di Franco Buffoni

Nel settembre scorso, a Bellinzona, si è tenuto l’annuale festival di letteratura e traduzione: ospite d’onore per il 2012 la Polonia. La programmazione e gli inviti avvengono sempre con un  buon anticipo. Così nell’estate 2011 mi accadde di sentire più volte al telefono Pietro Marchesani in merito alla sua partecipazione.

Ricordo che nell’ultima telefonata mi disse: “Sarà proprio una bella occasione per stare assieme tre giorni”. Stare assieme era uno dei leit motiv di Pietro. Che non riusciva a concepire di tradurre un autore senza “starci assieme”. E lo fece con Szymborska, ma anche con Miłosz, con Mrożek, con Herbert, con Schulz e tanti altri: con Tadeusz Kantor per La Classe Morta, per esempio.

Per oltre dieci anni abbiamo lavorato assieme a Roma presso il Ministero dei Beni Culturali, in particolare nella commissione che attribuisce i premi nazionali per la traduzione. Ed ebbi sempre modo di apprezzare la discrezione ma anche la grande determinazione con cui Marchesani  difendeva e sapeva promuovere le sue scelte nell’ambito della cultura polacca. In particolare  penso al premio che attribuimmo nel 2009 a Jaroslaw Mikolajewski.
In una delle annate precedenti, lo stesso premio per il miglior traduttore dall’italiano lo avevamo attribuito a Allen Mandelbaum. Capitava spesso che stendessimo assieme le motivazioni. Nel caso di Mandelbaum, ricordo, oltre all’enorme lavoro come traduttore (Divina Commedia, Eneide, Odissea…) volli mettere in luce l’opera del saggista. “Ho trovato geniale, per esempio”, dissi a Pietro, “la sua teorizzazione del cosiddetto sublime clandestino esemplificato col termine tutto, da Wordsworth (‘And all that mighty heart is lying still’ in Lines Composed Upon Westminster Bridge) a Montale (‘Com’è tutta la vita e il suo travaglio’)…”.

“Incredibile! Proprio ieri sera riflettevo su questo, traducendo una poesia di Wislawa Szymborska”, fu la sua replica. “Guarda. Ce l’ho qui…”. E me la lesse, trasformando in  reading una seduta burocratica.

Tutto

Tutto —
Una parola sfrontata e gonfia di boria.
Andrebbe scritta tra virgolette.
Finge di non tralasciare nulla,
di concentrare, includere, contenere e avere.
E invece è soltanto
Un brandello di bufera.

Nel 2000 Marchesani, che era nato a Verona nel 1942, ricevette la laurea honoris causa all’Università Jagellonica, dove da giovane aveva insegnato, una volta completati gli studi a Milano in Cattolica. Aveva insegnato letteratura italiana anche a Leningrado, prima di diventare Ordinario di Lingua e Letteratura Polacca all’Università di Genova.
E quanto soffrì (lo ricordo negli anni settanta e nei primi ottanta) per la situazione politica della sua Polonia (“quella enorme e splendida galera a cielo aperto per il volere di una ideologia”, come lui la definiva).

La Jagellonica mi riporta a Maria Corti, che per alcuni anni fu la sua vicina di casa – addirittura di pianerottolo – al quinto piano di via san Vincenzo a Milano. Anche in questo caso “stare assieme” è l’espressione appropriata. Alla fine degli anni Settanta, Pietro mostrò a Maria il primo numero di “Niebo” (in polacco significa cielo) che includeva alcune sue traduzioni da Boleslaw Lesmian. Maria ne scrisse e poi invitò Pietro a collaborare ad Alfabeta con articoli su Gombrowicz e con traduzioni da Miłosz e da Herbert. Fino al viaggio che compirono assieme in Polonia nel 1985.
Come studioso Marchesani si era occupato in particolare del Cinquecento polacco e della ricezione di D’Annunzio nella culture slave. La sua prima traduzione importante risale all’inizio degli anni Ottanta: “Gente sul ponte” di Szymborska, uscita da Scheiwiller. L’accademia, come si sa, non ama i traduttori (soprattutto non li amava), e tutti noi dovevamo tenerne conto, traducendo “senza esagerare”.

La poesia di Szymborska Sulla morte senza esagerare – che fa parte della raccolta La gioia di scrivere – mi sembra appropriata per questa occasione, perché riesce ad accomunare in un abbraccio il traduttore e il poeta tradotto. Qui Szymborska rovescia l’idea tradizionale della morte presentandola nella sua realtà, come maldestra, disordinata, senza metodo e abilità. E alla fine “Sulla morte senza esagerare” riesce a non essere una poesia sulla morte: “Dai semi spuntano le due prime foglioline / e spesso anche grandi alberi all’orizzonte. / Non c’è vita / che almeno per un attimo  /non sia immortale. / La morte è sempre in ritardo su quell’attimo”.

Questi versi mi fanno riflettere su come gli attimi di immortalità che abbiamo condiviso con una persona cara – magari scrivendo assieme un verbale per il ministero – siano tra le poche cose per cui vale davvero la pena vivere. E penso a questa poesia sulla morte maldestra, occupata ad uccidere in modo disordinato, come a una grande poesia d’amore.
Marchesani ricordava spesso un verso bellissimo di Szymborska, che dice: “Acchiappo la vita per una foglia. / Si è fermata? Se n’è accorta? / Si è fermata almeno una volta?”. La vita, come diceva Szymborska… l’unica cosa che abbiamo.

Ma leggiamo integralmente Sulla morte senza esagerare:

Non s’intende di scherzi, stelle, ponti,
tessitura, miniere, lavoro dei campi,
costruzione di navi e cottura di dolci.
Quando conversiamo del domani
intromette la sua ultima parola a sproposito.
Non sa fare neppure ciò
che attiene al suo mestiere:
né scavare una fossa,
né mettere insieme una bara,
né rassettare il disordine che lascia.
Occupata a uccidere,
lo fa in modo maldestro,
senza metodo né abilità.
Come se con ognuno di noi stesse imparando.
Vada per i trionfi,
ma quante disfatte, quanti colpi a vuoto
e tentativi ripetuti da capo!
A volte le manca la forza
di far cadere una mosca in volo.
Più di un bruco
la batte in velocità.
Tutti quei bulbi, baccelli,
antenne, pinne, trachee,
piumaggi nuziali e pelame invernale
testimoniano i ritardi
del suo svogliato lavoro.
La cattiva volontà non basta
e perfino il nostro aiuto con guerre e rivoluzioni
è, almeno fino ad ora, insufficiente.
I cuori battono nelle uova.
Crescono gli scheletri dei neonati.
Dai semi spuntano le prime due foglioline,
e spesso anche grandi alberi all’orizzonte.
Chi ne afferma l’onnipotenza
è lui stesso la prova vivente
che essa onnipotente non è.
Non c’è vita
che almeno per un attimo
non sia immortale.
La morte è sempre in ritardo su quell’attimo.
Invano scuote la maniglia
d’una porta invisibile.
A nessuno può sottrarre
il tempo raggiunto.

Che altro aggiungere? Siamo poeti e traduttori di poeti. E ci scontriamo tutti i giorni con la Morte, magari anche solo per una questione di “genere”.
Marchesani adorava le questioni di genere.

E io gli raccontavo che Keats nell’Ode to a Nightingale, scrive “I have been half in love with easeful Death, / Called him soft names in many a mused rhyme”… Tante volte sono stato quasi innamorato della morte. E gli ho detto parole dolce in poesia… Con “tutti” gli inevitabili sconvolgimenti iconografici destinati a conseguire.

Siamo poeti e traduttori di poeti; quindi, per dirla coi versi della mia amica Vivian Lamarque: “Vogliateci bene, da vivi di più, da morti di meno, che tanto non lo sapremo”.

[Immagine: Pietro Marchesani (gm)]

7 thoughts on “Diario pubblico /3. Pietro Marchesani

  1. C’è un duetto di versi nella poesia “Possibilità”: la loro lettura ha su di me l’effetto inaspettato di un sollievo, e non dico “di liberazione” perché ogni stucchevole pretesa di grandezza è in antitesi alla maestria di Wislawa Szymborska, per la quale non si tratta mai di istituire ordini di grandezza, perché la misura la decide, e la forma, lei.
    Come dona, alla Szymborska, il giudizio di “minuscolità di competenza” che Aldo Busi pochi giorni fa ha formulato: nella esse minuscola apposta alla parola scrittrice c’è la gloria del suo essere incomparabile e irripetibile.

    I versi sono ai quali mi riferisco sono:

    Preferisco il ridicolo di scrivere poesie
    al ridicolo di non scriverne.

    Mi sono di sollievo perché, al cospetto della poesia, è come occorra sempre una giustificazione: nel leggerla(più che nello scriverla?).

    Leggere, e scrivere, romanzi, saggi, articoli di giornale, ha un senso che ne precede l’atto, perché hanno una loro, anche solo potenziale, ragione politico-economica: c’è un connotato pratico-commerciale che può motivare, e quindi scusa in anticipo, chi li scrive e chi li legge: farlo può servire-a-qualcosa.

    La poesia è un “invece”. Nella poesia c’è qualcosa che non va a posto. Nella nostra epoca – ma in quale epoca no? – la poesia si fa sinonimo di vulnerabilità quando non di estenuata raffinatezza quando non di ostentato e perciò ipocrita culturalismo. Perché scrivere poesie, è l’implicito, se non per pigrizia o vanità? E se l’atto dello scrivere poesia può ancora essere inteso come una eccentricità tollerabile, non si può sfuggire alla domanda, anche di sé a se stessi – Perché concedersi un atto così improficuo come il leggere poesia?

    La risposta, incantevole e perentoria, che la dice sublimamente “tutta” è nei due versi della Szymborska.

    Della poetessa possiedo soltanto il volumetto “L’elogio dei sogni” e ora che ci bado, leggo che il curatore è Pietro Marchesani: in fin dei conti ho letto tanto lui quanto la Szymborska, che mi sarebbe rimasta oscura se il traduttore non l’avesse “detta” a sua volta dal polacco all’italiano.

    Sembra abbia un ruolo così trascurabile, quasi un piccolo ruolo impiegatizio, il traduttore. Eppure, senza di lui, non ci raggiungerebbe neppure un ritaglio di refolo di quel brandello di bufera che è il tutto.

    Un grato saluto,
    Antonio Coda

  2. Ho appena finito di leggere il bellissimo “Una piccola tabaccheria”, quaderno di traduzioni di Franco Buffoni. Bellissimo perché costruito in gran parte con le reinvenzioni di poesie appunto bellissime. E’ raro avere questa “mira”, e avere anche la capacità di coordinare fra loro così tanti bersagli colpiti con simpatia profonda. Come se le diverse lingue straniere non fossero per Buffoni degli ostacoli, ma ogni volta delle ottime occasioni.
    Buffoni ha molto pensato e scritto sulla teoria della traduzione. Ma quando sei nel corpo a corpo col verso straniero sei solo con la tua musica possibile, con quanto riesci a ricavare da ciò che pure stai perdendo.
    Generoso il ricordo di Marchesani. Ho presente soprattutto le versioni da Herbert, poeta importante, che credo svolga tuttora una funzione meno appariscente ma più sostanziosa rispetto alla Szymborska.

  3. Grazie per questi interventi, e a Helena in particolare grazie per il link in pingback, e a Paolo per il giudizio sulla mia recente Piccola Tabaccheria. Lasciatemi solo aggiungere che Pietro Marchesani era una rara persona, in grado di coniugare spontaneamente umiltà d’approccio e massima competenza.

  4. ciao Pietro…

    Stasera, 18 dicembre 2012, alle h. 18, presso ll’Accademia Polacca delle Scienze di Roma (Vicolo Doria, dietro piazza Venezia), in quelle stesse stanze in cui e’ stato così a lungo di casa, tra i libri che amava, che facevano parte della sua vita, ricorderemo Pietro, nostro professore, amico e collega, compagno di battaglie, esaltazioni e delusioni, cacciatore di testi e di autori fratelli…

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