di Daniele Giglioli
Esile e lineare è la trama de Il peso della grazia, il nuovo romanzo di Christian Raimo: un lui, una lei, qualche personaggio minore. Lui è Giuseppe, fisico, ricercatore precario fanaticamente dedito a uno studio sulle fiamme turbolente che minaccia di avere, come avrà, scarsissimo futuro; distratto cronico, cattolico tardivo, volontario intermittente, figlio di aspiranti genitori modello che però si sono separati. Lei è Fiora, oculista, cresciuta con la famiglia a Nomadelfia, una sorta di comune cristiana da cui si è staccata al tempo dell’università. Si conoscono di notte, in ospedale, dove Giuseppe ha accompagnato Lubomir, un polacco sempre nelle pesti di cui, non sa bene perché, ha scelto di prendersi cura. Colpo di fulmine, gioia senza fine, convivenza alle viste. Poi, d’improvviso, lei lo lascia. Perché? Lei non lo spiega. Lui non se lo spiega. Soffre terribilmente, sprofonda, si riduce autolesionisticamente peggio dei polacchi mezzi disoccupati che sono ormai le sue uniche frequentazioni. La ritroverà e ricomincerà tutto, ma per caso: che lei aspetti un figlio da lui non è il vero motivo del ricongiungimento. Materiale, a riassumerlo così, per un racconto breve, reticente, alla Hemingway o alla Carver, da cui una mano ferrea ha schiumato tutte le potenziali spiegazioni per rendere nel più secco dei modi l’enigmaticità dell’esistenza. Il peso della grazia conta invece quattrocentocinquanta pagine. Cosa ci mette Raimo? Di che parla davvero il suo romanzo?
Più che di fatti, Il peso della grazia è intessuto di riflessioni, immagini, aneddoti, ricordi e divagazioni del protagonista, che è anche il narratore, affetto da un’autocoscienza così radicale da stroncare il più introspettivo dei filosofi, e insieme in costante deficit di lucidità. Ogni fatto è circondato da un’aura di interpretazioni, che però, ed è senz’altro una scelta consapevole da parte dell’autore, non raggiungono mai il centro. Perché Giuseppe ama Fiora? Perché lei lo ricambia, poi fugge, poi ritorna con lui? Che cosa capisce il narratore, di sé e della donna che è diventata la sua ragione di vita? I grandi snodi ermeneutici della vicenda restano sistematicamente inevasi. Qui cominciano i dubbi: è questo che Raimo si prefigge? Il mistero ha il suo senso nel mistero stesso (il romanzo è costellato di riflessioni religiose)? O è lui che non è riuscito a spiegarlo? Da dove nasce questa tensione spasmodica, «esasperante», si lascia scappare perfino il risvolto di copertina, tra riflessione e cecità? Che rapporti ci sono tra personaggio (cui è sempre lecito non capire), narratore (che raccontando ex post dovrebbe comunque saperne un po’ di più) e autore (da cui ci aspettiamo sappia tutto)?
Una risposta potrebbe essere: un’osmosi radicale, incontrollata, eccessiva. I piani si confondono di continuo. Autore e narratore prestano al personaggio una facoltà di pensiero che nessuno può verosimilmente avere al tempo in cui vive: «Mi sembra di essere uno di quegli attori hollywoodiani costretti a girare la scena in fondali vuoti che verranno ricreati al computer in postproduzione». Un paragone calzante, ma chi mai, nella realtà, ha modo di fare paralleli del genere quando accompagna dei moldavi a far ristrutturare la casa in cui ha passato l’infanzia? E così la reciproca: sul narratore (e sull’autore?) stinge a ogni pagina l’impaccio interpretativa dell’eroe, soprattutto per quanto riguarda la vicenda amorosa. Quale amante accetterebbe, come fa Fiora, di essere così sistematicamente non compreso? E’ con lei, non con il narratore onnipresente, che il lettore tende a identificarsi. Un effetto voluto? Confesso che non riesco a rispondere.
Resta che il risultato di lettura è straniante. Ci sono molte cose belle, spunti vivaci, immagini vivide, bozzetti riusciti, brani che potrebbero figurare come racconti o perfino saggi autonomi, perfetti in uno zibaldone (ma è un genere che purtroppo non si pubblica in vita), o in un blog. La descrizione dello strazio di Giuseppe è toccante. Raimo è scrittore di grandi mezzi, sempre felice sulla misura della pagina. Ma la struttura che tiene assieme il tutto dà un’impressione di montato a freddo, in postproduzione, appunto. Il distacco tra i due amanti, per esempio, cade esattamente a centro libro, dopo che Fiora ha rischiato di farsi divorare dalle fiamme che ossessionavano, prima che lei comparisse sulla scena, il protagonista (con un parallelismo perfino fonico: FIOra/FIAmme). Anche la spiegazione del perché Fiora se ne è andata – un trauma antico, non sveliamo ora quale – finisce per risultare meccanica, un’agnizione ad hoc, non un’articolazione intima della vicenda. La prima volta lei gli aveva detto: poi ti devo dire una cosa. Lui non aveva chiesto cosa. La rivelazione finale va ad appendersi a un vistoso chiodo nel muro. Forse una maggiore disarticolazione narrativa, una trama meno compiuta avrebbero servito meglio allo scopo. Forse non era, il romanzo, il genere più adatto. O forse, invece, la scommessa dell’autore era proprio quella di piegare il romanzo, macchina per interpretare e non solo dipingere la vita, a un fallimento cognitivo che facesse risaltare, per contrasto, il dono gratuito del lieto fine. Dove il pensiero non arriva, lì soccorre la grazia di cui al titolo, apertamente ispirato a una Simone Weil addizionata a Jacques Lacan: non esiste rapporto sessuale, l’amore è il fiore e il frutto quia absurdum della fede. Proprio perché non hanno meritato nulla, i protagonisti hanno tutto. Il peso del dubbio resta a carico del lettore.
[Questo articolo è uscito su «La lettura» del «Corriere della Sera»]
[Immagine: Margarida Paiva, Every Story Is Imperfect (2012) (gm) – http://www.margaridapaiva.net/
Recensione sicuramente equilibrata, ma non riesco a non essere d’accordo con Raimo quando si difende (qui: http://www.alfabeta2.it/2012/10/23/il-peso-della-grazia/ ) dall’accusa di implausibilità. Il suo romanzo è in primo luogo un tentativo di afferrare il fallimento cognitivo di fronte a una realtà sfuggente e complessa. Ragion per cui, oggi – 2012- in un presente plasmato da social network, iphone, serie tv (dico le prime banalità che mi vengono in mente), mi sembra un po’ forzato decidere cosa sia realistico e cosa no mentre si fa un sopralluogo in una casa devastata con un gruppo di moldavi.