnoseologica della letteratura (la “rimotivazione cognitiva” dello studio dei tratti dello stile dell’assioma 3 e la stilizzazione come “modalità dell’appercezione” del 6).
Ah, e com’è istruttiva e civile questa discussione! Ultimamente qui su LPLC ho assistito a una quantità mai vista di brutte risse…
@ Lo Vetere: anche a me fa molto piacere che ci siano questo tipo di dibattiti, specialmente a fronte del fatto che in altri post (vedi quello sulle poesie di Dal Bianco) la qualità dei commenti è… meglio non parlarne. Anche io credo che l’ermeneutica sia centrale e capisco i problemi pedagogici a cui fa riferimento: è ovvio che nessuno studio dello stile di per sé sia sufficiente a inquadrare il fenomeno letterario, anzi, io lo ritengo solo uno degli aspetti (anche se preliminare e, purtroppo, ultimamente negletto, mi sembra).
Sono d’accordo che l’interpretazione sia un momento fondante, a patto di non moltiplicare appunto le interpretazioni senza freno (come in certi eccessi di ispirazione decostruzionista) e di non porle per forza una contro l’altra, secondo un antagonismo che c’è nella critica letteraria e che invece sembra meno marcato nelle scienze sociali e nella linguistica, dove appunto ci sono progetti che richiedono collaborazione e la formazione di squadre di lavoro. Una lezione d’umiltà che, secondo me, la critica letteraria dovrebbe imparare, e l’idea di comunità ermeneutica mi sembra possa essere compatibile con questa idea anti-agonistica della critica letteraria: costruire, dunque, piuttosto che abbattere l’avversario…
ps: credo che infine siamo d’accordo su tutto. La differenza è appunto che io ponevo un problema di metodo nel mio specifico ambito di ricerca, lei invece uno più vasto che investe il modo di tramandare e condividere la letteratura.
Sulla concezione dello stile, sui mezzi per indagarlo testualmente, sulle sue implicazioni conoscitive (interpretative) non ho nulla da dire in modo particolare. Riconosco la pertinenza di tutti i richiami di Alberto Casedei. Il punto è un altro e riguarda il primo assioma: “Dalla svolta romantica in poi, lo stile è diventato il tratto distintivo di ogni opera artistica che aspirava a un riconoscimento duraturo.”
Posto che anche questo è un punto condivisibile, cosa dire di tutta la problematica del rifiuto dello stile, del non-stile, che certo ha riguardato molto le avanguardie, ma non solo. Non pretendo qui che si affronti questo problema, ma che almeno venga riconosciuto come un aspetto non del tutto incluso in questa panoramica concettuale intorno alla nozione di stile. Ad un tratto parla di “frantumi dell’organicità” dello stile in molti poeti del Novecento. La questione è che molto spesso l’inorganicità è stata una rivendicazione esplicita. Ma torniamo a questo punto: come interpretare alla luce di questi assiomi la pretesa di diversi autori del Novecento e del XXI secolo che si vogliono liberare dallo stile, che non credono nello stile, come cifra individuale. Naturalmente mi si potrebbe dire, che dal punto di vista testuale chi dice questo, non sfugge a una possibile determinazione di marche stilistiche appartenenti alla sfera letteraria, ecc. Ma penso che quando autori come Ponge rivendicano questa esigenza di sfuggire allo stile inteso come insieme di marche linguistiche tipiche del genere poesia, bisognerebbe riflettere su che cosa sta cercando di fare o di dire.
correggo: Alberto Casadei
e: Davide Castiglione ad un tratto parla…
Gli spunti di riflessione che stanno emergendo sono davvero molti. Due sole precisazioni, come sempre in generale. 1. Da un punto di vista teorico, l’esigenza di fuoriuscire da marche stilistiche riconosciute in quanto tali non modifica l’esigenza di un’elaborazione stilistica come tratto distintivo di una qualunque opera d’arte. Da un punto di vista storico, si danno invece momenti molto diversi, che possono persino portare all’eversione contro lo stile, considerato come uno dei tanti ‘dover essere’ dell’arte, ovvero come elementi istituzionali (al pari della rima o della prosodia canonica, per dire). Ma il non-stile si riconosce, a mio avviso, solo come contrasto o eversione contro uno o addirittura contro lo stile, in quanto appunto istituzione: e in questo torna a essere un tratto di stile. All’opposto, l’eclettismo o il postmodernismo citatorio possono voler inglobare qualunque tipo di stile esistente: e anche in questo creano un loro stile.
(2) L’ambito dell’ermeneutica in rapporto allo stile a mio avviso deve essere riportato a confini molto meglio definiti di quanto non accada negli ultimi anni. Rivendicherei con forza il ruolo della critica nell’interpretazione e anche nello stabilire valori se finalmente riuscissimo a concordare sui limiti delle possibilità ermeneutiche. Per questo mi pare che occorra uno sforzo di ridefinizione di tanti termini-chiave (stile o inventio ecc.), in un momento in cui possiamo riallineare indagine sull’oggetto, rivendicazione del ruolo del soggetto interpretante, riconsiderazione delle istituzioni storico-sociali (la critica tout court) e dei loro mezzi e ruoli nello stabilire valori.