di Angelo Ferracuti
Anche le case possono morire d’abbandono come i vecchi, le cose come la carne viva e anche gli scrittori estinguersi se nessuno li stampa e li legge, li cura, cerca di tenerli in vita. Così in questa domenica un po’ malinconica e tediosa di settembre sono tornato nella casa che non abito più da mesi ma dove al piano di sotto vivono i miei genitori come in un lungo letargo di giorni. E’ come se dentro ci fosse tutto di me passato: le stanze sono in ordine, c’è un silenzio che grida, i quadri con le fotografie molto allegre di quando qui eravamo una famiglia e le figlie crescevano, i letti dove abbiamo dormito, le stanze dove abbiamo gridato e allegramente sorriso. Ho usato il bagno ma non c’è più neanche una saponetta per lavarsi le mani, i letti sono ordinatissimi e vuoti, le persiane sprangate, il frigorifero disabitato. Poi sono salito nel mio studio, quello dove ho letto e scritto per anni: ci sono ancora i posacenere ingorgati di mozziconi dei toscanelli fumati, i miei libri sempre più impolverati, più spenti, e dalle finestre vedo le colline ordinate, il paesaggio fatto di colline morbide, come in certi sfondi di dipinti rinascimentali.
Qualche mese fa siamo venuti qui con Adrian, il figlio dello scrittore Luigi Di Ruscio, abbiamo trascinato lungo le scale due valige enormi con le carte del poeta vissuto per mezzo secolo a Oslo, il lascito che ha fatto alla città e che presto dovrò portare all’archivio dell’Istituto per la storia del movimento di liberazione delle Marche di Fermo. Era prima dell’estate e questo ragazzo esile ha traghettato con me, sudatissimo, i due valigioni scuri in questa casa, liberando quei bagagli partiti qualche giorno prima dalla Norvegia e tornati qui come un testamento di scritture. Le stesse che aveva portato suo padre nel suo corpo di esule nel 1953: “ho trasportato tutto l’universo linguistico italico ad Oslo anche perché occupava pochissimo spazio. Ho trapassato le frontiere senza nessuna noia doganale, come un re incoronato…” Non so neanche io perché ma sono diversi mesi che rimando questo momento. E solo oggi mi sono messo a curiosare tra le carte che sono distese sugli scaffali dello studio. Lo faccio adesso forse perché tra pochi giorni volerò in Norvegia alla ricerca della memoria dispersa di questo scrittore straordinario vissuto per quasi mezzo secolo in clandestinità come uno scriba assoluto, che tutti i giorni ha continuato a martellare i tasti della sua macchina per scrivere dopo aver combattuto sulla trafilatrice nel reparto metalmeccanico della Christiania Spigerverk, la fabbrica che produceva chiodi: “la presenza degli oppressi e stritolati è dietro le mie spalle e quando scrivo le scariche dell’Olivetti studio 46, macchina da scrivere rumorosissima è come se partissero le scariche di un ammattito kalashnikov” scrisse della sua postura di scrittore.
Apro a caso una cartellina esile, dentro ci sono fogli filigranati, quelli delle minute, che usava sempre Luigi, sono copie di lettere scritte a valanga negli anni ’70, molte recano la dicitura “non spedita”, il destinatario a volte è sconosciuto, la confessione continua, ininterrotta: “da oggi e per tutta l’estate non potrò scriverti cose pensate, la fabbrica dove lavoro ha ripreso fiato, ricominciamo gli strazi degli straordinari, vengo a casa spezzato”. Capto brandelli di scrittura, prendo in mano i fogli, dentro c’è sempre un ingorgo di parole che mette paura. Come se il battito della scrittura coincidesse in lui con quello del cuore, fosse una specie di esercizio spirituale. Un’altra lettera è del 3 maggio 1980, comincia così: “la solitudine è la mia mania, infatti è una esagerazione questo volermi chiudere con tutto, certo è che mi sento maledettamente isolato, poi la tensione è troppo forte, diventa insostenibile se dura troppo”. Le incazzature sono tantissime. Nel bunker di via Aaasengata 4c Luigi scriveva lettere al curaro a tutti e, nonostante dicesse di non leggerli, teneva sotto controllo tutti gli scrittori connazionali suoi contemporanei e non, quelli che chiamava con alterigia “scrittori italici”. Alcuni fogli sono strappati, altri sprangati da una linea a penna di censura. Denigra molto spesso artisti, è rissoso nei giudizi, ma la sua umanità fortissima a volte lo infiamma anche di sentimento e si commuove. Mi rendo conto quanto sia arbitrario e assurdo adesso leggere le carte di uno scrittore morto, perché qui dentro c’è tutta la sua vita e lui non può più difenderla, e la tentazione di bruciare ogni cosa è fortissima, tanto ricomporre questo guazzabuglio è impossibile, un caos organizzato del genere spaventerebbe anche il filologo più acuto e paziente di tutti. Per uno scrittore così volutamente espatriato le lettere sono centralissime, è il lascito di un pensiero ininterrotto, di una interrogazione continua. Un’altra cartella è quella del suo romanzo più epico, sul dorso c’è scritto “Si riscrive il Palmiro” e c’è la prima versione del libro, con qualche correzione a penna. Mi viene incontro un mucchio di lettere, sono di Eugenio De Signoribus, rigidamente calligrafiche dal tratto esile, di Giancarlo Majorino scritte a macchina, di Romano Luperini, Enrico Capodaglio e Adelelmo Ruggieri, moltissime del critico che gli è stato più vicino di tutti, Massimo Raffaeli, e le divertenti, dettagliatissime e persino maniacali missive dell’editor Massimo Canalini, il primo editore del Palmiro, col quale ebbe rapporti difficilissimi.
La finestra è aperta, fuori solo il lento scorrere di automobili di una domenica pomeriggio sonnacchiosa che sembra non finire mai, e intorno le pile di libri, e di fronte la pubblicità Mondadori con Hemingway e Marquez con le facce piene di schiuma da barba, e solo una rasoiata che ne mostra uno spicchio del mento di ognuno: “tagli su tutti gli Oscar” è lo stupido slogan, sulla porta il faccione di Kafka incravattato e con le orecchie a sventola mi scruta inquieto. Prendo da terra un altro scartafaccio, sul frontespizio del blocco di fogli c’è scritto “Visto poesie”, credo siano le copie della raccolta Firmum. In una vecchia busta inviata da Tiziano Rossi il 14/04/1989 su carta intestata Garzanti trovo un altro mucchio di fogli dattiloscritti, un prototipo del “Palmiro” spedito non si sa a chi, un’altra busta marrone con una versione di Strage dorica, il romanzo che aveva iniziato a scrivere all’inizio degli anni ’80 sulla storia del maresciallo della finanza Cannarozzo, probabilmente inedito. Questo Cannarozzo, al quale era stata rifiutata ingiustamente la casa popolare, nel gennaio del 1955 entrò al cinema Metropolitan di Ancona e lanciò quattro bombe a mano contro gli spettatori, morirono due donne e cento furono i feriti, un episodio assolutamente “diruscesco”. Tra i fogli c’è una lettera che scrive all’Adelphi il 22 Luglio 1998 dove dopo un rifiuto insiste chiudendo ingenuamente così la comunicazione: “Io credo che questo mio lavoro sia molto bello. Se credete che mi sbaglio scusatemi.” Uno dei tantissimi rifiuti ricevuti nella sua vita di scrittore, a cominciare da quello molto celebre di Italo Calvino che lo argomentò scrivendo su carta intestata Einaudi il 1° Aprile 1968. Di Ruscio gli aveva spedito un testo narrativo che si intitolava Verbale, e l’autorevole redattore dell’Einaudi gli consigliò di dirottare verso quelli della neovanguardia, confessandogli: “la verità è che io sono un maniaco dell’ordine e della geometria, e nel Suo eroico disordine mi raccapezzo poco.”
Credo che il grande romanzo dei giorni di Luigi Di Ruscio resti l’Epistolario, l’unica sua vera forma di contatto con il mondo, culturale e sociale dell’Italia, di cui ho trovato lettere di rara intensità espressiva e bellezza. Può scrivere al Premio Nobel Quasimodo o alla madre, all’amico di infanzia o all’editore di turno, poco cambia, il racconto si fa subito epico, enfatico, scintillante di aggettivi, e pendolareggia tra l’autobiografia e la Storia, tra l’io e il mondo con una potenza di verità che solo i grandi scrittori riescono a raggiungere.
Poi un’altra lettera rabbiosa e disperata, come solo lui sapeva scrivere, spedita a un giovane editore: “non dovresti permetterti di portare per il culo Luigi Di Ruscio che ti sovrasta e sovrasta i tuoi amici da tutti i punti di vista, dal punto di vista morale, di intelligenza e di integrità e anche di età ho 73 anni, un tempo i vecchi venivano rispettati, oltre tutte le tue promesse a cazzo di cane”. Sorrido, prima di accendere un toscanello e cercare ancora tra le carte. Sono ancora le lettere le cose più sorprendenti. Nell’agosto del 1971, di ritorno dalle ferie passate in Italia, scrive alla madre quella che può essere la pagina del diario esistenziale di un migrante di ogni tempo: “ieri domenica verso le nove del mattino eravamo a casa, il lungo viaggio è stato un po’ faticoso ma tutto è andato benissimo. Dentro le valige non si è rotto nulla, i due litri di vino me li sono bevuti quasi tutti per strada, perfino il brocchetto è arrivato a casa intatto. Disgraziatamente qui ad Oslo abbiamo trovato il freddo (…) Certo fa un certo effetto lasciare l’Italia col sole e quasi trentacinque gradi sopra zero e arrivare ad Oslo con la pioggia, è come se dall’estate fossimo improvvisamente piombati in una giornata di dicembre.”
L’ultima minuta che prendo in mano è quella di una lettera del 6 Agosto 1967. Scrivendo a Quasimodo a proposito della sfiorata vittoria del Premio Viareggio, che gli viene soffiato da Diego Valeri, Luigi faceva capire quale era la sua idea del mondo delle lettere: “la situazione culturale in Italia è prestabilita dai grandi editori: Mondadori, Feltrinelli e Einaudi, questi controllano la maggior parte delle riviste letterarie e dei critici militanti, uno che lavora nella direzione da se stesso scelta, fuori dalle linee prestabilite, che porta avanti il lavoro nella direzione che meglio crede giusta ha pochissime possibilità di successo e di arrivare.” E del premio scrive al fratello: “quello che è terribile è che proprio i critici comunisti si sono scagliati contro le mie poesie.” Questo mezzo secolo fa.
[Questo articolo è già uscito sul «manifesto»].
[Immagine: Luigi Di Ruscio. Foto di Ennio Brilli (mg)].
Grazie per l’interessante lettura. La letteratura è vita e se l’assioma “la vita è bella” è vero, dovremmo sperare in una bella letteratura, dunque vera e autentica, onesta. Troppo ciarpame ingorga il web!
Se Canalini si risolvesse a stampare l’epistolario, ne leggeremmo di belle, di cotte e di crude.
Grazie, Angelo, per questo pezzo.
Eh già magari si potesse leggere l’Epistolario in libro! Ringrazio l’autore per questa intensa, umana scrittura.
Palmiro : il contratto con Canalini è stato curato da Antonio Porta che ha scritto anche la prefazione.
Possibile che nell’archivio Di Ruscio non si trovano le copie delle sue lunghe lettere e le lunghe risposte di Antonio Porta? La carta intestata è quella di Agenzia di Rosemary Liedl & Co. Quel Co non è altro che Antonio Porta.
Io qui ho la copia delle lettere di Di Ruscio. Gli originali sono conservati presso il Fondo Porta ad Apice a Milano. Sono 109 documenti dal 1978 in poi. La schedatura di Apice: Allegati ritagli di giornale italiani e norvegesi, fotografie di Luigi Di Ruscio, testi dattiloscrtitti di Luigi Di Ruscio in originale, copia e copia fotostatica.
Ed io sono sempre aperta al conoscere il “fare della poesia” e della cultura.
da “Antologia degli Anni Settanta”, a cura di Antonio Porta, Feltrinelli, 1979
Luigi Di Ruscio (nato a Fermo nel 1930, residente a Oslo da circa venticinque anni, dove lavora come metalmeccanico) ci ha dato con Apprendistati i suoi risultati più compiuti, senza per questo voler svalutare le opere precedenti (nel ’52 Non possiamo abituarci a morire, edizioni Schwarz con prefazione di Franco .Fortini e nel ’66 Le streghe s’arrotano le dentiere, edizioni Marotta, con presentazione di Salvatore Quasimodo) in cui aveva raggiunto livelli stilistici semplici e trasparenti, eccellenti tanto da potervi filtrare le lotte di classe senza cadere nella retorica dell’impegno.
La forza comunicativa di queste poesie (e si possono leggere tra gli inediti le conferme della continuità del discorso) si fonda su una straordinaria resistenza del verso lungo, che ha raggiunto una portata da trave di cemento armato rafforzato. In questo verso trovono posto rabbie e tenerezze, sentimenti di rivolta e momenti di rassegnazione, senso del comico e verità taglienti.
La poesia deve bucare la carta, passare al di là, arrivare a incidere la storia fatta dagli altri, dalla classe dominante: così uno dei protagonisti delle poesie di Di Ruscio è la macchina da scrivere con la sua furia, col suo modo di scrivere colpendo, sbrecciandola, a volte, la pagina bianca e muta, che vuole sedurci col silenzio di una sapienza mancante, che è invece rassegnazione nemica, assenza.
Ci sono in Apprendistati due citazioni da Joyce: “Non abbiamo più speranza di una palla di neve all’inferno” e “La parola fa pensare allo sfrigolìo del grasso nel fuoco”, messe lì tra i versi per opporvi un’indomabile volontà di resistenza. Dice Di Ruscio: “Se non riesco ad inventarmi rischio di non esistere”; c’è il fuoco e c’è il grasso, c’è il gelo e il calore incandescente della storia tritatutto, ma la palla di neve (che noi siamo) continua a riformarsi, a covare la speranza, servendosi anche della poesia, con i verbi del nostro agire.
L’incalzare delle domande risulta decisivo, trapano irresistibile, rabbioso e paziente: questa è la poesia di Di Ruscio, assolutamente necessaria al sentimento dei nostri giorni, divisi tra lacerazioni e resurrezioni.
Gentile Rosemary, nella bolgia dell’Archivio ho trovato anche alcune lettere di Antonio Porta e Sue, cioè dell’agenzia, si tratterà di indagare ulteriormente. Come curatore testamentario, insieme a Raffaeli e Cortellessa, vorrei lavorarci. Magari sentiamoci, la mia mail è angeloferracuti@interfree.it
Intanto grazie e buon lavoro, Angelo Ferracuti
grazie scrivo direttamente alla mail. Grazie davvero
@ Rosemary:
Cara Rosermary, ho usato un breve passaggio di una lettera di Di Ruscio ad Antonio Porta (me l’avevi inviata tu) per un saggio su Di Ruscio uscito da poco su «il verri». Te ne manderò una copia.
Caro Angelo, avevo conservato la pagina del Manifesto senza poi ritrovarla quando mi ero ritagliato il tempo sufficientemente tranquillo per leggere il tuo articolo; lo recupero adesso, meno male. Forse si dovrebbe approfondire il discorso sui critici comunisti che non lo appoggiarono per il premio: troppo nuovo, troppo caotico (Calvino dixit) il nostro Di Ruscio per gente che più che alla rivoluzione mirava a mettere in riga la realtà.
Un ricordo doveroso per un autore che io ho scoperto solo grazie a Fahreneit di Rai radiotre! Diffondere i suoi scritti mi pare doveroso, non è mica come per Kafka che li voleva bruciati dopo la morte!
Mi meraviglia un po’ che Di Ruscio abbia provato a pubblicare con una casa editrice bastevolmente inconciliabile colla sua portata di poeta come è, ed era, Adelphi.
Non mi meraviglia invece la respinta…
Caro Tarquini è così anche oggi, sì, così dalemianamente anche su questo tempo.
Caro Seligneri, l’ho citata proprio perché un po’ paradossale. Nel senso che Luigi aveva provato con tutti, persino con Adelphi, editore che complessivamente non amo ma forse ormai l’unico che riesce a imporre ai suoi lettori autori di qualità (D’Arzo, Manganelli, per esempio) che non avrebbero altrimenti il grande pubblico.
Quanto invece ai tempi “dalemiani” concordo. Ma basta restare all’opposizione. Si frequentano meno “cretinetti”, così chiamava Luigi certi scrittori, e ci si guasta meno l’anima . Con una piccola, comica variante: oggi i politici non sponsorizzano più gli scrittori, ma si sono sostituiti agli scrittori, basta leggere quel genio di Veltroni! Insomma, per descrivere certi ambienti letterari ci vorrebbe la prosa velenosa di Céline. Ma vi garantisco che nell’Epistolario del Di Ruscio ce ne è per tutti! Compresi certi editori di sinistra a la moda!
Bisogna vedere a chi vanno a finire tutte queste manciate di qualità.
Era meglio il Simenon di Mondadori o è meglio quello di Adelphi? Le confesserò che mi sento più a mio agio con la bestsellerestica mondadoriana…
Sciascia sembra più classico nella collana di Adelphi che nei Classici Bompiani (e così, ad essere così classico, Sciascia ci perde qualcosa). Ma Adelphi può, come si suol dire. Sarà per via che riuscirebbero a rendere inattuale e astorico e apolitico pure Berlinguer o gli scritti di Gramsci. Eppure la linea di Adelphi è la più conforme e attuale ai contenuti dei nostri tempi (contenuti lavorati ovviamente al che siano agli standard più alti in assoluto).
Per Di Ruscio e la sua scelta adelphiana si può anche ipotizzare che si sentisse talmente tanto poeta puro e lontano dalle formule che gli avevan dato che non sentiva alcuna conflittualità colla rotta di Adelphi.
Oppure, da come capisco dalle sue parole, Di Ruscio ha cercato per tanti anni un grande editore, e nel mazzo, perché no, ha provato pure quella carta.
saluti