di Emanuele Zinato

Negli ultimi due decenni in Italia ha governato il partito delle libertà mentre, tra i più letti all’opposizione, spicca un giornale che fu l’alfiere della modernizzazione ai tempi di Craxi e che molti oggi dicono “comunista”:  La Repubblica. Non vi è dubbio, allora, che si rendano indispensabili delle verifiche dei nomi, mediante il cortocircuito tra passato e presente.

Scriveva nel 1936 Simone Weil, la straordinaria autrice de La Condition ouvrière, durante la guerra di Spagna:

Oggi darò uno shock a molti bravi compagni. So che provocherò scandalo. Ma quando si fa appello alla libertà, si deve avere il coraggio di dire ciò che si pensa, anche se così non si fa piacere a nessuno. Tutti noi seguiamo giorno per giorno, col fiato sospeso, la lotta che si svolge al di là dei Pirenei. Cerchiamo di recare aiuto alla nostra parte. Ma ciò non ci assolve dal dovere di trarre insegnamenti da un’esperienza che tanti operai e contadini pagano là con il loro sangue.  Un’esperienza di questa specie è stata  già fatta una volta in Europa: quella russa. Anch’essa costò molto sangue. Lenin esigette allora, in faccia a tutto il mondo, uno stato in cui non dovessero esservi più né esercito, né polizia, né burocrazia, che si distinguessero dalla popolazione stessa. Quando egli e i suoi furono giunti al potere, costruirono, nel corso di una guerra civile lunga e dolorosa, la più opprimente macchina burocratica, militare e poliziesca sotto cui  mai abbia sofferto un popolo infelice […]. In ogni modo era evidente che tra gli scopi proclamati da Lenin e la struttura del suo partito esistesse una contraddizione. Le necessità della guerra civile e la sua atmosfera prendono il sopravvento sulle idealità per la cui realizzazione è stata iniziata la guerra civile.[1]

Si tratta di una diagnosi implacabile, che avrebbe dovuto esser studiata e discussa a fondo all’indomani del 1989.  Anziché limitarsi a mutare in fretta  nomi e simboli per adottare le bandiere e le  parole dell’avversario, sarebbe stato più opportuno interrogarsi senza riserve sulla “condizione umana” ossia sui modi in cui la socializzazione delle ricchezze  può assumere (o meno) le forme  di uno stato di polizia. Una risposta è nascosta tra gli appunti di Simone Weil, un’altra nelle pagine del romanzo Vita e destino di Grossman. Né l’una né l’altro,  con la loro forza di verità e la loro verticale, irriducibile lucidità, possono essere arruolati tra gli antesignani di Forza Italia…

Analogamente, alcuni scrittori italiani del secondo Novecento, con la loro “sociologia immaginativa” e in condizione di supplenza rispetto a una sinistra sempre più miope e afasica, hanno saputo sondare con furore cognitivo la “landa sconosciuta che chiamiamo modernizzazione” (Bollati).

Nel 1991, mentre si sgretola il “socialismo reale” e la parola “comunismo” diventa prima desueta e poi impronunciabile, lo scrittore e dirigente olivettiano Paolo Volponi reagisce controcorrente. Se nel successivo ventennio il termine “comunista” sarà affibbiato in forme caricaturali a ogni minima forma di dissenso all’egemonia del Partito-Azienda, Volponi cercò da subito di salvare del comunismo la sua radice,  “la speranza nella liberazione del mondo”:

Il comunismo è gran parte del pensiero umano, sarebbe assurdo privarsi di questa speranza. Non vedo per quale ragione ci si debba mutilare di una parte della nostra intelligenza. Ci sono state prove negative. E  questo nessuno lo discute. Ma è come se volessimo giudicare il Cristianesimo, studiando le efferatezze compiute da certi papi o dai crociati […]. Nel mio cuore io resto comunista, qualsiasi cosa avvenga. Non sono un uomo d’apparato, non ho un’etichetta di partito, né piango perché cascano le statue. Sono crollate certe forme politico-sociali realizzate nel nome del comunismo ma che non avevano nulla a che fare con quel pensiero.  Credo che il comunismo sia una possibilità storica, che deve continuare, non solo contro le ingiustizie, ma anche per la liberazione del mondo, per la sua migliore qualità. [2]

Il “comunismo” di Volponi non è molto diverso dal suo ideale di riforma industriale e di decentramento partecipativo e democratico. Il filo conduttore della sua proposta e, al contempo, il vero motivo del suo allontanamento dalla “stanza dei bottoni” dell’industria italiana è il riconoscimento della centralità del lavoro umano rispetto agli appetiti del capitale.

Negli stessi anni, Franco Fortini, il poeta e saggista le cui verifiche dei nomi e dei poteri sono state classificate come “oscure” e “estremiste”,   definì comunismo “il processo materiale che vuol rendere sensibile la materialità delle cose dette spirituali. Fino al punto di saper leggere e interpretare nel libro del nostro medesimo corpo tutto quel che gli uomini fecero e furono sotto la sovranità del tempo”.  Ciò significa che, per sottrarsi alla falsificazione,  ci si può  identificare con le “miriade degli scomparsi” fino a “riconoscersi  nei passati  nei venturi”, evitando  al contempo “l’errore ottimistico che l’uomo possa uscire dai propri limiti biologici e temporali”.

Riflettendo dialetticamente su “libertà” e  “comunismo”, l’’oscuro’ Fortini  chiariva, insomma, e con largo anticipo, come mai anche da noi grandi masse erano ormai pronte ad applaudire alla guerra nel Golfo,  a offrire la gola a Berlusconi, a identificarsi nel razzismo delle leghe o a accontentarsi della tecnocrazia di “centrosinistra”:

Oppressori e sfruttatori (in Occidente, quasi tutti; differenziati solo dal grado di potere che ne derivano) con la non-libertà di altri uomini si pagano quella, ingannevole, di scegliere e regolare la propria individuale esistenza.  Il confine di tale loro “libertà” non lo vivono essi come un confine della condizione umana ma come un nero Niente divoratore. Per rimuoverlo gli sacrificano quote sempre maggiori di libertà, cioè di vita, altrui; e, indirettamente, della propria. Oppressi e sfruttati (e tutti, in qualche misura lo siamo; differenziati solo dal grado di impotenza che ne deriviamo) vivono inguaribilità e miseria di una vita incontrollabile, dissolta in insensatezza e non-libertà.[3]


[1] In H. M. Enzensberger, La breve estate dell’anarchia. Vita e morte di Buenaventura Durruti, Feltrinelli, Milano, 2008, p. 181.

[2] P. Volponi, Risposta all’Inchiesta su “La morte del comunismo”, in “Il venerdì di Repubblica”, 6 settembre 1991. Di P. Volponi presso l’editrice Ediesse stanno per uscire, con il titolo complessivo di Parlamenti, i discorsi parlamentari e Il senatore segreto, un abbozzo di romanzo parlamentare e epistolare.

[3] F. Fortini, Comunismo (1989) in Non solo oggi. Cinquantanove voci, a c. di P. Jachia, Editori Riuniti, Roma, 1991, pp. 41-42.

11 thoughts on “Verifica delle parole: libertà e comunismo

  1. Vi pregherei di aggiungere tra le parole urgentemente da verificare soprattutto quella di ‘democrazia’. E di farlo cercando di arrivare alle “cose” (in particolare alla storia di questo Paese). Sul tema ‘democrazia’, a beneficio di chi (tutta la redazione?) ha risposto alla mia richiesta di pubblicazione de “Il Tarlo della Libia”, un mio piccolo (scandaloso per quelli di Nazione Indiana) tentativo di tenere assieme parole e cose, con “La magnolia” fortiniana, ripropongo la sua posizione in merito. L’ho riassunta così in un articolo per POLISCRITTURE 8:

    «E’ che il fastidio di quanti non vogliono più sentire argomenti provenienti da Marx, Lenin o Althusser è del tutto ingiustificato. Dal mio punto di vista questa critica [della democrazia] è fondamentale. Anche perché non sono riuscito a lasciar perdere le posizioni di Franco Fortini che, proprio tentando un bilancio degli anni Settanta in “Quindici anni da ripensare” (ora in “Insistenze”, Garzanti, Milano 1985) espresse giudizi sul Pci, la democrazia e il compromesso storico non lontani da quelli di La Grassa. Egli, infatti, non esitò a parlare (e si era nel 1984!) di una «catastrofe ideologica sia della sinistra “storica” quanto di quella “nuova”» e riassunse il suo giudizio sul quindicennio nella formula«Se il terrorismo è stato vinto, i suoi vincitori non hanno convinto» (p. 219). Riconosceva che «i gruppi e i fatti poi associati al terrorismo sanguinario erano innanzitutto preparazione ad una resistenza armata nel caso di un colpo di destra» e che la ripresa di «progetti e azioni che si richiamavano a taluni aspetti della lotta terzinternazionalista o a modelli resistenziali, armati, bellici» (219) poteva aver portato a una scelta politicamente «errata ma non davvero criminale» (222). Non parlava perciò di “contestazione buona” e BR “cattive”, come fu di moda da allora e nei decenni successivi, ma richiese (invano!) di distinguere («Dovere del politico e distinguere tra i diversi tipi di violazioni,219) fra BR e Autonomia, fra questa e altri raggruppamenti e fra questi e «il larghissimo movimento di insubordinazione e contestazione, studentesco e operaio, del periodo 1967-1973. Nell’accettazione delle leggi d’emergenza da parte del Pci vide «l’abbandono persino del ricordo di quella tradizione grande, sebbene sclerotizzata» del comunismo risalente a Lenin. Il Pci del compromesso storico, accettando ormai «un’idea di democrazia come valore assoluto», come «esclusione della violenza e principio di maggioranza» e arrivando alla «criminalizzazione di ogni forma di dissenso», cancellava la questione storicamente irrisolta del sempre «mutevole confine tra lecito e illecito» e dimenticava che «la democrazia esclude la violenza solo in tempi, aree e gruppi sociali determinati e può convivere con le peggiori sopraffazioni e violenze interne, infranazionali e coloniali», disfacendosi di tutta una tradizione che andava da Bodin a Hobbes, a Marx, a Croce a Weber. E questa scelta disarmava del tutto i militanti comunisti, poiché – egli argomentava – se il cattolico può collegare «coerentemente morale, religione e diritto» rimandando al Vangelo e alla dottrina della chiesa, lo stesso non poteva più fare il militante comunista che , con questa scelta del Pci, vedeva buttata al macero e condannata tutta la tradizione marxista e persino «tutta una parte della riflessione sullo stato e sulla violenza che è all’origine della borghesia» (223).»

    Postilla per Emanuele Zinato. Bisogna pur spiegare perché Fortini, a cui la Weil fu carissima, non sputò mai su Lenin (ridotto ormai a semplice “terrorista” da tanti nuovi giovani revisionisti storici).

    [*Il mio brano è tratto da un articolo, che in fondo di libertà, comunismo e democrazia parla. È intitolato “Gli anni Settanta nel «panorama storico» di G. La Grassa” Ne ho anticipato la pubblicazione sul sito ed e leggibile qui:

    http://www.fracarma.altervista.org/index.php?option=com_content&view=article&id=203:anticipazioni-poliscritture-n8-ennio-abate-gli-anni-settanta-nel-lpanorama-storicor-di-g-la-grass&catid=1:fare-polis&Itemid=13%5D

  2. Ho postato avendo letto per errore solo la prima parte dell’articolo di Zinato.
    Me ne scuso. Ma ora che ho letto il resto, non mi pare che le mie parole siano del tutto inutili per una approfondita discussione.

  3. Scrivo quanto mi viene in mente qui senza alcun riferimento a supporto delle mie affermazioni, Istintivamente, quanto citato di Volponi e Fortini, mi appartiene più che essere da me condiviso. Non so dire quanto sia l’influenza delle letture e/o quanto sia di quelle letture a rispecchiare il mio modo di pensare.
    Scrivo perché credo che – nonostante i mali del mondo attuale siano molti – credo che al primo posto ci sia l’informazione. Intere generazioni crescono “sapendo” che la democrazia – questa democrazia – è l’unica possibilità di governo “giusto” accantonando i mali dei vari governi democratici come danni accidentali. Il resto è male, il nuovo è nulla.
    Dall’altra parte “qualcuno era comunista” per come lo definiva Gaber…

  4. Nel 1958, dopo l’espulsione dal Partito Comunista francese, Edgar Morin consegna ad un testo lucidissimo (“Autocritica”) le ragioni del suo allontanamento dal Partito. Nel testo si intravedono già i prodromi di quel mutamento di “statuto ontologico” che condurrà il pensatore francese sui sentieri della Complessità. A mio avviso, oggi, nn sono tanto i contenuti del comunismo a esigere una ridiscussione, bensì il suo “statuto ontologico”. All’affermazione di Fukuyama – che intravedeva nel trionfo del neoliberismo una probabile fine della storia – “mai tanti uomini sono stati così bene” Derrida rispondeva (in “Spettri di Marx”) laconico: “e mai tanti uomini sono stati così male”. Abbiamo ancora bisogno dunque di un socialismo. Ma di un socialismo che faccia a meno della teleologia, del determinismo e dell’essenzialismo che hanno contrassegnato il marxismo. Soltanto mutando “statuto ontologico”, forse, potremo declinare insieme le parole comunismo e libertà…

  5. Grazie a quanti sono intervenuti oggi, qui e anche su fb. Non si tratta, dalla mia prospettiva, di equiparare superficialmente Lenin alle BR ma piuttosto di scegliere gli strumenti per mettere a nudo le parole e per riscoprire in esse le cose. Scavare sotto la crosta caricaturale che oggi, come una corazza, rinchiude i termini-chiave del novecento, implica capire a fondo quale sia la genealogia di questa caricaturizzazione e di questo “sputtanamento”. A partire dal chiedersi, con onesta schiettezza, da dove siano partiti i processi che hanno condotto alla creazione di dittature burocratiche e alla costante pratica di giustificazione di mezzi brutali per raggiungere fini egualitari. Le une e gli altri, dopo il loro fallimento, ci hanno infatti consegnato, smemorati e smarriti, a un avversario che ci irride. Bisognerebbe forse saper eleggere altri padri, altre madri. Accanto alla Weil, a esempio, Aldo Capitini, l’unico personaggio di statura europea che abbia riflettuto sui metodi della non-violenza, in anni in cui questo tema era soffocato dalle contrapposizioni tra democrazie borghesi, dittatura fascista e stalinismo. La ribellione nonviolenta è per Capitini lo strumento che può rompere il cerchio dannato della storia per il quale la rivolta porta a sempre a nuove oppressioni. Il suo ultimo libro s’intitola “La compresenza dei morti e dei viventi”: implica il saper vivere collettivamente i morti come nostri contemporanei, mantenendo un dialogo con loro che ci permetta storicamente di liberarci dalla solitudine e dall’angoscia, mediante la promessa del riscatto delle latenze di ogni vita precedente. Un’idea, come si vede, assai simile a quella espressa da Fortini nella citazione dalla “voce” Comunismo del ’89 da me riportata. Per ridare dignità al concetto-termine “comunismo” bisogna dunque ricostruire da zero, dalle macerie, questa elementare “social catena”. Certo: senza teleologia, senza determinismi. Senza il mito dell’ “elettrificazione”. Forse anche “senza fucile”.

  6. Replico a Zinato (e spero non me ne voglia per la mia insistenza di “dialogatore-provocatore”) perché stupito dallo scarto tra la sua lettura di Fortini e la mia.
    L’accostamento a Capitini (non ho sottomano i testi – mi pare numerosi nel tempo – di polemica di Fortini nei confronti di Capitini) mi pare davvero “revisionista” e infondato.
    Il brano citato dalla voce «Comunismo» apparentemente regge questa “revisione” e l’accostamento al pacifismo di Capitini, ma se si legge tutta la voce non più.
    Avevo riletto di recente quella voce per uno scambio polemico con Andrea Inglese su Nazione Indiana proprio nel marzo scorso (2011) sempre a proposito della guerra in Libia ( tanto per cambiare!). E mi torna utile ora riportarne ancora una volta il “suntino” che ne avevo fatto:

    «La voce «Comunismo» di Fortini apparve per la prima volta su «L’Unità”» (16 gennaio 1989 e quindi prima della caduta del muro di Berlino del 9 novembre di quello stesso anno).
    La si legge(va) ancora due anni dopo in F.F, NON SOLO OGGI ( Editori Riuniti 1991). Non so più dove oggi la potete trovare. Fu subito sbeffeggiata, ricordo, sullo stesso giornale «fondato da Antonio Gramsci» da un giornalista un po’ “goliarda”, un bolognese (faceva di cognome Roversi, credo, da non confondere assolutamente con lo scrittore Roberto Roversi). Se lo rileggi attentamente, ti accorgerai – e tanto più oggi – che in quello scritto il «principio speranza» (E. Bloch) era, a mio parere, presente ma in sordina; e poco assimilabile alla «scommessa ad occhi chiusi», che tu fai sugli eventi sicuramente straordinari, ma in gran parte ancora indecifrabili nei loro possibili sviluppi del Maghreb.
    Tutti sanno che Fortini non confondeva il comunismo con le esperienze, che a quel nome si erano richiamate nel Novecento (in Urss e Cina ad es.) e lo proiettava nel futuro.
    Da precisare con forza, però, è [il fatto] che lo collegava a lotte reali, in corso o da fare: «Il combattimento per il comunismo è il comunismo».
    Queste lotte avevano per lui un chiaro scopo: il comunismo, appunto. Sia pur come «possibilità». E qui c’era la scommessa e il rischio. Ma non una scommessa “ad occhi chiusi”. Perché Fortini parlava di «scelta»: la scelta di lottare per il comunismo, imparando a «riconoscere e promuovere la lotta delle classi».
    Non riduceva, dunque, il comunismo a una semplice credenza nella sua possibilità futura, a un ideale consolatorio e indistruttibile al tempo stesso (“sì il comunismo è morto in Urss o in Cina, ma resta l’Idea”), che è presente in tutte le religioni.
    Anche se, a differenza delle correnti althusseriane del “comunismo come scienza”, Fortini sottolineava che di scelta (e non di semplice conoscenza scientifica di un processo già in atto nella società capitalistica) si trattava; e che la si poteva fare solo «in nome di valori non dimostrabili» ( mentre la scienza solo sui dimostrabili si poggia). E qui la vicinanza con un atteggiamento religioso è forte.
    E’ però – altra precisazione importante – un atteggiamento religioso attivo, non di semplice attesa più o meno messianica o irenica. E, infatti, Fortini sottolineava che «la lotta per il comunismo […] comporta durezza e odio per tutto quel che, dentro e fuori degli individui, si oppone alla gestione sovraindividuale delle esistenze [semplificando: all’egoismo, all’individualismo]; e flessibilità e amore per tutto quello che la promuove e la fa fiorire».
    Inoltre, in implicita polemica con il pacifismo, egli in questo scritto diceva con estrema chiarezza che «il comunismo in cammino (un altro non ne esiste) è […] un percorso che passa anche attraverso errori e violenze […] comporterà che uomini siano usati come mezzi per un fine che nulla garantisce; invece che, come oggi avviene, per un fine che non è mai la loro vita».
    E ancora: «Ma chi sia dalla lotta costretto ad usarli [gli uomini] come mezzi mai potrà concedersi buona coscienza o scarico di responsabilità sulla necessità e la storia». M’immagino quanta irritazione o repulsione queste parole possano suscitare oggi anche tra i frequentatori di NI.»

    E poi ci sono poesie come questa che non mi pare siano state mai sconfessate:

    Forse il tempo del sangue…
    (1958)

    Forse il tempo del sangue ritornerà.
    Uomini ci sono che debbono essere uccisi.
    Padri che debbono essere derisi.
    Luoghi da profanare bestemmie da proferire
    incendi da fissare delitti da benedire.
    Ma più c’è da tornare ad un’altra pazienza
    alla feroce scienza degli oggetti alla coerenza
    nei dilemmi che abbiamo creduto oltrepassare.
    Al partito che bisogna prendere e fare.
    Cercare i nostri eguali osare riconoscerli
    lasciare che ci giudichino guidarli esser guidati
    con loro volere il bene fare con loro il male
    e il bene la realtà servire negare mutare.

    Concludo. Non mi piace recludermi in un gioco di interpretazioni tra ortodossi ed eretici e tirare le parole o i versi di Fortini da una parte o dall’altra (come si è fatto per secoli con bibbie, vangeli etc.). Se Zinato sente di scegliere altri padri e altre madri e li trova in rispettabilissime figure come Weil e Capitini non sarò io a impedirglielo o a scandalizzarmi.
    Resta da vedere quanto siano più capaci dei vecchi per farci intendere e fronteggiare la storia sempre orrenda che si agita sotto i nostri occhi miopi e forse spaventati.

  7. La frase citata dalla Weil su Lenin è storicamente infondata. O meglio, coglie un aspetto molto laterale della situazione. Se l’esito è stato lo stalinismo, ciò non è dovuto alle contraddizioni teoriche o alle deficienze di Lenin, bensì alla complessità dello scontro in atto: tra Urss e forze “bianche” (aggressione e conseguente guerra civile), all’interno della stessa Urss (scarsità dell’apparato industriale, analfabetismo, mancanza di infrastrutture, etc.) e all’interno del partito (tra la “vecchia guardia bolscevica” e il nuovo corso staliniano, etc.). Le teorizzazioni di Lenin su “uno stato in cui non dovessero esservi più né esercito, né polizia, né burocrazia, che si distinguessero dalla popolazione stessa” sono del 1918 (in “Stato e rivoluzione”, un libro splendido, sotto molti punti di vista); le cose precipiteranno a fronte dell’aggressione degli stati occidentali (1918) e della mancata rivoluzione in Occidente (Germania 1919, Italia 1920-22, etc.). Insomma, la “diagnosi implacabile” della Weill è – come dire? – superficiale …

    Nel quadro appena delineato è contenuta una risposta (schematica fin che si vuole, ma fondata) alla domanda che pone Zinato nel suo primo commento: “da dove siano partiti i processi che hanno condotto alla creazione di dittature burocratiche e alla costante pratica di giustificazione di mezzi brutali per raggiungere fini egualitari”. La questione è stata molto dibattuta ed esistono centinaia di analisi, anche finissime, sul socialismo sovietico; e ben più sostanziose di quelle della Weil …

    In ogni caso, le condizioni non si ripetono mai identiche: domani, quando avremo la forza di ripensare concretamente ad un processo di trasformazione, le istanze di Lenin e dei bolscevichi saranno gioco-forza ripensate. D’altra parte, non è stato lo stesso Lenin a suggerire l’adeguarsi della politica alle situazioni contingenti? Nessuna teleologia, quindi. Solo conoscenza della concretezza delle forze in campo.

    Quell’esperienza, in ogni caso, non ha fallito: è stata sconfitta. Sono due concetti differenti. La nonviolenza, invece, si è dimostrata fallimentare, e in tante occasioni, per lo meno se pensata come pratica che si antepone a una data situazione.

    Tanto per fare un esempio di segno contrario, la recente rivolta egiziana (quella più popolare in corso) ha dosato sapientemente violenza e nonviolenza, così come hanno fatto altre rivolte nel corso della storia. Ma potrebbe essere sufficiente osservare la lotta della popolazione in Valle di Susa … Il “senza fucile” non sarà mai possibile; o almeno non lo sarà finché esiste una “banda di predoni” disposti a tutto per difendere il bottino. Mi permetto una metafora: una volta Cristo porge l’altra guancia, un’altra impugna la verga e scaccia i mercanti dal tempio …

    Ha ragione Abate a segnare una differenza tra Fortini e Capitini. Su queste questioni, esiste un altro testo di Fortini (non ricordo dove è stato pubblicato) che chiarifica la sua posizione:

    «Oggi e subito il nemico, quello contro cui è necessario non solo conflitto ma guerra, è tutto quello che propone false mete, false coscienze, false solidarietà, false paci: e che, per esempio, nega di fatto, a colpi di parole o di leggi o di capitali o di missili, l’uguaglianza dei diritti – e la finale identità umana – fra i privilegiati e i “dannati della terra”. La lotta per quella uguaglianza non può non implicare conflitto contro chi opprime e asservisce altri. Nessuna peggiore ingiustizia che fare le parti eguali tra diseguali. Per questo la lotta contro chi organizza il consumo di una spropositata parte dei beni della terra a favore di una minoranza cosiddetta “civilizzata” può non essere “giusta”, ma è necessaria. Ancora una volta il conflitto è un “male” per un “bene” e per un bene non garantito. Così l’uomo mosse armato di bastone contro l’alce o il bufalo sapendo la sofferenza cui si esponeva o che infliggeva, nella speranza di sopravvivere alla fame. Bisogna scegliere».

    Ho scritto tanto su queste questioni, in passato. Mi permetto di rimandare a un mio saggio sulla ”politica di liberazione” (pubblicato sulla rivista Hortus Musicus) e a una ”farsa proletaria” che tratta proprio della questione, anche in relazione a Fortini, alla Weil e alla Arendt …

    NeGa

  8. Puntualizzo un concetto-termine, sempre nello spirito della “verifica delle parole”: Nonvolenza, nel senso di Capitini, non equivale affatto a inerte, passivo, “umanitario” pacifismo: è una forma attiva e conflittuale, basata sul riconoscere che il ricorso alla violenza prepara la strada a nuova ingiustizia, è il rifiuto del discorso che vede disgiunti i fini dai mezzi, è un modo di rapportarsi all'”altro” che implica il riconoscimento dell’altro-che-è in noi, anche dal punto di vista della dicotomia maschile-femminile e del femminismo.

    Per questo, fra i nuovi maestri, o fratelli e sorelle, o padri e madri, credo vi siano anche i poeti e gli scrittori. Non in ossequio all’orto conchiuso, ma come atto di ecologia culturale, e approccio cognitivo alla mutazione e “modernizzazione” che balena nelle loro pagine, come un gioco della verità, senza infingimenti. Certo, I dieci inverni, Verifica dei poteri, Paesaggio con serpente, ma anche “Il mondo salvato dai ragazzini” o ” Pro o contro la bomba atomica” della Morante, le “Fantasie” di Zanzotto, i romanzi di Volponi, di Bianciardi, di Parise, di Sciascia…così come quelli di Grossman, e poi Yehoshua, Roth, Coetzee,..e direi anche le poesie di Pasolini e di Sereni , di Amelia Rosselli, di Pusterla, di Anedda, di Fiori, di De Signoribus,… non sono “sovrastruttura” , ci aiutano a capire e dunque a “fare”.

  9. @ Emanuele Zinato

    Nuovi maestri, o fratelli e sorelle, o padri e madri, compresi i poeti e gli scrittori?
    Questo melting pot postmoderno magari “di sinistra” che ha sostituito (per pigrizia intellettuale? per abbandono dello studio della storia del Novecento? per adeguamento alla koiné liberal? per disperazione?) il vecchio monolitismo del m-l dogmatico e ha perso persino la sensibilità alla grana delle differenti voci (in questo caso di Capitini e Fortini) mi pare pieno di rischi e vuoti.
    Si intende “ricostruire da zero”? E dove è andato a finire il “proteggete le nostre verità”?
    C’è un ricco elenco di scrittori e poeti da leggere? Bellissimo. Ma senza la lettura contemporanea ( e spesso noiosissima) di storici, economisti, scienziati e politici – non quelli d’oggi, per carità, tranne eccezioni – ci si crogiolerà nella “letteraritudine”.
    Orsù, visitiamo altri siti! ( Con tutto il rispetto per Walter Siti).

  10. Lettera ai figli

    Appunti per una lettera ” testamento ”

    Fate conto che io parta per un lungo viaggio e che possa non tornare…
    Vi lascio in eredità dei beni immateriali: valori morali e politici…

    1. Capacità di indignarsi e di commuoversi
    2. ” Comunismo ” : mettere in comune
    3. Il senso della giustizia
    4. Libertà ( Bandiera rossa la trionferà, il comunismo e la libertà )
    eguaglianza nella diversità, fraternità= amore per l’altro
    5. La vera casa in comune: la Terra, la natura insidiata dagli umani
    6. I valori per un paio di scarpe in più ? Il piatto di lenticchie…
    7. Ricostruire l’Europa di tutte le etnie
    8. Amare e coltivare la cultura, che è la natura dell’uomo
    9. Non odiare, capire, mettere il nemico degli uomini in condizione di non nuocere per mezzo della persuasione di massa
    10. Ricordarsi di chi in nome dell’uguaglianza ha stabilito le peggiori disuguaglianze il finto socialismo
    11. Il Moloch – La Burocrazia

    APRILE 1989 – appunto sulla scrivania di Antonio Porta (autografo qui http://www.facebook.com/photo.php?fbid=10151854959125055&set=a.10151456359105055.843365.113268715054&type=3&theater

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