di Gianluigi Simonetti
[Quella che segue è una parte di un saggio più ampio che uscirà prossimamente su «Allegoria»].
“Resistere non serve a niente – purtroppo – è il libro più bello dell’anno”. Alla fine di un lungo e notevole saggio che ha voluto dedicare al libro, Andrea Cortellessa cede consapevolmente alla tentazione che insidia da sempre i critici letterari più curiosi e disinibiti: quella di attribuire all’autore l’atteggiamento e i pensieri del personaggio, e insomma di identificare una componente nichilista che riguarda Walter Siti in prima persona – e che all’interprete, attestato su posizioni ‘resistenti’, dà molto fastidio. Reazione idiosincratica, dichiarata come tale, che contrasta con l’adesione critica che Cortellessa riserva al romanzo, ma che nasce “irresistibilmente” dalla scoperta di un impulso distruttivo, di origine edipica (parricida quindi, ma pronto a ritorcersi contro la generazione dei figli) che dilaga come un veleno in tutti i precedenti romanzi di Siti; Resistere non fa che condensarlo in una “morale politica”, in un manifesto di pensiero “compiutamente e consapevolmente di destra”:
Quel pensiero che da sempre ha terrore del futuro e detesta chi si sforza di produrlo («Sono l’Occidente perché detesto i bambini e il futuro non mi interessa», memorabile sentenziava Troppi paradisi a p. 186). Quel pensiero che da sempre considera la storia un fenomeno naturale, al quale come tale – appunto – è inutile opporsi. Quel pensiero che da sempre, della natura umana, considera solo e ossessivamente il Male. Quel pensiero che da sempre osserva esclusivamente il pessimismo della ragione, irridendo e compiangendo quella volontà che altro potrebbe concepire.
Non che le interpretazioni materialistiche della società, alla base del moderno pensiero di sinistra, non abbiano spesso coltivato, nella storia della filosofia, uno spiccato “pessimismo della ragione”, talvolta accantonando la dialettica e immaginando la storia come “fenomeno naturale”; in effetti è proprio come “un processo di storia naturale” che Marx intende analizzare lo sviluppo della formazione economica della società, secondo la nota formula contenuta nella prefazione al Capitale. Ma il punto non è questo – resta vero infatti che l’ideologia esplicita di Resistere non serve a niente, tanto nella polemica antiumanistica quanto nella risoluta chiusura al cambiamento, può essere definita, dal punto di vista di un lettore contemporaneo, di destra. Come è vero che la critica del progressismo italiano di oggi, nelle sue forme istituzionali come in quelle alternative e movimentiste, rappresenta uno dei temi principali del libro, sulla scia del Contagio e di Autopsia dell’ossessione. Come è vero che molti collegamenti strutturali, in Resistere non serve a niente, intendono rafforzare anche subliminalmente l’idea che il male non si limita a vincere perché è più forte del bene, ma perché è più onesto, più vitale e più lucido; perché ha ragione.
Ora, se si volesse limitare la discussione alla polarità destra-sinistra, sempre un po’ riduttiva quando si parla di letteratura, ci si potrebbe intanto domandare se l’origine chiaramente reattiva dell’esibizione nichilista di Resistere non serve a niente – risposta a una retorica dell’impegno sentita come falsa e inefficace – non modifichi alla radice il significato della postura amorale che l’autore lascia filtrare in tutto il libro (e forse in tutta la sua opera): in altre parole, se la verità nera che trasuda dalle pagine non vada interpretata come negazione e oltraggio (volontario) di una sinistra sentita come sterile e irreale – e quindi, in ultima analisi, come sete di un nuovo inizio, da pensare tra le macerie delle false rivoluzioni.
Non credo mancherebbero validi appigli testuali a una lettura di questo tipo: Walter Siti resta pur sempre uno dei nostri pochi narratori in grado di capire gli ultimi – di entrare nella loro testa, di farli esistere linguisticamente; dono che dovrebbe pur interessare una critica letteraria che si voglia ‘di sinistra’. Ma sarà forse più interessante interrogarsi, a partire da Resistere non serve a niente, su un problema di portata maggiore, che investe il rapporto stesso tra letteratura, etica e politica, per come la critica del testo è abituata a inquadrarlo. E che vale la pena forse di approfondire, in un momento in cui il dibattito sul romanzo italiano contemporaneo (un esempio potrebbe essere l’accoglienza riservata da alcuni ad Elisabeth di Paolo Sortino) sembra volersi accendere soprattutto attorno ad implicite questioni morali.
Quello su cui Cortellessa sembra sorvolare, nella sua lettura del romanzo, è che da due o tre secoli almeno agli scrittori non si chiede di indicare una prospettiva morale o politica, ma di dire la verità. In primo luogo è uno spunto in sé nobile come la ricerca della verità ad indurre molti romanzieri a spostarsi con decisione dalla parte dell’indifferenza morale, o del cinismo, o della malvagità vera e propria. Non sempre è stato così, naturalmente; ma proprio l’ascesa del romanzo nel moderno sistema dei generi ha giocato un ruolo decisivo nel sottrarre il moderno narrare agli schemi del racconto esemplare, creando spazi di azione per eroi irregolari, provocatori, talvolta immoralistici o ‘demoralizzatori’. Il novel, in particolare, affonda la sua fortuna e il suo funzionamento in un paradigma di verosimiglianza irriducibile alle lusinghe dell’utopia, e attratto semmai dal disincanto, se non proprio dalle cattive azioni: a chi come Cortellessa critica da posizioni idealistiche l’ideologia di Resistere non serve a niente si potrebbe replicare che il romanzo moderno nasce e cresce come nemesi dell’idealismo romantico, come negazione della libertà e del soggetto assoluto; non come “passione di futuro” o battistrada del progresso. Infatti “i personaggi edificanti tendono a diventare minoritari nella letteratura d’élite, al pari della giustizia poetica”: lo ha ricordato molto bene Guido Mazzoni ripercorrendo nel suo recente Teoria del romanzo la storia della crisi degli apparati moralistici nella narrativa sette e ottocentesca – ed è interessante che al termine del suo percorso proprio Walter Siti figuri tra gli autori citati come esempio di un realismo contemporaneo difficilmente riducibile a giudizi di tipo morale:
Oggi il pubblico d’élite chiede alla letteratura di osservare la realtà in modo perspicace e disincantato più che di emettere un giudizio etico-normativo sui personaggi o sulle trame. Gli scrittori devono “essere veri nelle loro pitture”, come scriveva Balzac nell’Avant-propos (1842) della Comédie humaine; il romanziere deve farsi “registratore (enregistreur) del bene e del male”, anche a costo di “passare per immorale”. Oggi chi critica Siti, Houellebecq o Jonathan Littell con argomenti moralistici assume una posizione di retroguardia tra gli intellettuali.
La conclusione che forse non dovremmo avere paura di tirare è che la grande letteratura realista può – e forse deve – essere ‘di destra’, se di destra è la realtà che intende raccontare. E credo si possa tutti convenire sul fatto che – del tutto indipendentemente delle nostre più nobili ed esteriori aspirazioni – la realtà sia spesso di destra. Specialmente poi se la si vede da sinistra (realtà come illusione ottica e rovescio dell’ideologia).
Del resto il romanzo moderno non è solo realismo; è anche identificazione con il personaggio – un’estetica che a sua volta non si lascia sottomettere a parametri morali, perché privilegia un rapporto col lettore fondato sull’empatia, non sul giudizio. Il secondo motivo, forse il più importante, per cui non è utile interpretare il romanzo secondo schemi edificanti è che la verità, in letteratura, parla in forme edonistiche e inconsce, spesso plurali, non di rado contraddittorie; la fascinazione per il male non è solo di Walter Siti autore e personaggio, ma del romanzo stesso, genere particolarmente sedotto dall’ambivalenza e quindi dalla trasgressione. Torna legittimo chiedersi se, quando descriviamo i livelli ideologici di un romanzo, teniamo conto abbastanza dell’ambiguità con cui questo è abituato ad affermare non solo i propri valori, ma anche, più banalmente, il proprio modo di divertirsi e divertire il lettore: due cose – il divertimento e la conoscenza – che nell’arte sono intimamente legate. Schierarsi dalla parte del male, nella letteratura in genere ma soprattutto nel romanzo, di per sé è infatti soprattutto un piacere – un piacere proibito e quindi più intenso, del quale sarebbe un peccato privarsi. Tanto più che questo piacere può diventare una fonte preziosa di scoperta, se messo al servizio di una forma che lo valorizzi e gli dia senso. Il romanzo, e il romanzo di Siti in particolare, tenta di fare esattamente questo; se ci riesce ha vinto – e allora poco importa quanto nichilista, rancoroso e miserabile possa essere in privato l’autore, quanto odio per il mondo covi in realtà, quanto antipatici gli siano i vecchi e i giovani.
Una volta Siti ha paragonato il romanziere a un “diavolo cacciato che si masturba lontano dai cieli” (e il romanzo “un’alternativa all’azione di Dio, quando Dio ha cessato di agire”: il che giustificherebbe tra l’altro il suo attuale ricorso alla narrazione onnisciente). Chi ha coniato quest’immagine sarà probabilmente il primo a compiacersi dei panni diabolici nei quali Cortellessa lo avvolge, se questi rappresentano la divisa del vero romanziere. Ma il diavolo, si sa, non è poi così brutto come lo si dipinge, e lo stesso Mefistofele, si sa anche questo, non è che una parte di quella forza che vuole costantemente il male ma opera costantemente il bene. In letteratura, il male è un carburante nobile che ha bisogno di bruciare sulla pagina, mentre il bene è il residuo fossile di verità, quel tanto di conoscenza che resta al fondo del braciere. Cosa passi per la testa del piromane durante la combustione non lo sapremo mai – se non ha la fortuna di averli a disposizione sul serio, un romanziere autentico non esita a inventarsi un odio (o un amore) che non prova. O forse il romanziere autentico è quello che non sa neppure lui più bene cosa prova, dal momento in cui ha scoperto che l’ambiguità è la forza del romanzo. Davanti a Fazio Siti afferma che “resistere serve”, davanti a Fofi che invece no, perché “in questo momento capire è più importante che resistere”. Semplice malafede, o l’intuizione che entrambe le cose sono vere?
Alla fine, non si tratta di restaurare perbenisticamente le differenze tra autore e personaggio, ma forse soltanto di riconoscere che la letteratura, nel suo agire, si muove a una profondità che non è quella delle categorie politiche, morali e psicologiche di chi legge, e perfino di chi scrive: sia nel senso che non sempre ne riconosce la giurisdizione, muovendosi su un piano diverso – fluido, inclusivo e ambivalente; sia nel senso che le attraversa, indicandoci orizzonti che le travalicano, le rinnovano, le scombussolano. Quella di affermare una verità e di suggerirne una opposta non è notoriamente la prerogativa che nel secolo del romanzo Leopardi riconosceva alle “opere di genio”? Lui materialista, lui pessimista, lui intimamente convinto, come Siti, che gli uomini preferiscano le tenebre.
Per tutte queste ragioni, storiche e antropologiche, e non per mero omaggio agli interdetti della critica letteraria, resta prudente diffidare di ciò che un testo racconta alla lettera, e a maggior ragione di come un autore si presenta quando si maschera da personaggio. Non si intende con questo attribuire a Resistere non serve a niente patenti di buona condotta ideologica; anche se, come si diceva, un libro di ‘destra’ può avere origini ed effetti di ‘sinistra’ (e viceversa), resta il fatto che la letteratura, come la verità, non è sempre rivoluzionaria. Però è essenziale che quello che un romanzo dice venga perlomeno integrato, se non rimpiazzato, da quello che un romanzo fa. “La morale di Siti”, conclude Cortellessa, “è quella che in Troppi paradisi lo aveva fatto innamorare della televisione appunto perché in essa aveva scoperto “il luogo in cui si può raccontare solamente che non c’è speranza di cambiare il mondo” (p. 78”)”. Certo, questo è ciò che il protagonista e narratore di Troppi paradisi argomentava esplicitamente. Ma quel libro la sapeva più lunga di Walter Siti personaggio (e forse perfino di Walter Siti autore). Troppi paradisi non è solo il romanzo “sulla televisione”, sulle sue somiglianze con la fiction romanzesca; è anche e soprattutto un’opera che spiega, anzi nel suo farsi dimostra, la differenza irriducibile tra televisione e romanzo; se la prima rappresenta la palestra della vita mutilata, depotenziata e sottomessa, il secondo è il luogo in cui una scoperta del mondo specifica e critica continua a prodursi; mentre il personaggio Walter Siti si innamora della televisione, il lettore di Troppi paradisi comincia a odiarla. In quel libro il narratore sostiene, con compiacimento e ricchezza di dettagli sociologici, che l’identità è diventata uno spot, che i desideri sono contaminati alle radici, che dal carcere dell’integrazione non si esce mai – ma mentre ce lo spiega ci restituisce a noi stessi e alle nostre residue passioni vitali, lasciandoci intravedere la prigione dall’esterno. Con analogo compiacimento e uguale ricchezza di dettagli sociologici Resistere non serve a niente afferma che è inutile opporsi alla disuguaglianza, che le vittime sono invidiose dei carnefici, che il mondo muta ma non cambia. Ma mentre nella cattiva letteratura, come nella vita vera, la nobile illusione di “resistere” individualmente all’ingiustizia serve soprattutto ad evadere la nostra impotenza di fatto, e a farci sentire più buoni, leggendo Resistere non serve a niente, e simpatizzando coi cattivi, possiamo verificare tutta intera la realtà di quell’impotenza, e la natura autentica di quelle illusioni. “E’ poco”, scrive un poeta caro a Cortellessa; “e forse è tutto”.
[Immagine: Lina Leandersson in Låt den rätte komma in (Lasciami entrare, 2008) di Tomas Alfredson (gs)].
Analisi implacabile di una critica altra, quella di Cortellessa, che nasce idealistica e poi finisce per avvicinarsi, comunque, a queste posizioni. Credo che quello che si potrebbe fare é che “ci si potrebbe intanto domandare se l’origine chiaramente reattiva dell’esibizione nichilista di Resistere non serve a niente – risposta a una retorica dell’impegno sentita come falsa e inefficace – non modifichi alla radice il significato della postura amorale che l’autore lascia filtrare in tutto il libro (e forse in tutta la sua opera): in altre parole, se la verità nera che trasuda dalle pagine non vada interpretata come negazione e oltraggio (volontario) di una sinistra sentita come sterile e irreale – e quindi, in ultima analisi, come sete di un nuovo inizio, da pensare tra le macerie delle false rivoluzioni”. Credo che sia la domanda più acuta da porsi, per quanto concerne, in senso stretto, il romanzo di Siti (e anche per “Troppi paradisi”).
E’ una domanda dalla quale scaturisce il resto dell’articolo, che mi pare un po’ ripetitivo, e che comunque potrebbe far scaturire una diversa posizione militante.
[Non idealista, militante.]
Ho avuto in anteprima da Gianluigi Simonetti in lettura la versione integrale del suo eccellente saggio su Resistere non serve a niente (che tra l’altro – con l’agnizione intertestuale di un romanzo di Carlo Coccioli del quale Siti ha scritto di recente un’introduzione – fa capire un aspetto importante del rapporto di «procura» che intrattengono i personaggi di «Walter» e del bankster Tommaso), ma non credo che l’interesse suo e di LPLC verta su una discussione solo-letteraria del «libro – purtroppo – più bello dell’anno», e dunque sulla definizione del suo essere «bello». A fare problema è quel «purtroppo», la legittimità di dire «purtroppo».
Per negarla Simonetti usa, in successione ma poi alternandoli l’uno all’altro, sostanzialmente tre argomenti.
Il primo è quello che chiamerei «argomento-Bataille», che ha nutrito – in forma diretta e più spesso indiretta, o comunque non dichiarata – ogni posizione estetica da allora declinatasi in direzione antivirtuistica e diciamo pure immoralistica: «da due o tre secoli almeno agli scrittori non si chiede di indicare una prospettiva morale o politica, ma di dire la verità». Sosteneva Bataille nella Letteratura e il male (1957, ma già nei suoi scritti precedenti circola questo pensiero – che del resto organizza e sintetizza e sistematizza filosoficamente appunto un secolo e mezzo di letteratura “maledetta”) che nell’arte viga un ordine simmetricamente inverso a quello vigente nella società: laddove in questa ogni tensione è rivolta all’avvenire, e valore primario è la conservazione della vita (in queste due dinamiche si riassumerebbe il Bene, in senso morale, politico ma anche utilitaristico), in quella regnano l’istantaneo, il discontinuo, il sovranamente disinteressato; laddove nella vita sociale «la nostra libertà», come ci ripetono sin da bambini, «finisce dove comincia quella degli altri», la libertà dell’artista è assoluta, irresponsabile e, nel contrapporsi all’ordinamento sociale, sostanzialmente distruttiva. L’artista, prima di tutto, è un essere colpevole, e tale cattiva coscienza è in effetti la vera molla del suo furor: la distruzione, davvero, è la sua Beatrice.
Il secondo argomento è quello che chiamerei «argomento De Sanctis»: posto che Resistere non serve a niente dica «la verità», «la verità nera che trasuda dalle [sue] pagine» va «interpretata come negazione e oltraggio» di false verità sociali, benintenzionate e dunque volontaristiche («una sinistra sentita come sterile e irreale »), cioè in falsa coscienza; e, tramite tale demistificazione, affermazione della «sete di un nuovo inizio». «È essenziale», sostiene Simonetti, «che quello che un romanzo dice venga perlomeno integrato, se non rimpiazzato, da quello che un romanzo fa»: perché per esempio se «il personaggio Walter Siti si innamora della televisione, il lettore di Troppi paradisi comincia a odiarla». E insomma, come diceva appunto il buon vecchio De Sanctis nel 1858, in Schopenhauer e Leopardi (giusto un secolo prima di Bataille!), «Leopardi produce l’effetto contrario a quello che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore, la gloria e la virtù e te ne accende in petto un desiderio inesausto».
Il terzo è l’«argomento Engels». Dice Simonetti che ogni «critica letteraria che si voglia “di sinistra”» dovrebbe sapere a memoria che «un libro di “destra” può avere origini ed effetti di “sinistra” (e viceversa)». La carica demistificante e “negativa” di un’opera, al di là di quelle che sono le sue intenzioni (e dunque l’ideologia politica dell’artista che l’ha composta), può essere utilmente impiegata, a fini politici, in direzione contraria: consapevolmente e beneficamente strumentalizzata, insomma. A far capo a una lunga predilezione propria (e del coéquipier di Treviri), trent’anni giusti dopo De Sanctis, nel 1888 Friedrich Engels in una celebre lettera dichiarò infatti che il «reazionario» Balzac gli aveva insegnato di più, sull’ascesa della borghesia, di quanto non avesse egli appreso «da tutti gli storici professionisti, gli economisti e gli statisti del periodo, messi insieme». Per questa via la sinistra secondo-novecentesca ha potuto nutrirsi dei succhi di verità secreti da personaggi ideologicamente equivoci come Céline, Eliot e Pound (e, ancor più pericolosamente, Nietzsche, Heidegger o Carl Schmitt).
Tre argomenti meritatamente classici, che fanno fatica però a comporsi l’uno con l’altro. Temo anzi che il primo presupponga una «verità» esattamente opposta a quella diversamente declinata dal secondo e dal terzo. È vero che – nel nostro complesso, impuro e contraddittorio rapporto effettivo con le opere d’arte (soprattutto con testi non canonici, non sedimentati, non infinite volte riletti) – un po’ tutti facciamo quello che qui fa Simonetti: li combiniamo, li corrompiamo l’uno con l’altro, ne bricolizziamo un pezzetto qui e uno là. E temo che lo facciamo (ma qui risuonerà con una certa evidenza, temo, la “parte” da cui sostanzialmente sto, quanto meno nei precordi) per farci una ragione del fascino perverso che certe opere d’arte, se non tutte, esercitano sulla parte maledetta non dell’opera ma di noi stessi: quella su cui non facciamo luce perché, per farlo, dovremmo conoscerci da cima a fondo (quando è tanto più facile, e in apparenza indolore, pretendere di conoscere da cima a fondo l’opera di qualcun altro).
Se io stesso, nello scrivere l’articolo citato da Simonetti, ho dichiarato un senso d’imbarazzo (e anzi di vera e propria colpa) nel «commettere la più clamorosa delle ingenuità» discutendo le intenzioni morali e politiche dell’autore anziché quello del personaggio del romanzo, non è solo e non tanto perché così facendo, come dichiaravo (a mia volta un po’ in falsa coscienza), infrangevo «la prima norma che governa ogni narrazione “inattendibile”» (credo anzi di aver abbastanza mostrato come, a dispetto della struttura narrativa adottata in Resistere non serve a niente, quelle che stigmatizzo non sono le posizioni del personaggio-narratore Walter, bensì quelle dell'”autore empirico” Siti: e non perché lo conosca di persona, ma per come emergono dal testo); ma perché appunto sapevo bene di contravvenire, in tal modo, all’«argomento Bataille» che, al di là dello schematismo ideologico di cui dirò fra poco, istintivamente mi è così caro.
Cominciamo dalla parte più facile, l’«argomento De Sanctis». Semplicemente non è vero, quello che diceva De Sanctis. Non è vero, e qui non posso che parlare soggettivamente, che «Leopardi produce l’effetto contrario a quello che si propone». Il Leopardi davvero “nero”, quello del frammento Ad Arimane o di A se stesso o di certe famigerate pagine dello Zibaldone, non mi fa assolutamente credere alla libertà, all’amore e alla virtù; anzi. (Se lo pongo così al vertice della mia adesione affettiva, temo, è al contrario proprio per l’opposto «argomento Bataille».) L’effetto che descrive De Sanctis, e che ciascun lettore può davvero trarre da certi Canti e persino da certe Operette morali, deriva dall’ambiguità affettiva (e ideologica) non solo nostra, ma dello stesso Leopardi: il cui pensiero per fortuna, come memorabilmente dimostrò Sergio Solmi in polemica con Timpanaro, non si può irreggimentare in una serie di posizioni cronologicamente disposte una dopo l’altra, ma è al contrario sempre ambiguo, oscillante, a sua volta – direi – bricoleur. Se lo stesso effetto fa la lettura di Siti a Simonetti (del che non dubito, anche se a me non ne fa punto), è perché evidentemente Simonetti ne coglie un tasso di ambiguità e ambivalenza maggiore di quello che ne riesca a cogliere io (specie in quest’ultimo libro – che non a caso mi ha destato un tipo di reazione che i precedenti non avevano mai neppure sfiorato). L’articolo che ho scritto, anzi, prova appunto a mettere in luce la sostanziale solidarietà affettiva e ideologica fra personaggi e autore (dunque un tasso di ambiguità, in effetti, assai ridotto).
Più in generale, l’«argomento De Sanctis» non mi persuade perché troppo «idealistico». È troppo facile, insomma, salvare in questo modo capra e cavoli. Vedo che Simonetti attribuisce a me, in effetti, posizioni «idealistiche», ma al contrario paiono a me debitori, nei confronti dell’idealismo classico dominato dallo spirito dialettico, appunto gli argomenti di De Sanctis e di Engels senz’altro; ma in una certa misura anche quello di Bataille (discepolo di Kojève): il quale – se lo analizzo al di là del “tifo” – non mi soddisfa appieno appunto per la carica di dialettica paradossale che conserva, cioè appunto per il suo schematismo (quello per cui, in sostanza, quello che è Bene nella società è Male nell’arte, e viceversa; nella realtà non è così facile: non lo è stato storicamente ed è evidentemente falso nel presente).
Del tutto e deliberatamente a-dialettico, il mio articolo esibisce al contrario quella che è una patente contraddizione (e, non essendo un pasoliniano in servizio permanente ed effettivo, non mi compiaccio affatto dello scandalo del contraddirmi). Il romanzo di Siti è «bello», ma è tale «purtroppo». Quanto mi fa godere esteticamente, cioè, moralmente e ideologicamente mi infastidisce. Quello che ho fatto in questo articolo, per la prima e spero unica volta – ed è per questo che ho avuto tanti dubbi prima di decidere di scriverlo –, è stato esibire, dichiarare a chiare lettere, un’abiguità affettiva che non appartiene in questo caso all’autore (e che come critico mi fa generalmente godere, appunto, nell’indicare e sottolineare): bensì l’ambiguità affettiva mia. Se ho pensato di doverlo fare è perché appunto, a differenza dei precedenti libri di Siti, non trovavo ambiguità in questo suo. Quando il capomafia Morgan, verso la fine, detta il suo decalogo di destra («la democrazia è il dio morto della modernità che sopravvive come un idolo di cartapesta», «la democrazia è contro natura», «le oligarchie implicite devono uscire allo scoperto» e regnare, come è loro diritto di natura appunto, sugli esseri umani ridotti a «organismi collettivi, colonie tipo i coralli o le spugne, compattati dalla scienza come nell’alto medioevo li compattava la religione»), non ci sono controspinte, nel testo, che relativizzino o compromettano o demistifichino tale ideologia (ce ne sono sì, ma appartenenti all’autore empirico W.S.: il quale, so bene, personalmente è ben lontano dal coonestarne, e tanto meno dall’auspicarne, gli esiti estremi – ma ciò fuori dal testo). E si può ben dire dunque (o almeno io l’ho detto) che l’autore empirico W.S. si sia limitato a stendere «per procura» (così come il personaggio «Walter»), di tale ideologia, un «manifesto in forma di romanzo».
Il fatto è che ha prevalso in me, nell’occasione, un movente che – più o meno all’opposto dal potersi definire «idealistico» – chiamerei utilitaristico (e dunque confliggente con l’«argomento Bataille» quanto consonante, quanto meno, col presupposto dell’«argomento Engels»). Mi è utile, oggi, come cittadino e come individuo, l’effetto che fa un libro come Resistere non serve a niente? Volendo adottare, almeno per un momento, l’assiologia perfettamente espressa dall’aforisma che intitola il romanzo, a cosa mi serve, oggi, Resistere non serve a niente?
Nella mia vita di oggi – quella che per esempio nello scorso anno e mezzo ha tratto un effettivo e autentico «accrescimento di vitalità» da un’esperienza come quella del Teatro Valle: che il romanzo di Siti, invece, ha buon gioco a irridere e sbertucciare evidenziandone solo le contraddizioni retoriche e culturali, le quali di quell’esperienza sono però solo una parte e certo la più caduca – la demoralizzazione che quest’opera esercita su di me, davvero, non serve a niente. Al contrario, anzi, mi danneggia. E, quel che è più grave dal mio punto di vista, danneggia non solo me: ma i tanti altri che in quell’esperienza (con tutto quanto simboleggia) hanno trovato occasione di speranza – l’ottimismo della volontà, certo – e che magari, per ventura, sono o possono essere lettori di Siti. (Dell’«argomento De Sanctis», infatti, al di là del metodo secondo me non vale nel caso di Siti neppure il merito: perché chi legge Troppi paradisi, chi lo ha fatto in profondità e in-quanto-opera-d’arte e non per il cicaleccio gossipistico che ne accompagnò l’uscita, non è innamorato della televisione, né «comincia a odiarla» dopo aver letto Siti: intimamente, e al di là delle sue più o meno snobistiche ambiguità affettive, in realtà già la odia: esattamente come il W.S. “empirico”, fra l’altro.)
Mentre un lettore di Resistere non serve a niente non è affatto detto che già irrida o detesti o abbia in uggia la «democrazia», e tanto meno il Principio Resistenza (rinvio a http://www.doppiozero.com/materiali/speciali/25-aprile-cosa-significa-resistere-cosa-significa-ricordare).
In altri termini, non sono affatto convinto che Resistere non serve a niente dica «la verità» – «nera» o meno. Dice una parte della verità: alla quale per me è giusto contrapporre quella che reputo essere un’altra parte della verità; o, diciamo, la verità di un’altra parte. Il resto – Leopardi Balzac Bataille eccetera – è materia dei posteri (o almeno così auguro a W.S.); e, insomma, «non di questa terra». Io invece è su questa terra, e in questo momento storico, che mi trovo oggi; e da qui ragiono, e da qui – purtroppo – continuo a contraddirmi.
Non so, a prima vista salta agli occhi che Cortellessa, per dire la sua su un articolo che lo critica, adopera nello spazio dei commenti quasi lo stesso spazio dell’articolo che ” commenta ” (circa 400 caratteri in meno).
Anche a me l’articolo di C. su Siti aveva fatto effetto, perché non credo che Siti sia di destra. Anzi, il modo di descrivere l’umanità- realtà di Siti è di sinistra (utile e onesto). Di più, è di sinistra descriverla e considerarla come non affatto degradata, ma parte maggioritaria della società, mettendo sempre più a nudo le contraddizioni delle minoranze colte di sinistra, che sempre di più mostrano di non volersi confrontare con il paese reale, ma con la idealistica (falsa) narrazione del paese che esse stesse producono….
Dividere il mondo tra buoni e cattivi – a maggior ragione partendo dalla letteratura, dall’arte in genere – è odioso. La letteratura, ad ogni modo, deve dare pari dignità agli uni e gli altri, credo non solo io. Prima di tutto per una ragione pratica: il sistema editoriale appartiene ai padroni (cattivi per eccellenza), e sarebbe gioco facile per loro pubblicare solo ciò che risultasse utile ai loro interessi, che sono quelli di farsi descrivere come buoni, e far descrivere come cattivo chi è nocivo ai loro interessi.
Da persona di sinistra mi domando una cosa molto semplice: chi fa più danno alla sinistra tra la visione speranzosa di C. e la visione disincantata di S.? Secondo me di gran lunga il primo. Perché descrive i comportamenti di massa, quelli dei Brutti Sporchi e Cattivi, come spuri alla sinistra, foss’anche quella tiepida del PD, consegnando la società legata mani e piedi ai PADRONI, in genere sostenitori, se non azionisti, dei partiti di destra.
E vengo alla questione del teatro Valle, per C. esempio di virtù non spernacchiabili (lesa maestà?). Invece io, che di teatro ho vissuto quasi tutta la mia vita, so che ha ragione Siti, perché l’azione degli occupanti non porta beneficio al teatro italiano, specie a quello considerabile davvero virtuoso, quello che ha radici nei grandi innovatori che hanno prodotto negli ultimi 50 anni parte del più importante teatro del mondo (Eduardo, Carmelo Bene, Carlo Cecchi, Leo De Berardinis ecc). Anzi, agisce in modo reazionario, facendo rientrare dalla finestra ciò che era stato cacciato dal portone, cioè il contenutismo sfrenato fondato su false istanze sociali. Ma la cosa peggiore è che dichiarando il teatro bene comune se ne ribadisce la legittimità di controllo da parte del potere politico, perché i beni comuni è ovvio che vengano gestiti da quelli che la comunità delega ad occuparsene, eleggendoli. Quando è sotto gli occhi di tutti che anche il teatro, da trenta anni a questa parte, è via via diventato luogo di clientele e protezioni politiche, essendo nientemeno che Gianni Letta il santo patrono dei teatranti italiani, in alternativa all’altrettanto deleterio Valter Veltroni (in un primo momento gli occupanti avevano chiesto addirittura la protezione del Presidente della Repubblica…) .
Mi permetto di mettere il link a un mio vecchio post, adatto alla questione, specie del teatro Valle occupato http://accademia-inaffidabili.blogspot.it/2011/10/la-felicita-non-guarda-in-faccia.html
Secondo me il parallelo fra Siti e Leopardi non sta in piedi. Io li vedo proprio opposti.
Nel caso di Leopardi, innanzitutto, la convinzione “che gli uomini preferiscano le tenebre” mi sembra una distorsione. Non mi pare, comunque, un tema centrale della sua riflessione. Nello stesso brano sulle “opere di genio”, tanto per non allontanarci troppo, Leopardi dice “nullità delle cose”, “infelicità della vita”, “terribili disperazioni”. Non fa né psicologia né morale. L’oggetto principale della sua riflessione è sensistico, l’esito dei suoi ragionamenti metafisico. Anche quando si parla di storia e di società, in Leopardi, diversamente che in Siti, è sempre il naturalista che parla: ed è anche questa prospettiva allargata a permettere una potenza che Siti, a mio avviso, non spia neppure da lontano (e che invece, noto di sfuggita, m’è parso di riscontrare di più nel suo modello Houellebecq). Se si spegne il desiderio dei “cari inganni” del passato, non è per lasciare il posto all’edonismo (com’è in Siti e nel suo entusiasta lettore). “Amaro e noia | La vita, altro mai nulla”! Leopardi sì, diversamente che Siti, “serve di consolazione”, ma non per un supposto “piacere proibito di cui sarebbe peccato privarsi” (concezione extraconiugale dell’arte della quale non mi piccherei), piuttosto per quell'”accrescimento di vitalità” di cui parla giustamente Andrea Cortellessa.
Per il resto, con quest’ultimo concordo nella sostanza ma non, strano a dirsi, nella premessa. Ma come il più bel libro dell’anno? Scherziamo? Non mi pare un’affermazione attendibile nemmeno se guardo soltanto “ciò che il libro dice”, oltre a “ciò che il libro fa”. “Resistere non serve a niente” mi sembra una rimasticazione manieristica di cose che sappiamo già: che cosa ci fa conoscere di nuovo, che non potessimo sospettare in partenza? Un libro molto ben calibrato, certo, ma privo di accensioni dall’inizio alla fine. Forse è un limite mio, ma se provo a districarmi nella polpa saggistico-estetizzante della prosa sitiana, quel che mi resta è un pugno di aforismi e difettivi sillogismi del solito e sempre meno sopportabile nichilismo ammiccante, qualche bella immagine, in sostanza un marchingegno retorico neanche troppo al di sopra della mediocrità. Forse non sono abbastanza del mestiere, o magari ho letto un altro libro, ma – davvero, ed ero partito molto speranzoso – non m’è parso un granché. Fatemi vedere voi quello che non riesco forse a vedere.
[Ma se provo a immaginare che una volta discorsi analoghi (libri “di destra” e libri “di sinistra”, confusione fra autore e personaggio) si facevano a proposito del Gattopardo, mi vengono i brividi. Poi però leggo Moresco (lui sì, e di gran lunga, il migliore scrittore italiano) e, per fortuna, almeno a me, mi passano!]
@Massino, e tutti: ma quand’è che la speranza è diventata l’opposto del disincanto?
“Se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori dalla verità e se fosse effettivamente vero che la verità non è in Cristo, ebbene io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità” (F. M. Dostoevskij).
Mentre il corpo centrale del romanzo (la storia di Tommaso) mi ha convinto e coinvolto moltissimo, tale adesione si è affievolita verso la fine – quella che, secondo i criteri di Andrea Cortellessa, appare più “di destra”.
E ho l’impressione che tale indebolimento della sospensione dell’incredulità sia dovuta al fatto che in quella parte si sommano gli elementi tesi a chiudere una visione del mondo che fin lì emergeva dal flusso narrativo conuna drammatica, insolubile ambivalenza. Il rapporto tra mafia e finanza, la figura di Morgan con la sua perfetta oratoria, i tiri sulla Croce Rossa dei poveri intellettualini convenuti al Valle, la deriva di Tommaso verso la pedofilia.
Ecco per me la questione centrale non è tanto di non condividere quella visione, ma di non aderire alla sua realizzazione quando sembra prendere una piega quasi dimostrativa, alla Brecht girato all’incontrario.
“Ideologico” è la formula rapida per criticare certe opere di Brecht. Io temo che anche in Siti possa aver prevalso un desiderio di ordine ideologico, sebbene l’ideologia verta sull’accettazione del mondo dove contano solo potere e denaro (semplifico).
Ma il punto di forza straordinario di tutta l’opera di Siti è il suo sguardo dal basso o da dentro le meccaniche sociali e le pulsioni e passioni, senza che né lui né i lettori riescano a riparare in una qualsiasi visione ordinatrice, cosa che invece trovano nel “nichilismo hobbesiano” del suo ultimo romanzo.
Scusate, ma:
di sinistra = bene, speranza
di destra = male, disperazione?
Ma dai, sul serio?
Possibile che discorsi pur così seri e ben argomentati s’impernino su una formula tanto assurda, sullo stesso piano del celebre “I bambini sono di sinistra” di Claudio Bisio (per chi non lo sapesse, cabarettista, presentatore di “Zelig”)?
Helena, è successo la stessa cosa anche a me. Solo che le ultime trenta pagine hanno retroagito sulla mia identificazione, e sul mio godimento, delle precedenti duecentottanta; mi hanno fatto sentire colpevole. Sono certo che sia proprio questo che Siti abbia voluto stavolta ottenere, l’«effetto che fa» è il far sentire contagiati, i lettori, da un sentimento – il suo – che essi in realtà esecrano. Se il tema del libro – la sua struttura, anzi – è la «complicità», Siti è riuscito ad attirare il lettore, letteralmente, dentro l’opera; molto più, almeno per quanto mi riguarda, di quanto fosse riuscito a farlo coi suoi libri precedenti. E per questo motivo resta, secondo me, un grande libro. Un grande libro che detesto.
@ Roberto Buffagni
sul serio, sì. In ogni caso dipende: se lei pensa di essere di sinistra. Io penso di esserlo, spero di esserlo. E dunque sì, identifico la mia (confusa, contraddittoria, ma persistente e anzi resistente) idea di Bene, e di Speranza, con questo orientamento politico. «Ottimismo della volontà», in effetti, non è un sintagma di mio conio.
Lettori (critici) che s’identificano ma poi si pentono; Brecht che rispunterebbe all’incontrario nelle ultime pagine di un testo; un braciere, quello della verità, che non si sa se alla fine contenga la cenere proprio della verità o di qualche altra cosa; addirittura una realtà di destra che, per essere raffigurata nel romanzo realistico, lo renderebbe sempre o quasi di destra… Vi rendete conto delle difficoltà e dei paradossi che tutto ciò comporta? Non sarebbe il caso di cominciare a riflettere sulla eventualità che la forma romanzo sia in se stessa “cotta”, che non riesca più a dire pressoché nulla di vero? Un tempo, comunque, erano gli autori soggettivamente “di destra” che risultavano, nell’atto, “di sinistra” (vedi Balzac), perché adesso sembra accadere piuttosto il viceversa?
ad Andrea Cortellessa:
La ringrazio della replica cortese e sincera, ma continuo a essere stupito, forse perchè non sono di sinistra. Ma le faccio un esempio personale. Sono cristiano, credente e praticante, ma non ho mai pensato cristianesimo = bene, speranza, non cristianesimo = male, disperazione. Penso semmai con Tommaso Moro che “tutti i punti sono equidistanti dal cielo”.
Mi guardo bene dal fare prediche, politiche o morali, a lei o a chiunque. Capisco bene anche la fedeltà a un’idea e a una passione politica. Stento però a capire come si possa pensare che se una prospettiva politica, per quanto importante e cara, fallisce o delude, il mondo si spenga, i valori si dissolvano, gli uomini si trasformino in marionette, e per concludere chi ha capito tutto è la ‘ndrangheta. Finirà forse *un* mondo, quello di chi a quella prospettiva ha dato la sua parola; ma non il mondo grande, dove ci sono e ci saranno altre prospettive, altri uomini capaci di fedeltà e di bene; non le pare?
a Rino Genovese:
Lei scrive: “Un tempo, comunque, erano gli autori soggettivamente “di destra” che risultavano, nell’atto, “di sinistra” (vedi Balzac), perché adesso sembra accadere piuttosto il viceversa?”
Propongo una risposta al suo interessante quesito. Forse, perchè la fede in una visione del mondo irrimediabilmente sconfitta e itotalmente impraticabile nell’effettualità storica (il legittimismo monarchico per Balzac, il comunismo marxista per Siti), liberando dalla responsabilità di agire, esortare, influire sulla realtà sociale e politica, aiutano a vederla così com’è, con la lucidità di chi non ci può fare niente (che è anche una delle dimensioni dello sguardo tragico).
qualcuno si ricorda di elisabeth ?
non era il più meglio dell’anno ?!
@ Rino Genovese
Passo per essere un critico ostile al romanzo. Ho da poco pubblicato un’antologia di narratori italiani che hanno esordito dal 1999 a oggi e che reca in esergo un passo di Blanchot («Il predominio del romanzo, con le sue apparenti libertà, le sue audacie che non metteranno il genere a repentaglio, la sicurezza discreta delle sue convenzioni, la ricchezza del suo contenuto umanistico è, come un tempo il predominio della poesia regolare, espressione del nostro bisogno di proteggerci contro ciò che rende pericolosa la letteratura») che mi è stato rimproverato da più d’una delle recensioni, quasi tutte negative, che sono apparse sulla stampa (e tutte ribadenti il presupposto di quanto sia inattuale e improponibile e «ideologica», sì, una critica “anti-romanzesca”).
Amo appassionatamente, in effetti, le forme spurie, impure, ambigue: un cui esempio interessante è stato offerto, da Scuola di nudo in poi, proprio dai libri precedenti dell’autore che stiamo discutendo. E detesto con tutte le mie forze la romanzeria industriale, i cui prodotti ci vengono ammanniti, oltre che dagli editori-saponettifici, appunto, dalle pagine culturali-marchettodromi di cui sopra.
Eppure, come ho detto anche presentando la Teoria del romanzo di Guido Mazzoni, a Roma qualche giorno fa – proprio come Blanchot (le cui figure esemplari, nello Spazio letterario e nel Libro a venire, sono James e Kafka) – resto convinto che la partita simbolica della letteratura si continui a giocare, malgrado tutto e ancora oggi, nel «territorio del romanzo».
I romanzi veri, e insieme all’altezza dei nostri tempi, certo sono rari – molto più rari dei buoni libri di prose e «altre scritture» – ma proprio per questo tanto più importanti e significativi: come in questo caso.
E non è un caso, infatti, che una discussione del genere – alla quale siamo così disabituati, mentre solo pochi decenni fa sarebbe apparsa ovvia e di repertorio – possa sorgere dopo la lettura di un romanzo e non, poniamo, dopo quella di un prosimetro che descrive i dettagli di opere d’arte o quella di un récit di viaggio in una regione marginale del Meridione (tanto per alludere a due dei miei scrittori preferiti). È nel romanzo che – volenti o nolenti – vengono in luce le contraddizioni, le emergenze, le speranze e le disperazioni di un’epoca.
Credo anch’io, con Cortellessa, che la cosa più interessante sia interrogarsi su quel suo “purtroppo”, da cui infatti prendevo le mosse; non per delegittimarlo – è perfettamente legittimo, come legittime e anche interessanti sono le contraddizioni che implica – ma solo per metterlo un po’ meglio a fuoco. Da lettore, il mio istinto è opposto: se leggo un romanzo veramente bello, la cui bellezza allarga e magari rovescia quello che sul mondo credevo di sapere prima di averlo letto, per me è chiaro che ha ragione il romanzo, e torto io; alla conoscenza del romanzo, mentre si legge, cioè mentre si gode, mi sembra giusto cedere senza riserve, senza “purtroppo” – anche e soprattutto perché quella conoscenza per definizione non sta da una parte sola (sia pure quella giusta di chi, come Cortellessa, “rimane a terra”), ma è sempre plurale, ambigua e trasversale; inclusiva e non escludente. Una forma così acrobatica, quando correttamente interpretata, risulta ai miei occhi tutt’altro che “cotta”, ma anzi viva e vegeta, e insuperata per qualità e quantità di strati che riesce a contenere e articolare (@Genovese). Un romanzo davvero buono è già – sono d’accordo con Andrea – una forma “spuria, impura ambigua”; solo che non tutte le forme spurie, impure e ambigue hanno la complessità, l’ambizione conoscitiva, la ricchezza strutturale di un buon romanzo. E certo il fatto che se ne pubblichino così tanti di cattivi non dovrebbe impedirci di ammettere che le cose migliori che continuiamo a leggere e a scrivere sono ancora e pur sempre romanzi.
Ora, i tre ‘argomenti’ che Cortellessa identifica nel mio discorso sono certamente diversi, perché diverse sono le leve del romanzo – e anche perché le teorie letterarie, incluse le più raffinate, sono sempre un po’ unilaterali e difettive (e sarebbe sempre sano, a mio avviso, provare ad integrarle, senza pretendere che una sola persona abbia detto sulla letteratura tutto quello che c’era da dire). Ma il fatto che gli argomenti siano diversi non vuol dire che siano anche contraddittori: Bataille, De Sanctis e Engels insistono tutti, a loro modo, sull’ambivalenza del romanzo – con il loro istinto di lettori hanno capito che il bello è tutto lì, ciascuno poi lo ha interpretato secondo la propria sensibilità (e le proprie fobie). Questa ambivalenza, declinata in mille modi, non sarà sempre dialettica, va bene, ma nemmeno può essere ridotta al dare un colpo al cerchio e uno alla botte: lo stupro pedofilo di Tommaso può disturbare per mille personalissime ragioni, può forse più opportunamente essere criticato (e lì sarei in parte d’accordo con @Helena Janeczek) per squilibrio strutturale o per difetto di verosimiglianza – ma non ha bisogno di controspinte contenutistiche, “nel testo”, per riscattarsi da un errore ideologico e morale che lo marchia a fuoco. L’ambivalenza, “nel testo”, come vede bene Cortellessa nel suo secondo commento, sta nel fatto che con Tommaso, con Morgan, con Gabry, con questi personaggi che fanno cose tanto discutibili, noi, da lettori, ci eravamo già identificati, prima; che eravamo passati dalla loro parte, dalla parte delle loro verità. Cosa che ci rende difficile, nel finale, prendere del tutto le distanze da loro. Questo uscire da se stessi per entrare nella testa di un altro e diventare un po’ come lui potrà dar fastidio e anche far sentire in colpa – però è certo istruttivo, oltre che, per una parte più o meno nascosta di noi stessi, estremamente divertente: la letteratura è anche una vacanza che ci prendiamo dal nostro avere un’opinione su tutto, per consegnarci ad idee che nella cosiddetta realtà non hanno corso o che comunque non saremmo disposti a sottoscrivere. Se, schematizzando all’estremo, Morgan, Gabry e (soprattutto) Tommaso non hanno del tutto ragione, non hanno però nemmeno torto; se non sono certamente buoni, non sono però neppure poi così cattivi. Ne deriva che la realtà è più larga, ricca e profonda – più paradossale, @Genovese, ma anche molto più corposa – di quello che sembra fuori dallo spazio del romanzo.
Così, mi pare, funziona la letteratura (e allora non solo De Sanctis, ma lo stesso Leopardi non aveva poi così torto); così non funzionano la politica e la morale, che hanno o dovrebbero aver bisogno di pensieri chiari e netti, e di categorie meno fluttuanti. Sarà forse per questo che il romanzo va tanto forte nelle epoche in cui politica e morale mostrano la corda – epoche come la nostra, in cui si ha l’impressione che “non ci si può far niente” (lo nota bene @Buffagni, con i cui interventi, devo dire, concordo quasi sempre).
Ora, io mi occupo di letteratura, non di politica: per me la conoscenza letteraria resta la più ricca e interessante di tutte, ma certo non sono così matto da pensare di fare dell’ambivalenza romanzesca uno strumento di azione politica o morale (penso soltanto che politica e morale non dovrebbero delimitare lo spazio d’azione del romanzo). Anche Cortellessa si occupa, e brillantemente, di letteratura; ma proprio nella letteratura sembra non credere troppo, quando osserva che Troppi paradisi non ha cambiato poi tanto la testa dei suoi lettori migliori, perché questi ultimi la televisione la odiavano già (e se l’avessero odiata, prima, per le ragioni sbagliate?). Se la letteratura è così impotente, allora la democrazia potrà continuare a dormire sonni tranquilli anche dopo Resistere non serve a niente. E scherzosamente direi che è proprio così, purtroppo: il libro di Siti non serve a “resistere” (attività alla quale anche per indole mi sento poco portato), però può servire ad ampliare la nostra conoscenza del mondo, se accettiamo che anche la parte cui non si appartiene abbia le sue ragioni e faccia parte integrante di noi. E’ significativo che per ‘tenere insieme’ la sua contraddizione (“un grande libro che detesto”) Cortellessa sia costretto a scindersi, e a giudicare l’opera di Siti non come il lettore intelligente che è, ma “come cittadino e come individuo”; per concludere che un libro così cupo non gli serve e anzi lo danneggia (che lo danneggia oggi; come se un bel romanzo non interrogasse, anche e forse soprattutto, un’altra dimensione del tempo e dello spazio). Che dire? Se da un lato è giusto nutrire il più grande rispetto nei confronti di tutte le autentiche azioni politiche, come ad esempio quella del Valle, dall’altro sospetto che ragionare da “cittadino” non sia la migliore opzione disponibile per chi voglia misurarsi fino in fondo con un’opera letteraria riuscita. Se fosse per certi romanzieri le città non esisterebbero nemmeno.
@ Roberto Buffagni
Va bene, non è di sinistra. Nessuno è perfetto. Ma si professa «cristiano, credente e praticante». Se crede in tale prospettiva, che in quanto tale si estende al di là della sua esistenza biologica, non posso pensare che la sua caduta la lascerebbe così olimpicamente equidistante. Se crede in una determinata prospettiva, la sconfitta e la messa in mora e la fine, di tale prospettiva, non può non considerla Male. Tanto è vero che proprio la caduta di una fede, come giustamente lei stesso diceva in replica a Genovese, genera, può generare, una fascinazione nei confronti del Male. Così capita ai personaggi di Dostoevskij – e non al loro autore –, che per questo così tanto hanno affascinato i lettori del Novecento. Così è capitato a Leopardi. E lo stesso, si parva licet, a Siti (che Leopardi tanto ha studiato, in gioventù): la cui fede caduta, in questo caso, non è però il marxismo bensì una religiosità di stampo gnostico, che alla prima e superficiale è subentrata presto, che visita con insistenza i suoi libri precedenti, e che l’ultimo prima di questo, Autopsia dell’ossessione, sin dal titolo, aveva dichiarato defunta.
Discussione veramente topica. Credo che quando ci si domanda perché in italia non ci sia #occupy, perché gli italiani non si ribellano, ecc. l’antropologia indagata da Siti sia veramente centrale. Detto questo, forse per una mia tendenza irenica alla conciliazione degli opposti (terza via), mi sembra che in chiunque faccia un atto politico sia presente un diavoletto Siti (pessimismo della ragione, scandaglio spietato della realtà) sulla spalla (destra?) e un angioletto Cortellessa (ottimismo della volontà, ricerca delle vie di fuga si dice forse oggi) sulla spalla sinistra..
Credo che l’unica responsabilità “politica” di un narratore consista nel tenersi lontano dalla gratuità. Tutto può essere raccontato purché occorra. Se dietro la narrazione d’un fatto orribile, se dietro una poetica della disperazione non s’avverte la pressione di un’urgenza, se non s’avverte una necessità estetica, allora il problema diventa etico. L’esempio che mi viene in mente è American Psycho: leggendolo ho percepito una grande “bravura” al servizio di una grande “insincerità”, ragion per cui l’ho vissuto come un tradimento, un colpo basso. Non così di fronte alle crudeltà di Stavrogin, di Edmund o delle liriche più nichiliste di Leopardi.
Di Siti non ho letto quest’ultimo libro ma quasi tutte le precedenti opere; ho sempre l’impressione che la sua impeccabilità formale, la sua squisitezza retorica nascondano un vuoto più creativo (cioè attinente al testo, all’energia del testo) che gnostico (per citare Cortellessa). Leggendo Siti mi sento prigioniero d’una campana di vetro: si vede tutto benissimo ma non si tocca niente. E’ quest’eccesso d’intelletto e cultura, che Siti non riesce a dissimulare in pieno (e forse neppure lo vuole), a impedirgli una completa incarnazione del discorso e a spostarlo verso una direzione per me meno interessante: dal romanzo (parlo per sommi capi) al trattato socio/psicologico, quando non proprio al referto scientifico, autoptico di un’epoca, di un’antropologia.
Ps: a proposito dello stile: leggo in questi giorni l’ultimo saggio di Steiner, La poesia del pensiero; a un certo punto Steiner sostiene più o meno che Bergson è troppo raffinato per essere anche profondo mentre Hegel, per esempio, paga con qualche rozzezza il suo andare al cuore delle cose. E’ un discorso che potrebbe svilupparsi anche sui romanzieri.
@ Gianluigi Simonetti
Hai senz’altro ragione sul fatto che Resistere non serve a niente, come ogni romanzo degno di questo nome, abbia a che fare con l’ambiguità dei nostri convincimenti. Eppure resto convinto che tale ambiguità non sia dentro l’opera, ma fuori di essa. Come diceva Helena Janeczek prima, semmai il libro funziona come una macchina per mettere a nudo, invece, la nostraambiguità, psicologica forse prima che ideologica (questo, direi, il senso dell’episodio pedofilo). E lo fa mettendo uno specchio, più o meno deformante e più o meno inquietante, di fronte ai lettori “di sinistra”: quella sinistra «sentita come sterile e irreale» che W.S. conosce bene per averne fatto parte in passato, e che nel leggere si deve sentire «sterile e irreale». Per questo dico che si tratta di un romanzo “di destra”, per questo lo leggo come un «manifesto per procura»: il manifesto ideologico, e persino propagandistico (certo una propaganda raffinata e sottilissima, se questo non è un ossimoro), di un pensiero – appunto di destra – che viene esposto e dispiegato, all’interno del testo, senza soverchia ambiguità.
A quest’uso manipolatorio della mia coscienza, a questo indebolire le sue già fragili e malcerte resistenze, io mi ribello: appunto come persona. Anche se la mia educazione di lettore, più o meno intelligente, è costretta a riconoscere la luciferina abilità di chi ha scritto Resistere non serve a niente, e l’oggettiva (per quanto oggettività si possa dare, in campo estetico) sua bellezza.
Riconoscere che l’arte, a dispetto di De Sanctis ed Engels, non necessariamente ci rende migliori, o più felici, o più ideologicamente consapevoli e risoluti, è facile a dirsi; molto più arduo riconoscerlo davvero nelle viscere, sentirlo alla bocca dello stomaco. Su questo le pagine che più mi hanno colpito, in assoluto, non sono di Georges Bataille ma di Alfonso Berardinelli (un critico che, come Siti, ha militato nella sinistra italiana e che ora, come Siti, senza dichiarare un’appartenenza ideologica, evidentemente non ne fa più parte; un critico che molte volte ha scritto di Siti ma non, se non erro, di Resistere non serve a niente – e sarei davvero curioso di sapere perché). Sono dieci paginette dieci, si intitolano Come insegnare letteratura moderna?, e si leggono in Casi critici (Quodlibet 2007, anche se vennero pubblicate una prima volta nel 2003).
Che queste pagine ci riguardino, qui, lo dice già l’incipit del saggio di AB: «Parlare di insegnamento della letteratura moderna è anche un modo di parlare del rapporto fra letteratura e società, un vecchio tema che non si trova quasi più la forza di affrontare». AB parte dalla propria concreta esperienza di docente. Avverso come si sa all’atteggiamento dello studioso (ingenerosamente tacciato sempre, da lui, di mandarinismo apatico ed esangue), distaccato anche dal proprio talento di raffinato saggista (talento peraltro, in queste pagine, scintillante e perentorio come direi da nessun’altra parte), e invece consapevole erede del Debenedetti “mimetico” e “teatrale” delle lezioni universitarie (Romanzo del Novecento e dintorni), dichiara preliminarmente che l’unico modo per trasmettere a un’altra generazione i grandi autori è convocarli quasi fisicamente nell’atto della lettura, sino a renderli (retoricamente) astanti: «perché non volevano essere né presi alla leggera né fraintesi, ma invece letti e riletti, capiti, assimilati in quel modo che avviene quando si ama: per imitazione, per immedesimazione, per contagio» (segnalo intanto il ricorrere di questo termine non innocente, pensando a Siti; nella seconda parte del saggio, AB offrità un perfetto specimen di tale lettura “per contatto”, riguardo a Kierkegaard; e dicendo altre cose assai interessanti ma che ci porterebbero fuori strada). Insomma, e in sintesi: «alla letteratura moderna si accede per partecipazione. Non è propriamente un oggetto di studio, è un’esperienza che, come ogni altra, comporta rischi che non si possono calcolare in anticipo». (Sulla lettura come esperienza, mantra che tanti ripetono senza mai entrarci dentro davvero, segnalo un saggio mirabile di Ph. Lacoue-Labarthe su Paul Celan, non tradotto in italiano, che s’intitola Poésie comme expérience e che valorizza – con pratica di matrice heideggeriana che, sono convinto, AB detesterebbe – l’etimo stesso, della parola «esperienza».)
Ma perché sarebbe tale soprattutto la «letteratura moderna»? Perché i classici moderni non sono “veri” classici (infatti studiarli non è, appunto, “vero” studio). Le loro passioni, per esempio politiche, appartengono a momenti storici vicini nel tempo e che possiamo commisurare al nostro. E poi perché la gran parte di loro non sono “veri” classici, in quanto incarnano uno spirito lontano dalla “classicità” (in altro senso). Sono inquieti, tormentati; e infatti inquietanti, tormentosi. Ma il problema che AB mette splendidamente a fuoco è più specifico, e riguarda appunto il «rapporto fra letteratura e società». I classici moderni sono stati, chi più chi meno, chi in maniera diretta chi del tutto indiretta, forti critici, se non scatenati eversori: della società come l’hanno conosciuta. Una società che però appunto, in qualche misura, siamo ancora in grado di riconoscere simile alla nostra.
Dice AB: «”Scrittore moderno” potrebbe essere più o meno sinonimo di “scrittore anti-moderno”: critico dell’idea di progresso, critico della borghesia e della classe media, critico dello storicismo, critico della razionalità strumentale e utilitaristica, della democrazia culturale e dello stesso illuminismo di cui è figlio e erede, critico della burocrazia e della società di massa». Non sono io a tradurre, tutto questo, in “di destra”. Prosegue infatti AB: «Questo potrebbe significare, come è stato rilevato dai più timorati progressisti, che tradotta in termini politici la critica sociale implicita o esplicita nella letteratura moderna è una critica “di destra”, pecca di utopismo regressivo, è apocalittica e catastrofica, è anarcoide o conservatrice».
Dunque «insegnare» questi autori – cioè socializzare l’esperienza costituita dalla loro lettura – ha qualcosa di paradossale e persino perverso. Se gli scrittori moderni sono «individui refrattari, notevolmente asociali e in rivolta», oggi «insegnare letteratura moderna ci rende scandalosi: mette gli insegnanti più consapevoli a disagio e in una situazione contraddittoria. Un insegnante è un educatore, deve fornire qualche regola e indicare una strada. Ma insegnare letteratura moderna educa a che cosa?».
Siamo arrivati dove volevo arrivare, scusa Gianluigi e scusate tutti la lunghezza (ma il saggio di AB è poco noto e merita invece di essere conosciuto). A cosa serve, l’arte? Se non educa, se non è edificante, se ci rende peggiori (ancorché magari più «veri» – neri e veri), di quale natura è il godimento che essa, implacabilmente, continua a fornirci?
AB prosegue, come dicevo, ragionando sull’insegnamento (con Kierkegaard) e in sostanza spiegando quali siano state le ragioni, psicologiche e ideologiche, per le quali nel 1995, a 52 anni, lo abbia lasciato. Per «insegnare letteratura moderna», dice in sostanza, i modi sono due. Il primo è «non prendere troppo sul serio e alla lettera gli autori che si leggono», stendere attorno a loro dei cordoni sanitari («non c’è da allarmarsi, noi siamo al di là di tutto ciò, noi siamo al sicuro e la letteratura è una bella malattia che non può contagiare la nostra salute»); il secondo, che ovviamente è stato il suo e al quale alla lunga non ha retto, equivale a «far cadere le barriere autodifensive» e accettare l’«identificazione (necessaria del resto alla comprensione)»: allorché «il contagio comincia ad agire».
Ma questa, che come si vede ci porta altrove, può essere materia per un’altra discussione. Mi interessa, qui, la conclusione di AB: «la letteratura moderna in effetti è pericolosa. Non è quasi mai edificante». Siamo giunti come si vede a un livello più evoluto, più consapevole e meno schematico, dell’«argomento Bataille»: perché, anziché contrapporre a specchio rovesciato il Bene e il Male come funzioni simmetriche e contrapposte, si è consapevoli che fra il testo e l’extratesto, o se vogliamo usare i vecchi termini, fra l’arte e la società, esistono rapporti continui. Impuri ambivalenti contraddittori. L’una condiziona l’altra, l’una dell’altra si nutre corrodendola, ambiguandola, contagiandola (magari in tempi diversi: l’arte è influenzata dalla società sul piano sincronico, e lo sappiamo bene, ma su un piano anacronistico – direbbe Didi-Huberman appunto sulle orme di Bataille… –anche la società è influenzata dall’arte, e forse in misura assai più importante e pericolosa: rinvio ancora a Lacoue-Labarthe, stavolta col suo coéquipieur Nancy, e al Mito Nazi tradotto dal Melangolo).
Tutto questo per dire che forse l’unico modo per «prendere sul serio» (ancorché non «alla lettera») un libro come Resistere non serve a niente, se non si è omologhi all’ideologia che lo pervade e lo alimenta, è appunto resistergli. Dici Gianluigi che «alla conoscenza del romanzo, mentre si legge, cioè mentre si gode, ti sembra giusto cedere senza riserve, senza “purtroppo”». Ecco, a me pare invece che si possa anche godere – e forse, con la «letteratura moderna», si debba farlo – mantenendole: le nostre riserve, le nostre contraddizioni, le nostre resistenze. Non che sia utile ed economico esibirle sempre, e così sconciamente, come sto facendo io adesso; ma ogni tanto ricordarsene, scottandocisi, direi che non fa male.
Cortellessa scrive:
A cosa serve, l’arte? Se non educa, se non è edificante, se ci rende peggiori (ancorché magari più «veri» – neri e veri), di quale natura è il godimento che essa, implacabilmente, continua a fornirci?
mi viene da pensare a dostoevskij, ai suoi finali reputati spesso dalla critica come “buonisti”, consolatorii e contraddittori, nel loro essere così insufficientemente “buoni”; inadatti a edificare una resistenza contro il male di cui dostoevskij è un maestro. mi chiedo: dostoevskij è edificante? o lo è solo in virtù delle sue conclusioni – e questo rende i suoi romanzi belli senza -purtroppo- fra trattini di rigetto etico? e se la conclusione in siti (in “Troppi paradisi” come in “Resistere” o già in “Scuola di nudo”) è spesso la parte più difficile proprio per il suo tono niente affatto conclusivo e soddisfacente, apparentemente a metà fra una serietà definitiva e un cinismo che ride di tutto, tanto da spingerci a considerare le conclusioni sitiane come uno scherzo a cui forse l’autore, (an)negandolo negli artifici, crede? penso al finale di “Troppi paradisi” in primis, ma mi sembra che anche la riconciliazione fra Tommaso e Gabry s’innesti bene nel discorso.
e poi, cosa basta a renderci migliori? occupare il teatro valle -o qualsiasi altro gesto di questa natura- è un’azione che condivido; ma mi pare essere un’azione dalla pregnanza perlopiù simbolica, dall’importanza (giustamente, a mio avviso) dimostrativa, come una performance attoriale. cosa ci sarebbe di molto diverso dal cercare di “capire” una condizione, una percezione della vita scrivendo un romanzo? entrambe le azioni mi paiono “letteratura”, detto come dicevano i decadenti francesi. perché, lo chiedo con sincerità e senza acredine, dovrei porli su due piani differenti? a parte il fatto che l’atto letterario di siti è dichiaratamente “cattivo” e l’altro dichiaratamente “buono”?
ovviamente uso le due categorie ironicamente. in primo luogo perché migliore e peggiore (e sinistra e destra, ça va sans dire) mi paiono avere un senso relativo di fronte al compito conoscitivo che il romanzo di grandi ambizioni (a prescindere dai risultati) si pone. poi perché la dichiarata cattiveria sitiana va circoscritta. lo faccio nel post che segue, per non appesantire l’intervento.
…a proposito della cosiddetta “insincerità”… A me pare che questi siano argomenti così terribilmente soggettivi (lo sono anche quelli dei critici, ovviamente, ma non così terribilmente) da non poter uscire dallo stretto recinto delle “impressioni” e quindi risultano, all’esterno, un po’ inappropriati.
-segue
Condivido appieno ciò che Cortellessa afferma qui; la sua analisi è davvero efficace, oltre a ricordarmi Stendhal e certe basi del romanzo, che male non fa:
“Eppure resto convinto che tale ambiguità non sia dentro l’opera, ma fuori di essa. Come diceva Helena Janeczek prima, semmai il libro funziona come una macchina per mettere a nudo, invece, la nostraambiguità, psicologica forse prima che ideologica (questo, direi, il senso dell’episodio pedofilo). E lo fa mettendo uno specchio, più o meno deformante e più o meno inquietante, di fronte ai lettori “di sinistra”: quella sinistra «sentita come sterile e irreale» che W.S. conosce bene per averne fatto parte in passato, e che nel leggere si deve sentire «sterile e irreale».”
alla lettera, io non parlerei di “deformazione”. anzi, l’azione specchiante è fedele, in quanto non analizza l’interiorità dei suoi personaggi, li mette di fronte a se stessi svelandoli nel loro ridicolo. tale obiettivo è un’oggettività che è in effetti, a voler proprio usare l’accetta, “di destra”. se non ricordo male, molti narratori nel passato prossimo hanno cercato di descrivere il mondo come un cadavere sul tavolo dell’obitorio, o rendere senza pietà il riflesso impietoso dello spirito dei tempi, pur attraverso le lenti del palinsesto letterario o di una lingua proteiforme. nell’ottica di questi narratori, primo intento era raccontare il mondo così com’è, e non come dovrebbe essere; non proiettare fantasmi del progresso, non caricare simbolicamente di promesse ideologico-politiche il racconto di “storie vere”. a questo punto, non so se “Resistere non serve a niente” sia di “oggettiva bellezza”; fermo restando che il tragitto dalla bella prosa di “Scuola di nudo” a un romanzesco alla vecchia maniera (sulla scia dei naturalisti, intendo) è abbastanza evidente a tutti, io direi che è l'”oggettività” (il tentativo, la riflessione intorno ad essa) una delle chiavi di bellezza del testo.
fra l’altro siti stesso si è definito “un anarchico conservatore” à la gadda che non sa più “neanche se è di destra o di sinistra” (questa, da metà in poi, è utile: http://www.youtube.com/watch?v=j4ltMVCsPoA). la notazione saggistica si pone a distanza, non può che essere intrinsecamente reazionaria, immobile. sposandosi mimeticamente con l’ottica del consumatore medio dell’Occidente, ne risulta una vibrazione apocalittica costante. anche in Scuola di nudo, cap. XIX, c’è in nuce già la costruzione “reazionaria” dell’Occidente al tramonto per sua stessa ingolfata, strozzata struttura, destinato ad essere spazzato via da strutture (e popolazioni) più spietate, affamate, cattive. se è reazionario questo, non può esserlo la poetica di un autore, il porsi a lato degli schieramenti o, meglio, al di fuori della lotta, magari a contare i feriti o a finirne l’agonia. l’ambiguità, com’è ovvio, non è reazione né progresso. li porta entrambi in grembo nel momento in cui li discute, talvolta confondendoli.
oltretutto, secondo me si tende a trascurare la questione della solidarietà in siti, dell’esigenza di contatto, la “possibilità di un’isola” che è l’amore, o meglio l’eros.
il romanzo parla in primo luogo di esseri umani in un contesto sociale o relazionale: deve districarsi fra moralità e immoralità, fra giusto e sbagliato, fra destra e sinistra, IN QUANTO incarnate contraddittoriamente nel singolo, e poi nel caso comprovate dalla teoria del saggista, che non è la verità indiscussa, dato che pure il saggista di “Resistere” è un personaggio cui non dare particolare credito.
insomma, il romanzo DEVE, oggi e sospetto pure ieri, essere libero e eludere la gabbia della retorica dei critici (necessaria, eh: senza generalizzazioni non si dà scienza), almeno quello riuscito. e l’ambiguità, come ho già mi pare accennato, è in “Resistere” derivante, in prima battuta, da una mimesi efficace del verosimile, del vita-simile.
sul finale del libro, vorrei scadere nell’impressionistico: esistono anche nella realtà persone che hanno tentato di farsi strada in un mondo coi denti aguzzi perché impossibilitate a fare altro, per vocazione o per fascino o che so io, e a un punto troppo tardo del loro percorso, con le mani e la coscienza sporche di sangue altrui, hanno cercato una qualche salvezza che, in mancanza del Paradiso, si può dare solo nella presenza umana, nel viaggio in compagnia all’inferno (ammesso che non sia già sulla Terra).
insomma, alla fine di “Resistere”, con una certa ironia da prendere, un po’, anche alla lettera, è l’amore che rimane e permette di abitare ancora un giorno l’Occidente senza annullarsi. è questo il fulcro minimo, insignificante rispetto alle conseguenze politiche che una narrazione così comporta, che siti sostiene. è quello che ha sostenuto con esiti rovesciati in Scuola di nudo (storia, non a caso, di un’esclusione forzata e mostruosa dalla vita condivisa); sul ritrovamento dell’Altro e sull’integrazione il personaggio Siti, in Troppi paradisi, fa calare il sipario e uccide il suo fantasma con una risata, nascendo. Più sul generale, una volta che l’individuo trova la propria felicità individuale nella compagnia, nell’interscambio affettivo o quanto meno nella condivisione compassionevole dell’evidenza del Male (questo è un Leopardi ridimensionato secondo l’èsprit des temps, in effetti), la storia finisce. perché è questo che l’autore siti persegue, questo ciò con cui fa finire, in un tentativo di risoluzione positiva che non può che apparire assurdo perché infinitamente esile e insignificante, ancorché irriducibile.
insomma, a me sembra che la soluzione più imperfetta e paradossale che siti sa escogitare sia trovare nel Male oggettivo di certe narrazioni una propria, dignitosa felicità in una solidarietà “conoscitiva” fra le diverse persone, tenendo presente che la purezza non è mai stata possibile, la separazione sociale delle classi neppure, l’autoesilio dorato della consapevolezza culturale nemmeno.
mi sa che ho scritto un papiro pieno di refusi, ripetizioni e retorica (ci ho messo un po’ per trovare l’allitterazione ma ce l’ho fatta). la cosa che mi preoccupa di più è però discutere con l’oggetto della discussione come possibile lettore e convitato di pietra… =)
ad Andrea Cortellessa
Non ci siamo intesi. Certo che la fine, la sconfitta, o peggio lo sfigurarsi della immagine di bene alla quale io, lei, chiunque sia legato profondamente può provocare e in effetti spesso provoca disperazione, e che questa disperazione mia, sua, di chiunque può trasformarsi, e spesso si trasforma, nella sensazione che il mondo sia radicalmente insensato, malvagio, idiota, nullo. Qui, chi fa “l’olimpico”è un bugiardo, o un superficiale, o un pallone gonfiato. Quel che che stento a capire non è la disperazione o la delusione personale; è la persuasione ragionata che *tutto* il bene del mondo viva e muoia insieme a quella immagine di bene che si è dimostrata fallace. Ripeto, persuasione ragionata: come chi, perduta l’amata o da quella tradito, si persuadesse che nessuno può veramente amare al mondo, che amore è parola vuota, beffa, noia. Questo è un sentimento che come tale può essere certo autentico e sincero, e dal quale può nascere un’autentica opera di poesia (se lo soccorre la volontà di creare la forma, che non è mai disperazione: qui la verità dell’interpretazione desanctisiana di Leopardi). Può essere altrettanto autentica e sincera la giustificazione critica, ragionata, argomentata che quel sentimento trasforma in programma, in giudizio sull’universo mondo? O non è piuttosto reazione e recitazione di sè (come suggerisce Dostoevskji)?
di nuovo ad Andrea Cortellessa, cercando di spiegarmi meglio.
Lei riporta un brano di Berardinelli che dice: «”Scrittore moderno” potrebbe essere più o meno sinonimo di “scrittore anti-moderno”: critico dell’idea di progresso, critico della borghesia e della classe media, critico dello storicismo, critico della razionalità strumentale e utilitaristica, della democrazia culturale e dello stesso illuminismo di cui è figlio e erede, critico della burocrazia e della società di massa». Non sono io a tradurre, tutto questo, in “di destra”. Prosegue infatti AB: «Questo potrebbe significare, come è stato rilevato dai più timorati progressisti, che tradotta in termini politici la critica sociale implicita o esplicita nella letteratura moderna è una critica “di destra”, pecca di utopismo regressivo, è apocalittica e catastrofica, è anarcoide o conservatrice».
Le ricordo che questo vale anche per gli uomini più grandi della grecità classica, per i nomi che ci sovvengono per primi quando pensiamo alla democrazia ateniese. Tucidide, Platone, lo stesso Socrate, sono critici radicali della democrazia, e tendono mica male all’apocalissi, alla catastrofe, all’anarchismo e/o alla conservazione; e proprio perchè sfidati dalla democrazia, dall’illuminismo pericleo, eccetera. Facciamo male a farli studiare ai nostri figli? A me non pare, e non perchè i secoli facciano da cordone sanitario.
Lo stesso cristianesimo ha reciso irrimediabilmente il legame delle etiche comunitarie, e fu accusato, con ottime ragioni, di ateismo nichilista.
Bè? La verità, e anche le verità, le verità personali e intime, le verità provvisorie, in corso d’opera, fanno paura, e a volte anche danni.
Ma la paura e il danno irreparabile a parer mio si verificano quando il rapporto con la verità sia definito dall’indifferenza. Per quel che conosco Siti (non ho letto questo suo ultimo libro) non mi pare indifferente alla verità. Per me, basta e avanza.
@ Lorenzo Marchese
Sono d’accordo con molte delle cose che dice (in particolare su Dostoevskij: non sono certo un esperto della sua opera e tanto meno della sua ricezione, ma certo il culto che l’intelligentsia europea novecentesca ha fatto dell’«atto gratuito», a partire da Gide per arrivare sino a Camus, mette tranquillamente fra parentesi il «castigo» e si bea del «delitto»); non su una, però, che per me è cruciale. Lei dice, non a caso citando Stendhal, che lo specchio che Siti porge ai suoi lettori “di sinistra” non ha nulla di deformante: «l’azione specchiante è fedele, in quanto non analizza l’interiorità dei suoi personaggi, li mette di fronte a se stessi svelandoli nel loro ridicolo. tale obiettivo è un’oggettività che è in effetti, a voler proprio usare l’accetta, “di destra”». A parte che l’opzione naturalista e gelidamente “sperimentale” non è necessariamente sempre stata (almeno nelle intenzioni) “di destra” (Zola docet), a me pare che mai Siti ceda del tutto – sebbene lei sia d’opinione contraria, mi pare – a un’opzione naturalista. Si avvicina di più a farlo nel Contagio (che è anche un omaggio a Zola, proprio), ma anche lì con l’inserto “ideologico” sull’Olimpo, a ben vedere (e per fortuna) ne evade. In ogni caso lo specchio di Resistere non serve a niente è deformante, lo è consapevolmente in quanto appunto, per me, ideologicamente tale.
Lo si vede proprio nell’episodio del Teatro Valle. Nel quale Siti sceglie consapevolmente, appunto, un dettaglio arciconnotato come ridicolo (il clown, appunto, e il suo, appunto, ridicolo motto “di sinistra”) – per squalificarne complessivamente senso e funzione. Lei dice: «occupare il teatro valle -o qualsiasi altro gesto di questa natura- è un’azione che condivido; ma mi pare essere un’azione dalla pregnanza perlopiù simbolica, dall’importanza (giustamente, a mio avviso) dimostrativa, come una performance attoriale. cosa ci sarebbe di molto diverso dal cercare di “capire” una condizione, una percezione della vita scrivendo un romanzo? entrambe le azioni mi paiono “letteratura”, detto come dicevano i decadenti francesi». Ecco, questa sua lettura del fenomeno Valle (al quale, sia detto per inciso, personalmente non ho partecipato se non come spettatore saltuario; e però, in un caso importante, usufruendo di un’altra sua funzione: rinvio a http://www.doppiozero.com/materiali/fuori-busta/%E2%80%9Cche-bello-che-bello%E2%80%9D) non mi trova d’accordo. Se valesse la sua idea della «performance», dell’azione meramente «dimostrativa», allora varrebbe davvero l’equivalenza col «romanzo» e la «letteratura», in senso decadente (e francamente, come qui ha scritto qualcun altro, la troverei – nel suo complesso – cattiva letteratura). Ma chi ne ha fatto esperienza reale non può, credo, condividere questa lettura (la stessa che ha inteso darne Siti, appunto). Perché tale non è, non è stata. È stata una «rappresentazione», sì, del resto coloro che l’hanno ideata e continuano a portarla avanti sono degli attori; ma è stata anche un’«azione» – e non nel senso delle avanguardie teatrali. È stata un’esperienza – la prima, da quando ho l’età della ragione, nella mia città appiattita da quindici anni di rutellismo-veltronismo e spianata e saccheggiata da quattro di alemannismo – di reale condivisione di spazi, di scelte, di vita. È stata aggregazione, reale, realissima, di tanti giovani ai quali in tutto questo tempo nient’altro è stato offerto (né da destra né da “sinistra”). È stata politica, insomma. Nel Bene e anche nel Male. E ha riempito un vuoto mostruoso, assiderante, talmente enorme da non essere più nemmeno percepito.
Queste cose non le dico perché le ho lette sul Venerdì di Repubblica; le dico perché le ho viste coi miei occhi e, seppure in posizione molto marginale e defilata, le ho vissute sulla mia pelle: il 15 ottobre dello scorso anno.
Tutto questo non si può ridurre al gesticolare sguaiato di un clown. O meglio, se le si riduce solo a un clown è perché lo specchio che si ha in mano è deformante, eccome, e lo si spaccia, invece, per fedele. (Quest’ultima mistificazione, però, non credo che Siti l’abbia operata: altrimenti non avrebbe messo in scena proprio un clown. Dunque Gianluigi, hai ragione: davvero W.S. non è così cattivo come lui stesso si dipinge.)
@ Roberto Buffagni
Mi trovo più in sintonia con questi ultimi suoi interventi. Però non sono io ad avere «la persuasione ragionata che *tutto* il bene del mondo viva e muoia insieme a quella immagine di bene che si è dimostrata fallace». Io, sebbene abbia forti convincimenti e, sono pronto a dire, anche delle credenze, non ho, credo, fedi. Nessuna di esse comunque, né credenze né eventuali fedi, è mai in me crollata. (Probabilmente è anche per questo che non sono Leopardi, e nemmeno Siti.)
Ciononostante, sento di avere una mia idea (sebbene, come dicevo sopra, contraddittoria frammentaria ecc.) di Bene e di Male o, se preferisce, di bene e di male. Continuo a non capire come, soprattutto nel momento in cui si professa credente cristiano, si stupisca nel sentir parlare di bene e di male. Mi creda, non voglio fare ironia.
ad Andrea Cortellessa.
Anzitutto la ringrazio per la cortesia e l’autentica disponibilità al dialogo di cui dà prova.
Quando scrive: “Continuo a non capire come, soprattutto nel momento in cui si professa credente cristiano, si stupisca nel sentir parlare di bene e di male” credo senz’altro che lei “non voglia fare dell’ironia.”
Il fatto è che, proprio perchè sono cristiano, credo che la linea che separa il bene dal male passa nel cuore di *ogni* uomo.
Poi, certo, anche io ritengo che ci siano idee, politiche, istituzioni, progetti , guerre, buoni e cattivi, che nell’azione politica ci si debba schierare con la parte che in coscienza si ritiene buona e contro la parte che si ritiene cattiva (anche se la parte buona per me e per un altro possono essere opposte).
*Non* credo, invece, che esistano gli eserciti e i partiti del bene o del male; e credo anzi che sia un tremendo errore identificare il bene con una parte politica, una chiesa, un partito, una religione, un esercito.
Ecco perchè resto sbalordito quando una persona intelligente, preparata e onesta come lei identifica sinistra e bene, destra e male (non sarei meno sbalordito se lei rovesciasse di segno le sue equivalenze).
L’azione politica, su qualsiasi piano operi, costringe alla semplificazione e inclina allo strumentalismo; e tra nemici politici può anche esser necessario uccidersi. Non è però necessario disprezzarsi, o peggio negarsi reciprocamente il riconoscimento della piena umanità: con tutto l’imprevedibile bene e male che la formula “piena umanità” sottintende. Può esser comodo, può esser utile, ma ha conseguenze tragiche; e qui non penso tanto al sangue che può far versare, ma all’accecamento che induce in chi nega (e si nega) di riconoscere nell’altro la comune radice.
@ Roberto Buffagni
Forse stiamo scivolando OT, però quello che dice mi interessa. Dunque, sono convinto almeno quanto lei che in ciascuno di noi vi sia una linea sottile, e spesso tratteggiata, a separare bene e male. Quando nella discussione sul romanzo di Siti parlo delle ambiguità affettive di chi legge, cioè nella fattispecie mie, non parlo con leggerezza (spero). Ciò detto, la mia “idea di bene” resta piuttosto definita (o almeno, secondo me non ha ambiguità interne che la snaturino sino a renderla irriconoscibile), sono io semmai che – con le mie debolezze, la pochezza delle mie risorse, appunto le mie ambiguità – non riesco a perseguirla davvero, né tanto meno a dare il mio contributo perché si affermi, cresca e si sviluppi.
Diceva qualcuno, che cristiano non era ma marxista era stato: «cercare e sapere riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». Questo non significa militare in un esecito. Se c’è una cosa che istintivamente mi ripugna è proprio l’ubbidienza incondizionata a una gerarchia, il perinde ac cadaver (formula che non mi pare di origine marxista, peraltro). Se scelgo una parte politica, mio primo compito sarà sorvegliarne la coerenza, l’efficacia, la relativa aderenza alla mia idea di “bene” appunto. Uno dei problemi della nostra società attuale è quello che, in nome di un relativismo in quanto tale commendevole, non si sappia più – una volta valutati i pro e i contro, le ragioni e i torti – prendere infine una parte. In tal modo il relativismo diventa l’alibi dell’ignavia. È tanto più facile dire – mi perdoni, non è il suo caso, ma spero capisca perché lo dico – che il più pulito c’ha la rogna. Ecco, io per esempio al Valle non ho trovato certo il Paradiso e neppure l’Armata Rossa (per fortuna); qualche rogna c’era, e pure fastidiosa; ma ciò non toglie che lì, in certi momenti, ho avuto l’impressione che non ci fosse così tanto «inferno» come fuori.
Cari amici,
la faccenda che il romanzo sia di per sé un genere spurio la si apprende alle scuole elementari, se fatte bene, e porta il nome di Bachtin. È anche risaputo come i critici letterari siano per lo più favorevoli alle scritture miste (indicate su “Le parole e le cose” sotto il titolo “Altre scritture”: sono semmai i funzionari editoriali e quelli delle librerie “megastore” a non amarle, perché non sanno dove collocarle). Il punto, evidentemente, non è qui. Si tratta di comprendere se il genere romanzo, fritto e rifritto in tutte le salse, abbia ancora quella centralità conoscitiva che nella linea lukacsiana – tra Hegel, Marx ed Engels – un tempo le veniva assegnata. La mia risposta è no (il che non toglie, ovviamente, che possano esserci romanzi peggiori e migliori).
Provo ad articolare il mio parere. In “Teoria del romanzo” Guido Mazzoni, del tutto esplicitamente, parte dal presupposto che il romanzo conservi la sua centralità perché in due secoli di storia nulla è sostanzialmente cambiato: il romanzo è il genere della modernità per eccellenza (come nel Medioevo, poniamo, lo era il poema cavalleresco). In effetti, però, in questi due secoli tutto è mutato pur senza mutare. È venuta meno la filosofia della storia che sorreggeva quell’idea di romanzo. Se un tempo Balzac poteva essere recuperato “a sinistra” era perché la realtà sociale che egli raffigurava nella sua opera costituiva un’indagine a tutto tondo delle forze in campo, delle lotte tra le classi (la nascita del concetto di “classe sociale” è coeva proprio a quella “monarchia di luglio”, anni Trenta dell’Ottocento, che vide al lavoro l’instancabile Balzac) e intorno ai prolungamenti nelle psicologie individuali di quelle lotte. Ad esse il materialismo storico forniva la soluzione della rivoluzione e del socialismo-comunismo come mete finali.
Ci sono altri aspetti, inoltre, per nulla secondari. Sono gli artifici tipici del romanzo, le sue convenzioni, che rendono possibile la sua funzione conoscitiva. Una di queste è quella, tipicamente realista, del narratore onnisciente. Quando nel Novecento viene meno l’onniscienza (con Joyce, con la tecnica del monologo interiore, con l’introduzione del punto di vista o del gioco dei punti di vista nel romanzo), già la potenza conoscitiva applicata alla società s’indebolisce. Il romanzo comincia a riflettere su se stesso, sulla propria (relativa) impotenza. Di pari passo, l’industria della cultura inizia a tenere in vita, più o meno artificialmente, il morto genere del romanzo tradizionale (tra gli autori del “morto genere”, naturalistico più che realistico, c’è Simenon, oggi molto apprezzato). Anche l’immedesimazione dell’autore nei diversi personaggi, e la conseguente capacità di far scattare un’immedesimazione analoga da parte del lettore, fanno parte di queste convenzioni.
Gli ulteriori tentativi messi in campo per sfuggire alla tenaglia tra il “morto genere” e la sua rivitalizzazione cadaverica, compresa l’autofinzione, sono – se compiuti onestamente – tentativi di uscita dalla costellazione romanzo, non per restarci dentro. L’autofinzione, per esempio, è una modificazione del genere autobiografico molto più di quanto non sia una modificazione del genere romanzesco. Certo, il romanzesco sopravvive in una certa misura: ma il genere non è più affatto lo stesso. Per tener fermo al valore conoscitivo dell’arte e della letteratura in generale, il romanzo viene programmaticamente ucciso, diventa un’altra cosa.
La mia ipotesi di spiegazione del paradosso che fa sì che oggi autori “di sinistra”, negli esiti letterari, finiscano “a destra” ha a che fare con il crollo conclamato di una determinata filosofia della storia, cui essi non sanno reagire con una ristrutturazione della speranza, cacciandosi nell’impasse nichilistica. Ciò che questi autori riescono a conoscere è forse soltanto, tautologicamente, la loro stessa disperazione. Che, nel nostro caso, ha per giunta il sapore dell’anomalia italiana. Accanto a questo c’è però – e a mio avviso è più grave – che con la “riscoperta” del romanzo, sedotti dalla notorietà che ancora può dare, essi gettano via il bambino con l’acqua sporca dell’arte.
Genovese, nientemeno ” non sanno reagire con una ristrutturazione della speranza, cacciandosi nell’impasse nichilistica “? Brrr, si rende conto di quello che dice? Davvero ” gettano via il bambino con l’acqua sporca dell’arte “? Mi dispiace dirglielo, ma sono gli stessi argomenti che furono usati contro la libertà dell’arte dai regimi totalitari. Si ricorda l’arte degenerata, i gulag, i campi di rieducazione? Siamo lì.
Quanto a Simenon mi sa che lo conosce poco. E’ uno che ha scritto tantissimo, centinaia e centinai di testi, parte dei quali definibili come veri e propri romanzi moderni, niente affatto naturalistici; fu il patentato Gide a sdoganarlo nella letteratura dei piani alti, come meritava e merita almeno per alcune decine di romanzi.
ad Andrea Cortellessa.
La ringrazio dell’interesse che mi attesta per questa conversazione, che interessa molto anche me. Se poi andremo fuori tema, i responsabili ci richiameranno al’ordine. Cerco di andare al punto.
Secondo me, lei fa benissimo a combattere per il suo bene, o il suo minor male, per il suo paradiso o il suo “‘inferno meno infernale” (lei con le sue “debolezze, la pochezza delle *sue*risorse…le *sue* ambiguità”, io con le mie, chiunque con le sue).
Fa altrettanto bene a dire che se sceglie una parte politica, “*suo*primo compito sarà sorvegliarne la coerenza, l’efficacia, la relativa aderenza alla *sua* idea di ‘bene’ “. Non diceva Giacomo Noventa – un poeta a me caro – , che bisogna essere gesuiti con gli altri e giansenisti con se stessi? Detto en passant, non avrei proprio nulla da obiettare se lei facesse parte di un esercito, in senso proprio o traslato: per qualche anno ho fatto la vita militare, che mi piaceva molto; e l’obbedienza può essere una grande virtù, anche se come tutte le grandi virtù può sempre rovesciarsi in un grande vizio.
Il punto che attira la mia attenzione non è la sua o altrui adesione a una idealità che posso avversare, nè il fatto che questa reciproca avversione possa giungere, in linea di principio, fino all’inimicizia politica, che include la possibilità del conflitto a morte.
Il punto è, a mio avviso, questo. Il conflitto politico impone la semplificazione della scelta di campo, che sempre brutalmente impoverisce, perchè sacrifica tutta la ricchezza del possibile all’irreversibile univocità dell’effettuale; e quando il conflitto politico si acuisce, questa inevitabile brutalità può diventare anche tragica.
E’ però vitale che la brutalità del conflitto politico e della scelta di campo non trascini con sè una simmetrica brutalità, un eguale impoverimento dello sguardo che portiamo sul nemico (e di conseguenza, su noi medesimi).
Anche quando ritenessimo malvagia la causa che il nemico difende, e persino quando inequivocabilmente lo fosse, è vitale che non ci dimentichiamo mai della radice fraterna che abbiamo in comune con lui. Questo, a parer mio, è il lascito più prezioso della grecità: una civiltà capace di creare (e premiare con la gloria più alta) un’opera come *I persiani*, scritta dal punto di vista del nemico esistenziale che poc’anzi era stata sul punto di distruggerla; o di tramandare con ammirato affetto il nome degli eroi troiani sconfitti in quella che è l’epica della sua fondazione, per farne il suo monumento letterario più alto e il suo testo scolastico più diffuso.
Come vede, torno all’inizio di questa conversazione, al mio stupore e alla mia ripulsa per la sua formula sinistra = bene, destra = male. E come credo di avere ormai chiarito, qui non si tratta di “relativismo”, atteggiamento per il quale ho poca o punta simpatia.
Per me, ci si può e *ci si deve* combattere, se le immagini di bene a cui tendiamo sono in conflitto; e se questo conflitto è altrimenti incomponibile, ci si può e *ci si deve* combattere anche a morte: a questo, non ho nulla da obiettare.
Ma il male che combattiamo o crediamo di combattere combattendo il nemico e la sua immagine di bene non è il Male: se identifichiamo il nostro nemico e il Male cadiamo nell’ultima e più grave tentazione: “The last temptation is the greatest treason:/To do the right deed for the wrong reason” (Eliot, “Murder in the Cathedral”).
Come dice ogni scalcinato parroco, il peccato, non il peccatore; e il peccato, o se vuole l’errore, il male, l’inferno con meno pause di sollievo, non appartiene al nostro nemico più che a noi.
E’ un’ovvietà: ma è anche, a parer mio, una verità essenziale. Qui in Italia abbiamo uno speciale bisogno di tenerla a mente, perchè la nostra è una nazione che nel breve volgere di centocinquant’anni ha conosciuto un’impressionante quantità di guerre civili ad alta e bassa intensità, e dove i vincitori hanno preso fin da subito il vizio di disconoscere il nemico e connazionale, di bollarlo come criminale, di negarne la comune appartenenza allo stesso popolo dei vincitori.
Provi a fare l’elenco. La resistenza legittimista dei duosiciliani, brigantaggio. La lotta degli anarchici, terrorismo criminale e nichilista. Gli antifascisti, antitaliani e traditori. I fascisti della R.S.I., di nuovo antitaliani e traditori. La lotta armata di destra e di sinistra degli anni Settanta, terrorismo e demoniaca follia.
E fatto sommariamente l’elenco di questi fratelli insepolti (perchè si dà vera sepoltura al nemico solo quando si riconosca pubblicamente che siamo figli dello stesso padre e della stessa madre) provi a pensare che ne direbbe Antigone, di questa nostra ostinazione, di questo nostro volontario accecamento.
Così, veniamo anche alla questione dell’arte. Io non lo so, che cosa possa o non possa, debba o non debba fare l’arte. Credo però di sapere che a questa contraddizione tra noi e il nostro nemico, tra il male che vogliamo combattere fuori di noi e il male che ci abita dentro, insomma a questo paradosso tragico e anche comico, a questa vera croce o Croce, l’arte non resti indifferente.
E’ poi fattualmente vero che guardare dentro a questo buco può dare le vertigini: basti pensare, un nome per tutti, a Céline. Però ci stiamo tutti, intorno a quel buco, anche se la maggior parte di noi evita di sporgersi e di guardare giù.
l’ultimo post di buffagni è davvero convincente, tanto da avermi fatto scordare quello che avevo ancora in mente di dire. però, sorvolando insieme sulle argomentazioni di massino contro genovese (che potrebbero avere un fondamento retorico in questo: http://it.wikipedia.org/wiki/Legge_di_Godwin), vorrei riportare dei versi che mi si erano vaporizzati in testa quando cortellessa ha scritto, non ricordo dove, che l’ambiguità del romanzo di siti sembra risiedere al di fuori di esso, più che nella sua scrittura. poi me li sono riguardati, e a me hanno chiarito i termini della questione. cito:
La man che trema
Per natura sono dentro la mischia
per età ne sono fuori-
l’ambiguità è ribadita dal rapporto ambiguo
tra contiguità e similarità -grazie, vecchio Jakobson!
che non per nulla ti fondi oltre che su Poe, su Valery-
mettiamoci un po’ di oscurità, egli infatti diceva-
è quello che faccio quando sorrido come chi è fuori dalla mischia,
E VICEVERSA- ed è quello che faccio quando dicendo cose chiare
“ci metto dell’oscurità”, e, naturalmente, VICEVERSA-
ma nessuno dimentica che come le fiabe
anche le strutture tendono a ripetersi, a non cambiare
e se una corrente letteraria è stata reazionaria
questa è stata il simbolismo, tuttavia…
l’exitation prolongée entre le sens e le son…
chi è fuori dalla mischia è, si capisce, un po’ reazionario,
ma anche chi è dentro lo è; un po’ reazionario è chi è chiaro,
con tutte le sue virgole, e chi aiuta la naturale ambiguità
creando apposta degli ostacoli. Perché non dirlo?
(da Trasumanar e organizzar, sez I. Per i sentieri)
poi magari mi viene altro da dire, con parole mie, sul valle o sui realismi. buona serata
Marchese LA ringrazio per avermi oggi sbeffeggiato solo con la Legge di Godwin. Altre volte mi toccò l’infamante Dante del cortesia fu lui esser villano, dell’inferno XXXIII (33). Bisogna accontentarsi… Invece, testi alla mano, le argomentazioni di Genovese, ma in definitiva pure quelle del più gesuitico Professor Cortellessa, sono le stesse adoperate per sbeffeggiare, isolare, esiliare, processare, imprigionare, perfino uccidere gli artisti considerati dai regimi politici più o meno totalitari nocivi al bene della comunità, bollandoli come nichilisti, degenerati, disfattisti ecc. Se LEI, e tanti di voi, non ve ne rendete conto è come minimo un problema grosso di assenza di cultura politica, perché vuol dire che siete mossi da pulsioni puriste, che potremmo definire talebane, per intendersi bene; e vuol dire che sotto sotto sostenete posizioni totalitarie che possono a tutt’oggi gravemente danneggiare le persone che sostengono posizioni artistiche diverse dalle vostre, come ben spiega l’ultimo intervento di Buffagni. Ma facciamo un esempio pratico. Mettiamo per assurdo che in Italia si instauri un governo politico clericale, omofobo, antiscientifico, liberticida, antilluminista, contrario al progresso in generale. Oh, lo so che è un paradosso, che in Italia ciò è impossibile… Ma mettiamo… Crede davvero che la censura adopererebbe argomenti meno raffinati di quelli adoperati per bollare il testo di Siti (o la persona di Siti?) come degenerato e nocivo all’interesse comune, al bene della comunità? Le ricordo solo che a Ragazzi di vita, del da LEI citato Pasolini, fu intentata una causa per oscenità su denuncia della Presidenza del Consiglio. Fortuna che a quei tempi gli intellettuali di sinistra, da Moravia in giù, insorsero a difenderlo, evidentemente non considerando di destra il suo testo, né PPP come persona. Erano i tempi di Scelba, quello del culturame: ” « Credete che la Dc avrebbe potuto vincere la battaglia del 18 aprile, se non avesse avuto in sé una forza morale, un’idea motrice, che vale molto di più di tutto il culturame di certuni? »
Larry Massino scrive:
“Mettiamo per assurdo che in Italia si instauri un governo politico clericale, omofobo, antiscientifico, liberticida, antilluminista, contrario al progresso in generale. Oh, lo so che è un paradosso, che in Italia ciò è impossibile… Ma mettiamo… ”
Giusto. E nella stessa linea della storiografia controfattuale, del “what if”, che mi piace molto, mettiamo che Berlusconi fosse stato omosessuale, e che si fosse scoperto che le sue “feste eleganti” erano affollate di ragazzi, invece che di ragazze. Bel problema, per l’antiberlusconismo…
Buffagni, ” nella stessa linea della storiografia controfattuale ” lo dice a sua sorella, con rispetto parlando. Il mio era un paradosso. Non le piacciono i paradossi? Non ci posso fare nulla. Ma il paradosso stava a dire che in Italia siamo da sempre fortemente influenzati (come minimo) dalla cultura clericale, presente sia nei partiti maggioritari di destra che in quelli di sinistra, per non contare l’integralismo e l’ oscurantismo dei movimenti vecchi e nuovi, antitutto, a dir poco reazionari, ovviamente in nome della purezza (delle valli, dell’aria, del corpo umano e così via) . Lei lo sa che in Italia c’è a tutt’oggi una feroce campagna antiaborto, che praticamente obbliga i medici all’obiezione di coscienza, per non subire ostracismi da parte del mondo cattolico, tipo CL, ovunque presente nella sanità e in tante regioni evidentemente maggioritario? Lei lo sa che i presidenti del consiglio possono sostenere, per solleticare il proprio benpensante elettorato, che le donne morte possono partorire? Che si vieta la procreazione assistita? Che non si riesce a fare una cazzo di legge per le coppie di fatto? Che la ricerca scientifica non è libera? Vogliamo parlare della legge 40?
a Larry Massino.
Francamente non capisco perchè si sia offeso. Del resto non mi pare sia il caso di parlare qui, dove si trattano argomenti diversi. Se desidera parlarne in privato, me lo dica e le do volentieri la mia email.
Mi sembra che le contraddizioni si moltiplichino, e per la discussione forse è un bene. A Cortellessa non piace che il romanzo sia manipolatorio, ciò che a me pare una garanzia di qualità (è la letteratura cattiva o mediocre quella che non ci manipola, quella che non ambisce a farci cambiare idea e che ci lascia intatti). Rimpiange che la letteratura non rappresenti l’esperienza del Valle per quello che è stata realmente – eppure sa meglio di me, e lo dice, che non è compito della letteratura fotografare le cose come sono realmente (come se il romanzo si occupasse di realtà, e non di verità). Gli scoccia che insegni e propagandi il male, ma intanto è il bene, o anche il Bene, che non a caso insegna e propaganda quella “romanzeria industriale” che a Cortellessa giustamente fa venire l’orticaria; non a caso, dicevo, perché il bene ci consola e ci fa sentire a posto, mentre l’indecidibilità morale del romanzo ci lascia in mezzo al guado: ma se l’obiettivo è guardarsi intorno e capire, non è meglio sentirsi nudi e soli piuttosto che considerarsi migliori degli altri? Infine, Andrea, dopo aver identificato il bene con la sinistra metti tutto Resistere – protagonista e autore implicito – dalla parte della destra, e con Berardinelli tutta la modernità letteraria dalla parte della conservazione anarcoide (la critica “della borghesia e della classe media, dello storicismo, della razionalità strumentale e utilitaristica, della democrazia culturale e dello stesso illuminismo, della burocrazia e della società di massa”). Ammesso che lo schema regga e che l’identificazione sia accettabile, resta il fatto che bene e male sono relativi e nella storia si scambiano spesso il posto – per molti secoli la democrazia e la ragione hanno goduto di cattiva stampa, mentre le oligarchie e le teocrazie rappresentavano un valore da insegnare. Ma allora più che interrogarci astrattamente sul bene e sul male dovremmo forse chiederci cosa fa, di volta in volta, il romanzo. A me, come ad altri, pare che tenda a mettersi dalla parte del male soprattutto quando la società spinge i cittadini (e gli insegnanti…) troppo intensamente dalla parte del bene. Se la voce del bene è troppo forte socialmente, allora la letteratura darà la parola al male: e forse lo farà meno per immoralismo che per ricerca, e bisogno, di interezza. Piuttosto, se identifichiamo rigidamente il bene con i valori della sinistra e il romanzo con uno strumento educativo al servizio della città, siamo certi di rendere un buon servizio alla letteratura? Dovremmo forse smettere di leggere, non dico Sade, ma anche solo Flaubert, su questa base? Oppure potremmo leggerli in solitudine ma non a scuola, non in facoltà?
Mi sembra tutta una contrapposizione un po’ sclerotica, dalla quale si può tranquillamente uscire. Il bello del romanzo, credo possiamo convenirne, è che non è una cosa sola, ma almeno due, e spesso più di due. Da una parte sola il romanzo non ci sa e non ci vuole stare, tanto è vero che gli scrittori apparentemente più ideologici e superegotici – penso per esempio a Tolstoj – si rivelano i più violenti autodistruttori della loro ideologia esplicita, e a conti fatti i più bugiardi di tutti. Invece di impiccarlo a una posizione, ammettiamo che il romanzo tende contraddire, o arricchire, o a integrare quello che dicono le altre forme di conoscenza che gli sono coeve: la filosofia, la scienza, la politica, la morale – gli specialisti di una parte sola. In questa fase, e nonostante le apparenze, la cultura italiana è attestata in maniera abbastanza compatta su posizioni di ‘resistenza’: non solo eroica resistenza alla barbarie consumistica, ma anche e forse soprattutto resistenza a capire il mondo che ha intorno. E’ del tutto normale che al romanzo – al vero romanzo – venga voglia di complicare le cose; è quanto succede in Resistere non serve a niente, se lo si interpreta, come secondo me è giusto, sulla scia del Contagio e di Autopsia: non tanto come un manifesto di destra, quanto come una protesta contro la cultura come barricata, sepolcro e bene-rifugio (che è effettivamente un riflesso di molti intellettuali italiani, e in particolare, bisogna ammetterlo, di molti intellettuali di sinistra: ecco una verità che va oltre la realtà del Valle). Sul piano politico ognuno potrà fare le sue scelte, scegliere una parte se se la sente; ma intanto è utile, oltre che piacevole, che il romanzo allarghi la nostra visuale, ci interroghi e ci attraversi. Per cui da questo punto di vista, secondo me, serve: vale la pena di insegnare la letteratura moderna, vale la pena di insegnare il “male”, e di farsene contagiare (“tra il male che vogliamo combattere fuori di noi e il male che ci abita dentro”: ben detto Buffagni). Soprattutto vale la pena di sommare alle altre forme di conoscenza la conoscenza specifica della letteratura – qualunque ne sia il contenuto di verità, la forma di quella conoscenza resta preziosa, specifica e irriducibile.
Un’ultima cosa, più personale e certo più opinabile. Sono convinto che si possa leggere un romanzo mantenendo ben salde, come scrive Cortellessa, le proprie riserve, contraddizioni e resistenze, senza perdere nulla in termini di piacere del testo: tra l’altro c’è chi gode anche scottandosi, e c’è pure chi non saprebbe godere diversamente. Mi chiedo però se un’esperienza di lettura di questo tipo, così diffidente nei confronti della manipolazione romanzesca, non tolga qualcosa alla scoperta conoscitiva che nella buona letteratura va insieme al godimento: se non intacchi la sua ampiezza e la sua forza d’urto. Leggere così mi pare un po’ come guidare col freno a mano tirato – e non perché ci si dimentichi di toglierlo, ma perché si pensa che è più nobile lasciarlo così. Muoversi ci si muove lo stesso, però si va più piano, e si consuma di più.
QUANTE CHIACCHIERE SUI SITI E QUANTO SILENZIO SUI MONTI!
«Sul piano politico ognuno potrà fare le sue scelte, scegliere una parte se se la sente; ma intanto è utile, oltre che piacevole, che il romanzo allarghi la nostra visuale, ci interroghi e ci attraversi. Per cui da questo punto di vista, secondo me, serve: vale la pena di insegnare la letteratura moderna, vale la pena di insegnare il “male”, e di farsene contagiare (“tra il male che vogliamo combattere fuori di noi e il male che ci abita dentro”: ben detto Buffagni). Soprattutto vale la pena di sommare alle altre forme di conoscenze la conoscenza specifica della letteratura – qualunque ne sia il contenuto di verità, la forma di quella conoscenza resta preziosa, specifica e irriducibile». (Simonetti)
È questa scissione tra piano politico e piano della conoscenza il guaio del nostro presente (italiano in particolare).
È questo pluralismo giocondo, sventato e un po’ fessacchiotto che concede: «ognuno potrà fare le sue scelte, scegliere una parte se se la sente; ma intanto…» a tenerci con la testa nelle nuvole.
Intanto, che cosa?
Intanto, mentre io imparo il “male” sul libro di Siti e mi faccio abitare da questo male (immaginario), gli altri (Monti & C.) il male (senza virgolette ) lo fanno a me e a milioni di altri. Che guarda caso scendono in piazza ( a fare il bene o il male?) ormai solo nella “povera” Grecia. Qui zitti e a cuccia. (Quasi come ai bei tempi del fascismo…).
E mentre il male (vero) aumenta, aumentano a dismisura anche le nostre preziose, specifiche e irriducibili conoscenze.
Ma a che servono? Che rapporto hanno con la vita degli altri (con il bene e il male che fanno gli altri)? Che scelte ci impongono?
Detto fuori dai denti, a me questa discussione su male e bene in astratto (e solo nei romanzi) mi fa venire in mente l’aria di parrocchia della mia lontana infanzia.
Fare il bene (soltanto?). Fare il male( soltanto?). Con chi? A vantaggio di chi? E perché non fare il bene e il male? Ma per uno scopo chiaro…Quale?
I nostri padri queste cose le sapevano o almeno se le ponevano come problema:
Ma più c’è da tornare ad un’altra pazienza
alla feroce scienza degli oggetti alla coerenza
nei dilemmi che abbiamo creduto oltrepassare.
Al partito che bisogna prendere e fare.
Cercare i nostri eguali osare riconoscerli
lasciare che ci giudichino guidarli esser guidati
con loro volere il bene fare con loro il male
e il bene la realtà servire negare mutare.
(F. Fortini, Forse il tempo del sangue…(1958))
Noi non più. La politica da una parte, la conoscenza dall’altra…
Scrive E. Abate, andando dritto al punto:
“QUANTE CHIACCHIERE SUI SITI E QUANTO SILENZIO SUI MONTI!”
In effetti, poche forme retoriche sono più significative della preterizione, da “La sventurata rispose” a “Viaggiò. Conobbe la noia dei piroscafi…”
Caro Abate,
ma perché vuole costringerci tutti in catene a parlare di Monti? Non le viene in mente che se alcuni di noi non ne parlano non è necessariamente per intelligenza col (suo) Nemico, ma perché non hanno nulla di sensato e specifico da dire in materia, al di fuori di un dissenso generico, o al limite di un consenso altrettanto generico, che non hanno in ogni caso nessuna importanza?
E d’altra parte, pensa davvero che un modo “utile” per collegare letteratura e politica sia citare in ogni singolo post saggi e versi di Fortini (con qualche preferenza per i più brutti), come un mantra, nella speranza che abbia già capito tutto lui, e che quindi a noi basti fare ciò che i Padri (non) hanno fatto?
Ha preso in considerazione l’ipotesi che alcuni di noi, pur senza parlare di Monti in un blog letterario, svolgano comunque politica attiva, o l’abbiano svolta (restando magari colpiti dalla miseria di quell’esperienza); o che abbiano un vivo interesse per la vita degli altri, ma non pensino per questo di dover trovare in ogni cosa che fanno “un legame preciso con i problemi sociali irrisolti o in via di peggioramento per le pesantissimo misure economiche di austerità”, come lei ha scritto in un suo scenico appello, molto più simile a una (brutta) poesia civile che a un atto politico? Non pensa che un intellettuale, un artista, un essere umano abbia comunque il diritto, se vuole, di rifiutare “i problemi sociali irrisolti”, l’economia, la storia, gli altri – che è a sua volta un gesto politico – senza per questo sentirsi in colpa?
E in ogni caso, lo che tra arte e politica esistono anche legami magari poco precisi, ma non meno forti? Questo thread, ad esempio, parla di letteratura, però, a suo modo, anche un poco di politica (anche se non di Monti). Parla, per esempio, di un intellettuale di sinistra come lei: del suo modo di usare Fortini e il marxismo non per muoversi, ma per stare fermo; non per capire, ma per stare sulla difensiva; non per vedere meglio, ma per accecarsi.
Buffagni, niente di che, ma tirando in ballo la storiografia controfattuale credevo mi stesse dando del ciarlatano…
Come pare mi dia il Professor C, che a nessun altro, qui, può aver indirizzato le seguenti parole: ” È tanto più facile dire – mi perdoni, non è il suo caso, ma spero capisca perché lo dico – che il più pulito c’ha la rogna. Ecco, io per esempio al Valle non ho trovato certo il Paradiso e neppure l’Armata Rossa (per fortuna); qualche rogna c’era, e pure fastidiosa; ma ciò non toglie che lì, in certi momenti, ho avuto l’impressione che non ci fosse così tanto «inferno» come fuori “. Io – se era indirizzato a me – non dico affatto che il più pulito c’ha la rogna. Solo che non confondo la rogna con la pulizia; non confondo le legittimissime istanze delle maestranze con il fatto artistico teatro; e non confondo il bisogno di nuovi spazi per la cultura con l’improvvisarsi gestori di teatri (pubblici). Semplicemente perché quando scoppierà la bolla che si è creata attorno a questo fenomeno sociale si vedrà bene che dal punto di vista organizzativo questa esperienza riporta indietro il teatro di almeno 50 anni. Perché ammesso e non concesso che il teatro sia un bene comune da fornire (imporre?) alla cittadinanza, esso è prima di tutto una forma d’arte, peraltro in Italia molto avanzata, della quale gli occupanti non paiono tener conto.
A me interessa l’arte, l’arte teatrale in particolare, della quale C. pure potrebbe in futuro interessarsi, a giudicare dalla recensione da lui ricevuta come dicitore poetico da uno dei maggiori critici in esercizio. Solo che C. è un novizio, si riferisce agli ultimi 15 anni, mentre io almeno al doppio, della scena romana e italiana. Se dico che il difetto degli occupanti è di avere una visione retrograda del teatro, della disciplina e della poetica teatrale, lo dico per esperienza diretta, non per sentito dire, né perché sono entrato qualche volta in un teatro e ho trovato che fosse meno inferno che fuori (grazie ar… penis!). Gli è che su quei presupposti, tutti ideologici, si riporta il teatro a una sua funzionalità obbligatoria di antagonismo e opposizione politico sociale (a proposito, Monti Merda!), pena venir considerati nemici del popolo (con questo clima populista, vedrete, tra poco verranno fuori i bilanci dei teatri, e si scoprirà che alcuni spettacoli prodotti dai teatri pubblici, tra i quali quelli di alcuni importanti registi come Ronconi e Martone, perdono anche milioni di euro, e si griderà allo scandalo… quando il problema non è che costano troppo, ma che la produzione generale va sempre più appiattendosi sui gusti del pubblico). Intendiamoci, io credo che la funzionalità politica sociale i teatri ce l’abbiano, ma solo a condizione di produrre e far circolare contenuti artistici che vadano di pari passi o (meglio) sopravanzino l’epoca, anche se per assurdo nessuno andasse a vedere gli spettacoli, come successe a tanti importanti artisti proprio romani, penso specialmente agli irripetibili e grandissimi Leo & Perla, ma anche a Carmelo Bene, che prima lavorò anche lui a lungo nelle cantine, poi si permise perfino di dirigere una Biennale Teatro dalla quale escluse provocatoriamente il pubblico, che sempre di più meriterebbe di ricevere dal palco il lancio di gatti morti, come secondo la testimonianza in Roma di Fellini esso faceva con i sepolcrali artisti dell’avanspettacolo (nonostante le varie provocazioni contro il pubblico e contro il sistema pubblico Bene era socialmente più importante del barricadero Dario Fo…). E insomma, i teatri l’importanza sociale non ce l’hanno perché ci si fanno dentro le assemblee, o perché permettono ad artisti commerciali (non solo Jovanotti, ma finanche Renzo Arbore si è esibito a favore degli occupanti…) di passare da benefattori dell’umanità e ricevere le loro interviste televisive da bene(comune)meriti…
E comunque, da essere scientifico sono pronto a ricredermi quando vedrò da parte dei comunardi un progetto artistico che non sia fatto di farfugliamenti sulla nuova drammaturgia (che semmai sarebbe quella di Carmelo Bene, Leo & Perla ecc, dei loro sopravvissuti ed eredi; e in ogni caso i nuovi drammaturghi in nome dei quali si lanciò l’occupazione, che nuovi non sono per niente, abbandonarono in massa subito dopo), ma come minimo di comprensione dei – se non di adesione ai… – risultati estetici del teatro più avanzato dell’ultimo secolo; ma mi confermo nelle mie impressioni negative se continuo a vedere che gli occupanti vanno più alla ricerca di un’identità politica che estetico-formale-organizzativa, facendo queste iniziative http://www.teatrovalleoccupato.it/una-chiamata-aperta-agli-artisti-%E2%80%8C%E2%80%8C%E2%80%8C-lo-spettacolo-della-societa-%E2%80%8C-la-prima-serata-evento-dei-soci-fondatori-domenica-4-novembre o quest’altre http://www.alfabeta2.it/ai1ec_event/la-costituzione-del-comune/?instance_id=.
PS: mi dichiaro spontaneamente senza speranza, e tuttavia completamente d’accordo con il penultimo intervento di Simonetti.
a Larry Massino.
E’ stato un banale equivoco: stavo semplicemente scherzando un po’, senza alcuna intenzione ironica, sarcastica o men che meno offensiva nei suoi confronti. Tutto chiarito: direi dunque di non parlarne più. Il teatro interessa anche me. Non ho però seguito l’iniziativa del Valle, e dunque non posso parlarne a ragion veduta. La saluto cordialmente.
Se mi limito a ripetere che “l’uomo è una bestia”, alla Bracardi, il comico della banda Arbore, non ho alcun aumento della conoscenza intorno all’uomo, ai suoi rapporti sociali e così via: ripeto soltanto una mezza verità che è al tempo stesso una mezza falsità. È quanto, con uno schopenhauerismo di maniera, fa uno come Houellebecq. Anche nel suo caso, però, un critico potrebbe recuperare “a sinistra” la sua raffigurazione della realtà in base alla hegeliana astuzia della ragione e a una filosofia della storia di tipo finalistico (se ancora ci fosse). La discussione circa il bene e il male nel romanzo è oziosa, e non solo a causa dell’autonomia dell’arte: lo è diventata almeno dai tempi di Simenon che, con crudezza (e in modo tardobalzacchiano, si potrebbe dire: si pensi alla seriale vastità della sua “opera”), non faceva altro che mostrare quanto l’uomo sia proprio una bestia: cosa che può risultare addirittura consolante sentirsi ripetere.
Che poi autori attivi da giovani alle feste dell’Unità grazie a quel non poco di fideistico che c’era allora, siano oggi profondamente delusi e si diano alla rappresentazione della “bestia”, dipende dalle virtù del romanzo, che permette d’immedesimarsi in vite anche malvage e diverse dalla propria, o non piuttosto da un’impotenza conoscitiva conseguente a una certa disperazione?
Scrive R. Genovese:
“Che poi autori attivi da giovani alle feste dell’Unità grazie a quel non poco di fideistico che c’era allora, siano oggi profondamente delusi e si diano alla rappresentazione della “bestia”, dipende dalle virtù del romanzo, che permette d’immedesimarsi in vite anche malvage e diverse dalla propria, o non piuttosto da un’impotenza conoscitiva conseguente a una certa disperazione?”
E così dicendo indica, naturalmente, il sottotesto di tutta questa conversazione pubblica.
Dopo l’implosione del Blocco di Varsavia e la disgregazione del movimento operaio socialista e comunista in tutto il mondo, è venuta meno nelle coscienze, e dunque sul piano filosofico e culturale, anche la prospettiva politica socialista o comunista, alle varie forme e accezioni della quale aderiva, fino agli anni Settanta dello scorso secolo, la maggior parte dell’intellettualità europea e americana. E’ però importante rilevare che insieme a quella prospettiva è venuta meno, seppur in modo meno aperto e incontestabile, anche la prospettiva politica avversa e complementare, cioè a dire quella liberale e cristiana, la quale vincendo e anzi stravincendo sul piano dell’effettualità si è però snaturata fino a farsi irriconoscibile sul piano della cultura e dell’antropologia: tra il liberalismo nella sua accezione propria e classica e l’attuale, ogni parentela è illegittima; altrettanto vale per la dottrina politica cristiana novecentesca e l’attuale incertezza o deriva politica della Chiesa, in particolare cattolica (un discorso diverso e meno funebre andrebbe fatto per la Chiesa ortodossa).
La disperazione di cui si parla qui è il contraccolpo emotivo e culturale dell’assenza di prospettiva; così come l’identificazione sinistra = bene è un tentativo, a mio avviso fallace, di ripristinare una prospettiva sostituendo alla filosofia della storia marxista un paniere di valori astratti (e contraddetti, per di più, dalla prassi politica reale delle sinistre realmente esistenti, che nelle nazioni occidentali si sono allineate alle politiche ipercapitalistiche, e di questo ipercapitalismo hanno introiettato criteri, linguaggio, valori).
Quando non ci sono prospettive, è più che naturale e giusto disperare, e sono inevitabili i contraccolpi e i danni collaterali della disperazione, tra i quali la superstizione: il disperato non crede a niente, e contemporaneamente è pronto a credere a qualsiasi cosa (la dialettica della disperazione è insuperabilmente descritta da Kierkegaard ne “La malattia mortale”).
Quindi, quando Genovese parla del fideismo “che c’era allora” ha ragione, ma scorda di nominare il fideismo che c’è adesso, che non è meno ma più imponente e si basa su fondamenta molto ma molto più fragili e fallaci.
@Genovese e Buffagni
Le discussioni sul bene e sul male sono spesso oziose – anche se non c’è niente di più ozioso, credo, di un discorso sulla crisi del romanzo, specie poi in una fase in cui di romanzi belli in giro ce ne sono diversi. Bene e male (e destra e sinistra) sono categorie che non ho scelto, ma ereditato dall’articolo di Cortellessa – il quale del resto, questione morale a parte, è ricco di considerazioni testuali sottili e convincenti, e di accertamenti tutt’altro che astratti. Per quanto mi riguarda volevo piuttosto verificare, a partire da Resistere non serve niente, le modalità di funzionamento del romanzo: di come travalichino le categorie politiche e morali in nome di un rapporto alle cose più inclusivo, ambiguo ed elastico, di cui la critica secondo me dovrebbe tener conto. Proprio perché sono dei romanzieri, né Siti né Simenon si limitano a dire che “l’uomo è una bestia”, e chiunque li ha letti lo sa: a parte il taglio caricaturale della formula, questa è solo una parte, la più in vista, di quello che in realtà i loro romanzi ci dicono.
Quanto a conoscenza, fedi e disperazione, per farla breve a mio parere ha ragione (ancora una volta) Buffagni: “la fede in una visione del mondo sconfitta e totalmente impraticabile nell’effettualità storica (…), liberando dalla responsabilità di agire, esortare, influire sulla realtà sociale e politica, aiuta a vederla così com’è, con la lucidità di chi non ci può fare niente (che è anche una delle dimensioni dello sguardo tragico)”.
a Gianluigi Simonetti.
Anzitutto la ringrazio per il consenso. Il suo saggio (che non commento perchè non ho letto il romanzo di Siti) basta a se stesso, ma l’ intervento di Cortellessa, che pur è un innesto di corpo estraneo, mi sembra un caso fortunato, e anche una testimonianza indiretta della vitalità, nonostante tutto, del romanzo come genere.
Del resto, il romanzo è nato come tentativo avventuroso di costruire forma e senso facendo a meno di forme e di metafisiche nelle quali non si può credere più, se non fingendo di abitare un mondo di fantasia in cui ci si ritrova a combattere contro i mulini a vento.
Se ci pensa, “la fede in una visione del mondo sconfitta e totalmente impraticabile nell’effettualità storica” è anche la fede di don Chisciotte, e il lungo periplo del romanzo gradualmente lo ” *libera* dalla responsabilità di agire, esortare, influire sulla realtà sociale e politica, *lo*aiuta a vederla così com’è, con la lucidità di chi non ci può fare niente (che è anche una delle dimensioni dello sguardo tragico)”.
Quindi, “niente di nuovo sotto il sole, principio di una scienza nuova” (Noventa).
@Buffagni
Vorrei capire in che senso il liberalismo attuale non abbia parentele col liberalismo classico.
A me pare che di liberalismo ce ne sia uno solo, e che l’aspetto così negativo che esso assume ai nostri giorni deriva soltanto dal fatto che esso ha vinto, e realizzandosi sempre più compiutamente, mostra il suo vero volto.
Non è difficile capire che in un passato più o meno recente, quando ancora le teorie politiche della destra classica erano in auge, il liberalismo appariva come un mezzo per abbattere le vecchie strutture assolutiste, e ciò suscitava quell’entusiasmo che riversiamo anche soltanto per motivi psicologici a ciò che sembra potere rappresentare la soluzione alle tragedie collegate ai sistemi esistenti.
Chissà, forse potrebbe chiarirmi questo punto.
a Vincenzo Cucinotta.
Laringrazio per l’obiezione pertinente. Sul piano delle essenze ideali, penso che abbia ragione lei, e che l’attuale liberalismo sia il compimento, in forma di rovesciamento, del liberalismo classico. Per come la vedo io, l’acquisizione di verità permanente del liberalismo sono lo stato di diritto e le garanzie giuridiche della libertà individuale. Ma è vero che il formalismo liberale, che appartiene a pieno titolo al liberalismo classico, contiene in nuce l’attuale svuotamento della libertà politica e l’indifferentismo in materia di valori; è del resto una dialettica che previde già Tocqueville. Se devo dire la mia in materia, credo che il liberalismo svolga una funzione positiva quando sia congiunto, magari per opposizione, con valori e costumi che lo “riempiono di contenuto”; ad esempio, quando pur combattendo l’ancien régime, ne condivideva di fatto i valori aristocratici, o quando, pur combattendo il potere temporale della chiesa, era cristiano o per la fede o per la morale. Qualcosa di simile avvenne, credo, quando il liberalismo combatteva il comunismo, e ne introiettava però le preoccupazioni di giustizia sociale.
A me sembra che oggi sarebbe interessante riprendere gli spunti di alcuni pensatori liberali che tentarono di separare, almeno in linea teorica, il liberalismo dal capitalismo.
@Buffagni
Anch’io ho sposato lungamente la tesi, abitualmente frequentata da molti marxiani, che il liberalismo fosse una teoria eleborata per giustificare a posteriori il cpaitalismo già imperante.
Oggi, però, soprattuto dopo aver letto Polanyi, non lo credo più. Mi pare sicuramente più incisivo, parlare di società di mercato per l’attuale sistema politico che non di capitalismo che rischia di confondere ciò che vediamo da appena due secoli a questa parte, con il mercantilismo precedente che ra tutta un’altra faccenda.
EWbbene, dal punto di vista cronologico, è facile vedere una coincidenza che io non considero casuale, tra sorgere della società di mercato ed enunciazione e primi successi del liberalismo.
Si arriverebbe così a capovolger ei rapporti, non è il capitalismo che determina il sorgere del liberalismo, ma è il liberalismo che risulta determinante, anzi riveste proprio il ruolo di causa, della società di mercato che è posteriore.
Mi scuso per il commento sicuramente OT, e specificamente con Buffagni, che spero non si senta obbligato a risdpondermi, è una conversazione che si può chiudere in qualsiasi momento.
a V. Cucinotta
E’ una indicazione di grande interesse. Per la verità, non ne so abbastanza per replicare seriamente, e come lei stesso dice, siamo fuori tema. Immagino che l’argomento venga sviluppato sul suo sito: la leggerò là.
Caro Simonetti,
no, non mi vengono in mente le cose che lei mi scrive. Me ne vengono altre. Lei ha evitato di rispondermi nel merito delle questioni da me poste (in modi provocatori, lo riconosco) e sceglie la via del rimpallo veloce e sprezzante. È vero, siamo distanti e diamo un senso diverso a parole come ‘politica’, ‘letteratura’, ‘Fortini’, ‘vita degli altri’, ‘intellettuali’, ‘problemi sociali’. Ma io accetto il suo sfogo e ribadisco alcune cose:
1. Lei ha scritto in uno dei suoi commenti che si occupa di letteratura, non di politica. Con quest’ultima ha avuto a che fare (pare) in passato ma, colpito dalla miseria di quell’esperienza, oggi mira alla «conoscenza letteraria», che le appare «la più ricca e interessante di tutte»; e sostiene comunque che «questo thread, ad esempio, parla di letteratura, però, a suo modo, anche un poco di politica (anche se non di Monti)».
Ora è proprio questo attestarsi su un «poco di politica», che non vuole nominare Monti (nel senso di giudicarne la politica approvandola o contrastandola) a impedire, secondo me, sia la produzione dei ragionamenti politici che oggi servirebbero sia la letteratura, che in loro assenza, tende a diventare attività consolatoria e astrattamente conoscitiva. Intellettuali che lavorano a livello universitario e formano le “future classi dirigenti” di questo Paese possono non avere «nulla di sensato e specifico da dire in materia [in politica], al di fuori di un dissenso generico, o al limite di un consenso altrettanto generico»? Se è davvero così, è preoccupante. Perché istituzionalmente inseriti a livelli dirigenti nella *polis* e informati meglio e più dei comuni cittadini. Cosa rivela allora questo stazionare stabilmente in una sorta di zona grigia o questo nicodemismo bonaccione? Se, invece, qualche idea precisa se la sono fatta e la dissimulano o la sussurrano solo in privato, la cosa (sempre per me) è ancora più preoccupante.
2. Mi pare di cogliere i danni di questa rimozione/elusione proprio in «questo thread». E sia nella sua posizione “disincantata”, sia in quella “più sofferta” di Cortellessa.
Nella sua: con gli esagerati salamelecchi davanti a «un romanzo veramente bello».
Ammettiamo per un attimo che la bellezza del romanzo di Siti ci sia davvero e che allarghi o rovesci quello che sul mondo lei credeva di sapere prima di averlo letto o offra questa elogiatissima conoscenza «sempre plurale, ambigua e trasversale; inclusiva e non escludente». Le pare possibile praticarla? Con qualche beneficio? Di pochi o di molti?
Il problema sussiste anche se ammettessimo che in questo momento storico la realtà più vasta «venga attinta attraverso il romanzo e non la politica», come lei sostiene.
A me pare che la sua apologia dell’«ambivalenza del romanzo» (o dell’arte, etc.) sia un elogio (politico!) della dissipazione (individualistica) corroborato proprio dalla scelta (implicita) di limitarsi a quel «poco di politica». Da qui la sua idea di una “letteratura-vacanza” e le sue strizzatine d’occhio all’«istinto di lettori» che, afferrato «il bello», poi se lo interpretano «secondo la propria sensibilità (e le proprie fobie)» ( e io aggiungerei i propri portafogli, la possibilità o meno di trovare un lavoro, ecc.).
3.Il danno nella posizione di Cortellessa lo vedo nella sua esibizione “sofferta” (un po’ incontrollata, un po’ recitata) di un conflitto nevrotico tra fascinazione verso il “Male” sitiano e la sua astratta difesa di un “Bene” identificato – e gli è stato giustamente rimproverato – con una altrettanto astratta sinistra ( quella che tale si dice è in sfacelo quanto la sedicente destra). Che, per uscire dai suoi dilemmi, Cortellessa si afferri ad Alfonso Berardinelli, sostenitore che « la critica sociale implicita o esplicita nella letteratura moderna è una critica “di destra”, pecca di utopismo regressivo, è apocalittica e catastrofica, è anarcoide o conservatrice», a me pare quasi comico: come fa un critico divenuto “di destra” o di “ex sinistra” come Berardinelli a tenere a bada un romanziere “di destra” o di “ex sinistra” come Siti?
4. E tuttavia, in questa discussione, malgrado gli annaspamenti, in Cortellessa rispuntano, anche se non lo nomina, proprio qualche «mantra» di Fortini! Riprende, infatti, quelle riserve *intelligenti e politiche* («Riconoscere che l’arte, a dispetto di De Sanctis ed Engels, non necessariamente ci rende migliori, o più felici, o più ideologicamente consapevoli e risoluti»), che una critica militante (oh, che brutta parola!) non può non avere rispetto ai romanzi o all’arte in generale. E ripropone una questione niente affatto risolta: «A cosa serve, l’arte? Se non educa, se non è edificante, se ci rende peggiori (ancorché magari più «veri» – neri e veri), di quale natura è il godimento che essa, implacabilmente, continua a fornirci?».
5. A differenza di Fortini, che delimitava la funzione della poesia o dell’arte («promessa di felicità») e sperava e combatteva per una realizzazione di quella promessa in una prospettiva (comunista), per Cortellessa l’arte è ora soprattutto un pericolo («la letteratura moderna in effetti è pericolosa. Non è quasi mai edificante»).Ci fa godere colpevolmente perché ci porta “a destra”.
6. Manca oggi un punto di vista autonomo che permetta di resistere al “fascinoso” Siti “di destra” (che la realtà sia “di destra” è tutto da dimostrare…) con calma e a ragione (politica) veduta. E permetta però anche di resistere alla attuale sinistra, che nessuna vera politica offre ma solo moralismo e identificazione (astratta e fasulla col Bene). Vogliamo oscillare nevroticamente tra “godimento” e “resistenze” , tra un colpo alla botte e una al cerchio, come fa Cortellessa quando scrive: «Ecco, a me pare invece che si possa anche godere – e forse, con la «letteratura moderna», si debba farlo – mantenendole: le nostre riserve, le nostre contraddizioni, le nostre resistenze»? Vogliamo enfatizzare la funzione della letteratura, farne un surrogato (religioso o *maudit*) della politica (vera) che manca e accontentarci del tozzo stantio di un «poco di politica» come lei implicitamente suggerisce?
7
Concludendo io non l’accuso di intelligenza col Nemico. (Impossibile: lei non ne vede .. .e questo è un bel guaio). Quanto alle mie fastidiose (per lei) citazioni di Fortini non sono così esteta da limitarmi a spulciare nei suoi scritti solo i versi belli. Come vede, di citazioni utili ne trovo a iosa e sempre adatte alla bisogna. Perché Fortini non solo conosceva bene i suoi polli (i «Fratelli Amorevoli» di ieri e i suoi nipotini d’oggi, tutti con la loro brava cattedra o trasmissione radio-TV), ma affrontò le questioni su cui voi un po’ annaspate con maggior rigore estetico, etico e politico. No, non aveva «capito tutto lui». Non mi attribuisca questa sciocchezza. Aveva però capito alcune cose fondamentali sugli intellettuali (italiani e non), che ne hanno sempre troppo presto abbastanza delle “esperienze politiche”, volentieri si adattano ad usare la letteratura (o la poesia o l’arte) come cataplasma; e hanno, sì, un «vivo interesse per la vita degli altri», ma spesso solo estetizzante. Perciò riprendo i suoi testi «come un mantra»: trovo che vanno ancora bene contro i mantra di autoassoluzione e di dissimulazione (onesta?) degli intellettuali “da università” allenati a certi respingimenti.
Ps.
A questo link ( http://moltinpoesia.blogspot.it/2011/02/ennio-abate-da-quali-nemici-e-falsi.html)
trova ragioni più articolate sulla mie “insistenze” fortiniane.
Post e discussione interessantissimi: mi dispiace se arrivo in ritardo e non ho modo di commentare approfonditamente. Mi limito a una cosa. Simonetti e Cortellessa sono in dissenso su vari punti ma concordano, direi, nel ritenere Resistere non serve a niente un grande romanzo. Anch’io in generale considero Sti uno dei migliori scrittori contemporanei, ma su questo libro, no, la penso diversamente. Al di là di ogni discorso sul rapporto tra etica e letteratura, tra arte e impegno ecc.,, questo secondo me è il suo romanzo peggiore: scritto bene, sì, abile, non c’è dubbio, il mestiere c’è sempre; però non basta. E’ superficiale, insieme furbo e fragile, riprende alla svelta anche se con intelligenza i problemi del rapporto tra criminalità e finanza, nel rappresentare mondi diversi dal proprio non si inoltra davvero nella realtà, annega nei cliché: il rampante con l’infanzia difficile, la mamma che si è dovuta affidare ai delinquenti, la soubrette bella e cinica ma in fondo sensibile, la scrittrice tanto frustrata, pure la ragazzina che si sacrifica per il babbo; e insomma. Andando avanti nella lettura lo si nota sempre di più: io nella parte finale non mi sono sentito contagiato o coinvolto, annoiato semmai. C’è un abuso, ma siamo lontani da Stavrogin; niente morale edificante, va bene, ma altro che Dostoevskij. Rappresentare il male, anche aderire al male, è una cosa assai complessa: Siti c’è riuscito in altri libri, in questo ha giocato d’astuzia.
quello che dice qui @scaramouche è piuttosto interessante:
E’ superficiale, insieme furbo e fragile, riprende alla svelta anche se con intelligenza i problemi del rapporto tra criminalità e finanza, nel rappresentare mondi diversi dal proprio non si inoltra davvero nella realtà, annega nei cliché: il rampante con l’infanzia difficile, la mamma che si è dovuta affidare ai delinquenti, la soubrette bella e cinica ma in fondo sensibile, la scrittrice tanto frustrata, pure la ragazzina che si sacrifica per il babbo; e insomma.
anche perché condivide alcune valutazioni negative (@Gerace) che orbitano intorno allo stesso problema di fondo. le tesi del narratore saggista, la macchina retorica che descrive il meccanismo di un mondo “fuori di quadro”, le parti più speculative e da studioso, sono quelle che balzano di più agli occhi e si fissano. ma quando si parla dei personaggi, della loro psicologia o delle dinamiche che intercorrono fra di essi, la reazione è tiepida. e in effetti mi sento di condividere in parte, benché ritenga il libro molto riuscito: alcuni personaggi di “Resistere” non catturano il lettore, sembrano piatti, cliché viventi, come se con il loro agire dovessero dimostrare tesi pregresse dell’autore e risultare lampanti manifestazioni dello spirito dei tempi.
questo può essere funzionale alla maniera di raccontare di Siti, che a volte “totemizza” o sovraccarica di sottotesti letterari o culturali i suoi personaggi (neanche Marcello, o la Catastrofe in “Troppi paradisi” ne sono esenti). non lo so bene, in realtà, anche se ipotizzerei anche una spiegazione meno “narratologica”, pensando per esempio all’oggettiva difficoltà, che è palese in “Resistere”, di rappresentare le donne, nel loro essere madri, amanti, adulte -e non mi pare un caso che la più riuscita sia una preadolescente stuprata, pur nella velocità di tratteggio. da Edith a Gabry alla madre di Tommaso, si avverte un imbarazzo bidimensionalizzante che le rende tutte pericolosamente simili alle maschere di una farsa, cosa che in Tommaso o nel personaggio Siti non si verifica.
questo per dire che, secondo me, il rilievo di immoralità o furberia che viene mosso potrebbe anche essere influenzato dall’impaccio del narratore nel presentare gli attori del suo dramma: se la vicenda è mossa, in parte, da burattini o da personaggi troppo stereotipati, le conseguenze non sono solo estetiche ma etiche, e si riflettono su tutto il romanzo facendolo apparire più furbo e condannabile di quanto non sembri.
@Abate (ma anche @Helena Janeczeck, Scaramouche e Marchese)
Caro Abate, che il suo commento precedente fosse soprattutto provocatorio risultava chiaro, credo, a tutti: come si può seriamente pretendere di dirottare di punto in bianco sull’austerity di Mario Monti un confronto che parte dall’interpretazione morale di un romanzo e, con tutti i suoi limiti, ha preso comunque una piega di teoria letteraria ? Tra parentesi, le stupirà forse sapere che quando abbiamo effettivamente parlato di Monti, ieri, mi sono ritrovato in sintonia con la sostanza di un suo infastidito commento (non con la forma, come al solito inutilmente violenta).
Ma tornando a noi: per l’assurdità della sua pretesa, e anche per il tono poco gentile con cui l’ha formulata, avrei potuto e forse dovuto non rispondere. Tuttavia ho deciso di farlo ugualmente, po’ perché in tutti questi mesi ho imparato a rispettare e a volte a condividere le sue posizioni, un po’ perché mi sembrava che il suo intervento potesse comunque essere integrato con qualche utilità al discorso principale. Vedo ora che si rimette parzialmente in carreggiata, e ne sono lieto, anche se le nostre opinioni restano molto distanti. Credo davvero, per esempio, che “nominare Monti” – cioè nominarlo e basta – sia attività sovranamente inutile. Così come credo che la polis possa fare a meno delle mie opinioni politiche – non perché non ne abbia, ma perché non le trovo sufficientemente meditate e interessanti per il prossimo. E se convengo sul fatto che Fortini (per inciso uno dei miei poeti e saggisti preferiti in assoluto) fosse esteticamente, politicamente e moralmente più rigoroso di me, non per questo ne farei sempre e comunque la misura di tutte le cose: così facendo, tra l’altro, lo si ingessa in un’immagine sacra e si toglie valore alle tante cose buone che ha scritto.
Soprattutto, la avviso, sono refrattario al senso di colpa, e poco portato a colpevolizzare gli altri: non ho nulla da obiettare a chi ama un’arte che non serve alla polis, o a chi eventualmente dovesse disinteressarsi della polis stessa (anche se questo, siamo giusti, non è esattamente il mio caso). E quanto al Nemico, mi considero, forse per la dissipazione individualistica cui lei fa cenno, il principale nemico di me stesso. Gli altri ci sono, ma vengono dopo.
Detto questo, penso che potremmo procedere più speditamente se lei smettesse di perseverare nelle provocazioni, ossia, fondamentalmente, di tirare colpi a vuoto. Lasciamo perdere il concetto di “letteratura come vacanza”, che non so da dove abbia tirato fuori (parlavo di “letteratura come conoscenza specifica”, che è praticamente il contrario); resta il fatto che non ho scritto “salamelecchi” – al punto che condivido alcune delle intelligenti riserve su Resistere espresse ad esempio da Helena Janeczek e adesso da Scaramouche e Marchese. Però per trovare esagerati gli apprezzamenti a Siti (in realtà, discorsi critici), o per negare tout court l’importanza e il valore del suo romanzo bisognerebbe perlomeno averlo letto, cosa che lei palesemente non ha fatto. Il che rischia di far somigliare il suo intero discorso – il suo, non il mio – a un gigantesco, fuorviante ed impotente sfogo.
@ Simonetti
1.
“Credo davvero, per esempio, che “nominare Monti” – cioè nominarlo e basta – sia attività sovranamente inutile.” (Simonetti)
Veramente ho scritto:
“Ora è proprio questo attestarsi su un «poco di politica», che non vuole nominare Monti (nel senso di giudicarne la politica approvandola o contrastandola) a impedire, secondo me, sia la produzione dei ragionamenti politici che oggi servirebbero sia la letteratura, che in loro assenza, tende a diventare attività consolatoria e astrattamente conoscitiva.”
2.
“Lasciamo perdere il concetto di “letteratura come vacanza”, che non so da dove abbia tirato fuori (parlavo di “letteratura come conoscenza specifica”, che è praticamente il contrario)”.
L’avrò un po’ tirato, ma da qui:
“Questo uscire da se stessi per entrare nella testa di un altro e diventare un po’ come lui potrà dar fastidio e anche far sentire in colpa – però è certo istruttivo, oltre che, per una parte più o meno nascosta di noi stessi, estremamente divertente: la letteratura è anche una vacanza che ci prendiamo dal nostro avere un’opinione su tutto, per consegnarci ad idee che nella cosiddetta realtà non hanno corso o che comunque non saremmo disposti a sottoscrivere” (Gianluigi Simonetti
16 ottobre 2012 alle 11:36)
A prossimi incontri… spero in carreggiata.
@ Simonetti
AGGIUNTA AL VOLO
“Nella logica di Monti, si continuerà ad aumentare l’IVA, l’IMU/ICI, le altre imposte e tasse, a ridurre le pensioni, gli stipendi, ecc… ma tutto questo farà ulteriormente diminuire la domanda (i consumatori disporranno di sempre meno soldi da spendere) e per conseguenza le imprese reagiranno riducendo l’offerta, ossia licenziando e spostando all’estero i propri stabilimenti (almeno le grandi imprese; mentre le piccole chiuderanno).
Monti è stato chiamato a diminuire il debito pubblico e a far ripartire l’economia italiana, ma i dati ufficiali indicano esattamente il contrario.”
(Dal “Il Supplemento al Bollettino Statistico “Finanza pubblica, fabbisogno e debito” n. 52 del 15/10/2012, pubblicato dalla Banca d’Italia” citato da (ex)stan
22 ottobre 2012 alle 15:24 nel post VOLGARITA’ DI MARIO MONTI)
Il che potrebbe spiegare anche perché gente come me non legge o non leggerà il romanzo di Siti. E per questo non dovrebbe metter becco nella discussione di questo post?
SGUBBB!!!! Strano che nessuno lo ricordi: la polemica su Siti di Destra si era già svolta nel 2006, causa un violento attacco di Franco Cordelli e Enzo de Mauro, a proposito di Troppi paradisi. Il paziente Siti, che risulta pur sempre un socio primario di questo club, rispose così:
” A Franco Cordelli e a Enzo Di Mauro ripugna essere apparentati al protagonista del mio libro; niente di più legittimo. Sotto le categorie negative di “narcisismo, esibizionismo, autoelezione e prepotenza” raccolgono una pattuglia eterogenea di scrittori che va da me ad Antonio Moresco, a Tiziano Scarpa, a Michel Houellebecq e a Bret Easton Ellis, fino al pochissimo autobiografico Alessandro Baricco. E aggiungono che quelle categorie negative “nei termini della vecchia politica sarebbero considerate di destra”.
Ovviamente non voglio parlare del mio libro, che verrà giudicato, spero, per la sua scrittura. Ma vorrei provare a riflettere su che cosa sia “di destra” o “di sinistra” in letteratura. Troppo facile rispondere che, riferite alla letteratura, le due categorie non hanno senso; esiste una responsabilità della letteratura di fronte al mondo, e allora parliamo di quella. E riparto da un’altra accusa che Cordelli e Di Mauro rivolgono al mio libro, di “assumere il reality-show a punto di vista strutturale del romanzo”: credo che abbiano ragione, è così. Credo che oggi il romanziere si trovi in una posizione molto simile a quella di un concorrente di reality-show; da una parte deve realizzare una forma, un testo per qualcuno che guarda, o legge – dall’altra per farlo non ha a disposizione che se stesso, il se stesso privo di forma che insiste a pretendersi autentico pur proiettandosi in una fiction. Rischia ad ogni momento di perdere se stesso, la propria ‘faccia’, di fronte a familiari, amici o pubblico, e l’unico contrappeso a questo rischio è la speranza di successo (che sia il montepremi finale o l’applauso della critica).
Ma a Cordelli e Di Mauro, ci scommetto, i drammi dei concorrenti di reality sembrano volgari. E’ giusto chiedere agli scrittori contemporanei di non essere “scimmie del consenso e dell’adattamento” e di rivolgere il loro mirino verso i mostri veri, gli uomini di potere che “sanno tenere la lingua a posto”. Ma è anche vero che non esiste soltanto la politica “visibile”, quella del parlamento, delle lobbies o dei potentati economici. Esistono mutazioni più sotterranee, che non si vedono ma che cambiano la testa delle persone, le loro abitudini percettive, la gerarchia dei loro desideri. Se leggiamo nell’ultimo romanzo di Houellebecq, La possibilità di un’isola, la descrizione di un’orgia desolata, o se in Lunar Park di Easton Ellis seguiamo il trasformarsi in horror di un rapporto figlio-padre, bisogna essere sordi per non sentire quanto tutti noi siamo mutati; quanto l’atrofia sentimentale ci abbia colpiti e quanto le vecchie categorie psicologiche comincino a non funzionare più.
Ma noi chi ? domandano giustamente Cordelli e Di Mauro. Il protagonista di Lunar Park si chiama Bret Easton Ellis, come l’autore del romanzo; non credo sarebbe stato difficile per Ellis (come non lo sarebbe stato per me) dare al suo protagonista un nome fittizio, ed evitare molti sospetti di esibizionismo e di solleticamento del pubblico; se non lo ha fatto, credo sia stato per una scelta di epistemologia, prima ancora che di poetica. Le mutazioni che i romanzieri si trovano a dover raccontare oggi, hanno mutato dall’interno i romanzieri stessi. L’io che usano è un povero io cavo, svuotato dai parassiti, un io come una provetta per esperimenti – una specie di robot, o di clone, da spedire in avanscoperta dove il terreno è contaminato. Quindi, per forza, noi. Noi che non conosciamo più mediazioni, noi che abbiamo troppa fretta di essere felici, noi che ci stiamo disabituando alla cultura raffinata e siamo tornati verso un analfabetismo emozionale, noi che riduciamo il desiderio ad immagine e confondiamo la felicità col possedere, noi che ci curiamo la depressione con lo shopping, noi che siamo ossessionati dal sesso come da una delle poche residue vie forti di comunicazione, eccetera. Siamo tanti, siamo la maggioranza, distribuiti in tutte le classi sociali. Certo alcuni, per privilegio di cultura o di coscienza, possono chiamarsi fuori, dire “noi non siamo così”; buon per loro; ma restare illesi di fronte ai mutamenti (diciamo pure ai peggioramenti) del mondo non è mai stata una buona ricetta per i romanzieri. Ci sono due modi per far finta di niente: o scrivere belle storie che avrebbero potuto essere scritte, tali e quali, trent’anni fa, o congelarsi in scritture stitiche, cerebrali, in cui il mondo è visto attraverso una lente antisettica. Ma se senti l’emergenza, non hai altra scelta che buttarti avanti, magari anche esibendoti, agitandoti forse troppo in posture autolesionistiche; ma non puoi allontanarti da dove sai che c’è la ferita perché ogni altra soluzione ti sembra indecente. Devi utilizzare, come scrivono Cordelli e Di Mauro con bella locuzione, “la tua miseria come architrave della costruzione romanzesca”. Ma una volta la sinistra non doveva occuparsi della maggioranza delle persone? Non doveva prima di tutto capirle e poi addirittura amarle, e condividere il loro destino?
Grazie a L. Massino per aver riportato questa apologia pro domo sua di Siti, autore che conosco poco e che con queste dichiarazioni mi diventa immediatamente molto simpatico.
@Abate
1. Mi spiace, ma su Monti almeno per il momento non mi viene in mente nulla – un po’ come a Kraus con Hitler (si parva licet). Se vuole parlarne lei, faccia pure, ci mancherebbe.
2. Io dico che “la letteratura è anche una vacanza che ci prendiamo dal nostro avere un’opinione su tutto, per consegnarci ad idee che nella cosiddetta realtà non hanno corso o che comunque non saremmo disposti a sottoscrivere”. Lei mi fa dire che la letteratura è “come una vacanza”. Le sembra la stessa cosa? A me no. In comune c’è solo il concetto che la (buona) letteratura sia anche un piacere e una boccata d’ossigeno – non solo una promessa di felicità (formula che in Stendhal come in Adorno, e poi in Fortini, è solo un altro modo per dire: ambivalenza), ma anche una felicità vera e propria. E in effetti per me è così.
@Massino
Documento interessante e pertinente, grazie per averlo postato – però mi pare che i termini della questione non siano esattamente gli stessi. E l’approccio di Cortellessa è più problematico, meno reciso.
Anche se la discussione di questo post si è in pratica esaurita, ho riflettuto sulla risposta di Walter Siti a Cordelli e Di Mauro, che Massino ha voluto “ricordare”. E aggiungo in coda, senza alcuna pretesa di ricominciare, queste mie note.
Temo sia proprio il pesante crollo di cultura politica in Italia a indurre anche in campo letterario una difesa ormai acritica dell’«ambivalenza della letteratura» e un’esaltazione troppo consolatoria della (buona) letteratura.
So, dicendo questo, di apparire uno che schiaccia la letteratura con la politica. E proprio in un momento in cui la politica non ha nessuna attrattiva né per i letterati né per la gente comune.
Non è però nelle mie intenzioni sminuire la specificità e la qualità di conoscenza del mondo che un romanzo, una poesia, un saggio letterario possono apportare, ma denunciare piuttosto quanto la odierna depoliticizzazione (l’assenza di rigore nei ragionamenti politici o, peggio, la riduzione di essi al moralismo imperante o all’immoralismo, che per reazione vanamente vi si contrappone) danneggi la potenza conoscitiva della stessa letteratura.
Mi pare di vederne le prove nei modi in cui Siti, nel pezzo riportato da Massino, difende la «responsabilità della letteratura di fronte al mondo».
Lo fa:
1. tenendo fuori dal suo discorso «la politica “visibile”, quella del parlamento, delle lobbies o dei potentati economici »;
2. puntando il riflettore sulle «mutazioni sotterranee, che non si vedono ma che cambiano la testa delle persone le loro abitudini percettive, la gerarchia dei loro desideri»;
3. rimproverando di sordità verso il mutamento i suoi critici;
4. affidando a un “povero io” di audaci romanzieri il compito di conoscenza che la politica (di sinistra in particolare) una volta svolgeva ed ora non più;
5. contrapponendo tale “io”, che pare fondersi e confondersi con un “noi” maggioranza (incapace di mediazioni, a caccia di felicità “usa e getta”, disabituato alla cultura, analfabeta in campo emotivo, possessivo, depresso, ossessionato dal sesso, ecc.), ad «alcuni», che «per privilegio di cultura o di coscienza, possono chiamarsi fuori, dire “noi non siamo così”».
Questa difesa della responsabilità della letteratura mi pare fiacca. Per le seguenti ragioni:
1. Siti non si chiede più che relazione esiste tra la «politica “visibile”» (ed io aggiungerei: invisibile) e le mutazioni più sotterranee che gli interessano o lo appassionano di più. Come se la relazione non ci fosse mai stata o non ci fosse più. È saltata? È stata abolita? Il potere delle lobbies e dei potentati (e non solo economici) non influisce forse più su quelle «mutazioni sotterranee», non le controlla, sollecita, dirige per nulla? Avverrebbero in piena autonomia o solo caoticamente? O addirittura “naturalmente”?
2. Siti sembra non cogliere più le differenze interne a queste mutazioni più sotterranee. (Almeno in questo testo non ne parla, ma concedo che possa aver trattato la questione in modo diverso e più approfondito altrove, per cui questa mia obiezione potrebbe cadere). Tende, invece ad ammucchiare in un generico “noi” le varie forme in cui queste mutazioni sotterranee si manifestano. (E questa visione a me pare un tributo passivo alla altrettanto generica «mutazione antropologica» pasoliniana). Forse le mutazioni in corso avvengono ancora diversamente nelle varie classi sociali (che scomparse non sono, anche se, dinamiche una volta, oggi risultano statiche a chi le studia). Forse la politica, pur “cattiva”, miope, emergenziale, appiattita sui tempi brevi, “tecnica”, opera lo stesso e danneggia alcuni, avvantaggiando altri, rimaneggiando anche le varie classi sociali ( i *rapporti sociali” si diceva una volta). Forse le mutazioni che vivono un operaio, un disoccupato, un giovane che si droga nei quartieri di periferia sono diverse da quelle del ricco figlio d’industriale che pure si droga. Etc.
3. Sì, «tutti noi siamo mutati». Eppure sussistono differenze materiali e culturali notevoli, anche quando tutti inseguissimo gli stessi miti (denaro, sesso, potere) e vivessimo attorniati dal medesimo immaginario. Credo perciò che ci sia una sostanziale differenza tra chi si chiama fuori dal mutamento (o lo accoglie) per dimostrare a sé e agli altri di essere superiore, furbo, vitale, aggressivo e chi si chiama fuori dal mutamento (o lo accoglie) per mettersi nelle condizioni di combattere il ribaltamento in corso dei *rapporti sociali* che va – questo pare evidente – a vantaggio di pochi e a svantaggio dei molti, e rispondere (anche senza saperlo) alla brechtiana «tentazione del bene».
4. Non so quanto la documentazione di Siti sui fenomeni sociali coincida con la mia, ma resto convinto che siamo in molti a potere – a ragione e non ipocritamente – chiamarci fuori e a non essere appiattiti sui personaggi dei suoi romanzi. Tutti siamo attraversati da passioni oscure. Il nostro inconscio non è migliore di quello di assassini e stupratori. Eppure non tutti assassiniamo o stupriamo o rubiamo o tradiamo. La differenza non è irrilevante. I romanzieri interroghino (anche rudemente) la coscienza e l’inconscio dei lettori, inventino personaggi-simbolo (di parti del loro inconscio più perturbante), ma i lettori ( e i non lettori, perché esistono anch’essi) non sono mai riducibili ai personaggi di un romanzo. La realtà resta più complicata. I suoi mutamenti non sono tutti a senso unico. L’atrofia sentimentale neppure. Una poesia, un romanzo, un saggio la possono illuminare, ma possono anche fissarla in un’immagine provvisoria e falsante. (Se poici si mettono i mass media…).
5. Ancora ci sono, dunque, nella realtà modi positivi e modi negativi di chiamarsi fuori (atto del resto legittimo, propedeutico direi a qualsiasi conoscenza). E ci sono ancora modi diversi e spesso contrapposti di reagire di fronte alla «ferita» (o alla «vita offesa»): puoi «allontanarti da dove sai che c’è la ferita» e puoi – da solo o con altri – cercare di conoscere meglio le cause della ferita, indicare le responsabilità storiche e non naturali di essa, non limitarti alla mera descrizione della ferita. E ad «allontanarti da dove sai che c’è la ferita» possono servire – ahimè! – anche la letteratura o i romanzi, che possono fare dell’«ambivalenza della letteratura» un feticcio (e non un’opportunità in più di tirarti fuori dal mero scorrere vitale e sociale). Oppure esibire spesso con compiacimento «la ferita» – individuale e sociale – o la “bestia”. O fermarsi lì. O sotto sotto vogliono scandalizzare e basta. O magari anche dimostrare la vanità o la stupidità di quanti vogliono ancora curare «la ferita».
6. Anche da romanziere però mi potrei chiedere: ma non era così anche prima di oggi? Non c’è stata sempre (incolmata!) una differenza, una distanza, una separazione tra un’élite e le masse o popolo o plebe o tribù? E questa differenza, distanza, separazione, Siti ed altri non pensavano che era inaccettabile e dovesse saltare? La sua esistenza non era diventata faticosamente oggetto di critica? E queste critiche non hanno fatto da pungolo nei secoli per la costruzione di teorie e pratiche politiche di vario tipo: evangeliche, francescane, populistiche, avanguardiste, che tutte, in vari modi, volevano appunto rimediare a un danno, a una ferita, a un’offesa, a una limitazione dell’esperienza?
7. Certo, oggi non è più così. Non c’è nessuna sinistra né alcuna forza politica a cui chiedere di «occuparsi della maggioranza delle persone» o di «capirle e poi addirittura amarle, e condividere il loro destino» (ammesso che questa sia una via praticabile e corretta per affrontare il che fare di fronte alla «ferita»). Ma un letterato, un romanziere, può porre la questione della «responsabilità della letteratura» sottovalutando che egli fa parte organica di una élite che gode di « privilegio di cultura e di coscienza»? Può ancora oggi pretendere – proprio come capitò a Pasolini – di avere da solo, come romanziere, il suo “povero io” sintonizzato con la “maggioranza”? A me una tale pretesa, se non falsa, appare almeno parziale. Siti (ma non mi riferisco solo a lui) ha avuto (ed ha) ancora i privilegi di cultura e di coscienza dell’élite (o almeno una buona “rendita di posizione”). Appartiene cioè ancora alla cerchia di quegli «alcuni» da cui prende le distanze. E ripete – credo – l’”errore” di Pasolini: come quello fingeva di farsi popolo, così lui finge di farsi personaggio da reality-show. (Valgono per lui le critiche che Fortini – e dalli! – rivolgeva a Pasolini ricordandogli Pavese: «Ma non ci si fa popolo: o lo si é o non lo si è»).
8. Finzione utile la letteratura, il romanzo? In parte sì, direi. Specie se i rischi di questa finzione venissero tenuti sotto controllo da una salda visione del rapporto esistente tra politica e mutazioni sotterranee. (È questo che oggi manca, e la discussione del post per me l’ha confermato…). No, i rischi del romanziere non sono solo quelli che Siti indica («Rischia ad ogni momento di perdere se stesso, la propria ‘faccia’, di fronte a familiari, amici o pubblico, e l’unico contrappeso a questo rischio è la speranza di successo (che sia il montepremi finale o l’applauso della critica»). Il rischio più grosso è la sua falsa coscienza di romanziere. Il suo io sarà anche mutato, come il mio e quello di tanti altri, ma perché – per delusione politica o altro – deve identificarsi con un noi immaginario (americanizzato) contro gli «alcuni»? Così scegliendo, a me pare che Siti rinunci a un’altra forma di «responsabilità della letteratura»: quella di stare con gli «alcuni» che vogliono combattere la sottomissione dei molti ai potenti e contrastare le «mutazioni sotterranee» (indotte e spontanee) presentate ormai come naturali e inevitabili.
Cerco di replicare a Ennio Abate. Le questione che solleva essendo immensa, farò così: ometterò tutto quello che so e che non so in materia di teoria della letteratura, estetica, etc., e liofilizzerò in una replica minima ma sincera le mie persuasioni più che altro sentimentali in proposito.
A) L’idea che l’arte, la cultura e la vita umana trovino la loro spiegazione e motivazione primaria nel rapporto con la politica (di solito in vista di una rivoluzione comunista) mi è sempre sembrata un errore, una esagerazione, a volte un vero e proprio squilibrio spirituale o mentale. Però, a volte un errore o una follia, pur non potendo dire la verità al 100%, dicono una mezza verità o una verità e mezzo (Kraus) mentre una equilibrata valutazione la verità la soffoca col rumore di fondo. Per esempio, Franco Fortini, che Abate tiene per maestro e che io ho sempre ammirato senza condividere uno iota delle sue idee politiche e palingenetiche, a volte dava veramente l’idea di essere un pazzoide monomaniaco sullo stile dei Testimoni di Geova, ma essendo concentrato come un laser su una prospettiva assolutistica e paramistica, in certi casi riusciva a scorgere nessi e verità che restavano e restano ignoti a più posati commentatori. Ritiro fuori l’orbo veggente? Fuochino.
B) L’intervento/apologia di Siti in dialogo con Cordelli e Di Mauro riportato qui da L. Massino me lo ha reso subito molto simpatico (conosco poco il suo lavoro, niente la sua persona pubblica). Perchè? Perchè dichiara di voler parlare (scrivere) dalla posizione di uno che, a conti fatti, non è diverso dagli sfigati da reality show. Presa così, a prima vista, è una balla. Siti è un romanziere, un docente universitario, ha fatto il militare a Cuneo, etc. Però si tratta di vedere se la balla di Siti è un’impostura (Siti si dichiara sfigato per spiazzarsi nel reame irrazional-infantiloide delle Vispe Terese scorrazzanti oltre il G. R. A., e così fregare gli interlocutori che lo richiamano alle sue responsabilità letterario-etico-politiche, adulte, con residenza in ZTL e tessera PD) o se è una verità e mezzo (Siti sa/sente che le fondamenta del mondo nel quale è diventato il Siti romanziere e docente sono tragicomicamente implose, che la sua romanzierità e docentità sono diventate una facciata tipo villaggio Potemkin, e si dice “Caspita, se gratto la vernice sono come quegli sfigati lì, dunque se voglio parlare con voce autentica il tono, se non il lessico, la melodia, se non l’armonia, dev’essere quella che loro riconoscono al volo”). Da come lo dice, senza spocchia e senza gesticolazioni pasolinesche, mi è sembrato che la balla di Siti fosse una verità e mezzo. Di qui la mia viva simpatia. Ritiro fuori il pastore errante, l’Asia, il che fai tu luna in ciel? Fuochino.
C) Mi ha colpito la frase degli interlocutori di Siti: “la tua miseria come architrave della costruzione romanzesca”. Nella loro intenzione è un rimprovero, ma se Siti ci riesce sul serio, buon per lui e per noi. Che altro ha fatto Proust?
Sono curiosa di leggere le storie di Siti: per parte mia credo ( e spero ) che tra le parole dei libri ci sia anche qualche residuo di ossigeno, per respirare, oltre il soffocamento prodotto del già visto, già sentito.Non di solo realismo vive la donna
Caro Buffagni,
tra Simonetti che mi accusa di sacralizzare Fortini perché lo cito spesso e lei che mi dipinge discepolo di un mattacchione mi sento come tra l’incudine e il martello.
Me la caverei con un invito: Sapere aude.
Per correggere la sua immagine anamorfica e pop-horror di Fortini, infatti, basterebbe leggersi alcuni suoi scritti. Potremmi leggerli e discuterli anche assieme, se lei è disponibile. Magari sotto lo sguardo benevolo di Noventa, che so da lei stimatissimo e qualche traffico col Fortini (giovane) lo ebbe.
Potrebbe poi approfittare del lavoro ormai ultimato del CANTIERE DI POLISCRITTURE 2012: SU FRANCO FORTINI (http://www.poliscritture.it/index.php?option=com_content&view=category&layout=blog&id=18&Itemid=23) per capire come mai io ed altri ancora oggi non vediamo in Fortini nessun «orbo veggente» di un comunismo addirittura palingenetico.
Fortini fu assolutamente impermeabile alla costruzione (stalinista) dell’ ”uomo nuovo” e i suoi inviti a «tornare ad un’altra pazienza/ alla feroce scienza degli oggetti alla coerenza / nei dilemmi che abbiamo creduto oltrepassare» mi paiono quanto mai realistici e attuali.
Ci dev’essere, dunque, qualcosa che non funziona nelle lenti che lei usa. O una distorsione causata della distanza (culturale) che al momento esiste tra il suo occhio e l’oggetto-Fortini. (Comunque, m’incuriosisce capire cosa sia riuscito ad ammirare di lui « senza condividere uno iota delle sue idee politiche e palingenetiche»).
Quanto al mio intervento sul testo di Siti, avevo tentato proprio di evitare il rischio di far pensare che volessi la letteratura *ancilla* della politica. Perché (fortinianamente) condivido che essa possa essere mezzo di conoscenza non riducibile agli altri saperi (scientifici ad es.). E la mia critica a Siti mi pare chiarissima. È riassunta in questa frase: « la odierna depoliticizzazione (l’assenza di rigore nei ragionamenti politici o, peggio, la riduzione di essi al moralismo imperante o all’immoralismo, che per reazione vanamente vi si contrappone) danneggi [a] la potenza conoscitiva della stessa letteratura».(Che, aggiungerei, autonomamente è capace di una sua *politicità* niente affatto subordinata alla Politica).
Infine, proprio quello che lei sembra trovare simpatico in Siti – presentarsi non «diverso dagli sfigati da reality show» – a me pare solo falsa coscienza; ed è difficile che da lì si arrivi ai risultati di Proust.
Insomma, perché non prendere due piccioni con una fava e, evitando di apprezzare sia Fortini che Siti come “orbi veggenti”, non partire dai risultati accertati e consapevoli da essi raggiunti?
Caro Abate,
le rispondo. Però, prima la prego di tenere presente che questa risposta, come il mio precedente intervento, è scritta in un tono di bonaria ironia, e che non deve dunque prendere alla lettera tutte le parole che scrivo. Come ho dichiarato nell’intervento precedente, la bonaria ironia che uso e che ho usato ha una sola ragione: che la questione da lei sollevata è immensa, e ammesso e non concesso che io sia in grado di replicarle, non posso farlo qui perchè dovrei studiare almeno un mese e scrivere almeno venti pagine.
Ecco dunque la risposta.
Ammiravo e ammiro Fortini, e da lui ho imparato molto non solo in questioni di letteratura ma anche di politica e di vita, nonostante egli fosse un comunista, mentre io non lo ero e non lo sono, e anzi avversavo il comunismo e se oggi non lo avverso più è solo perchè non è rimasto niente da avversare. L’impressionante concentrazione e tensione del desiderio e della volontà con la quale Fortini credeva al comunismo e per la sua realizzazione operava era della stessa natura e ordine di quella di Kierkegaard per il cristianesimo. Entrambi possono apparire e in effetti sono, a volte, monomaniaci e fissati come Testimoni di Geova. Io al cristianesimo credo, al comunismo no: però ammiro Fortini e Kierkegaard, da entrambi imparo, con entrambi sono in debito. Non è solo l’ammirazione tecnica di uno spettatore per il bel gioco di due tennisti (puoi tenere per uno contro l’altro, ma applaudi entrambi). E’ che Fortini e Kierkegaard, usando diversi linguaggi e guardando diverse prospettive, parlano entrambi della stessa cosa, una cosa che interessa molto anche me e che interessava molto anche il Noventa maestro di Fortini (e si parva licet, mio), il quale oltre a saper bene che “il cuore del ribelle è per metà di Dio”, sapeva anche che l’oggetto di una fede (religiosa, politica) è meno importante della sua forma cioè del modo in cui la pensi e la vivi.
Vengo al resto. No, l’accecamento politico corrente non fa bene alla letteratura (non fa bene a niente e a nessuno tranne i manovratori che così non vengono disturbati); e non ho mai pensato che lei volesse proporre un revival del realismo socialista.
E se quello che io trovo simpatico in Siti – presentarsi non diverso dagli sfigati da reality show – è “solo falsa coscienza” come pare a lei, la ragione è dalla sua.
Non lo so, chi ha ragione. Nell’apologia di Siti m’è parso di udire un accento sincero. Mi sbaglio? Forse sì, forse no. Se mi sbaglio ha ragione lei. Se ho ragione io (e per saperlo dovrei lungamente studiare l’opera di Siti) allora può darsi, e ripeto può darsi, che Siti stia facendo o abbia desiderio e intenzione di fare una cosa che di tanto in tanto qualche letterato (come Leopardi o Proust) o non letterato (come Lenin o De Gaulle) fa, quando vien meno il mondo in cui credeva e operava: “farsi pastore”, rinunciare a tutto quel che credeva di sapere e di essere e rifare daccapo, rivolgendosi alla luna che naturalmente non risponde, tutte le domande sciocche che dopo i quindici anni non è più buona educazione fare.
E siccome nel corso dell’operazione ritorno alla pastorizia (che nel linguaggio religioso si chiama “conversione”) è inevitabile incontrare per prima “la propria miseria”, ecco l’augurio a Siti che di questa miseria possa fare “l’architrave del suo romanzo”.
A Nives.
Grazie per la segnalazione della lettera di Roberto Gerace a Sergio Baratto, è molto bella.
P.S. neanche l’uomo.
@Roberto Buffagni: se la lettera è spuntata qui è responsabilità mia, che nella mia scarsa dimestichezza non sapevo che bastasse inserire il link di questa pagina perché essa vi figurasse fra i commenti. Mi fa piacere, comunque, che le sia piaciuta.
Saluti cordiali,
RG
a Roberto Gerace.
Non sono molto pratico neanche io. Ho soltanto seguito il link. In ogni caso, la lettera non è poi così fuori tema, le pare? Cordiali saluti, e auguri per i suoi studi.
@Roberto Buffagni: non lo è, ma sono già intervenuto in questa sede e, come spesso accade, sono stato ignorato. Non c’era motivo di insistere.
Ringraziandola degli auguri, la saluto cordialmente.
Roberto Gerace
a Roberto Gerace.
Penso che lei sia stato ignorato perchè il suo intervento era uno dei pochi in tema, visto che contestava il paragone tra Leopardi e Siti, e si diffondeva su “Resistere non serve a niente”.
E’ paradossale, ma è così, e temo anche di averne una parte di colpa anch’io, che senza aver letto il romanzo di Siti e conoscendo in generale poco la sua opera, ho fatto capolino perchè stupito dell’equazione sinistra = bene, e ho poi dato la stura a un’alluvione di pro, contro, ma, forse, eccetera.
Me ne scuso con lei e gli altri che avrebbero preferito parlare di libri e basta (dimostrando forse più buon senso). Che ci vuol fare, è andata così. Però magari adesso che l’alluvione è finita, chi come lei ha qualcosa di interessante da dire su “Resistere non serve a niente” potrebbe ricominciare daccapo.
@Roberto Buffagni: non si preoccupi di scusarsi, non è certo colpa sua. E poi non è stato un male, anche a me piacciono le discussioni che deragliano. A volte, anzi, stanno a segnalare un bisogno o un disagio degli interlocutori, che sono parimenti interessanti di per sé. Per il resto, che dire?, l’educazione, uno non se la può dare (forse).
Quanto alla proposta che fa, io ho già dato, ma non posso che far coro speranzosamente.
Ancora cordiali saluti,
RG
forse può dare una luce ulteriore alla discussione. non condivido proprio tutto di una prolusione tanto, come dire, ambiziosa e lucida, ma meglio così, in genere si è completamente d’accordo solo con i dogmi e le stupidaggini divertenti.
http://www.nobelprize.org/mediaplayer/index.php?id=1868
qui il testo italiano:
http://www.minimaetmoralia.it/wp/nobel-lecture-mo-yan/
Ho letto il libro, l’ho concluso pochi giorni fa, l’ho trovato non moralmente recriminabile – tutt’al più è amorale come ci si augura sia qualsiasi opera di letteratura che non voglia togliere ai suoi eventuali lettori il piacere di schierarsi dove vogliono senza imbeccate preventive (imbeccate che, ok, ci saranno comunque, ma è il limite umano, non poter essere perfettamente ubiqui) – ma formalmente incompleto e quindi esteticamente brutto.
Il romanzo non c’è, soffocato sul nascere dalle sue intenzioni. I personaggi non ci sono: appaiono, dicono, parlano come se si trovassero sempre o davanti a un confessionale o davanti a un burrone, insomma tutti che espiano spudoratamente cinici quindi amareggiati come per aver rinunciato a una conversione rifiutata ma sempre tenuta presente: sembrano una sequela di adolescenti che vogliono essere sgridati mentre si sculacciano l’un l’altro, nessuno che dica una bugia, e quando scopano sembra che la cosa che facciano immediatamente dopo non sia neanche più fumarsi una sigaretta, aprono direttamente il taccuino per tenerci gli appunti: eravamo in tot persone: io l’ho messo qui per tot volte poi lei l’ha infilata lì per tot secondi; oggi ho dimenticato il misurino dello sperma. Costo complessivo: tot.
E non vale dire: è la sessualità al tempo del mercato!, sono tutti controfigure di se stessi!; perché queste sarebbero pezze d’appoggio extra-testuali.
Altrimenti, si può dire che il romanzo è giusto il canovaccio di quel che avrebbe potuto essere o ciascuno si diverte come vuole a leggerci quello che non c’è mai stato scritto.
Il tentativo di ricostruzione del sistema endemicamente criminoso è più descritto che rivelato: se ne vede solo il lato a giorno, niente che un finanziere non sappia fino alla noia; il suo meccanismo è raccontato con una razionalità inumana: ma in questo caso con “inumana” non intendo un grado di disumanizzazione, ma di inautenticità. In pratica, sembra si cerchi di discendere da una teoria a una narrazione, piuttosto che fare la strada inversa, ovvero la strada della letteratura.
La storia, seppure tagliata a segmenti irregolari, segue una ordinata linea cronologica ch’è poi l’unico riferimento che dia coerenza (“coerenza” non perché altrimenti-non-si-capisce, infatti si capisce benissimo; coesione come risultato organico che dia un senso al fatto che il libro sia scritto in questo modo e non in qualsiasi altro). Per il resto è una raccolta di episodi che “servono”(intenso nella maniera più utilitaristica) a dare un’idea della evoluzione-della-storia che è di una rigidità deterministica avvilente: più che leggere un romanzo sembra di vedere il libro che viene montanto lungo una catena di montaggio.
La storia di Tommaso – e di: Morgan?? – si potrebbe raccontare in decine di altri modi, di fondo sarebbe la stessa: la forma non ha generato la sua sostanza o viceversa. Quanto al linguaggio: lo sforzo maggiore sembra sia stato quello di infilarci nelle pagine del romanzo tutte le parole a disposizione nel Sole24Ore, piuttosto che tentare una lingua ponte, e una lingua ibrido, o una lingua-del-romanzo punto.
Con questo non intendo affatto svalutare l’importanza e certamente la bellezza e anche il coraggio del libro di Siti, ma se questo è “il libro più bello dell’anno”, di certo per la letteratura italiana non deve essere stato un anno memorabile.
I miei saluti,
Antonio Coda