Traduzione di Valerio Nardoni
Jesús Díaz Armas è nato a La Laguna (Tenerife) nel 1963. Attualmente è professore di Letteratura infantile presso l’Università de La Laguna, ha pubblicato numerosi saggi su temi letterari e per la casa editrice Galaxia Gutenberg ha curato e tradotto nel 2009 un’ampia antologia dell’opera di Mario Luzi intitolata Vida fiel a la vida.
[i]
Solo sete
uomo e canto
e il peso insopportabile del vuoto
ci vorrebbe la pietra
la parola sicura
che afferri il mondo e che ne spezzi il senso
che l’innominabile esprima
o che torni sconfitta e muta
placata infine a consolarci
[i]
Solo sed
hombre y canto
y el peso insoportable del vacío
hace falta la piedra
la palabra certera
que alcance el mundo y rompa su sentido
que exprese lo innombrable
o que vuelva vencida y muda
sosegada por fin a dar consuelo
[ii]
Pressione
lieve
sgraffiatura
breve
sopra il muro la pagina
la ferita esatta
urto
sgraffio
sopra me stesso
[ii]
Presión
leve
punción
breve
sobre el muro la página
la herida exacta
golpe
arañazo
sobre mí mismo
[iii]
Donna che non hai volto voce e nome
da chi mai convocata nel mio sogno
vieni a dirmi che cosa da che riva che tempo
ritorni trasmutata o vieni ad incontrarmi
come mai devo leggerti donna segno a far che
sei venuta ritorna al desiderio
[iii]
Mujer sin rostro voz ni nombre
convocada por quién hasta mi sueño
qué vienes a decirme de qué orilla qué tiempo
regresas trasmutada o vienes a encontrarme
cómo debo leerte mujer signo
a qué has venido vuélvete al deseo
[iv]
Benedetto tu sia padre per i giorni
che hai dedicato a me per i giocattoli
fatti con le tue mani e col tuo ingegno
gli strani aggeggi che imitavano
quelli che gli altri compravano nei negozi
per la fiaba che tante volte
mi hai raccontato con pazienza
quella degli animali nella casa
il gatto il cane il gallo e dei ladri
bambino come me sempre disposto
a fare insieme i giochi
per sparare sulla terrazza
col fucile a pallini o la balestra
e grazie sorattutto per il giorno
luminoso e lontano perduto ormai per sempre
che facesti ballare la carota
davanti allo stupore dei miei occhi
un eroe fui quel giorno a scuola
arrotolando il filo intorno
a quella strana trottola
e adesso che mi sforzo di trovare
un senso ai mondi che mi accerchiano
mi volgo a quel momento
e lì mi riconosco in quel centro
girando su me stesso
eseguendo lo stesso ballo assurdo
essendo io adesso la carota
che inizia il giro appena lascia il filo
[iv]
Bendito seas padre por los días
que dedicaste a mí por los juguetes
que hiciste con tus manos y tu ingenio
los raros artilugios que imitaban
a los que otros compraban en las tiendas
por el cuento que tantas veces
paciente me contaste
el de los animales en la casa
el gato el perro el gallo y los ladrones
tan niño como yo dispuesto siempre
a compartir los juegos
por hacer puntería en la azotea
con la escopeta de balines o con la estiradera
y gracias sobre todo por el día
luminoso y lejano perdido para siempre
en que hiciste bailar la zanahoria
ante mis ojos asombrados
un héroe fui aquel día en el colegio
enrollando la liña alrededor
de aquel extraño trompo
y ahora que me esfuerzo en encontrarle
un sentido a los mundos que me cercan
me vuelvo a aquel momento
y allí me reconozco en aquel centro
dando vueltas en torno de mí mismo
ejecutando el mismo baile absurdo
y siendo ahora yo la zanahoria
que inicia el giro fuera de la liña
[v]
La mia mente su una spiaggia
dove un’altra figura era già convocata
certi passi di danza
nella danza del vento e di luce bagnata
l’alito ebbro e la saliva dolce
che ascolti li pronuncio io al tuo orecchio
le onde ci hanno portato
ci riportano le onde del ricordo
su questa riva assente
e ci sospingono come ogni giorno
nuovamente al di là dei nostri mari
in fondo all’esistenza insonne
all’assopita luce che non è neanche ombra
del fulgore di occhi espatriati
[v]
Mi mente en una playa
donde ya hay convocada otra figura
unos pasos de danza
en la danza del aire y de la luz mojada
el aliento embriagado y la saliva dulce
que escuchas los pronuncio yo en tu oído
las ondas nos trajeron
nos regresan las ondas del recuerdo
contra esta orilla ausente
y como cada día se nos llevan
de nuevo más allá de nuestros mares
adentro a la existencia insomne
a la dormida luz que no es ni sombra
del fulgor de unos ojos transterrados
[vi]
Faccia alla soglia della prima onda
con cui un mare infuriato li riceve
offrono senza indugio il corpo atletico
l’oceano li adotta ed al cielo li innalza
li prende e li deifica e li veste
con abiti di alghe con un’aura
che copre amore e risa corpo spirito
con una nuova grazia li battezza
cosparsi con il sale e l’acqua atlantica
[vi]
Ante el umbral de la primera ola
con la que los recibe un mar airado
ofrendan sin reserva el cuerpo atlético
los prohíja el océano y al cielo los remonta
los toma y los endiosa y los reviste
con hábitos de alga con un aura
que ampara amor y risa cuerpo espíritu
con una nueva gracia los bautiza
ungidos con la sal y el agua atlánticas
[vii]
Nasco quando si spegne vita vecchia
riprendo filo e voce e forza antica
e così le sprigiono in altre epoche
e mentre sembro scindermi mi unisco
mi impasto in me e mi allontano a tal punto
che torno a un dolce tutto essendo nulla
[vii]
Nazco cuando se apaga vida vieja
retomo hilo y voz y maña antigua
y las desencadeno en otras épocas
y al fingir desdoblarme me reúno
me allego a mí alejándome y tan yéndome
que vuelvo a un dulce todo siendo nada
[Immagine: Pablo Delfos, Stills (gm)].
La quinta è la mia preferita, forse perché mette un po’ in sordina il lirismo e accenna a una narrazione, a un episodio allegorico. Tuttavia, in generale, non posso dire che mi siano piaciute: sono senz’altro ben scritte e ben composte, levigate (troppo?), ma è proprio la poetica fiabesca e solare che mi respinge, questa assolutezza lirica che trovo molto di più nei poeti ispanofoni che finora ho letto. Un passo come
“la parola sicura
che afferri il mondo e che ne spezzi il senso”
poeticamente non mi convince perché è l’ennesimo di una serie che tematizza la parola (ma poi cos’è questa parola?), continuando e gonfiando una tradizione che c’è anche da noi e che è spesso epigonale; lo stesso passaggio fa leva su parole “impegnative” come “mondo” e “senso” con – secondo me – troppa leggerezza: questo mi sembra un “giocare facile”. Oppure, una metafora come “onde del ricordo” sfiora il poetese, il kitsch: come si fa, oggi (ottobre 2012) a usarla senza intenzioni ironiche? C’è, insomma, questa ostentazione di purezza che non capisco e che mi sembra fuori tempo massimo. Poi, certo, posso sbagliarmi, ma le impressioni a una prima lettura sono senz’altro queste.
Mi trovo abbastanza d’accordo con davide castiglione. Credo che ormai siamo arrivati a un punto in cui scrivere una “bella poesia”, una serie di parole che funzioni, sia alla portata di troppi. Abbiamo tecniche e moduli di scrittura che ci permettono di creare un bel giochino e spacciarlo per poesia. Ora non vorrei accanirmi con il poeta in questione, che poi è meglio di tanti altri, ma sto leggendo troppo spesso autori (quasi sempre italiani) che sembrano “accontentarsi” di aver scritto una “bella poesia” e poi si fermano lì, senza neanche aspirare alla “grande poesia”, perché provare a fare “grande poesia” è rischioso e il 90% delle volte non funziona. E la domanda è: vale ancora la pena di leggere (o scrivere) poesie che non hanno mai rischiato, dietro alle quali non c’è niente se non un assorbimento per niente rielaborato di moduli preesistenti, giochi che oggi (ottobre 2012, appunto) non sembrano più in grado di dare niente?
Per quanto riguarda “le onde del ricordo” vorrei fare un paragone disumano che però credo aiuti a rendere meglio la sensazione generale che vorrei comunicare: Holderlin, nella celeberrima “Andenken” (Ricordo), che diceva quasi la stessa cosa (sperando di ricordare bene i versi): “Ma prende / e dà memoria il mare / e l’amore fissa con occhi assidui / ma ciò che resta lo fondano i poeti.”
Al di là del rapporto personale che ogni amatore della poesia stabilisce fra innovazione e tradizione, la conseguente postura che adotta (le parole e le cose in cui crede), trovo molto interessante lo spunto offerto dai rispettivi commenti di Davide Castiglione e Simone Burratti, in relazione all’evidente distanza – malgrado la vicinanza delle due lingue – della tradizione lirica spagnola e italiana, di cui un aspetto centrale è senz’altro quello relativo all’“assolutezza lirica” di cui si parla sopra, che sarà naturalmente una vivace opportunità per alcuni e una zavorra per altri poeti. Questo tema meriterebbe un saggio – ci vorrebbe dunque un saggio per scriverlo! – ma da traduttore posso almeno dire di aver riscontrato questo problema diverse volte. Parlando molto in generale, è vero che per un lettore italiano (anche per me, cioè) può apparire talvolta sterile l’aspirazione all’elementarità di tanta poesia ispanica; quanto al lettore spagnolo può apparire a volte come un vuoto accanimento il tenace pensiero poetante italiano, che percepisce come una sorta di forbito rap su tematiche astruse. Certo, i grandi poeti e la grande poesia – rispetto ai contemporanei – sono in qualche modo immunizzati dalle chiacchiere degli addetti ai lavori, tuttavia, posso dire di aver durato una fatica immane a tradurre in italiano la “elementarità” di Pablo Neruda (apparentemente così facile da interpretare alla lettera), così come amici traduttori inglesi mi dicono che molte poesie di Mario Luzi tradotte nella loro lingua rischiano il non sense.
Condivido inoltre l’osservazione relativa alla riflessione sulla parola poetica, che è molto pronunciata e diffusa in tanta poesia spagnola (pure troppo, anche secondo me), e che, in un certo senso, ricalca la ricerca dell’elemento primario, la prima sillaba, il primo suono, il “punto zero” del mondo, come si trova per esempio nella poetica di José Ángel Valente, grande poeta pubblicato da Metauro nella traduzione di Pietro Taravacci. La Spagna, come dice Lorca nel suo saggio sulla Teoría del duende (provo a chiudere in bellezza!) è un paese aperto alla morte, quella morte animale che il torero scongiura con l’elementare esattezza delle sue minimali geometrie, cercando di raggiungere il limite, di sfiorare il corno del toro.
Ho letto le poesie con interesse, e i commenti. Io conosco poco la poesia spagnola, perché avvicino preferenzialmente quella italiana e quella in lingue che conosca, e lo spagnolo non è tra queste (sì, do un’occhiata: non è arabo, ma un dialetto del latino, però, insomma, quella lingua per me “canta” molto poco, riesco al massimo a strappare qualche lacerto referenziale e poco più).
Non provo neanche ad entrare nella discussione sulla difficoltà di scrivere una poesia oggi, perché ho la fortuna di non dover correre questo rischio, dato che poeta non sono.
Vorrei però dire la mia impressione su queste poesie e fare una riflessione a voce alta. Spero che chi è intervenuto legga ancora.
Posso valutare una poesia con criteri anche più raffinati, ma, ecco, un po’ troppo analitici e consapevoli: eppure, se devo proprio dire la parola definitiva su un poeta, continuo a tenermi al criterio di Emily Dickinson (cito a memoria: “se sento come se la testa mi si scoperchiasse, so che quella è poesia. Conoscete altri criteri?”). La poesia devo sentirla e mi deve toccare fino a commuovermi. Per me, questa di Armas è certamente poesia, ci sono alcuni versi che si insinuano e toccano corde profonde e c’è anche molta “bravura” come dice Castiglione (non necessariamente in senso deteriore). Però non mi ha commosso. L’assolutezza, per così dire, prefilosofica, rilevata dai commentatori che mi hanno preceduto, mi ha tenuto in qualche modo distante.
Però mi è venuto un dubbio. Nardoni parlava di differenza tra tradizione spagnola e italiana, la prima assoluta ed “elementare”, la seconda legata al pensiero poetante. Io amo la poesia italiana proprio perché “pensa”. Leopardi è all’origine della nostra modernità letteraria e non lo si può eludere. Tuttavia mi domandavo quanto questo gusto per la poesia che pensa non dipenda proprio da un’educazione, un’esposizione allo specifico genio italico, che mi impedisce di sentire una poesia così diversa come quella spagnola (alla fine conosco solo Lorca, e fatico a leggerlo per quella sua esibita assolutezza passionale: ma è il giudizio di chi ne ha letto davvero troppo poco). Insomma, se il limite fosse mio?
Ma aggiungo un dubbio al dubbio. Tra i poeti del nostro Novecento, Luzi è per me fra i più amati. Nella sua poesia c’è una tensione verso l’assoluto, ma chi negherebbe di essere di fronte a un pensiero poetante? Penso soprattutto al “terzo” Luzi, quello di “Frasi nella luce nascente”. Di questo poeta mi ha sempre lasciato esterrefatto la straordinaria capacità di introiezione e di sintesi di esperienze e realtà, che gli ha permesso di essere ermetico, di scrivere “Nel magma”, e di sintetizzare poi la storia e l’assoluto nelle sue ultime raccolte (gentile Nardoni, non sa come l’invidi di averlo potuto conoscere di persona…).
Se dovessi fare come Saba, che divideva i poeti in categorie contrapposte (Goethe “adulto” contro D’Annunzio “adolescente”) e proponeva la grandezza di chi aveva saputo sintetizzarle entrambe in un’unica poesia (Dante), mi verrebbe da dire che Luzi è uno dei più grandi del Novecento perché è assolutezza + mondità.
Adesso farò una sparata epica, perchè non mi ritengo un conoscitore di poesia spagnola (neppure lo leggo lo spagnolo) e certo lo sono meno di quanti hanno postato finora:
tuttavia mi sembra un po’ ingiusto il bollare come “prefilosofica” (per quanto probabilmente attribuisca al termine un valore maggiore di quanto non faccia Lo Vetere nell’utilizzarlo) l’assolutezza lirica che traspare da componimenti come quelli riportati… che la ricerca di una densità della poesia per immagini e figure (per quanto tema\sospetti che oggi possa non più funzionare, ma questo è un altro discorso) abbia in fin dei conti la stessa fondatezza di pensiero che il nostro italico pensiero poetante: nella misura in cui entrambe si mostrano come strategie che assumono la dimensione estetica come chiarificatrice rispetto il pensiero (cosa che, credo, nessuna filosofia potrebbe onestamente fare); molto più mirato mi sembra cercare un discrimine in questo essere la Spagna “un paese aperto alla morte”: pure mi domando se non si tratti di una prospettiva ambigua perchè con una lieve sfasatura semantica immediatamente applicabile ad una tradizione nostrana, tantopiù se vogliamo fare cominciare la nostra modernità letteraria (e penso sia molto giusto) da Leopardi; mi sembra che il corno della questione sia invece (certo non slegato dai due punti precedenti che ho tentato di nominare) piuttosto nella “solarità” della prospettiva spagnola e nel suo appuntarsi sul tema della “parola”: rispetto il quale mi domando se non varrebbe la pena di considerare tale “parola” come il segno vuoto di un generale(a volte generico) interessamento (che credo sia molto scemato nella nostra poesia contemporanea italiana, a meno al suo livello patente) e interrogamento ontologico (uso il termine in maniera generica, non ho idea di come la filosofia si interroghi oggi riguardo una possibile ontologia). E mi sembra che una poesia, un poeta che forse potrebbe servire come cartina di tornasole o termometro di quanto stia io cercando di dire, mettere insieme dell’interessante commentario precedente, possa essere Alfonso Gatto, magari agli esordi: in cui si avvicina a un oltranzismo (assolutezza?) lirico, che apre al discorso nella misura stessa in cui si aggancia al tema della morte, compreso come paradossale possibilità di durata (anche fosse memoriale). E un certo indeciso flirt con la morte mi sembra che ci sia in tanta buona poesia italiana, per cui prima dicevo di un possibile ribaltamento del sintagma lorchiano. forse manca invece un po’ il rapporto con quella morte animale (bellissima scelta d’aggettivo!) di cui scrive Nardoni e che mi sembra possa forse motivare la distanza di un approccio più “elementare” o al contrario “speculativo” in direzioni di ricerca.
chiedo anticipatamente venia per le stupidaggini di cui certo avrò infarcito il tutto: chiedo che se qualcuno mi risponderà si concentri sull’immagine generale e non sui saltati passaggi logici del mio commento(!)