Il cuore rivelatore del tradurre, con Jean-Luc Nancy
di Andrea Cortellessa
[Questo articolo è uscito sul numero 23 di «alfabeta2», in edicola e in libreria dall’8 ottobre. Una sua versione più lunga è in corso di pubblicazione negli atti del convegno Islam in Sicilia. Un giardino tra due civiltà, organizzato dalla Fondazione Orestiadi di Gibellina presieduta da Francesca Corrao (Palermo, 17 marzo 2012)].
In questo consesso – di arabisti, comparatisti e studiosi della traduzione – io rappresento a tutti gli effetti un intruso: da studioso di italianistica, di Letteratura italiana contemporanea, che ha insegnato e insegna Letterature comparate, all’Università, appunto da intruso. E allora ho pensato di usare – per riflettere sulla Traduzione come strumento di dialogo interculturale – un testo piuttosto celebre, il cui titolo suona appunto L’intruso. Il suo autore, Jean-Luc Nancy, nella prima parte della sua attività s’è molto occupato di linguaggio e poesia, poi soprattutto di politica: campi entrambi nei quali ha messo a frutto il concetto di estraneità. Ma fra le sue molte opere non mi pare ve ne sia una specificamente dedicata alla pratica che lega fra loro linguaggio, poesia ed estraneità: cioè appunto alla traduzione. Anche piegare il suo pensiero in una direzione (forse) da lui imprevista rappresenta un’intrusione. Ma proprio il modo in cui Nancy ci insegna a interpretare la figura dell’intruso mi illudo autorizzi questa mia pratica.
Nel 1990 Nancy ha subito un trapianto di cuore. Dopo quella data, per nove anni, non ha mai scritto nulla su quell’evento. Nel frattempo è stato anche aggredito da un tumore dovuto probabilmente proprio ai farmaci, evidentemente intrusivi, assunti per evitare crisi di rigetto. In questa vicenda medica, dunque, la presenza dell’intruso è ambivalente: da un lato, organo estraneo prelevato da un altro corpo e inserito nel proprio, è un intruso che salva. Dall’altro, si tratta di un farmaco che – secondo la ben nota ambivalenza dell’etimo – nel momento in cui cura mette anche a repentaglio la vita del paziente. Infine si tratta del tumore stesso: intruso che minaccia.
Nel 1999 Nancy viene invitato dalla rivista «Dédale», nella persona di Abdelwahab Meddeb (scrittore e saggista tunisino che insegna Letterature comparate a Paris-X), a partecipare a un numero della rivista dedicato a La venuta dello straniero. Scrive un saggio di meno di trenta pagine, che intitola appunto L’intruso. Il saggio, quasi immediatamente, viene altresì pubblicato dalle edizioni Galilée; nello stesso 2000 esce anche in Italia (a cura di Valeria Piazza per l’editore napoletano Cronopio).
Nell’Intruso Nancy non tocca mai, esplicitamente, temi politici. Si limita a raccontare quanto avvenuto nel suo organismo nei nove anni di convivenza col corpo estraneo del cuore che gli è stato trapiantato. Ho appena usato un termine, organismo, che in realtà è a sua volta estraneo al pensiero di Nancy: la sua opera probabilmente più importante, Corpus (1992, curato da Antonella Moscati sempre per Cronopio tre anni dopo), è infatti una grande decostruzione del concetto di organismo come lo abbiamo ereditato. Non solo in senso biologico: di organismo e corpo sono lecite tutte le possibili accezioni metaforiche in ambito sociale, giuridico, politico. Nonché letterario: corpus è il corpo linguistico, l’insieme dell’opera di un autore. Corpus ci spiega che il corpo è fatto invece «di parti e di pezzi, partes extra partes, una giustapposizione senza articolazione, una vanità, una mescolanza, né esplosa né implosa, dall’ordine vaghi, sempre estendibile». Cioè, potremmo dire, di organi senza corpo – capovolgendo la nota formula di Artaud che negli anni Settanta era stata fatta propria dalla filosofia di Gilles Deleuze e Félix Guattari. Quindi non si può parlare del corpo inteso come armonia delle parti e appunto organismo: quella che esiste è invece qualcosa come una costellazione, una collezione di parti; di esse si può dare «un catalogo invece di un logos, l’enumerazione di un logos empirico, privo di ragione trascendentale».
Se dunque organismo è già un termine discutibile secondo Nancy, anche l’accezione in cui ne ho usato un altro, straniero, gli è a ben vedere estranea. Ancora Corpus ci spiega come tutti i corpi, in effetti, siano stranieri a loro stessi: «Il corpo è la nostra angoscia messa a nudo, è la nostra estraneità». Il tema dell’estraneità, lo si accennava, è fondamentale nel pensiero di Nancy. E nel regime corporeo l’estraneità in quanto angoscia si manifesta come malattia. La malattia è il momento della disfunzionalità, il momento in cui le funzioni del corpo fuoriescono dalla norma e mettono a nudo una difficoltà, un’angoscia che alla malattia preesiste, è del corpo costitutiva.
Ma ecco la premessa di Nancy a L’intruso:
L’intruso si introduce di forza con la sorpresa o con l’astuzia, in ogni caso senza permesso e senza essere stato invitato, bisogna che vi sia un che di intruso nello straniero che altrimenti perderebbe la sua estraneità. Se ha già diritto d’ingresso e di soggiorno, se è già aspettato e ricevuto senza che niente di lui resti al di là dell’attesa e dell’accoglienza, non è più l’intruso, ma non è più nemmeno lo straniero. […] Una volta giunto, se resta straniero e per tutto il tempo che lo resta, invece di naturalizzarsi, semplicemente, la sua venuta non cessa, continua a venire e la sua venuta resta in qualche modo una sua intrusione. Rimane cioè senza diritto, senza familiarità e senza consuetudine: un fastidio e un disordine nell’intimità.
È questo che si tratta di pensare e praticare, altrimenti l’estraneità dello straniero viene riassorbita prima ancora che lui stesso abbia varcata la soglia; e non è più in questione. Accogliere lo straniero dev’essere anche provare la sua intrusione. Anche se per lo più non lo si vuole ammettere: il motivo dell’intruso è esso stesso un’intrusione nella nostra correttezza morale (è anche un esempio cruciale contro il political correct). Questa correttezza morale presuppone che si riceva lo straniero annullando sulla soglia la sua estraneità: pretende quindi che non lo si sia affatto ricevuto. Ma lo straniero insiste e fa intrusione. È proprio questo che non è facile accettare e neppure forse concepire…
Sono parole che fanno a pezzi il feticcio concettuale, che fa da base appunto all’ideologia del politically correct, del dialogo: che si svuota di senso se, come viene il più delle volte praticato nelle nostre società, non c’è reale ascolto, non c’è riconoscimento dell’altro in quanto appunto diverso, estraneo. Del resto la filosofia contemporanea ci ha pure ricordato l’ambivalenza etimologica di una figura in apparenza rassicurante come l’ospite: dove l’hospes coesiste con l’hostis e l’ospite, figura ancipite attiva-passiva, porta in sé raccolto, altresì, colui che è ostile, dialettico, in frizione con l’altro.
Ma è proprio questa tensione, che ci mette in pericolo, a essere vitale. Assai più di recente (un una conferenza tenuta a Pordenone nel 2008 col titolo Strani corpi estranei, pubblicata l’anno dopo in un volume curato da Marco Vozza per Ananke, col titolo Indizi sul corpo) Nancy ha potuto impiegare questa stessa ambivalenza per parlare d’amore:
Un corpo è penetrabile solo secondo una delle due logiche opposte, quella dell’assimilazione e quella della distruzione. O la materia viene assimilata dal corpo – ingerita, assorbita, metabolizzata – o al contrario intacca l’integrità del corpo: lo ferisce, lo strappa, addirittura lo mutila o lo lacera. (Quando si parla di penetrazione senza designare la minaccia invasiva, militare o medica, significa che si parla di amore. Nell’amore c’è presa senza assimilazione sé lacerazione. C’è corpo l’uno nell’altro senza incorporazione né decorporazione. «Amore» significa il prendersi di due che eludono tutte le trappole dell’uno.)
L’incontro ha sempre qualcosa di violento, di lacerante. Qualcosa si apre, si espone: tocca il senso. È nella «frammentazione della scrittura», in questa «intersezione» e «interruzione», che si verifica per Nancy l’«effrazione di ogni linguaggio»: che appunto «avviene dove il linguaggio giunge a toccare il senso» (Corpus).
Nell’applicare il concetto di intruso alla traduzione mi ispiro a un classico della traduttologia, La prova dell’estraneo di Antoine Berman: un saggio del 1984 dedicato alla cultura della traduzione nella Germania romantica (tradotto da Gino Giometti in una delle prime pubblicazioni di Quodlibet, nel 1997). (È il caso di ricordare che a sei anni prima risale una grande antologia commentata dei frammenti estetici usciti su «Athenaeum» e dintorni, curata per Seuil proprio da Nancy con Philippe Lacoue-Labarthe: L’absolu littéraire.) Il sintagma che intitola il saggio di Berman è prelevato dalle Note all’Edipo e all’Antigone, che Friedrich Hölderlin prepose alle sue celebri versioni da Sofocle: episodio-chiave di una pratica traduttoria estrema – dopo la quale il poeta svevo s’inabissò nella follia. Tradurre i Greci per noi Occidentali moderni, si legge nella celebre lettera a Böhlendorff del 4 dicembre 1801, non significa affatto per Hölderlin ritornare alle nostre origini, a quanto ci è assolutamente proprio. Al contrario la Grecia, «il mondo violento del mito», ci «appare come ciò che, nella sua origine e nella sua traiettoria, ci è estraneo, è l’estraneo per antonomasia». Non è un caso che si concluda sul sesto grado delle sue versioni sofoclee quello che resta il più celebre dei saggi sulla traduzione, Il compito del traduttore di Walter Benjamin (testo del 1923 diffuso da noi nell’antologia einaudiana curata nel ’63 da Renato Solmi, Angelus Novus): che parte dal presupposto secondo il quale «ogni traduzione è solo un modo pur sempre provvisorio di fare i conti con l’estraneità delle lingue». L’«arcaismo sovrano e violento» delle versioni di Hölderlin grecizza in modo perturbante il tedesco: esso ne risulta, dice Berman, «come forzato, violentato, trasformato e magari fecondato dalla lingua straniera». Al tempo stesso, d’altra parte, da una simile forzatura anche «il testo originale, nella sua lingua e nel suo contenuto», viene com’è ovvio «violentato». Ma questo caso-limite non fa altro che mostrarci quanto si produce in ogni reale atto di traduzione. Nel quale secondo Benjamin il compito del traduttore, anziché «attenersi allo stadio contingente della propria lingua», dovrebbe invece «lasciarla potentemente scuotere e sommuovere dalla lingua straniera».
Ben lungi dal rappresentare un’assimilazione, una pacificazione, una neutralizzazione della diversità culturale e linguistica, la «vera» traduzione esalta il momento della differenza, dell’estraneità, dell’intrusione del testo straniero nel nostro sistema linguistico e letterario. Più che di un abbraccio o di una fusione si tratta di un contrasto, un conflitto, una sfida. È il caso di ripetere, con la citazione più risaputa appunto da Hölderlin: là dove è il pericolo, lì è la salvezza. O forse, è il caso di correggere, viceversa. E infatti Benjamin – che ne sapeva qualcosa – conclude il suo saggio con un caveat che mostra la sua tipica, enigmatica ambivalenza: «abita in esse, più che in altre, il pericolo terribile e originario di ogni traduzione: che le porte di una lingua così estesa e dominata si chiudano – e chiudano il traduttore nel silenzio. Le traduzioni da Sofocle furono l’ultima opera di Hölderlin. In esse il senso precipita di abisso in abisso, fino a rischiare di perdersi in profondità linguistiche senza fondo». «Archetipo» (Urbild), modello supremo e originario, e insieme, per Benjamin, «pericolo terribile» nonché «originario», le versioni di Hölderlin esemplificano a meraviglia, insomma, tutte le ambivalenze dell’intruso.
Ed ecco, fuori dal campo linguistico, Nancy nell’Intruso: «Nel trapianto tutti i segni paiono vacillare, tutti i riferimenti capovolgersi». Il turbamento della lingua, il suo vacillare nell’atto della traduzione, dà vita a opere che scuotono e sommuovono non solo la lingua d’arrivo della traduzione ma la lingua dell’arte in quanto tale. Ha impiegato infatti la stessa immagine, il Nancy più recente: «Tanto più un’opera è grande, tanto più essa è aperta e noi non finiamo più di sprofondare in quest’apertura…. com’è possibile rileggere sempre Sofocle? rivedere sempre Cézanne? rivedere sempre Eisenstein? riascoltare sempre Beethoven? Sono sempre nuovamente intrusi, operano sempre nuovamente in noi delle estrusioni» (dalla conversazione con Marco Vozza contenuta nel cit. volume Indizi sul corpo, corsivo mio).
È stato Gilles Deleuze, tra i filosofi della generazione precedente a Nancy, ad aver teorizzato questo fenomeno. Chi scrive, dice nelle conversazioni con Claire Parnet del ’77 (tradotte da Giampiero Comolli e uscite da Feltrinelli nel 1980, sono state poi riproposte da ombre corte nel 1998), non può che «essere un traditore del proprio regno, traditore del proprio sesso, della propria classe, della propria maggioranza – quale altra ragione per scrivere? Ed essere traditore della scrittura stessa». In questo tradimento il traduttore è a tutti gli effetti un agente doppio (direbbe Paolo Fabbri) o, diciamo pure, una spia. Che furtivamente, sotto falso nome, riporta notizie riservate dalla cultura da cui traduce. Ma, nel mettere a rischio la propria lingua e la propria cultura con l’atto della traduzione, il traduttore-traditore ha bisogno di un complice: della collaborazione da parte dell’intruso-tradotto. Il tradotto e il traduttore, anche e soprattutto quando sono in conflitto, sono figure complici.
Il risultato è che nella grande letteratura ogni lingua è una lingua straniera. Così ha sostenuto Proust, nel Contro Sainte-Beuve: «i bei libri sono scritti come in una lingua straniera». E così ha parafrasato Deleuze, in Critica e clinica (Cortina 1996): «un grande scrittore è sempre come uno straniero nella lingua in cui si esprime, anche se è la sua lingua nativa. […] È uno straniero nella sua lingua: non mescola un’altra lingua alla sua, ma intaglia nella sua lingua una lingua straniera non preesistente». Ne risulta confermato il paradosso apparente che Hölderlin è stato forse il primo a formulare: quello per cui a ciò che ci è proprio dobbiamo accostarci come a quanto ci sia più estraneo. Anche la lingua in cui scriviamo, la nostra lingua madre, ci appare una lingua strana – straniera, tradotta – quando viene impiegata, e tradita – scossa e sommossa – dai grandi scrittori.
Ma più in generale vale, questa medesima estraneità originaria, in qualsiasi dinamica di incontro fra culture. Colui che meglio lo ha spiegato è stato un grande critico psicoanalitico recentemente scomparso, Francesco Orlando: non solo «il nativo capisce meglio la propria realtà a contatto con l’estraneo» – come hanno capito gli antropologi da Clifford Geertz in poi – ma «l’estraneo capisce la realtà del nativo meglio di lui» (L’altro che è in noi. Arte e nazionalità, Bollati Boringhieri 1996). È l’arrivo dello straniero che mette a nudo i nostri paradigmi culturali: per noi talmente inveterati da essere ormai inavvertiti. Ci fa conoscere noi stessi, in sostanza, meglio di quanto potessimo farlo per nostro conto. È quanto mostrava già il vecchio Montesquieu delle Lettere Persiane. Il «persiano» – lo straniero – guarda il nostro mondo con occhio appunto estraniato: e così è in grado di accorgersi di quanto a noi sfugge. Ma così facendo mette a nudo – lui, l’estraneo – la nostra estraneità, il nostro essere stranieri a noi stessi. Così conclude Nancy il suo scritto: «L’intruso non è nessun altro se non me stesso e l’uomo stesso, non è nessun altro se non lo stesso che non smette mai di alterarsi, insieme acuito e fiaccato, denudato e bardato, intruso nel mondo come in se stesso».
Siamo tutti intrusi, insomma. È per questo che, malgrado i pericoli che comportano, sempre avremo bisogno di nuove intrusioni.
[Immagine: Mark Dorf, Axiom and Simulation (gm)].
Molto bello e interessante. Leggendo mi sono posta la questione degli scrittori che non scrivono in lingua madre, ma la “tradiscono” e mi sono chiesta quale meccanismo scatta in questi casi, senza sapermi però rispondere, almeno per il momento. Grazie comunque del pezzo.
1.
“Corpus ci spiega che il corpo è fatto invece «di parti e di pezzi, partes extra partes, una giustapposizione senza articolazione, una vanità, una mescolanza, né esplosa né implosa, dall’ordine vaghi, sempre estendibile»”
2.
“Nell’amore c’è presa senza assimilazione sé lacerazione. C’è corpo l’uno nell’altro senza incorporazione né decorporazione”
“dall’ordine vaghi”?
” senza assimilazione sé lacerazione”?
Intrusi o refusi?
infusi