di Francesco Scarabicchi
È stato a Macerata – sosta di poche ore – che ho ricordato dei versi di Gino Bonichi, poi, dal ’27, per tutti e per sempre, Scipione: «Il giorno è andato lontano/ e io mi sento un uomo di grande statura./ Non c’è ombra attorno al mio corpo. Io vedo i monti, io sento il fiume. I colori si sono spenti,/ le radici degli alberi frugano la terra.» La poesia appartiene ad un libretto – Carte segrete – che Einaudi pubblicò, nel giugno del 1982, con una prefazione di Amelia Rosselli e una nota di Paolo Fossati. Nel ’42, per opera di Enrico Falqui, la scelta di scritti diversi di Scipione (versi, pagine di diario, frammenti di lettere) era stata edita da “Corrente” prima e da Vallecchi poi. Scipione, nel frattempo, si era spento nel novembre del ’33, nella Pensione-sanatorio San Pancrazio di Arco di Trento dove era da tempo, nell’ultima stazione del suo male cominciato in adolescenza, nel ’19, dopo una polmonite. Era nato a Macerata il 25 febbraio del 1904 in una casa di Viale Umberto I (oggi Viale don Bosco). Da Macerata se ne andrà, con la famiglia, a Roma, e a Roma compirà i pochi passi fondamentali che lo condurranno dentro la storia della pittura del Novecento. Chi ancora la ricorda, rammenta la mostra, ideata e curata da Carlo Antognini (1937-1977), Marche Arte ’74 che vide, nello jesino Palazzo Pianetti-Tesei, opere di De Carolis, Bartolini, Licini, Scipione, Mannucci, Cagli, Fazzini, De Vita, Trubbiani. Fu, quella, l’occasione che consentì, a molti, di fare l’esperienza con l’arte del Novecento che questa regione aveva espresso ed esprimeva tra storia e presente conoscendo anche disegni e dipinti di Scipione (penso, ad esempio, alla serie de “I 12 mesi di Scipione” del ’28). A quella esposizione seguirà, nel 1985, a Palazzo Ricci di Macerata, un ulteriore e fondamentale appuntamento con l’arte di questa meteora la cui luce si eclisserà poco prima dei trent’anni (ne aveva, coetaneo, ventisette lo scrittore Dino Garrone che spirò in un tetro e triste ospedale di Parigi, nel ’31, partito da Pesaro). A osservare alcune fotografie, si vede una figura alta, pesante, che dimostra molti più anni di quelli portati realmente nel solco del patimento e della fatica. Un volto gonfio, maturo per sofferenza, un’età consumata. Non c’è traccia evidente delle Marche nel suo lavoro; la Roma che Scipione dipinge (“Via Ottaviano”, “Via che porta a San Pietro”, il bozzetto e l’olio su tavola “Piazza Navona”, il ritratto del “Cardinal Decano”, tutti del 1930) è una Roma che non conosceremo più, tragica e fantastica insieme, stremata dalla costante presenze del rosso, l’insanguinata iride del suo dolore e della disperata attesa della morte. Ogni suo quadro è presente e storia, memoria dell’antico e convulsa, impulsiva necessità di non dar tempo al tempo, al suo inesorabile precipizio, alla sua consumazione. Lo dicono i bellissimi disegni che compongono una sorta di teatro anticipatore di altre identità del Ventesimo Secolo e fanno di lui, a Roma, verso il 1927, “[…] l’anima” di quel gruppo che prenderà il nome di “Scuola romana”; gli sono accanto Mafai, Melli, Caporossi, Afro, Cagli, la Raphael, Mirco, Mazzacurati, Fazzini, Leoncillo”, come scrive Giulio Carlo Argan ne L’arte moderna (1990). Di questa regione dimora, nella sua intera opera e nei suoi scritti, un sentimento che lo affida allo sguardo d’esistenza, ad una tesa verità nascosta delle cose, alla consapevolezza della loro precaria e ferita luce.
[Immagine: Scipione (Gino Bonichi), Piazza Navona, 1930 (particolare) (mg)].
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