di Edoardo Lombardi Vallauri

[Questo articolo è uscito sulla rivista “Il Mulino” quasi dieci anni fa, nel 2003; ma merita di essere letto, o riletto, perché niente è cambiato (cg)].

 Chi fa ricerca oggi sa bene che sono cambiati i criteri con cui essa viene finanziata. E’ cambiato proprio il modo di operare degli organismi che la finanziano (ministeri, Unione Europea). Un tempo era così: lo studioso chiedeva dei soldi perché gli servivano, e l’organismo finanziatore gliene dava un po’ meno. Oggi è così: l’organismo finanziatore emana un bando di circa duecento pagine e tredici capitoli, e nell’arco di un anno lo diffonde in sette minacciose pre-versioni successive prima di promulgare quella definitiva. In esso spiega a chi e a quali condizioni verranno dati i soldi; dopodiché tutti si sprofondano nel compito di far rientrare le loro ricerche in quella camicia obbligatoria. Alla fine, a tutti quelli che ci riescono viene dato un po’ meno del richiesto, come sempre.

 Più ti coordini, meglio sei

 Perché, almeno dal punto di vista che diremo, era meglio prima? Perché prima a decidere come bisognava fare ricerca erano gli scienziati stessi, mentre adesso sono degli uffici in parte scientifici ma in gran parte anche banalmente burocratici. Ecco quello che accade: dovendo giustificare il più possibile la propria esistenza, gli uffici proclamano che le ricerche migliori e più degne di essere finanziate non sono quelle in cui uno o due studiosi si confrontano con un problema da risolvere che veramente esiste, e promettono di risolverlo spendendo solo i soldi necessari. Le ricerche più nobili e degne di essere finanziate sono invece – guarda caso – quelle che sottolineano meglio la funzione degli uffici stessi; cioè le grandi ricerche che coordinano più sedi, più organismi, più soggetti di ricerca, e insomma più persone possibile, in modo che le redini di tanta circolazione di persone, di idee e di risorse siano pur sempre nelle mani dei grandi organismi di coordinamento.

Ormai, se si vuole essere congruamente finanziati, bisogna promettere di coordinare almeno tre sediuniversitarie o centri di ricerca, ma meglio se sono sette o otto in paesi fra loro lontani: se uno vuole semplicemente fare una scoperta, mettere a punto una tecnologia, scrivere un saggio con la propria testa, proprio per questo verrà bocciato. Chi regge i cordoni della borsa non sembra più credere che una buona idea può venire a una sola persona, o che un procedimento può essere messo a punto da una piccola équipe. La “massa critica” necessaria per essere ritenuti seri è di centinaia di migliaia di euro, ma è decisamente meglio se si prevede di spendere qualche milione. Ciò pone dei vincoli particolarmente drastici quando, come accade di solito, vige un meccanismo di cofinanziamento; cioè quando l’organismo che eroga il finanziamento lo fa in misura proporzionale ai soldi propri che la struttura richiedente si impegna a investire nella ricerca in questione.

A questo orientamento è sottesa la concezione, neanche troppo implicita, che i soggetti davvero appropriati per fare ricerca siano assai più cose come la Bayer o l’IBM, che non i nostri (economicamente) sparuti dipartimenti universitari. I quali appunto, se vogliono battere qualche chiodo, sono costretti a organizzarsi in cordate. I Soloni degli uffici che ci dicono come fare per essere preferiti alla concorrenza dei nostri colleghi e dei privati e ottenere così i finanziamenti, danno sempre lo stesso consiglio; e del resto esso è scritto a severe lettere sui documenti programmatici e sui bandi: saranno valutati in maniera preferenziale i progetti che prevedano ampie sinergie, il concorso di più soggetti di ricerca scientifica, a volte addirittura l’istituzione di uno staff apposta che si occupi solo della gestione economica della ricerca. Certo: se si prevede di bruciare alcuni miliardi di vecchie lire in un paio d’anni, è ragionevole e può addirittura risultare un risparmio investire qualche centinaio di milioni in un’apposita segreteria amministrativa… Insomma, fanno premio i progetti grossi e molto costosi in termini di denaro ma anche di tempo umano impiegato.

Costretti a sprecare tempo

 E questo è il punto. Spesso coordinarsi con altri è una perdita di tempo e uno spreco di denaro. Se invece di fare il mio lavoro io devo inseguire un collega spagnolo per chiedergli che stenda la terza versione del pre-programma di ricerca della sua sub-unità; se invece di raccogliermi al mio tavolo e risolvere un problema concettuale io devo prendere l’aereo per Bordeaux dove mi accorderò con i colleghi locali su come ripartire le voci di spesa da dichiarare nel resoconto di fine anno; se insomma mi dedico a coordinare gruppi e a onorare le richieste cartacee della burocrazia, io studio meno, faccio meno ricerca, compio meno esperimenti di laboratorio, e, importantissimo, non riesco a concentrarmi bene sui problemi di alto livello intellettuale che, si presume, la ricerca scientifica di punta mi propone. Il mio stipendio viene speso male, e ancora peggio vengono spesi i soldi che servono per farmi fare telefonate e viaggi internazionali.

Spesi male perché tutto questo lavorio è spesso inutile, ma ancor più spesso è dannoso e controproducente. Albert Einstein sarebbe riuscito a elaborare la teoria della relatività generale, se gli avessero messo come condizione di riempire continuamente complessi moduli con domande di finanziamento, moduli di stato di avanzamento, moduli di relazione in itinere, moduli di relazione consuntiva; se avesse dovuto, pena il decadimento dal diritto di essere finanziato, documentare minuziosamente un’attività di coordinamento con altri cinque centri di ricerca? E Teodoro Mommsen avrebbe compilato il Corpus Inscriptionum Latinarum, se invece di seduli e obbedienti collaboratori avesse avuto da coordinare una costellazione di gruppi di ricerca sparsi in mezzo mondo? Io sono pronto ad ammettere che ci siano progetti scientifici (specialmente nel campo delle scienze della natura e in quelle ad alto contenuto tecnologico) che possono funzionare solo se raggiungono una certa scala economica e se vedono lo sforzo congiunto di molti partner: per essi è giusto che vengano stanziate ingenti somme di denaro; ma è giusto proprio perché sono gli scienziati interessati a chiederlo, e non gli uffici erogatori a imporlo. Di questo tipo di progetti non discuto.

Ma non tutta la ricerca scientifica è così. Ci sono studiosi che covano idee geniali, dal potenziale dirompente per il futuro dell’umanità, e che per poter lavorare magari hanno solo bisogno che li si aiuti a comprare qualche libro, un nuovo computer portatile, sei risme di carta formato A4, una dozzina di penne biro e due toner per stampante-fotocopiatrice. E soprattutto, poi hanno bisogno di essere lasciati in pace. Fino a prova contraria sono gli scienziati che sanno cosa serve per far progredire la loro scienza, e i burocrati dovrebbero occuparsi di distribuire loro le risorse eventualmente disponibili. Ebbene, non è giusto che a queste persone sobrie un ufficio del MIUR o dell’UE si permetta di dire che la loro ricerca non è rilevante perché non coordina molti gruppi e non prevede grandi spese. E non è giusto che, concedendo loro ciò di cui hanno bisogno soltanto se si adattano alla moda del coordinamento generale, di fatto detti loro il modo di lavorare. Oppure, se non ottemperano, li lasci così a secco da obbligarli a disdire perfino gli abbonamenti alle riviste fondamentali del loro settore scientifico. (Purtroppo, anche a causa delle drastiche riduzioni dei finanziamenti ordinari alle università, oggi questo accade in molti nostri dipartimenti, per la prima volta nella storia moderna del paese.) Paradossalmente, chi fa una richiesta di duemila euro si vede negare anche quel poco, come se l’ente erogatore dovesse stare attento agli spiccioli, mentre gli euro scorrono a fiumi, cioè a tranches di milioni, verso chi ha fatto il grandioso.

Rimedi all’italiana, e danni veri

E’ chiaro che ogni sistema complesso è suscettibile di miglioramento, e che quindi non è saggio accontentarsi delle cose come sono. Il vecchio modo di finanziare la ricerca scientifica, un po’ acritico e “a pioggia”, non era perfetto. Era giusto cercare di migliorarne l’efficienza. Ma anche l’attuale tendenza è perfezionabile, perché forse si sta eccedendo nella direzione opposta, e in ultima analisi anche questo va a detrimento dell’efficienza del nostro sistema di ricerca.

Certo, bisogna favorire i migliori, e quindi devono esistere delle priorità attraverso cui appositi comitati di studiosi vagliano le richieste di soldi dei colleghi. Però i criteri per privilegiare alcuni rispetto ad altri non devono essere quantitativi: “più vi coordinate, e più soldi progettate di spendere, migliori siete”, ma qualitativi: “questa idea è migliore e (molto meno importante) più rapidamente realizzabile di quest’altra”.

Almeno in campo umanistico, la logica del coordinarsi obbligatorio è sentita da molti come un vero ostacolo. Il risultato è che da quando è iniziato il nuovo corso di cui sto parlando fioriscono sì ogni anno grandi ricerche coordinate su scala nazionale o internazionale; ma di solito sono dei cappelli fittizi e formulati ad arte perché sotto il loro titolo ognuno possa continuare a condurre gli studi che la sua esperienza e la sua scienza gli fanno ritenere opportuni. Prima dell’attuale moda, ognuno chiedeva di essere finanziato per quello che aveva deciso di fare: chiedeva, diciamo, venti milioni, e gliene davano dieci. Oggi così facendo non si prenderebbe un euro; e allora ci si mette in dieci, di dieci diverse università e centri di ricerca; si trova un titolo che sia un passabile comune denominatore delle cose che comunque faremmo, in modo da fingere che si tratti di una sola megaricerca; si chiedono centomila euro e alla fine ce ne danno cinquantamila che ci dividiamo fraternamente. A parte la valuta sembra proprio la stessa cosa, ma la differenza è che interi mesi-uomo vengono perduti nel montare e tenere in piedi tutta la complessa baracca, ottemperando alle fastidiosissime direttive dei burocrati.

Un ulteriore effetto perverso di questa situazione è il seguente: spesso succede addirittura che qualcuno abbandoni un promettente filone di ricerca perché è difficile presentarlo nella forma più adatta a ottenere un finanziamento: fatto tanto più probabile quanto più l’idea è nuova e originale, perché questo rende difficile trovare numerosi partner pronti a lavorarci. Abbandonata la buona idea, ci si rivolgerà a qualche impresa più banale e più condivisa, “per non sprecare la possibilità di ottenere un finanziamento”. Insomma, invece di chiedere dei soldi perché si vuole realizzare una cosa che è ritenuta in sé utile, si finisce per fare qualcosa (di meno utile) solo perché questa cosa permette di spendere dei soldi.

 Tre cause, di cui una subdola

 Perché accade tutto questo? Si possono individuare almeno tre cause. La prima l’abbiamo già detta: i burocrati degli uffici vogliono sentirsi utili, vogliono lasciare la loro impronta sulla ricerca scientifica, vogliono guadagnarsi davvero il loro stipendio; e poi naturalmente preferiscono dettare le proprie condizioni agli scienziati anziché mettersi semplicemente a loro disposizione.

 La seconda è che viviamo in tempi economicistici, in cui sembra naturale valutare l’importanza di un’impresa, anche di un’impresa scientifica, soprattutto sulla base delle risorse di denaro o simili che prevede di impiegare e di mettere in movimento, anziché sulla bontà delle idee che la motivano. Questione importante e drammatica, la cui portata va del resto ben oltre l’argomento di cui ci stiamo occupando.

 La terza è più sottile e più difficile da vedere, soprattutto perché alligna proprio dove non ci si aspetterebbe, e cioè fra i ranghi degli studiosi. Una volta lo scienziato, fosse egli fisico o filologo, era di necessità un intellettuale. Non dormiva tranquillo se quel giorno non aveva prodotto qualche piccolo passo avanti scientifico (la famosa “pagina al giorno”), e si sentiva chiamato come minimo all’erudizione, possibilmente al genio. Oggi non è più così. L’istruzione di massa, gonfiando il numero degli studenti, ha chiamato un po’ in fretta all’insegnamento universitario un sacco di ignoranti. E la grande prosperità di un’economia in cui servono pochissime braccia per produrre cibo e servizi, ha aperto notevoli spazi per persone mediocri nelle istituzioni di ricerca. Risultato: molti che fanno gli scienziati non ci sono tagliati. In realtà pensare li affatica. Quando ci provano non possono rallegrarsi dei risultati. Non padroneggiano la cultura necessaria, e le categorie del pensiero fine. Per queste persone, riempire moduli o telefonare ai colleghi stranieri del gruppo di ricerca non è un insopportabile ostacolo alla loro attività intellettuale; anzi è un gradito pretesto per evadere dalla responsabilità di produrre pensiero, senza però apparire inutili o poco solerti. Paralizzati davanti alla pagina bianca o alla necessità di progettare un esperimento che abbia un senso, rifioriscono se possono studiare le procedure per la presentazione della domanda di finanziamento, attribuire le motivazioni più opportune alle varie voci di spesa, prevedere i tempi di attuazione. E’ nata, dunque, una segreta e tacita alleanza fra i burocrati degli uffici scientifici e gli scienziati con l’animo da burocrati. Un sodalizio che mette nell’angolino i cultori del pensiero e della scienza veri e propri. Ci sono perfino istituzioni di ricerca (fortunatamente non quella a cui appartengo), dove questo tipo di persone sono la maggioranza o semplicemente dove il parametro economico è fortemente valutato, in cui chi produce idee è a malapena tollerato, mentre chi coordina e drena quattrini gode del vero prestigio.

Ma sarebbe meglio correggere questa politica della ricerca perché, a tutt’oggi, una delle principali cose che fanno davvero progredire l’umanità sono pur sempre le buone idee.

[Uscito sulla rivista “Il Mulino”, 6 (2003), pp. 1171-74]

23 thoughts on “Come i soldi strozzano la ricerca scientifica

  1. Forse non è solo la burocrazia che strozza la ricerca scientifica, ma anche il fatto che di soldi ce ne sono sempre meno. Nelle grandi collaborazioni di fisica sperimentale (delle particelle, nucleare) e di astrofisica (che sono gli ambiti che conosco meglio) ormai è prassi comune mettere insieme le forze a livello nazionale, europeo e mondiale, dato l’alto costo raggiunto dagli esperimenti e la grande mole di dati da analizzare e organizzare: non avrebbe proprio senso operare diversamente. Sul versante teorico (sempre della fisica fondamentale) lì probabilmente si assiste a fenomeni più simili a quelli descritti dall’articolo e capita di leggere sui forum qualche lamentela sul fatto che se si vogliono condurre ricerche al di fuori del “mainstream” attuale (sostanzialmente Supersimmetria e Stringhe) si rischia di non riuscire a fare niente: forse però è un fatto più culturale che burocratico, legato ai famosi programmi di ricerca di lakatosiana memoria. È vero altresì che alla fisica i soldi, milione più milione meno, non sono mai mancati, basti vedere la decisione dell’anno scorso di finanziare il nuovo laboratorio Nicola Cabibbo per l’ acceleratore di particelle SuperB, che sorgerà appena fuori Roma, decisione presa dall’allora ministro Gelmini. Un po’ in controtendenza invero: in America i grandi laboratori stanno quasi chiudendo.
    A parte ciò il problema di questa scarsità è politico e culturale: politico perché non si vede più nella ricerca una attività utile per la comunità (o la si vede di meno rispetto a un tempo) e culturale perché è la conoscenza scientifica in sé (checché se ne possa dire, o comunque si voglia definirla) che interessa sempre meno, al limite di arrivare a dar credito e visibilità mediatica a “sistemi di pensiero” (chiamiamoli così) alternativi e senza nessun fondamento (ma magari con molta forza economica e sconfinata arroganza). Penso che, mutatis mutandis, le stesse cose (se non peggio) si possano dire per le scienze umane e sociali, e l’articolo ne parla.
    Ben venga quindi combattere la burocrazia e dar la possibilità a tutti i ricercatori di proporre un loro programma, che sarà poi opportunamente vagliato (magari giusto per evitare al proponente di vincere un Ig Nobel e buttare via risorse altrimenti meglio allocabili), ma qui il problema principale mi pare sempre di più essere la scelta di non spendere da parte della politica: scienza e stato sociale pare che stiano condividendo la stessa sorte. Sarà un caso?

  2. L’insegnante legge il tema e, sinteticamente, mette un voto. Se è bravo, ma soprattutto se ha esperienza, ci azzecca. Intuito? No, fa una serie di interiori valutazioni sui diversi aspetti del testo, le pondera globalmente e ne trae un giudizio. Ma oggi la cultura docimologica ci insegna che questo modo di valutare è vecchio e che bisogna dotarsi di griglie di valutazione e criteri, anzi distingue, spaccando il capello in quattro, tra criteri, descrittori, item, ….
    Se qualcosa non è esibito e formalizzato, non esiste. Così l’esperienza dell’insegnante di cui sopra diventa “improvvisazione e spontaneismo prescientifici”.

    Non è lo stesso tipo di razionalità perversa descritta in questo pezzo (valutazione, criteri, formalizzazione burocratica, ecc… contro artigianato della buona vecchia ricerca)?

    Ma potremmo fare esempi altrettanto calzanti dal mondo del lavoro. Si tratta infatti di una specifica razionalità folle e nevrotica che invade ogni spazio delle nostre meravigliose e “libere” società.

    Ma non vorrei passare per retrivo: se un po’ di cultura docimologica (o, nel campo della ricerca di cui parla Vallauri, alcuni semplici criteri di valutazione dei progetti), servono 1) a dare ragione del proprio operato a terzi (per dovere di trasparenza), 2) a dare a sé chiarezza mentale del proprio operato, ben vengano. Ma questo pezzo dimosta che ormai il sistema è andata ben oltre questa sensata richiesta. Ma al sistema, delle nostre umane obiezioni, non gliene frega proprio niente.

  3. L’articolo, pur affrontando anche altri aspetti, è soprattutto concentrato sul problema delle collaborazioni, su quest’uso di finanziare progetti che prevedono la presenza di tanti partners sparsi in tutta europa.
    Pur ammettendo tutti gli incovenienti connessi a questi megacoordinamenti, non posso tuttavia convenire che sia questo il problema principale. Se in effetti il finanziamento è sufficientemente generoso, si può sicuramente affidare molte di queste funzioni a un segretario preso a contratto a carico dello stesso fondo.
    La questione a me pare sia ben più grave, e riguarda quella che io definisco la fine dell’università, dello spirito che sul finire del medioevo ha portato alla stessa loro istituzione, è come se una civiltà che tanto deve a questo modello di sviluppo culturale, abbia deciso di suicidarsi sull’altare del liberismo imperante.
    Il problema più grosso in effetti è costituito dalle fonti di finanziamento e dal modo in cui i soldi riservati alla ricerca scientifica vengono distribuiti.
    I fondi di ricerca sono per la quasi totalità europei, e la decisione sui settori su cui investire viene stabilita centralmente con criteri che non hanno nulla a che fare con la crescita delle conoscenze, ma che guardano in direzione dello sviluppo delle attività di interesse economico.
    Faccio presente che in realtà, questi settori di ricerca vengono già privilegiati dall’industria per i propri stessi investimenti in ricerca, come è ovvio, viste le finalità inerenti le attività imprenditoriali. Inoltre, l’attività di ricerca viene anche svolta negli enti di ricerca la cui presenza accanto alle università dovrebbe essere giustificata da una differenziazione nelle funzioni, e che quindi se anche il settore pubblico deve dare il suo contributo allo sviluppo economico, sono proprio tali enti di ricerca che potrebbero esserne coinvolti.
    La funzione delle università dovrebbe essere differente anche in rapporto alle sue funzioni didattiche. La recente legge 240 (la cosiddetta legge Gelmini) ha dato l’ultimo fatale colpo per distruggere l’esistenza di enti appositamente istituiti per incrementare le conoscenze e per trasmetterle alle generazioni più giovani. Lo fa soprattutto con l’istituzione dell’ennesimo carrozzone burocratico, l’ANVUR che ha la funzione di centralizzare la valutazione.
    Chiariamoci, la valutazione è inerente alll’attività di ricerca, nel settore delle scienze sperimentali tutto ciò che produciamo è immediatamente pubblico, attraverso le riviste e gli incontri scientifici ci confrontiamo costantemente con i colleghi di tutto il mondo, con persone che hanno competenze simili alle nostre e che naturalmente mettono sotto attenta osservazione i nostri risultati confrontandoli con i loro. Insomma, il ricercatore è da sempre valutato in maniera ferrea e costante. Quindi, l’istituzione dell’ANVUR non corrisponde alla svolta verso la valutazione, no, ciò che davvero cambia è la centralizzazione della valutazione e la sua burocratizzazione tramite la definizione di criteri univoci e numerici.
    Non mi soffermerò sui guai che già in questo breve periodo di funzionamento l’ANVUR ha compiuto, qui voglio proprio contestare il principio di mettere assieme un gruppo di nominati dal potere politico che vengono assunti come valutatori dell’intero campo dello scibile umano, a cui viene atribuito il potere di valutare attività di cui non sanno nulla togliendo questa funzione a chi naturalmente la deteneva, la stessa comunità scientifica mondiale.
    Prima di chiudere, vogliuo anch’io come l’autore dell’articolo, sottolineare quanto l’Università sia stata danneggiata dall’affievolirsi di quel meccanismo tanto deprecato ma in definitiva adeguato della cooptazione, anche in virtù dei numeri crescenti dei docenti universitari (nei passati decenni, ormai siamo alla riduzione), assieme alla stupida pratica dell’autogoverno delle università, in cui gente assolutamente inadatta alle funzioni di insegnamento e ricerca, ha trovato il proprio successo nelle piccole pratiche di costituire cricche varie per mettere in cattedra il proprio favorito (a volte il proprio nipote), riproducendo i meccanismi tipici della politica.

  4. L’ANVUR è incaricata dal Ministero (l’attuale di Profumo, la Gelmini stavolta non c’entra) di introdurre il criterio bibliometrico per la selezione del personale universitario (commissari e candidati ai concorsi). L’idea sarebbe di rimediare al male endemico e antico dei concorsi universitari truccati. Come purtroppo accade, in Italia spesso, “la topa xè pezo del buso”.

    A proposito del criterio bibliometrico, Tullio Gregory [qui http://gisrael.blogspot.it/ ] dice:
    “Tutte le grandi istituzioni scientifiche europee, i Lincei, l’Académie des sciences di Parigi, la European Science Foundation hanno messo in guardia contro l’applicazione meccanica dei criteri bibliometrici per valutare le pubblicazioni. La valutazione è un giudizio critico, un esercizio della ragione e non della macchina calcolatrice. Invece l’Anvur marcia sicura e affida la valutazione a quello che loro chiamano, con vocabolario aziendalistico, “prodotto” e non ricerca. Conta la quantità delle citazioni ricevute su alcune riviste censite da due società schiettamente commerciali, e non scientifiche, come Scopus e Isi, società che guadagnano sulle riviste che inseriscono in elenco e sulle richieste che ricevono. Queste citazioni possono essere anche stroncature. Non importa, ciò che conta è che il prodotto si venda, cioè venga citato. ”

    Ma fin qui, veleggiamo nel nobile cielo dell’epistemologia. Se scendiamo a terra, sul suolo italiano, e guardiamo quali riviste l’ANVUR ha inserito nel database bibliometrico, troviamo [qui:http://www.roars.it/online/le-riviste-scientifiche-dellanvur-dal-sacro-al-profano-e-dalle-stelle-alle-stalle/%5D le seguenti sorprese:

    Riviste scientifiche per area 10, Scienze dell’antichità filologico-letterarie e storico-artistiche: Evangelizzare, mensile di catechesi; La rivista del clero italiano; Cittadini dappertutto; Alternative per il socialismo; Diario della settimana; La rivista dei libri; Il mattino di Padova; Etruria oggi; Airone; etc.

    Per l’area 8, ingegneria civile e architettura:
    Yacht Capital; Nautica; Barche.

    Per l’area 11, Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche, psicologiche:
    Leadership medica.

    Per l’area 12, Scienze giuridiche:
    Libertiamo; Le nuove ragioni del socialismo.

    Secondo il “documento di accompagnamento alle mediane non bibliometriche“, elaborato dall’ANVUR [ vedi qui: http://www.anvur.org/sites/anvur-miur/files/documento_di_accompagnamento_mediane_settori_non_bibliometrici_0.pdf%5D una rivista è (o meglio sarebbe) scientifica se:

    “la descrizione della rivista o la politica editoriale prevedono esplicitamente il riferimento alla natura scientifica e alla pubblicazione di risultati originali / esiste un comitato scientifico della rivista / il comitato editoriale ha una composizione in cui la componente accademica è rilevante e/o il direttore della rivista ha affiliazione accademica […]

    [e in ogni caso]

    sono stati in linea di massima esclusi:
    – quotidiani
    – settimanali
    – periodici di cultura, politica, attualità, costume
    – periodici di recensioni
    – riviste di divulgazione scientifica
    – riviste di taglio esclusivamente professionale e di aggiornamento
    – riviste di associazioni di categoria, ordini e associazioni professionali, enti pubblici nazionali e locali, istituzioni pubbliche non scientifiche di varia natura
    – riviste espressione di formazioni politiche, sindacali, religiose
    – “house organ” aziendali
    – bollettini, newsletter
    – riviste promozionali”

    E bravi i tecnici…

  5. L’ANVUR è incaricata dal Ministero (l’attuale, la Gelmini stavolta non c’entra) di introdurre il criterio bibliometrico per la selezione del personale universitario (commissari e candidati ai concorsi). L’idea sarebbe di rimediare al male endemico e antico dei concorsi universitari truccati. Come purtroppo accade, in Italia spesso, “la topa xè pezo del buso”.

    A proposito del criterio bibliometrico, Tullio Gregory [qui http://gisrael.blogspot.it/ ] dice:
    “Tutte le grandi istituzioni scientifiche europee, i Lincei, l’Académie des sciences di Parigi, la European Science Foundation hanno messo in guardia contro l’applicazione meccanica dei criteri bibliometrici per valutare le pubblicazioni. La valutazione è un giudizio critico, un esercizio della ragione e non della macchina calcolatrice. Invece l’Anvur marcia sicura e affida la valutazione a quello che loro chiamano, con vocabolario aziendalistico, “prodotto” e non ricerca. Conta la quantità delle citazioni ricevute su alcune riviste censite da due società schiettamente commerciali, e non scientifiche, come Scopus e Isi, società che guadagnano sulle riviste che inseriscono in elenco e sulle richieste che ricevono. Queste citazioni possono essere anche stroncature. Non importa, ciò che conta è che il prodotto si venda, cioè venga citato. ”

    Ma fin qui, veleggiamo nel nobile cielo dell’epistemologia. Se scendiamo a terra, sul suolo italiano, e guardiamo quali riviste l’ANVUR ha inserito nel database bibliometrico, troviamo [qui:http://www.roars.it/online/le-riviste-scientifiche-dellanvur-dal-sacro-al-profano-e-dalle-stelle-alle-stalle/%5D le seguenti sorprese:

    Riviste scientifiche per area 10, Scienze dell’antichità filologico-letterarie e storico-artistiche: Evangelizzare, mensile di catechesi; La rivista del clero italiano; Cittadini dappertutto; Alternative per il socialismo; Diario della settimana; La rivista dei libri; Il mattino di Padova; Etruria oggi; Airone; etc.

    Per l’area 8, ingegneria civile e architettura:
    Yacht Capital; Nautica; Barche.

    Per l’area 11, Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche, psicologiche:
    Leadership medica.

    Per l’area 12, Scienze giuridiche:
    Libertiamo; Le nuove ragioni del socialismo.

    Secondo il “documento di accompagnamento alle mediane non bibliometriche“, elaborato dall’ANVUR [ vedi qui: http://www.anvur.org/sites/anvur-miur/files/documento_di_accompagnamento_mediane_settori_non_bibliometrici_0.pdf%5D una rivista è (o meglio sarebbe) scientifica se:

    “la descrizione della rivista o la politica editoriale prevedono esplicitamente il riferimento alla natura scientifica e alla pubblicazione di risultati originali / esiste un comitato scientifico della rivista / il comitato editoriale ha una composizione in cui la componente accademica è rilevante e/o il direttore della rivista ha affiliazione accademica […]

    [e in ogni caso]

    sono stati in linea di massima esclusi:
    – quotidiani
    – settimanali
    – periodici di cultura, politica, attualità, costume
    – periodici di recensioni
    – riviste di divulgazione scientifica
    – riviste di taglio esclusivamente professionale e di aggiornamento
    – riviste di associazioni di categoria, ordini e associazioni professionali, enti pubblici nazionali e locali, istituzioni pubbliche non scientifiche di varia natura
    – riviste espressione di formazioni politiche, sindacali, religiose
    – “house organ” aziendali
    – bollettini, newsletter
    – riviste promozionali”

    E bravi i tecnici…

  6. Come temevo, l’argomento non suscita dibattito.
    Della sorte dell’università non importa niente a coloro che non vi operano, e al contrario coloro che vi operano utilizzano il famoso metodo del silenzio, per permettere alle camarille di trafficare liberamente. Per costoro, bisogna allontanare i riflettori da questo mondo così gelosamente tenuta in disparte da chi se ne è appropriato per propri fini particolari.

  7. Io non opero nell’università, ma il dibattito mi interessa, come attesta il mio primo intervento. È vero però che di certi problemi ne ho una conoscenza indiretta – tramite amici e perché mio padre era un docente universitario – per cui non posso certo dare un contributo molto significativo: vedo gli esiti culturali – diciamo così – generali, filtrati oltretutto dai miei personali interessi scientifici.
    In effetti sarebbe una cosa interessante sapere cosa ne pensa chi vi lavora, magari in settori diversi, soprattutto riguardo a quello detto da Vincenzo Cucinotta riguardo al meccanismo della cooptazione “tanto deprecato ma in definitiva adeguato” , che forse consentiva anche il costituirsi, in taluni di casi, di scuole di pensiero (nel caso della fisica lo fu quella di via Panisperna di Enrico Fermi, come è noto).
    L’università non può e non deve essere considerata una “Cosa Nostra” di cui parlare il meno possibile… purché se parli con competenza e senza pregiudizi.

  8. E allora proviamo a risvegliare un po’ il dibattito…

    Premesso che il pezzo di Vallauri mi ha trovato concorde (cfr. il mio precedente intervento), così come gli interventi fin qui postati, se proprio devo cercare il pelo nell’uovo direi che:

    1) L’ultima ragione individuata da Vallauri, l’abbassamento del livello culturale dell’università di massa, per lo meno messa giù dura così (nuovi professori ignoranti ecc…), è forse discutibile nella forma e nella sostanza. Almeno nell’ambito di ricerca che conosco, quello storico-letterario, se si va a spulciare fra i contributi su di un qualsiasi autore, se ne trovano di pletorici oggi come un tempo. Ogni epoca ha la sua produzione culturale deteriore: gli articoluzzi di una volta erano stilisticamente preziosi ma tronfi e tumidi, senza alcun incremento di sapere; oggi se ne trovano di mal scritti (stile farraginoso, e. g.), ma il più tipico esempio di pessimo saggio è quello di chi sfrutta le concordanze elettroniche per accumulare rimandi intertestuali su rimandi, incollacchiando malamente il tutto (e di nuovo: nessun incremento di sapere).
    La scuola oggi è di massa, l’università pure. Non vedo molte alternative. Ma un conto è il piano della didattica, che deve agire coram populo, un conto quello della ricerca. In fondo credo che essi si distinguano già da sé, lo si vede nella produzione delle tesi di laurea: ci sono quelle copia e incolla di chi vuole solo arrivare ad avere una laureetta in tasca (l’universitario “di massa”) e quelle di chi passa i mesi a fare un lavoro di effettiva ricerca. Il problema se mai è come valorizzare chi quel lavoro di ricerca lo fa, lo sa fare e vuole farlo. E qui vengo al punto 2, che vuole solleticare Cucinotta.

    2) Il meccanismo della cooptazione non è il male assoluto, sono d’accordo con lei. E’ un meccanismo di selezione come un altro. Oggi tendiamo a schiacciarlo sulla forma degradata della raccomandazione clientelare. Ciò capita perché oggi la razionalità econometrica suona le fanfare della meritocrazia e dell’oggettività della valutazione. Domani, quando ne vedremo tutti i difetti, sogneremo il paradiso perduto di quel meraviglioso meccanismo di selezione che era la cooptazione.
    Però val la pena ricordare che la segnalazione, la raccomandazione, la cooptazione, funzionano dove a segnalare, raccomandare, cooptare un incompetente si perde la faccia (diciamo, per semplificarla proprio malamente, nei paesi protestanti). E in Italia mi sembra che di facce toste ce ne siano parecchie…

    Concludo con un teorema gustosissimo, prodotto da un professore della mia città, che non era riuscito anni e anni fa ad entrare nel mondo accademico e aveva dovuto ripiegare sulla scuola. Io non lavoro nell’università, perciò non so se contenga della verità. Ma l’ho sempre trovato geniale, perciò, lascio ad altri il compito di dare un giudizio sulla sua forza esplicativa. Eccolo.

    “Il luminare X tiene la cattedra della tal disciplina all’università della tal città. Al momento di scegliersi un allievo, il maestro teme di esserne, come dice il proverbio, superato. Opta perciò per Y, “un po’ meno bravo” di lui; tuttavia, egli è un genio, perciò uno “un po’ meno bravo” di lui è comunque una grande mente. Quando anche per Y arriva il momento di scegliersi un allievo, ragiona come il suo vecchio maestro, e sceglie Z, che è sempre molto bravo, ma “un po’ meno di lui”. Generazione dopo generazione, il livello intellettuale cala sempre più, fino ad arrivare alla stupidità conclamata. Ma la parabola/teorema non finisce qui.
    Alla fine del ciclo, infatti, a coprire la cattedra della tal materia nella tal città, arriva uno talmente imbecille, che, quando si sceglie l’allievo, non si accorge di avere davanti un genio. Così la storia ricomincia”.

  9. Mi scuso innazitutto con gli altri commentatori, ma davo per scontato che proprio essi non potevano essere oggetto delle mie critiche.
    Il problema che volevo sottolineare, ma ammetto di non essere stato sufficientemente chiaro, è che certe procedure “democratiche”, più correttamente basate sul consenso maggioritario, per definire le scelte di un certo comparto universitario, hanno provocato danni enormi.
    Prima della legge 240, i poteri di autogestione erano enormi, significava che ogni ateneo, ogni facoltà, ogni dipartimento, perfino ogni corso di studio, stabiliva ad esempio su quali settori chiamare nuovi docenti (cioè le nuove assunzioni), come comporre le commissioni, ma anche quali insegnamenti inserire nei corsi di studio.
    Lasciando ora da parte la questione della legittimità di lasciare le decisioni su un bene collettivo come l’università ai suoi dipendenti, come se in un ufficio comunale decidessero gli addetti agli sportelli, ricordo che il sistema universitario in Italia era simile a quello tedesco, pochi cattedratici con grande potere, che si accoppiava a una centralizzazione a livello ministeriale.
    Con tutti i suoi limiti, questo sistema permetteva di avere dei criteri riconosciuti a livello nazionale per le nuove assunzioni, e d’altra parte un docente divenuto cattedratico aveva garantita una certa parte di potere. Ciò permetteva una maggiore autonomia di giudizio, di compiere scelte con una certa tranquillità.
    Il sistema attuale è stato invece scopiazzato da quello americano. E’ un sistema flessibile e competitivo, che esalta ancora una volta il mercato. Soltanto, che negli USA esso funziona perchè comunque esiste una pluralità di offerte, cioè i finanziatori del sistema universitario sono gli stati ma sono anche privati, mentre da noi quasi tutti gli atenei sono statali e quindi una reale concorrenza non può avere luogo, il sistema è inevitabilmente centralizzato almeno a livello di erogazione dei fondi.
    Il risultato è che l’abilità che è più preziosa nell’università italiana è quella politica nel senso più deteriore del termine, quella cioè di costituire legami interpersonali che ti garantiscano localmente la maggioranza negli organi collegiali, e a livello nazionale che ti garantiscano le maggioranze per quanto attiene l’erogazione delle risorse finanziarie ed umane.
    Quando un cattedratico di oggi deve compiere una determinata scelta, deve prima di tutto pensare a come coltivare i propri rapporti coi colleghi, non come far crescere la sua università.
    Ad esempio, nello scegliere un collaboratore, non avrà come fine prioritario avere una persona brillante che un giorno possa adeguatamente sostituirlo, ma al contrario avere una persona che gli sia fedele. Si favorisce così una selezione al contrario, perchè la docenza universitaria richiederebbe un’autonomia di giudizio, e non un animo servile.
    L’ambizione, la presunzione, la tendenza alla prevaricazione sono difetti, per quanto in sè esecrabili, tuttavia compatibili con questa professione, ma l’inganno, la disonestà connessi con i favori che la coltivazione di rapporti politici comportano, sta distruggendo l’università.
    La concentrazione dei finanziamenti con il balzano concetto di “eccellenza”, e la valutazione centralizzata e resa numero hannmo definitivamente distrutto l’idea stessa di università come dicevo all’inizio.
    Il danno è così esteso che potrebbero essere efficaci solo interventi drastici, quali l’invio ateneo per ateneo dei commissari del popolo di sovietica memoria, se mi passate la battuta.

  10. “Ad esempio, nello scegliere un collaboratore, non avrà come fine prioritario avere una persona brillante che un giorno possa adeguatamente sostituirlo, ma al contrario avere una persona che gli sia fedele. Si favorisce così una selezione al contrario, perchè la docenza universitaria richiederebbe un’autonomia di giudizio, e non un animo servile.” (Cucinotta)

    Domande ingenue: prima invece i “pochi cattedratici con grande potere, che si accoppiava a una centralizzazione a livello ministeriale” operavano in maniera diversa?
    Non selezionavano successori dall’animo servile?

  11. E. Abate scrive:

    “Domande ingenue: prima invece i ‘pochi cattedratici con grande potere, che si accoppiava a una centralizzazione a livello ministeriale’ operavano in maniera diversa?
    Non selezionavano successori dall’animo servile?”

    Premesso che si possono scegliere ed in effetti si scelgono degli yesmen in tutti gli ambiti, industria privata compresa (eccome), parlando in generale direi:
    1) l’uomo essendo quel che è, gli antichi baroni, conti e duchi dell’università italiana d’élite selezionavano anche somari e vigliacchi, va da sè. Ma come tutte le società aristocratiche, anche quella università aveva per principio l’onore (non c’è bisogno di essere protestanti per aver paura di perdere la faccia). Non tutti se lo meritavano davvero, l’onore – per un Carducci che indica Pascoli come suo successore, sapendo che è più bravo di lui, ci saranno stati cento professori che piazzavano in cattedra l’allievo sgobbone o peggio – ma almeno dovevano tributargli l’omaggio del vizio alla virtù: la placida, allegra indecenza del Rettore della Sapienza che piazza in cattedra tutta la famiglia pesce rosso compreso sarebbe stata impensabile.

    2) il tecnicismo che tenta di supplire all’etica professionale e alla qualità umana che non ci sono è quanto di peggio esista, perchè da un canto deresponsabilizza gente già gravemente irresponsabile di suo, dall’altro, applicato in un ambiente marcio, è un invito a nozze per chi bara, che così trucca l’intero sistema invece della singola nomina (si veda sopra l’altro mio post sul database bibliometrico dell’ANVUR); e per finire, è anche falso in sè, perchè non esistono valutazioni oggettive del sapere.

    3) nei paesi anglosassoni la selezione universitaria funziona un po’ meglio perchè lì le università migliori sono private, costano un monte di soldi, e il cliente non gradisce pagare centinaia di migliaia di dollari per mandare i figli dai parenti del rettore. Tengo corsi come prof a contratto in diverse università italiane, ed essendo io fuori dai giochi con me i prof parlano liberamente: più d’una volta mi sono sentito riportare il seguente dialoghetto fra il professore associato e il preside di facoltà: “Caro Professore, capisco e condivido il suo rigore, ma lei è troppo esigente e rigido negli esami: ricordi che il nostro finanziamento dipende dal numero delle iscrizioni, e se superare gli esami è troppo difficile gli studenti si iscrivono altrove.”

    4) Per raddrizzare la rotta e migliorare la selezione dei docenti basterebbe, molto semplicemente, dare degli esempi. Se la magistratura si mettesse a intercettare un po’ telefonate quando si indice un concorso, e qualche ordinario finisse sul serio, ma sul serio, in galera, vedi tu come l’atmosfera si farebbe più respirabile. Basterebbe volere: ma, altrettanto semplicemente, chi può non vuole.

    5) E non vuole perchè la nostra classe dirigente tutta sta bene così come sta, ed essendosi adagiata nella posizione servile di borghesia compradora, che bisogno e voglia può avere, di migliorare la propria qualità integrando i meritevoli? Non deve competere con le classi dirigenti dei paesi più forti, deve solo mediare le loro decisioni e garantire la stabilità interna. Per il resto, ha mano libera, e si comporta come tutte le borghesie compradore: cioè come re Ubu e la sua corte.

  12. @Abate
    Mi scusi, ma dando per ovvio che le porcherie si sono sempre fatte, io tentavo di definire l’influenza che il quadro formale definito dalla legge ha su tali porcherie, se le favorisce o le sfavorisce.
    Se un docente non ha nulla (o comunque molto) da temere dall’abbandono da parte del suo discepolo appena promosso, sarà o no più libero di giudicarne le competenze rispetto al caso in cui sa che tradendolo tale discepolo può togliergli ogni prerogativa mettendolo sistematicamente in minoranza? A me pare una cosa ovvia, tutto qui. E’ chiaro che chi è una persona onesta, tenterà di giudicare oggettivamente, così come se è una persona preparata sarà in grado di discernere il talento, se non è nè l’uno nè l’altro, allora non v’è quadro formale che dia buoni risultati.
    Sarò ancora più drastico: con l’attuale classe docente, nessuna legge potrebbe dare buoni risultati, bisognerebbe prima fare piazza pulita, cosa in pratica impossibile, se non dopo un grande cambiamento nella società nel suo complesso.

  13. Il senso non ingenuo delle mie due precedenti domande è: ma queste porcherie, in parte perenni in parte innovative, sono davvero la sostanza della crisi che vive l’università?
    Nel 68, quando l’alba di un cambiamento vero pareva affacciarsi e quasi si sbeffeggiavano quelli che volevano (appena!) l’«università critica», non mi pare che ci si attaccasse solo alle porcherie dei baroni e delle loro burocrazie. Ora pare che queste siano l’unico problema delle università.
    Ed è il segno, uno dei tanti , della sconfitta che ha consolidato il «compromesso storico» tra vecchie e nuove élite, addizionando le porcherie delle prime a quelle dee seconde.
    Se ne farà mai più piazza pulita di entrambe?
    Boh, chi ha il coraggio ancora oggi di pensare e lavorare per un grande cambiamento nella società nel suo complesso? Che nome dargli? Accontentarsi allora di far piazza pulita almeno di un po’ della cosiddetta “corruzione”?
    Io resto al vecchio Brecht: «I piccoli mutamenti sono i nemici dei grandi mutamenti», anche se oggi si dovesse solo balbettare attorno a un Gande Mutamento. E proprio perché l’uomo è «quel che è», non bisognerebbe però farsi prendere neppure dalla nostalgia dei valori astratti. L’onestà dell’aristocrazia, il «quadro formale definito dalla legge» mi paiono prospettive politicamente consolatorie. Nelle università ci sarà ancora qualche Carducci che indica qualche Pascoli come successore, ma i più sono come il rettore della Sapienza. L’etica professionale è finita con Weber o poco dopo. Né credo che il tecnicismo abbia voluto supplire il venir meno di quell’etica. È un’altra, più moderna, forma di governo. E per chi comanda (borghesia compradora o meno) ha i suoi vantaggi: risulta sempre più conveniente rispetto al salto nel buio di una vera riforma o di una rivoluzione. Con eserciti di yesman, infatti, si va avanti per un bel po’ (come si vede in giro e non solo nelle Regioni e non solo in Italia). Specie quando si è fatta pulizia al momento giusto delle opposizioni reali (vedi anni Settanta!) con tanto di appoggio dei partiti di Sinistra di allora. E non credo neppure alla lezione degli esempi, specie se affidati alla solita magistratura. Colpito uno, se ne educano sì e no altri dieci, non cento. Ed ogni dieci-vent’anni la solita magistratura deve rinnovare il suo solito lavoro di Sisifo (a senso unico o alternato).
    Ci vuole effettivamente « un grande cambiamento nella società nel suo complesso», non solo delle leggi o dell’anima. E questo è il difficile.

  14. @Abate
    Malgrado lei ed io arriviamo alle stesse conclusioni, non posso tuttavia seguire la sua linea di ragionamento. Il fatto è che non mi sento di condividere il suo massimalismo di principio, che finisce per rendere superflua ogni analisi puntuale.
    Devo quindi ribadire. Il modo in cui il parlamento è intevenuto sull’Università è stato micidiale, ed è così che si è costituita una classe docente di infima qualità. Quando troppo tempo fa mi iscrissi all’università, la qualità innanzitutto morale dei docenti era mediamente molto più alta, e poichè non sono liberale (anzi avverso l’ideologia liberale) non ritengo la morale una qualità personale, in definitiva un fatto privato, ma la conseguenza del clima etico collettivo a sua volta profondamente influenzato dalla stessa legge.
    Nel precedente intervento, ho dovuto per ragioni di spazio utilizzare una sintesi estrema che certamente rischia di rendere incomprensibile la mia linea di ragionamento, ed ho dovuto addirittura omettere quasi tutta la parte che riguarda le ultime novità introdotte dalla 240.
    Così, penso sia necessario chiarire che la necessità di fare piazza pulita per me deriva da questi precedenti che mi fanno escludere ogni possibilità di autoemendarsi del mondo accademico, non perchè viviamo in una società capitalista (che naturalmente, d’altra parte, avverso), ma perchè sciagurate scelte legislative succedutesi per più decenni hanno prodotto questi effetti nefasti.

  15. @ Cucinotta

    E’ davvero il mio “massimalismo di principio”? Davvero ostacola “ogni analisi puntuale”?
    A me pare di portare argomenti contro analisi puntuali un po’ ideologiche, cioè necessarie a chi dentro l’università, pur mugugnando, ci sta o ci deve stare per tirar la pagnotta o coltivare il riverbero di autorità che ancora essa offre.
    Comunque, se di massimalismo si trattasse, oltre a identificarlo, sarebbe il caso di smontarlo con analisi puntualissime. A beneficio di tutti i pensanti. Specie se – pare- siamo arrivati alle “stesse conclusioni”.

  16. @Abate
    Lei in pratica mi sta insultando,ed ancora non capisco perchè ed in base a quali elementi in suo possesso. Apparentemente, lei ha maturato la convinzione che io starei a difendere la pagnotta in base al fatto che c’è una differenza di opinione tra noi (e lo farei manifestando disprezzo verso i miei colleghi, davvero un furbone !!!)
    Che dire, tragga da sè le sue conclusioni.
    Visto che trasforma una divergenza teorica in una motivazione per infangare la mia reputazione, senza sapere nulla di me, presumo che alla prossima occasione di dissenso, mi darà del pedofilo.
    La pregherei di evitare in futuro di interloquire con me, non parlo con chi mi insulta del tutto gratuitamente.

  17. @ Cucinotta

    Ma come fa a pensare che io voglia insultarla?
    La invitavo a criticare in dettaglio il mio presunto massimalismo.
    La frase sulla pagnotta etc è in generale ( per difendere la pagnotta tutti dobbiamo ricorrere un po’ all’ideologia o non?) e non riferita a lei.
    Poi se non vorrà più interloquire con me, faccia pure.

  18. Abate, lei ha testualmente scritto:

    “A me pare di portare argomenti contro analisi puntuali un po’ ideologiche, cioè necessarie a chi dentro l’università, pur mugugnando, ci sta o ci deve stare per tirar la pagnotta o coltivare il riverbero di autorità che ancora essa offre”.

    Ora, non è che ci fossero mille rappresentanti del mondo accademico in questa discussione, in sostanza v’ero solo io, così per me è ovvio che quando parlava di chi deve tirar la pagnotta, si riferisse a me, o almeno a quelli come me, quelli che come lei ironizza. mugugnano (si potrebbe dire “non si adeguano”, le assicuro darebbe meglio l’idea).
    Immagino che invece lei abbia una spiegazione alternativa, perchè sennò il tono ingiurioso del suo intervento viene interamente confermato.

  19. @ Cucinotta

    Lei ha visto un insulto dove c’è semmai una (amara) constatazione generale. Per vivere e sopportare il peso di questi rapporti sociali non certo accettabili, tutti facciamo ricorso a un po’ (almeno un po’…) di ideologia. Sia che tiriamo la pagnotta lavorando all’università, sia che la tiriamo lavorando nelle scuole, negli uffici o nelle fabbriche ( o siamo costretti al precariato e alla disoccupazione). Tutti, me e lei compreso. E questo inquina o rende più complicati anche i nostri tentativi di dialogo tutti miranti, in teoria, alla comprensione della “realtà” e al suo “miglioramento”.
    Ho vari amici che lavorano nelle università e non posso non constatare, come mi è stato confermato anche dal recente appello “noi accusiamo” , che io ed altri abbiamo tentato di far circolare anche su questo sito (qui: http://www.leparoleelecose.it/?p=6562), che a questo livello pare ci siano oggi più resistenze ideologiche che altrove. Specie quando si tratta di prendere una posizione politica più decisa ( il riferimento nell’appello era al governo Monti…), si assiste a vari tentennamenti, giravolte, distinguo e, alla fine della fiera, prevale il silenzio pubblico ( e il mugugno privato).
    È un problema. È il problema degli “intellettuali”. La prego di credermi, è un discorso politico generale che faccio. Magari sulla scia delle “semplificazioni” fuori moda del vecchio Brecht:

    STOLTO USO DI TESTE ASSENNATE

    Lo scrittore Fe-hu-wang disse a Me-ti: Coloro che lavorano con la testa si tengono in disparte dalla vostra lotta. Le teste più assennate ritengono sbagliate le vostre opinioni. Me-ti rispose: Le teste assennate possono essere usate in modo assai stolto, sia dai potenti che dai loro stessi proprietari. Proprio per appoggiare le asserzioni o le istituzioni più sciocche e più insostenibili si affittano teste assennate. Le teste più assennate non s’ingegnano di sapere la verità, ma di sapere come ci si possa procacciare vantaggi con la menzogna. Esse non aspirano all’applauso di se stesse, ma a quello delle loro pance,

    (B. Brecht, Me-ti. Libro delle svolte, Einaudi, Torno 1970, pp. 21-22)

  20. Per un breve viaggio replico in ritardo , e me ne scuso, alla risposta di E. Abate. Il quale a mio avviso ha, in buona sostanza, ragione quando dice, citando Brecht, che “I piccoli mutamenti sono nemici dei grandi mutamenti.”
    Cioè a dire, che il problema principale dell’accademia e degli intellettuali in generale sono i contenuti di quel che si studia, si crea e si insegna, e solo in secondo luogo come lo si studia, lo si crea e lo si insegna (questo, almeno per quanto attiene alle discipline liberali: di scienza non so nulla, e dunque non mi permetto di aprir bocca).
    E’ però anche vero quel che gli ribatte V. Cucinotta, e cioè che il massimalismo della pretesa tende a paralizzare ogni analisi e azione riformatrice (ammesso e non concesso che sia possibile tentare una riforma con qualche speranza di minimo successo).
    Non ho soluzioni, nè facili nè difficili, che non siano individuali e dunque moralistiche (fare bene il proprio lavoro, non lasciarsi corrompere, insistere, restare fedeli all’etica appresa in gioventù, etc.).
    Il settore pubblico della cultura, in Italia, per come lo conosco è in condizioni tragicomiche, l’unica volta che vi ho rivestito un ruolo di responsabilità e ho tentato un’azione riformatrice non ho cavato un ragno dal buco e ho rischiato di finire sotto processo. L’università la conosco da turista, e lo trovo un posto dove non vorrei prendere la residenza.
    Per inclinazione personale apprezzo molto chi tiene duro e cerca di migliorare nel concreto la situazione in cui lavora, o almeno di frenarne il peggioramento; ma capisco che non bisogna dimenticarsi le questioni di fondo, anche quando sono così grandi e difficili che sembrano irridere la nostra impotenza. Mi piacerebbe però che gli uni e gli altri, chi vede il piccolo e chi vede il grande, invece di litigare tra di loro cercassero di comprendere e integrare le ragioni l’uno dell’altro, e di lavorare, se possibile, insieme.

  21. Roberto, è la prima volta che mi sento dare del minimalista.
    Evidentemente, non riesco a spiegarmi a dovere. Eppure, l’avrete letto che ho scritto un libro che si chiama “L’ideologia verde. La rivoluzione necessaria.”, che mi dovrebbe consegnare come un inguaribile rivoluzionario.
    Ciò tuttavia mi sembra che non c’entri nè poco nè niente con l’esigenza di quei più o meno piccoli atti di coerenza giorno per giorno, e di dovere quindi giorno dopo giorno confrontarsi soprattutto proprio nell’ambiente di lavoro con i meccanismi attraverso cui una società malata nel suo complesso, provoca la distruzione dell’esistente.
    Così, mi fa sorridere Abate quando immagina che scrivere qualcosa contro il governo Monti rappresenti chissà quale atto temerario, è solo inutile: no, posso assicurare che richiede molto più coraggio scrivere qualcosa contro il tuo vicino di stanza o il tuo superiore diretto, e questo incide molto più nella realtà lavorativa dove ciò accade.

  22. OGNI MONDO ACCADEMICO HA I SUOI TABU’.
    Letterina quasi persiana parlando di nuora (israeliana nel caso) affinché suocera (italiana) intenda.

    “Nel 2004, nelle 5 più grandi università israeliane vi erano circa 133 sociologi: 2 erano palestinesi, 14 ebrei mizrachi, tutti gli altri 117 sociologi erano ebrei askenaziti (di cui solo 34 donne). Fra il 2002 e il 2004, quanti dei 133 sociologi avevano preso una posizione morale contro l’occupazione? 8, ossia il 6% (la stessa percentuale si trova fra gli storici e il 9% fra i filosofi). Quanti di loro appartenevano al movimento di protesta? Solo 6, ovvero il 4%. quanti avevano firmato due diverse petizioni in quei due anni? 7 sociologi, cioè circa il 5%.”

    ( da AA.VV, Ebrei arabi: terzo incomodo? ( a cura di S. Sinigaglia), p. 207, Zambon editore, 2012)

  23. Caro Vincenzo,
    non penso affatto che lei sia un “minimalista”. Non credo neanche che sia un “massimalista” Abate. Confermo per esperienza diretta che ci vuole molto più coraggio per battersi contro un avversario vicino con tanto di nome e cognome, che contro un avversario lontano. Scrivere o parlare contro il governo Monti richiede coraggio solo se e quando si entra nella quota radar del governo; finchè si resta sotto, si viene semplicemente ignorati. In due parole, penso che sia necessario ma molto difficile integrare tattica (conflitto con il vicino, nell’ordine dei mezzi) e strategia (conflitto sui contenuti e sui fini).
    Le definizioni “minimalista” e massimalista” erano appropriate all’interno di un sistema di pensiero e di un movimento politico-culturale (marxismo, movimento operaio) che non solo non esistono più, ma dei quali non esiste alcun corrispondente attuale (indipendentemente dai fini che si proponesse, magari anche opposti). Il problema, e credo anche il dissidio e/o l’equivoco tra lei e Abate, vengono, credo, di qui: dall’inesistenza di una “inglobante” all’interno della quale condividere principi, ed eventualmente confliggere sulla loro comprensione, attuazione, etc..
    E’ una situazione poco simpatica, un “tempo di povertà”; ma è il nostro, e sarà meglio abituarcisi e accettarlo, perchè non passerà per un bel pezzo.

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