di Francesca Borrelli
[Dal 25 dicembre al 4 gennaio LPLC sospende la sua programmazione ordinaria. In questi giorni, per non lasciare soli i nostri lettori, ripubblicheremo alcuni post. L’articolo che segue è uscito su LPLC il 16 ottobre 2012. L’articolo e l’intervista di Francesca Borrelli qui riportati sono usciti sul “manifesto” di domenica 7 ottobre].
Forse perché si sente, come ha scritto, “determinato dalla infelicità psichica”, e in qualche modo condannato a restare catturato dal copione che lo vuole autore di “storie di follia, di gelo, di prigionia”, Emmanuel Carrère ha cercato di dirottare la sua scrittura su un binario che confluisse nel reportage, e dunque lo impegnasse in un resoconto di fatti, tutti debitamente romanzati, si capisce, ma le cui conclusioni si prestassero, almeno in parte, a venire sottratte al suo libero arbitrio, condizionato da una indole non proprio solare. Così, per esempio, ha passato sette anni a ricostruire nell’Avversario (Einaudi, 2000) la vita di Jean-Claude Romand, che da giovane, per un banale incidente enfatizzato dalla sua insidiosa depressione, mancò un esame di medicina e si lasciò scappare la bugia secondo la quale lo aveva passato con successo: di quella bugia restò vittima tutta la vita, facendo credere di essere il medico che non era, dunque da lì imbastendo intorno a sé un romanzo narcisistico il cui epilogo sarebbe stato l’uccisione della moglie e dei suoi bambini. Anche se era stato un fatto vero a avergli dettato il libro, Carrère si ritrovava ancora decisamente sintonizzato con le sue storiche ossessioni, dunque fece sapere in giro che ora era pronto a tentare di misurarsi con il genere reportage, e pensava – evidentemente – al racconto di un viaggio. Ma, alla fin fine, ciò che gli proposero era di scrivere la storia di un povero disgraziato ungherese che al termine della seconda guerra mondiale, trascinato nella ritirata della Wehrmacht, venne catturato dalla Armata rossa e passò quasi tutto il resto della vita, cinquantatré anni, in un manicomio russo. Per quanto il genere fosse proprio quello dal quale Carrère cercava di tenersi lontano, accettò tuttavia di ripercorrere la storia e i luoghi di quell’uomo, e anche se nel libro che ne trasse, La vita come un romanzo russo (Einaudi, 2009) apriva una ampia parentesi divertita per riportare all’attualità le elaborate fantasie erotiche già travasate in un racconto di cinque anni prima, il legame con la cupezza dei suoi fantasmi era ancora ben saldo. Quando poi si dedicò alla stesura di Vite che non sono la mia (Einaudi, 2011) l’immersione nel dolore divenne precipitosa, travolgente, a tratti persino compiaciuta, e la sintonizzazione con la malattia e il lutto gli dettò pagine al tempo stesso terribili e smaglianti. Dunque, il passo successivo, ossia il racconto della vita di Eduard Limonov, proveniente dalla piccola borghesia ucraina, più volte passato dalla polvere all’altare grazie alla sua carriera alternata di delinquente e di poeta, di combattente a fianco dell’esercito serbo e di fondatore di partito nazionalbolscevico, di comparsa al margini del jet set internazionale e di detenuto esemplare nelle peggiori carceri russe, deve essere sembrato a Emmanuel Carrère il viatico di un prossimo riscatto dalle sue ombre. Limonov, infatti, è stato un vincitore, e come tale è tornato nel 1989 a Mosca, quindici annni dopo averla abbandonata. Anna Politkovskaia, la giornalista uccisa nel 2006, ne parlava come di un eroe della lotta democratica in Russia, e questo è il bilancio della sua vita sottoscritto dai più, nonostante l’uomo fosse approdato a una carriera di fascista a capo di miliziani skinhead. La sua storia ha occupato gli ultimi quattro anni di Carrère, confluendo in un libro semplicemente titolato Limonov, che segna il passaggio dell’autore dal catalogo Einaudi a quello Adelphi (traduzione di Francesco Bergamasco, pp. 356, euro 19). Tra questa pagine, la verità storica spesso arretra di fronte alla verità narrativa, e se l’interesse maggiore deriva non solo da ciò che è successo all’avventuriero Limonov, ma dal background storico che illumina passaggi essenziale dalla Unione Sovietica di Chruscev alla Russia di Putin, altrettanta ammirazione va tributata al montaggio fatto di flashback, speculazioni immaginative su dati di realtà, inserti della propria vita di autore in quella del personaggio, confusione artatamente indotta tra le proprie opinioni e quelle di Limonov. Ciò che odia e ciò che ama l’ha scritto lo stesso protagonsita russo nei suoi libri, quasi tutti autobiografici: odia il senso comune e i suoi eroi, nella fattispecie tutti i dissidenti e gli espatriati, da Solzenicyn a Brodskij a Erofeev a Sacharov a Nurejv a Nabokov, a Michalkov a Barysnikov, che si sono contesi il primato di anime belle, e pazienza se lo erano davvero. Ha scritto di essersi voluto schierare “con il male”, di prediligere “i giornali da strapazzo” il cui numero ha contribuito a incrementare, di essere attratto dai comizi frequentati da quattro gatti, dai “movimenti e i partiti che non hanno nessuna possibilità di farcela”, come quello da lui stesso fondato. Dopo avere consumato in Ucraina un veloce apprendistato da criminale, la sorte lo ha portato a scrivere versi e diventare un idolo dell’underground sovietico. Poi è emigrato a New York, dove il dolore per l’abbandono di una donna lo ha trasformato in un barbone e l’improbabile amore di un’altra lo ha messo nelle condizioni di diventare prima l’ospite poi il maggiordomo di un miliardario. Forse, alcuni dei suoi anni più felici li ha passati a Parigi, dove per qualche tempo ha giocato il ruolo di scrittore alla moda, ma una vera ebbrezza l’ha provata solo combattendo nella guerra dei Balcani, e la possibilità di entrare in una insospettata sintonia con se stesso l’ha finalmente sperimentata a contatto con il paesaggio elementare, quasi astratto delle montagne ai confini con il Kazakistan, dove avrebbe voluto creare un campo di addestramento per destabilizzare la regione al fianco dei suoi adepti nazionalbolscevichi. Ma il meglio di sé l’ha dato tra le mura del carcere speciale di Lefortovo, dove vengono mandati i più pericolosi nemici dello stato, e successivamente nel campo di lavoro di Engel’s, dove ci si spacca la schiena a scavare buche che subito dopo vengono riempite, perché lì la convinzione di essere un uomo eccezionale, la stima smisurata di sé, la certezza della propria irriducibilità alla norma lo hanno portato a sentirsi più vicino che mai a “ciò che sempre, strenuamente, con la cocciutaggine di un bambino, ha cercato di essere: un eroe, un uomo davvero grande”. La sua – scrive Carrère – è una “carriera complicata”, per questo – come racconta nella intervista qui sotto – gli si è dedicato.
Tutto ciò che si vorrebbe sapere su Eduard Limonov è compiutamente descritto nel suo libro, perciò parliamo piuttosto degli aspetti meno visibili: per esempio, come ha lavorato alla costruzione del romanzo?
C’è un primo livello, in cui, in modo abbastanza lineare, seguo lo svolgersi della vita di Limonov, il puro dato biografico. A questo si sovrappone un secondo piano che riguarda il mio rapporto personale con la sua avventura; e c’è poi un terzo livello che ho seguito via via che il romanzo si sviluppava e che mette al centro la storia della Russia. Il modo in cui ho intersecato questi tre piani somiglia molto al modo in cui si procede a un montaggio cinematografico. Uno degli elementi che più mi piacciono in alcuni dei libri che leggo, e quindi anche in quelli che scrivo, è la coesistenza di fatti che si penserebbe non possano stare insieme. Nel mio romanzo, per esempio, accade qualcosa di simile quando inserisco degli intervalli di un certo numero di pagine per parlare di me e di fatti che sembrerebbe non avere nulla che spartire con la storia di Limonov; o accade, per esempio, quando inserisco un intero capitolo sulla perestroika. Poi cerco di fare in modo che tutte le componenti camminino insieme e, certamente, affidarsi alla successione cronologica semplifica le cose.
Quali aspetti della vita e del carattere di Limonov l’hanno attratta di più e quali hanno avuto l’hanno respinta con più forza?
Di certo, l’episodio che mi ha attratto al punto da farmi decidere di scrivere questo libro è quello che racconta lo stesso Limonov a proposito di Engel’s, un campo di lavoro sul Volga costruito per imporsi come un modello, in cui ha scontato alcuni anni di prigionia durissima. Lì osserva i lavabi e questi gli appaiono identici a quelli ideati da Philippe Starck per un lussuoso albergo di New York dove gli era capitato di soggiornare, invitato dal suo editore alla fine degli anni Ottanta. La cosa lo fa riflettere, gli fa dire che, probabilmente, non ci sono altre persone in grado di effettuare lo stesso paragone per essere state ospiti prima di un grande albergo newyorkese poi di un campo di lavoro russo. Il che lo rende orgoglioso, lo fa sentire unico, e io sono d’accordo con lui: mi sembra abbia ragione, perché tra i tanti i criteri per giudicare il successo di una vita uno riguarda certamente l’ampiezza delle esperienze vissute. Limonov ha attraversato una tale quantità di contingenze storiche, di esperienze sociali e morali che non può non suscitare ammirazione e al tempo stesso alimentare la cupidigia di un romanziere. Quanto a ciò che di lui mi ha respinto è presto detto: semplicemente, il fatto che è un personaggio odioso. E’ un egocentrico, che nutre un disprezzo sovrano per tutto quanto riguarda la vita ordinaria, mostruosamente narcisista e per certi versi molto puerile: di fondo è un fascista, da un punto di vista non soltanto politico ma esistenziale, il che non gli impedisce di essere un uomo piuttosto onesto, coraggioso e dotato di un certo fascino. Quello che più mi ha colpito, però, è che qualunque cosa mi trovassi a pensare sul conto di Limonov, prima o poi ne vedevo anche il lato contrario: è vero, per esempio, che ho dovuto constatare quanto fosse puerile, ma al tempo stesso ho pensato che ci sia qualcosa di nobile nel restare attaccati tutta la vita a un ideale dell’infanzia. Non potrei dire altrettanto di me stesso. Un certo giorno, quando Limonov aveva dodici anni, portava gli occhiali spessi e veniva picchiato di frequente, si disse che no, nessuno avrebbe mai più dovuto colpirlo per primo. E’ una idea puerile, da cortile di ricreazione, è chiaro, come è chiaro che il suo è un proposito fascista. Tuttavia, questo uomo che difende a spada tratta il diritto del più forte, al tempo stesso è dotato di una grande empatia, e lo si è sempre trovato al fianco dei più deboli: in carcere, per esempio, da questo punto di vista tenne un comportamento esemplare.
Quale è stato il capitolo della storia di questo personaggio che le è costato di più scrivere?
E’ quello che riguarda l’avventura di Limonov nei Balcani e la sua partecipazione alla guerra. Vidi un documentario trasmesso dalla televisione francese, che lo riprende mentre scarica il suo fucile sui passanti di Sarajevo, allora assediata. In quel momento abbandonai il libro, e lo feci non solo e non tanto a causa della mia disapprovazione politica per il comportamento di Limonov, ma perché all’improvviso mi apparve come un uomo ridicolo. Mi andava bene che fosse cattivo, e anche che fosse una canaglia, ma ridicolo no, perché nel ruolo di eroe del mio libro non avrebbe funzionato più.
Sembra che nelle sua mani la scrittura sia un dispositivo capace di applicarsi con la stessa indifferenza alla descrizione del grande dolore per la perdita di una persona amata, di esperienze sessuali al limite della follia, di orribili manifestazioni di crudeltà, ma anche di capziosità giudiziarie o, per fare un altro esempio, di trucchi nascosti in vertenze che oppongono le banche ai consumatori insolventi. Si direbbe dunque che la sua precisone sia motivata da una sorta di acribia indipendente dalla materia trattata, il che farebbe dire – a dispetto del pathos seminato nei suoi libri – che lei è uno scrittore freddo. E’ d’accordo?
A me non sembra di essere uno scrittore freddo, anzi mi sembra di lottare contro la tendenza a proteggersi dietro l’ironia. Negli esempi che lei ricordava, ho cercato di fare arrivare al lettore aspetti diversi, nello stesso tempo: per esempio, quando nell’Avversario e, di più, in Vite che non sono la mia, ho parlato di questioni giuridiche, di cui peraltro non sapevo nulla prima, mi è sembrato fossero così importanti per i personaggi che descriverle con rigore era essenziale, perché attraverso quelle questioni passavano anche sentimenti di amicizia e di amore. Uno dei complimenti che si sentono fare a libri che affrontano la sofferenza, o comunque problemi molto delicati, è che sono privi di pathos. Io invece credo che mantenersi su un terreno allusivo vuol dire cercare di evitare il dolore, e chi scrive così, a mio avviso manca di coraggio. Il pathos fa parte della vita, e la letteratura che preferisco è quella che lo accoglie. Nel mio romanzo precedente, Altre vite che non sono la mia, trattavo effettivamente l’esperienza di un grandissimo dolore che aveva riguardato persone reali e a me note, dunque bisognava andarci con i piedi di piombo, il tatto era una questione della massima importanza. Mentre quando si è trattato di Limonov mi sono sentito molto più a mio agio, e anche la descrizione della crudeltà, o quella di esperienze estreme dal punto di vista sessuale, le ho affrontate molto più a cuor leggero. Prima di tutto era stato lo stesso Limonov a scriverne nei suoi libri, che sono stati la mia fonte primaria, in secondo luogo mi sentivo addosso minori imperativi alla delicatezza: Limonov era un uomo molto esposto, era un violento, notoriamente senza scrupoli. Se il mio libro non gli fosse garbato, e persino se lo avesse offeso, me ne sarei fregato.
Lei ha scritto che nel mettere insieme il suo romanzo su Limonov ha pensato come la vita spericolata e romanzesca di questo avventuriero raccontasse qualcosa non soltanto di lui e non solo della Russia, ma di tutti noi dopo la fine della guerra. Cosa in particolare?
Rimpiango amaramente di avere scritto questa frase perché deve essere suonata come una provocazione. Comunque, a me pare che l’esempio di Limonov ci dica qualcosa sull’enorme sconvolgimento dei valori che si è verificato a partire dalla fine della guerra fredda prima, e della caduta del comunismo poi. Dopo di allora ci siamo trovati con un sistema di valori uguale in tutto il mondo, quello – per intenderci – che poggia sulla democrazia, sul mercato, sui diritti dell’uomo e così via. Dunque, la vita di Limonov ci dice qualcosa sulla grande confusione nella quale tutti noi ci siamo ritrovati. Ma quel che soprattutto intedevo mettere al centro del romanzo è la tentazione di condurre una vita avventurosa, una esistenza eroica, una tentazione che ci coglie tutti da giovani, ma che quasi sempre abbadoniamo. Limonov invece è rimasto fedele a questo ideale. Certo, non si può dire che io e lui abbiamo avuto molto in comune, se non il fatto di essere stati dei grandi lettori di Dumas; però Limonov si è messo in testa di essere il conte di Montecristo e mi sembra che in una certa misura ci sia riuscito.
Se dovesse indicare qualche punto in comune tra tutti i personaggi dei suoi romanzi che ha preso di peso dalla realtà, quali elementi indicherebbe?
E’ come se mi fossi aspettato da ciascuno di loro che incarnasse una certa potenzialità dell’essere umano, qualcosa che c’è anche in me. Sono persone di cui potrei dire: la sua vita avrei potuto viverla anch’io, sarebbe potuto capitare anche a me di andare nella sua stessa direzione. Per quanto riguarda Jean-Claude Romand, il protagonista dell’Avversario, il suo è un caso di follia criminale, e grazie a Dio non ho imboccato quella strada. Ma, all’altro estermo, in Vite che non sono la mia, le due figure di giudici che ritraggo hanno lucidamente scelto una vita ordinaria, una vita piccola, in cui mi ritrovo e in cui leggo una certa nobiltà d’animo. Limonov, invece, è l’incarnazione del sogno dell’avventuriero, e al tempo stesso un uomo lontano dalla vertigine della follia, che sta dalla parte della vita, e della vita ha un senso semplice, persino animale. Certo, è molto diverso da ciò che sono e tuttavia qualcosa di lui in parte mi riguarda. Ho bisogno, insomma, di potere indovinare quacosa dei mei personaggi che sento esistere in me stesso, e che suppongo, dunque, trovi risonanze anche nei miei lettori.
Lei ha scritto in un suo romanzo di cinque anni fa, La vita come un romanzo russo, che le piace la letteratura “efficace”. “Idealmente – diceva – mi piacerebbe che fosse performativa”. Ossai che avesse il potere di creare la realtà che nomina. Le è capitato di avvicinarsi a questo risultato? E, di contro, ha mai sperimentato l’impossibilità di accedere a qualcosa che avrebbe voluto descrivere?
Semplicità e efficacia sono effettivamente due aspirazioni per me paragonabili a quelle dell’arciere che desidera centrare con una freccia il suo bersaglio. Quanto all’aspetto performativo, ne ho avuto un saggio quando ho scritto il racconto erotico che in Italia è uscito con il titolo Facciamo un gioco. Il mio è stato un tentativo di effrazione nel reale, che ha avuto conseguenze catastrofiche. (Carrère rispose a un invito di Le Monde e buttò giù con allegria un testo erotico ambiento in un vagone ferrioviario, la cui protagonista era la sua fidanzata nell’atto di masturbarsi mentre leggeva quello stesso racconto. Poi si accertò della data di uscita, e comprò alla sua compagna un biglietto ferroviario per quel giorno, raccomandandole di leggere, durante il viaggio, il racconto del quale non le aveva ancora parlato. Il gioco prevedeva che anche altri viaggiatori avrebbero fatto lo stesso e che nel leggere avrebbero riconosciuto nella ragazza la protagonista del racconto, in un crescendo di eccitazione generale. ndr). E’ quanto di più violento mi sia successo nella mia vita di scrittore, pensavo fosse una cosa divertente e spiritosa, invece era semplicemente perversa, e spero di non essere così stupido da ripetere nel futuro qualcosa di simile. La scrittura di quel racconto, e tutto il gioco che gli ho montato intorno, è stato un esempio pressoché caricaturale della hybris alla quale si può abbandonare un letterato, ma mi sembra di avere imparato la lezione. Il che non mi impedisce di puntare a una certa efficacia nel trasmettere le emozioni che evoco anche ai lettori. Quanto alla impossibilità di accedere a qualcosa che vorrei descrivere, preferirei non parlarne, proprio perché il testo al quale sto lavorando ora ho l’impressione mi abbia fatto scontrare con i miei limiti di scrittore. Spero che riuscirò a superare questa impasse, ma credo che per farlo debba presupporre un progresso prima ancora che nella scrittura in me stesso, come essere umano. Per ora ho la netta impressione di non possedere gli strumenti adatti, e non intendo i dispositivi tecnici bensì un certo livello di maturazione. Limonov, invece, non mi ha mai posto grandi problemi, perché non ha mai richiesto che scendessi su un terreno molto intimo, molto dolorosamente personale. Ho provato una grande leggerezza nello scriverlo, ne ho avuto la percezione già al tempo in cui ho lavorato al reportage dal quale è poi partito il romanzo. Mi sono accorto che avevo trovato il tempo giusto: un allegro, che non viene da me, che è il suo tempo, e ha reso Limonov un libro divertente da scrivere.
[Immagine: L’viv, agosto 2012. Foto di Isabella Mattazzi (im)].
un momento, però. leggo “Anna Politkovskaia, la giornalista uccisa nel 2006, ne parlava come di un eroe della lotta democratica in Russia”. non è così. nello squallore totale, i nazionalbolscevichi erano tra i pochi (prescindendo dal loro credo politico, scriveva la Politkovskaja, e non sempre con modi condivisibili, sottolineava) che prendevano le parti della gente e facevano opposizione. limonov è una figura con molte più ombre che luci, personalmente non mi affascina affatto, anzi lo trovo fastidioso quando non pericoloso. ma ha una vita che si presta senz’altro alla manipolazione romanzesca. scusatemi, sono andata a riprendermi un passo di “Diario russo” della Politkovskaja. recita: “Questo il quadro ceceno-moscovita. Ne risulta che Limonov e Basaev sono diventati i leader di una gioventù che non si rassegna alle condizioni di palese e totale ingiustizia, oltre che di tragico disprezzo per la vita umana, imposte da Putin. Limonov e Basaev sono la speranza per i nostri figli di sentirsi persone degne. È terribile. Ma è così”. dunque, altro che “eroe”. Era – PURTROPPO – l’unico che si opponeva a Putin. Insieme a Basaev. che è tutto dire.
consiglio vivamente la biografia dell’ottimo carrère, che contiene anche gustosi ritrattini di personaggi famosi incontrati da limonov (lili brik, ad esempio, non ne esce benissimo per un gesto un po’ meschino). di limonov ho letto “libro dell’acqua” che uscì nel 2004 per alet, l’unico suo romanzo – se non sbaglio – tradotto in italiano: racconta, ad esempio, che un anno con un’amica si ritrovò a ostia e la giudicò bruttissima. l’anno dopo, quando lesse della morte di pasolini, scoprì che era stato nello stesso punto dove ppp venne successivamente ucciso. c’è una frase di carrère che rende bene limonov e non solo limonov: “ha bisogno di essere protetto e coccolato, tranne poi disprezzare quelli che lo proteggono e lo coccolano” (pag. 125).
Emmanuel Carrère
La vita come un romanzo russo (traduzione di Margherita Botto)
pp. 276,€ 17,50
Einaudi, “I coralli”
Torino, 2009
Nell’estate del 2002, Emmanuel Carrère consegnò a “Le Monde” un divertissement (così sembrava) studiato e orchestrato in ogni sua più minuta rifinitura. Si trattava, in breve, di una lettera erotica – intitolata L’usage du Monde – che l’effettiva destinataria avrebbe dovuto leggere non nell’intimità del suo appartamento o del suo studio, ma condividendolo perlomeno con le decine di viaggiatori presenti sul treno che avrebbe preso la mattina del sabato in cui sarebbe uscito l’inserto con il racconto. Una comunità reale che sul piano virtuale, stando ai numeri di tiratura di del foglio, avrebbe facilmente raggiunto le migliaia di unità. «Naturalmente – è scritto nella breve nota che ha accompagnato la pubblicazione in volume del racconto (Facciamo un gioco, Einaudi 2004) – come sempre succede quando si pianifica una cosa nei minimi dettagli , ho passato un’infinità di tempo a immaginare i mille e uno granelli di sabbia che avrebbero potuto inceppare la mia macchina performativa. E, come sempre succede, non è accaduto nulla di ciò che immaginavo, ma è accaduto qualcos’altro». E al capoverso successivo: «Mi dispiace deludervi ma non vi racconterò cosa. Non vi racconterò cosa perché ho intenzione di raccontarlo un giorno nei particolari, e quel giorno non è ancora arrivato». Ora, sfogliando appena le prime pagine de La vita come un romanzo russo (traduzione di Margherita Botto, Einaudi, “I coralli”, pp. 276,€ 17,50), in edizione originale da P.O.L. nel 2007, non si mette poi molto a capire che finalmente quella scadenza è maturata, ma tutta la scrittura del libro sembra innescata, come rivela lo stesso romanziere francese, da ben altra motivazione. La molla che lo spinge è di natura diversa, ha a che fare con la voglia di scrollarsi di dosso il peso che La settimana bianca (1995) e L’avversario (2000) gli hanno lasciato sulle spalle assieme al copione «tetro e immutabile» che lo porta, «qualunque sia il punto di partenza a tessere una storia di follia, di gelo, di prigionia». Per questo motivo, dopo la lunga stesura de L’Adversaire (sette anni) e poco dopo la sua pubblicazione, Carrère accetta l’idea di dirigere un reportage cinematografico sulle tracce di un prigioniero di guerra ungherese che aveva passato cinquantacinque anni nell’ospedale psichiatrico di Kotel’nič, a ottocento chilometri da Mosca. Va da sé, sia pure non del tutto lucidamente, che nella decisione dello scrittore gioca un peso determinante la volontà di sciogliere l’enigma che avvolge la figura del nonno materno, un esule russo scomparso in circostanze mai chiarite che sembra uscito da un’epopea nabokoviana. Da ultimo, a complicare un viaggio che avrebbe dovuto essere piuttosto una redenzione che nuova caduta nella «follia» e nel «gelo», c’è la tormentata storia d’amore che Carrère vive con Sophie all’epoca in cui si svolgono i fatti narrati in Un roman russe. Ma se sono questi i tre assi principali attorno cui si snoda il congegno narrativo che l’autore e regista parigino escogita nei modi e nei termini di una prima persona ben più arresa alla confessione e allo smascheramento di quella narrante in L’avversario – dove protagonista principale resta, per la sua forza magnetica di portatore del male universale (sul modello del Meursault camusiano de Lo straniero), il pluriomicida Jean-Claude Romand (riflesso speculare e drammatico dell’anima persa del romanzo eponimo di Giovanni Arpino); se lì, insomma, l’io autobiografico si attesta su un versante dopotutto testimoniale (ma non per questo immune al fallimento del mero “racconto”), in La vita come un romanzo russo l’epigrafe potrebbe essere quella ambigua del Rimbaud che affida alla letteratura il compito – e il dovere – di cambiare la vita; a partire dalla propria per finire con quella degli altri, come recita programmaticamente il titolo dell’ultimo libro di Carrère apparso in Francia, quel D’autres vies que la mienne (sempre per P.O.L, nel 2009) che forma, con il precedente, un dittico sul ritorno alla vita, attraverso la scrittura, di un uomo che dalla stessa scrittura era stato gettato all’inferno. Dietro gli intrecci che movimentano le sequenze narrative di La vita come si intravedono, così, le correnti che li dettano, ovvero i temi effettivi della scrittura in proscenio di Carrère. Da un lato il rapporto con la lingua russa, per lui indissolubilmente legata all’infanzia e alla madre (celebre russista dell’Académie nazionale), opposta al francese dell’adolescenza e dei successi dello scrittore adulto: un conflitto identitario destinato a rimanere irrisolto, ogni volta frustrato da un passo avanti nella padronanza del cirillico e da uno indietro nella sostanziale estraneità al senso profondo d’appartenenza che si nasconde dietro le parole. Dall’altro, l’oblio e il braccio di ferro tra passato e memoria, che fa della pagina il luogo d’elezione in cui il tempo effettivo della vita si interseca con il presente dell’opera che si va facendo. Diversa e più rispetto al camuffamento di una riflessione meta-letteraria, la genesi del documentario poi presentato a Venezia nel 2003 (con il titolo di Retour a Kotelnich) è esemplare dell’andatura centripeta del libro. Con una particolarità: l’area verso cui le diverse storie precipitano non è mai quella in vista delle quali sono cominciate, ma sempre diversa e imprevista. Una voragine di nulla che inghiotte dapprima l’indagine sul prigioniero di guerra ungherese e di seguito la ricerca della verità sul nonno, Georges Zurabišvili. Senza una vera e propria sceneggiatura, il Carrère regista e la sua troupe girano a vuoto, quasi per inerzia, finendo per trovare il loro migliore soggetto solo quando ormai stanno per rinunciare all’impresa. Allo stesso modo, nel tentativo di eluderne le trappole, lo scrittore Carrère non può che precipitare ancora nell’ossessione dei libri passati, vera cifra distintiva della sua produzione. Come da un’energia incontrastabile, viene spinto sempre più nella clausura psicologica che era stata già dei suoi titoli – e qui raffigurata dai due scenari del romanzo: la gelida steppa asiatica, coperta di neve e il feroce calore dell’appartamento parigino. A farne le spese è il rapporto con Sophie, di cui, a partire dalla ripresa del racconto uscito su «Le Monde», che ora ci è dato di conoscere in tutti i suoi retroscena, l’intera seconda parte del romanzo allestisce un gioco al massacro nel quale la gelosia soffia come un vento di morte sopra i corpi degli amanti. Ancora una volta tutto si rovescia a un passo dal collasso e probabilmente oltre, ma nella straordinaria capacità con cui Carrère decide di misurarsi con i differenti piani delle sue storie, in un’orchestrazione strutturale mobile e pure estremamente salda, è come se la disperazione e lo scacco si redimessero, al punto che le parole conclusive rivolte dallo scrittore al suo Lettore Ideale, cioè la madre Hélène, ce lo restituiscono sopravvissuto e lenito: «Ho ricevuto in eredità l’orrore, la pazzia, e il divieto di esprimerli. Ma li ho espressi. È una vittoria». Solamente adesso, forse, davvero consapevole di quanto gli scrisse un giorno proprio Jean-Claude Romand: «penso a una frase di Claudel: “Il tempo è il senso della vita”, come si parla del senso di una parola, del senso di un fiume, del senso dell’odorato… Quando ne scopriremo il senso, questa terribile realtà si tramuterà in verità e forse sarà ben diversa da quella che davamo per scontata. Se sarà davvero la verità, porterà con sé il rimedio per le persone che coinvolge…»