di Giacomo Giubilini

Quando si critica Marco Bellocchio bisogna evitare di cadere nella logica delle contrapposizioni sclerotiche che il suo cinema impone al dibattito pubblico. Bisogna cioè evitare di operare il  “parricidio del maestro” e andare al cuore del problema, ossia: Bellocchio è davvero un maestro di laicità?

Per evitare un delitto di lesa semplicità Bellocchio coltiva la complessità come forma e corpo del suo cinema. Che però, ripercorrendo la sua vasta filmografia, si basa di fatto sempre sulla contrapposizione tra desiderio e potere. Il secondo schiaccia quasi sempre il primo che trova una valvola di sfogo in un ribellismo mutilato o criminale o folle. Mai un pensiero risolto o un desiderio davvero realizzato, sempre un spasmo nevrotico in uno spazio chiuso e claustrofobico (la casa, il manicomio, la famiglia, il partito). Generalmente un pubblico medio e mediamente informato e colto, composto in gran parte da donne, ritrova nei fumi sulfurei dei suoi film alcune sonde lanciate dall’autore nelle profondità oceaniche della Cultura Alta o meglio “di qualità”. Ecco allora riesumato un armamentario polveroso fatto di Psicanalisi, Politica, Famiglia e qui, nell’ultimo film, persino di Morte e Diritti. Il tutto incastonato e confezionato nelle scenografie care al Vate : corridoi in penombra e case-prigione, aggiornate con  saune parlamentari e pronto soccorsi  fintamente lindi forse perché “onirici”. Magioni  altoborghesi con credenzoni inquietanti accanto a letti di moribonde estatiche, bionde ma ben conservate nonostante la malattia, circondate da  mobilio antico a sorreggere flebo e Bibbie e  sifoni per respirare. Tutto ciò  colpisce un pubblico che interpreta queste categorie come vuole il regista, non conoscendone nessuna davvero a fondo, per poi consolarsi ritrovando in forma confusa, nel film del grande Autore, i temi di riviste come «Focus», le denunce postprandiali della più giacobina ed elitaria «Micromega». Una critichina spuntata ma roboante ai “valori cattolici” che ci assillano e schiacciano ma che “sono parte della nostra cultura”, una disamina “dell’ipocrisia moralistica” che li sostiene e mantiene in vita , sempre nel silenzio e nel non detto di non si sa più bene chi. E poi la solita  anatomia della politica italica corrotta e corruttrice, un appello impegnato “alle nostre intelligenze” – cioè  le stesse che hanno eletto questa ciurma di ladri e incapaci. Una partitura che vorrebbe sferzare, ma che risulta invece assolutamente digestiva: dietro l’engagement di un pomeriggio al cinema tra vedove e maestre si nasconde lo sbadiglio di un dibattito obsolescente e provinciale. Religioso come tutto in Italia e quindi pieno di eroi, vittime, ipocrisie, reliquie e salme.

Ma dopo tutta questa fanfara eroica che ha sempre bisogno di un artista vittima di qualcosa e sdegnato per non essere stato premiato (quasi mai lo premiano),  cosa resta in realtà? Resta il  suo ultimo film.

Il fatto di cronaca da cui l’opera prende le mosse è quello autentico di un eroico padre che vuole l’eutanasia per legge e non per ipocrisie familistiche tipiche di sacrestie e di panni sporchi che si lavano in famiglia. Ma questo eroe borghese è in effetti il grande assente del film: diventa un’aspirazione, un afflato, un’estasi religiosa – non un discorso. Un santo da citare, mediato, sfruttato e spolpato dall’informazione corruttrice, che però, sempre laicamente, riempie il film di soldi con un product placement evidente (solo Sky tg 24 dà la verità).

Sulla scena non va certo  la solitudine del laico – il personaggio del senatore –  quanto piuttosto i tormenti di un pugile suonato che non sa parlare di laicità senza ridurla necessariamente ad un discorso a sua volta religioso – il partito –  e farla diventare laicità for dummies, cementata dalla noia madornale di un lutto di famiglia tutto suo: la moglie morta sì, ma morta gettando il cuore oltre l’ostacolo – ed è subito eutanasia. Morta, certo, ma dopo averla inquadrata, la sventurata, con labbra screpolate tra sospiri e pose, cotta stracotta e biscottata, eppure ancora in grado di chiedere la morte da mano tremante di marito devoto. C’è anche la figlia,  educanda e vergognosetta, che spia la scena dell’ultimo abbraccio dal pertugio di una porta ospedaliera, musica ascetica e fastosa e abbraccio da scultura tra la mamma morta, ma morta bene perché piena di diritti,  e il padre  assassino, ma per necessità e quindi con virtù.  Tutti contenti e tutti felici quindi, persino la morta.

Poi ci sono i giovani, a cui il maestro guarda sempre con disincanto e affetto e rassegnata partecipazione , consapevole delle loro “ingenuità”. Ed ecco che nel film, per un paradosso non voluto, realtà e finzione si mescolano, e l’auspicio di  tenere insieme le ormai inconciliabili ragioni di entrambe le parti, i carnefici e le vittime contente,  si sfracella davanti ai volti dei molti “figli d’arte” assoldati da Bellocchio, con un sadismo non si sa quanto volontario. Assoldati proprio  per rappresentare i “giovani”, la generazione altra, gli inquisitori possibili, i perduti, gli sconfitti, la possibile minaccia e novità. E raccontati con le categorie degli anni Settanta, come zombie morti e sepolti e risorti su pellicola come presenze fantasmatiche. Insomma, una carrellata di poveri nevrotici. Coloro che dovrebbero chiudere la lapide dell’ossario e guardare oltre, guardare al futuro appunto, sono sepolti da Bellocchio stesso nella sua cattedrale. Ecco allora una trafila di volti resistenti a qualunque forma di recitazione prima ancora che di vita o arte. Attori incapaci  come non mai. Ma con un marchio di fabbrica che ne garantisce discendenze artistiche e nobili natali, secondo la più spietata e religiosa e feudale dinamica del familismo all’italiana. Noi spettatori dobbiamo rinunciare ad un Michael Douglas, ma possiamo, se ci riesce, consolarci con il volto spaesato di un giovinastro  che si ritrova in un lavoro non suo, dove può ostentare la fisiognomica del sofferente forse appresa in famiglia: Brenno (?) Placido. Lui si sforza di incarnare ardori e rancori e languori della sua generazione, urlati a simulare tormenti e nevrosi, ma finiti a tacere poi in uno stanzino. Brenno rivela un presente di tardi rossori adolescenziali e un occhio vitreo. Per dargli un po’ di vita lo si costringe ad  urla bufaline, tanto rappresentative di vitalismo giovanile se e solo se seguite da  mutismi che non accennano a profondità ma ad ebetismo. Tutti palpiti che tanto piacciono al regista – il desiderio, appunto – ma depotenziati, bofonchiati, stanchi e spenti da una recitazione inerte.

Ed eccoli tutti, i giovani del film, in una sarabanda cimiteriale, chiamati dall’appello dal Maestro ad incarnare i tormenti e a portare la croce dei Grandi Temi: Eutanasia, Religione, Politica e Morte. Con la faccia però che li condanna prima ancora di iniziare, la faccia di bamboccioni pane e nutella e figli di, appena svegli, senza le piaghe dei poveri  e senza la vera alterigia dei ricchi ma con gli sbadigli stiracchiati dei medi e dei mediocri, ancora più odiosi perché miracolati davvero. E quando bamboccioni non lo sono più, ecco allora l’eterno inespresso e inesprimibile Tognazzi figlio, che dimagrisce a vista d’occhio ed è ormai ridotto a maratoneta etiope – nella volontà di sparire alla presenza maestosa, corporale, gastronomica ed invadente di un padre genio attoriale. Tognazzi figlio, anche lui incastrato dal sadico redentore in un percorso religioso, la parte masochistica del capro espiatorio, insultato in scena proprio da quello più incapace di lui e utilizzato come se si dovesse far perdonare qualcosa e magari risorgere nella fonte battesimale del film col sommo Autore. La Redenzione, il Perdono. Difficile passare da Teste di Cocco a teste pensanti ma il penitente s’impegna. Tognazzi, sicuramente peccatore da anni nella sua volontà masochistica di fare l’attore invece che qualunque altra cosa, serve a Bellocchio per sdoganare il figlio vero, il suo di lui, il sosia Bellocchio, figlio e attore, maschera e alter ego, dannato perché una parvenza di attorialità sembra averla e soprattutto perché deve recitare duetti con Maya Sansa.

In questa cattedrale barocca non manca infatti nemmeno la vittima per eccellenza di una generazione di quaranta anni fa, la tossica da eroina. Direte voi: esistono altre droghe. Ma Bellocchio preferisce rimanere in famiglia, con le droghe che vide allora. Lei, la Sansa, mai sdentata o sfatta, come per miracolo è pronta a sermoneggiare da subito  anche se è appena riemersa dal coma. Dovrebbe incarnare i corpi scarnificati di un’intera generazione di giovani maledetti e ormai estinti, che ha deciso di morire comunque col buco o col suicidio. Non ci riesce affatto perché è stranamente viva e vitale e pontificante.

Mancherebbe l’Amore, che come si sa è femmina; ma eccolo recuperato in subitaneo amplesso dall’ameboide per eccellenza del nuovo cinema italiano, asessuata e diafana, santa che però, da predicante e immacolata, da biascicatrice di rosari, si trasforma in satanassa da sveltina. Sì, proprio lei, l’algida recitatrice di sfiati atoni Alba (poca) Rohrwacher, già protagonista di quell’altro zombie movie che è La solitudine dei numeri primi.

Restano tre mostri sacri, relegati alla saggezza del disincanto Herlitzka, Servillo e Huppert,  spigolosi nel confronto con gli altri più giovani, che annientano ogni volta che appaiono in scena. Per loro Bellocchio riserva la parte dei sacerdoti officianti, pensosi e ripensosi o in estasi nevrotica da pulizia e confessione. Testimoni muti o cinicamente consapevoli dell’eutanasia dei figli ben contenti di immolarsi. Il cinismo del saggio psichiatra Herlitzka diventa presto sermone edificante contro la Televisione e la Politica, cioè  i nemici di sempre della generazione che si assolve provando a smontare solo due concetti, questi. Una generazione assolta con nemici sempre uguali, la mala Politica e la mala Televisione, creati entrambi da loro.

Restano i corridoi come luoghi privilegiati della claustrofobia della casa, altro tema caro a Bellocchio. Ma nelle case rimangono i giovani imbelli, il povero ebete Brenno, relegato giustamente  in uno sgabuzzino e asfissiato da una madre santa e padre assente e sorella cadaverino.  Sono in fondo giovani già vecchi, impotenti come li ha voluti il regista; sono lui da giovane ma quarant’anni dopo; invocano la loro stessa eutanasia perché già morti da tempo. L’unica larva umana del film, giovane e bellissima, è costretta invece a respirare da una macchina che le impone una madre folle e feroce, potente e simbolica, titillante e vescovile, maliarda  repressa e castratrice professionista di maschi abulici (il figlio e l’ex marito). E’ lei che incenerisce il povero Brenno senza alcuno sforzo, mettendolo nell’angolo buio di uno stanzino. Incapace, assente e inconsapevole, stordito perché senza parole per dirlo e senza un volto per recitarlo.

[Immagine: Brenno Placido in La bella addormentata di Marco Bellocchio (gm)].

14 thoughts on “Laicità for dummies. Su “La bella addormentata” di Marco Bellocchio

  1. Grande invettiva, che mi regala la motivazione (sinora del tutto assente) di andare a vedere il film, e mi conferma che l’esasperazione è uno dei migliori carburanti letterari.

  2. In franchezza, mi paiono critiche fatte di fretta e accumulazione. Non ho capito perché, di fronte alla possibilità di analizzare un film di Bellocchio – film peraltro, decisamente imperfetto, va ammesso – moltissimi cadano in questo sarcasmo descrittivo, commentando con calorosa gratuità le scene salienti del film, una per una e una dopo l’altra, impastando così un polemismo generico e di superficie. Il film lo si può anche usare per fare un certo tipo di discorso, ma non pensiamo così di vedere soddisfatti la completezza e l’impegno di una recensione. Ho letto cose diverse, diverse ma uguali, perfino sul sito della Murgia. Si provi a trovare quello che in un film (di Bellocchio) va cercato prima di tutto, le ragioni cioè delle immagini: in questo “Bella addormentata” ha a mio avviso ancora qualcosa da dire. E, se è necessario, ri-domandiamocelo: ha senso parlare di realismo o, come in parte sarebbe sensato supporre, di attualità, di fronte al cinema di Bellocchio?

  3. Invettiva acutissima e impietosa come è giusto che sia. Da incorniciare. Ah i Maestri, i Maestri, ma di chi poi? Unico appunto, anche Michael Douglas è figlio d’arte (o forse è stato citato proprio per questo?).

  4. “Generalmente un pubblico medio e mediamente informato e colto, composto in gran parte da donne, ritrova nei fumi sulfurei dei suoi film alcune sonde lanciate dall’autore nelle profondità oceaniche della Cultura Alta ecc. … Tutto ciò colpisce un pubblico che interpreta queste categorie come vuole il regista, non conoscendone nessuna davvero a fondo, per poi consolarsi ritrovando in forma confusa, nel film del grande Autore, i temi di riviste come «Focus»… dietro l’engagement di un pomeriggio al cinema tra vedove e maestre …”
    Mi scusi, non ho visto il film e forse non mi interessa: mi colpisce solo che lei per prendersela con Bellocchio se la prenda con le donne: le donne di cui ha sbirciato le reazioni durante la proiezione, evidentemente, ma forse tutte, specialmente se vedove o maestre. Le segnalo solo che una donna che legga il suo articolo potrebbe trovarla semplicemente molto saccente.

  5. Mi dispiace che lei noti una certa saccenza nelle mie parole. Assolutamente non voluta. Mi riferivo invece a precise ricerche di marketing che conosco per lavoro e attuate dalla distribuzione del film stesso. E da tutte le distribuzioni italiane sul loro catalogo anche detto library. Per quanto le possa sembrare incredibile, a me sembra incredibile, c’è chi fa un preciso monitoraggio di chi sia il pubblico di certi prodotti culturali e ci spende pure un sacco di soldi per farlo. E mi passi quest’espressione forse abominevole: prodotti culturali. Distribuire un film in 400 sale ha un costo davvero sostenuto e ogni distribuzione conosce chi è il suo pubblico di riferimento, qual è il grado di istruzione dello stesso, qual è l’età media e il reddito medio. Ebbene sì i film della 01, la distribuzione del film, hanno come target vecchie zitelle istruite di cultura medio alta e reddito medio. Target che pensavo di sintetizzare con licenza poetica nella figura da tutti conosciuta e tanto amata della maestra. La vedovanza era effettivamente solo un auspicio dell’autore verso i mariti che grazie a dio sono generalmente morti in tempo e prima di essere trascinati in sala.

  6. #Giubilini
    Quindi “vecchie zitelle istruite di cultura medio alta e reddito medio” è un target marketing che poeticamente (?) si sintetizza in “maestre” e che ci permette di far capire meglio a tutti che quello di Bellocchio è un “film per cretine” (il femminile è d’obbligo: ce lo dice il marketing della 01, mica Giubilini).

  7. Eh no, Giubilini, non cada dal pero, lei non ha citato la maestra perché simbolica figura “tanto amata”, ma come variante medio-borghese della sciampista o della casalinga di Voghera, E non ci faccia la lezioncina sulle ricerche di marketing quando lo sa pure mio nonno (barbiere, se può interessarle per altri correlativi oggettivi) che il pubblico del cinema, dei teatri e delle librerie in Italia è costituito in maggioranza da donne, e che a loro è rivolta una parte imponente del mid-cult (ce n’è tanto anche al maschile, sa, con tutti quegli anti-eroi scafati e cazzuti che sono in giro – ah, ma dimenticavo, quelli servono a rivendicare un’arte che abbia impeto rivoluzionario! che racconti storie forti! dimensioni collettive! mica robe per maestrine…ops, m’è scappato, ma era solo per dire, no?).

    Guardi, io sono pure d’accordo con lei che si tratta di un film diseguale e pieno di attori mal combinati, e, le dirò di più, neanche Bellocchio scherza quando ci propina i suoi cliché femminili (e la bigotta e l’ingenuotta e la bella maledetta…ma, d’altra parte, da un film che si intitola “Bella addormentata”, cosa pretendiamo?) – ma il signore ha 73 anni e in passato ha fatto ben di peggio, e il film, dopotutto, ha molto altro da dire, quindi questa riusciamo persino a passargliela.

    Però a lei, che in questa bella prosa tutta affilata e piaciosa riesce a infilare le sue battutine sulle signore “zitelle” che costituiscono il pubblico “medio[cre]” di tale cinematografia, ovvero i “dummies” del suo titolo, no, questa non gliela passiamo. Magari se diventa bravo come Bellocchio, sì. Per ora no, riservi la sua violenza epistemica per i suoi fumosi circoletti extra-colti only for men. Entrano solo i soci con la cravatta e la conchiglia inguinale.

  8. Recensione severa e in parte convincente – deprimente invece la compiaciuta genderizzazione dei “dummies” del titolo: vecchie zitelle e maestrine? In un pezzo di questa fattura è una avvilente caduta di stile

    ps: gentile redazione di LPLS, come vedete ho annacquato il commento postato in precedenza, cassato dalla vostra diligentissima moderazione – giusto, era molto sarcastico, pensato però che il bravo e tagliente Giubilini potesse reggere il colpo. Come vostra lettrice colta e plurilaureata e non-importa-se-sposata vi prego di invitare anche i vostri collaboratori ad annacquare alcune derive vetero-maschiliste (dovrebbe farlo anche Bellocchio, ma tant’è…). Grazie

  9. “Derive vetero maschiliste” è magnifico. Non c’è bisogno di dire altro direi. Approvo e sottoscrivo.

  10. Mi associo alle signore sdegnate. Non si può invocare sempre il pubblico femminile per accettare che un artista a noi indigesto abbia successo. E poi, ancora con questo “zitelle”, variante dialettale del più impersonale italiano “nubile”, che ha in sé dispregio e soprattutto il concetto che la donna non congiunta costantemente col maschio sia una mezza donna (che ridere) e faccia categoria di marketing a sé. Che sia anche della O1 la “colpa”, un recensore serio non si abbassa a riportar stronzate.
    Saluti.

  11. Signora carissima mi unisco al suo sdegno che spero e mi auguro sia sorretto dalle giuste vampe e iracondi anatemi e propositi di violenza per il sottoscritto, uno cioè che, come scrive lei, ha “il concetto che la donna non congiunta costantemente col maschio sia una mezza donna”. Che ridere! Penso non ci sia altro da aggiungere. Tante care cose.

  12. Dal mio umile punto di vista credo che non vi fosse alcun intento denigratorio alle donne “non congiunte”, piuttosto la polemica dell’autore mi sembrava rivolta a chi sfrutta un certo strato antropologico (mi si lasci passare il termine), tra un’ ispirazione e un occhio buttato al mercato, per imbastire figure e trame che invece di spiccare verso l’alto a cui ambiscono, rimangono viziate dai clichè e dal pathos ready-made. Morale: già collaudato, quindi già venduto.

    Cordialmente,

    L.

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