di Clotilde Bertoni

«La polemica mi rinfresca il sangue» scriveva a fine Ottocento un giovane Croce,  raccontando a un amico un suo ferocissimo diverbio (culminato in un duello, a “primo sangue” per fortuna) con Zumbini e i suoi allievi. E le polemiche questo ruolo lo hanno adempiuto sempre, certo nei modi più vari: seguendo una logica coerente o sfrangiandosi in conflitti ulteriori, risolvendosi nel dialogo o deflagrando nella totale frattura, sprigionando un’attrazione superiore a quella dei loro contenuti o persino (basta pensare alle risse prefabbricate dei varietà televisivi) da essi indipendente. Sul loro potere viene ancora da interrogarsi (tanto più mentre sono ancora accesi i riflettori sull’ultimo caso, la querelle Carofiglio-Ostuni): richiama perciò l’attenzione fin dal titolo il libro da poco uscito di Gilda Policastro, Polemiche letterarie. Dai Novissimi ai lit-blog (Carocci, pp. 207, E 18,00).

Ma proprio questo titolo può trarre in inganno. In effetti, se il lavoro prende le mosse dall’antologia del 1961 I novissimi. Poesie per gli anni 60, non intraprende poi una ricostruzione della scena culturale dello scorso cinquantennio: le prove poetiche e narrative della neoavanguardia, su cui il primo capitolo si incentra (e di cui l’autrice si è già occupata, con una monografia su Sanguineti), rappresentano non un punto di partenza cronologico ma un punto ideale di riferimento, perché la loro tensione sperimentale fa da sfondo allo sguardo sulla contemporaneità vero fulcro del discorso; dopo alcuni paragrafi, molto sintetici, su svolte dei passati decenni (l’avvento del postmoderno, le ridiscussioni del canone, il ritorno degli studi tematologici), Policastro traccia un’inquadratura degli anni compresi tra la fine del Novecento e i giorni nostri, non solo restituendone passaggi roventi (le invettive di Moresco contro i critici, il caso Saviano, le controversie sul New Italian Epic), ma anche mettendone a fuoco aspetti d’insieme.

Innanzitutto, il dominio delle holding editoriali, il controllo del commercio librario, la pervasività delle strategie di marketing, che sommuovono la discussione su più fronti: da un lato, in quanto variamente messi sotto accusa (il libro ripercorre diversi attacchi, da Editoria senza editori di Schiffrin, a Scritture a perdere di Ferroni al documentario Senza scrittori di Archibugi e Cortellessa), dall’altro, in quanto ormai insinuati nella produzione letteraria al punto da provocare infiniti errori di valutazione. Se da tanto capita che gli scrittori siano trasformati in divi, oggi sono promossi scrittori specialmente quelli al divismo più adatti, in virtù di meriti eterogenei (accattivante giovinezza, passato turbinoso, buona o, perché no, cattiva reputazione guadagnata in altri campi e così via) ma al talento sempre estranei; e se da tanto l’industria culturale riesce a fagocitare tendenze innovative (proprio il Gruppo 63 è per un po’ trasformato dal suo tempestoso successo in voga del momento, satura di epigoni definiti da Pasolini «giovanotti cretini e petulanti» che parlano «di antiromanzo come se parlassero di prosciutto di Parma»), ora le snatura dal principio: ad esempio, come indicano recenti contributi ricordati da Policastro (un numero di “Allegoria” del 2008, il saggio Senza trauma di Daniele Giglioli), l’attuale romanzo storico e noir, reclamizzato come esempio principe di ritorno al realismo e all’impegno, tende anziché ad affrontare la realtà a neutralizzarla, proponendone appetitose versioni sommamente improbabili e stereotipate.

Un altro problema di fondo consiste nell’impaccio del mondo intellettuale davanti a questa situazione. Oltre a sottolineare (sulla scia delle riflessioni di Segre, Lavagetto, Luperini) la crisi complessiva della critica –  la sua chiusura in specialismi asfittici, l’affievolimento del suo slancio contestatore, la sua perdita di peso sociale –  il libro si sofferma sugli imbarazzi della critica “militante” che con il presente più si misura: ad esempio, la spaccatura tra quelli che ignorano senz’altro la galassia dei bestseller (spesso insignita di fasulle patenti di qualità dalla giostra dei festival e dei premi), e quelli che provano a esaminarla caso per caso; e le lacerazioni create dai condizionamenti pratici e finanziari, che possono raggiungere gradi sconcertanti, come ha mostrato la disputa sollevata nel 2010 da Andrea Cortellessa intorno alla collaborazione di Paolo Nori a “Libero”. Disputa che Policastro riepiloga ampiamente, ma che andrebbe a mio avviso ulteriormente considerata, in quanto preoccupante cartina di tornasole: ne è emerso che l’autonomia intellettuale non è più concetto così scontato, dato che le obiezioni di Cortellessa e altri sull’opportunità di lavorare per un giornale asservito (e nel modo più spregiudicato) al potere berlusconiano, sono state confutate o con elucubrazioni sulla valenza iconoclasta che avrebbero i gesti di peggior piccineria, oppure con richiami al peso delle necessità economiche, certo validissimi, ma insufficienti a giustificare senz’altro la prostituzione della penna (a meno di non avallare la vecchia battuta di Longanesi sul «tengo famiglia» eterno motto di ogni italiano); e la tendenza nostrana a distorcere nei virtuosismi retorici la logica più elementare ha dato il meglio di sé, visto che sono stati bollati come «stalinisti» quanti rivendicavano l’indipendenza dai nuovi totalitarismi camuffati, mentre sono stati designati «libertari» quanti negavano in effetti valore a ogni libertà se non beninteso a quella di fare impunemente il comodo proprio.

Tanto l’intensità che gli sbilanciamenti di questo scontro hanno avuto nel web un fondamentale epicentro. Appunto il ruolo giocato dal web nella recente ripresa del dibattito critico è un altro degli argomenti più in rilievo: alle riviste on line, ai social network, ai blog, Policastro dedica pagine dense di una lunga esperienza diretta, segnalando sia il loro peso che le loro disfunzioni, mostrando come il nuovo mezzo autorizzi, quasi stimoli, gli interventi compulsivi, il narcisismo isterico, l’aggressività ribalda; e appunto il biasimo per queste derive prelude alla speranza in polemiche immuni da asti personali, su cui termina il libro.

Non si può che condividere questa speranza, a patto però di non esagerare in ottimismo. Perché se è vero che gli scomposti psicodrammi di Internet sono un fenomeno dei tempi nostri,  è vero anche che lo slittamento delle discussioni dal terreno solido del confronto a quello scivoloso del litigio, e le sovrapposizioni tra il piano concettuale e quello privato, sono fenomeni di tutti i tempi, troppo perché si possa ragionevolmente sperare di porre loro fine. Da Balzac a Hemingway e oltre, gli scrittori hanno sempre sbuffato sui critici; alla metà del Novecento un autore di destra attaccato da “Temps modernes” si chiedeva perché lo odiassero tanto visto che non lo conoscevano; lo stesso Cassola che Policastro, ricordando la sua cortesia verso Sanguineti, cita come esempio di correttezza, non dimostrava sempre uguale buon gusto (come prova un suo scambio al vetriolo con Bocca); in epoche disparate le contrapposizioni di scuola o di poetica finivano a pugni e schiaffi (magari, ecco, non sollecitati espressamente da un rinomato scrittore su un autorevole quotidiano: l’articolo uscito su “Repubblica”, con cui Pennacchi si inserisce nella querelle Carofiglio-Ostuni, riservando un «vaffallippa» ai sostenitori del secondo, e incitando contro di lui il primo con un «vagli a menà», è un caso di cui non è facile rintracciare precedenti).

   Ma si tratta di eccessi che val comunque la pena di rischiare. Perché le polemiche incoraggiano a oltrepassare gli steccati, mettono in rapporto, seppur tra diffidenze e insofferenze, mondi altrimenti inclini a ignorarsi, suscitano una curiosità forse gratuita come quella per le zuffe dei reality, ma che può portare a scoperte più interessanti; soprattutto, scongiurano il pericolo peggiore, l’indifferenza, l’autismo intellettuale. A volte possono, oltre che rinfrescare il sangue come avveniva a Croce, riscaldarlo troppo, mandarlo in ebollizione, inacidirlo, avvelenarlo, persino farlo scorrere; ma di certo lo rimettono in circolazione e, quel che più conta, rimettono in circolazione anche le idee.

[Immagine: Sylvester Stallone, Rocky IV (gm)].

26 thoughts on “Le “Polemiche letterarie” di Gilda Policastro

  1. Le polemiche, letterarie o no, hanno un senso se basate su qualcosa. La disputa è la forma che sia la filosofia sia l’arte in generale hanno assunto, e non soltanto nella modernità (si pensi alla disputa medievale), per andare avanti e spingere l’intera realtà verso questa o quella direzione. La disputa finta per fare propaganda a se stessi, per lamentarsi di un premio non ricevuto da sé o dalla propria “squadra, e così via, è semplice schiuma. Resta vero, a mio avviso, che chi partecipa a un premio letterario, e in particolare allo Strega, è già per questo uno scribacchino e un mestierante.

  2. qualche appunto sparso.
    il pezzo di pennacchi è secondo me la cosa più divertente e intelligente che sia stata scritta a proposito della querelle ostuni-carofiglio.
    il saggio di gilda l’ho sfogliato in libreria trovandovi, oltre al solito stile muffito, delle corbellerie che mi hanno fatto desistere dall’acquisto (qui ne confuto una che mi riguarda: http://lavienbeige.wordpress.com/2012/09/29/polemiche/).
    l’affermazione di rino genovese sul fatto che chi partecipa a un premio letterario (in particolare lo strega) sia già per questo uno scribacchino e mestierante è priva di senso, non solo perché esistono infinite prove a contrario (trevi e fois lo sono?), ma perché alla maggior parte dei premi si viene iscritti senza alcuna autorizzazione da parte dell’autore, e prima o poi capita a tutti, talmente tanti ce ne sono.

  3. Sarò corto io, ma qualcosa non mi torna. La Gilda Policastro che si scaglia contro “gli interventi compulsivi, il narcisismo isterico, l’aggressività ribalda; e appunto il biasimo per queste derive prelude alla speranza in polemiche immuni da asti personali” è la stessa che, qualche mese fa e su questo stesso blog, sbertucciava e offendeva personalmente i commentatori, si dichiarava disposta a parlare solo con chi avesse la nobile patente di montalista, pretendeva che un blog fosse un convegno letterario, in cui la relatrice discetti e gli ascoltatori debbono starsene buoni e muti, limitandosi a poche e circoscritte domande, cui ella si sarebbe chinata a rispondere solo se l’avesse ritenuto di non troppo disturbo? La stessa che concluse in bellezza con una crisi isterica nell’accesso della quale arrivava a pubblicare gli indirizzi di chi aveva partecipato alla discussione? Straordinario caso di omonimia, di doppia personalità, o banale episodio di ipocrisia?

  4. La sfida sui contenuti stilistici o formali di un’opera attrae, come una calamita. Quella sulla partecipazione ai premi letterari, se svincolata dal valore dell ‘opera, è gossip. Ed in quell’arte del favoloso mondo del chiacchericcio, molte volte, tra le piege oscure del romanzo, si annida l’invidia: io partecipo e tu no, oppure tu hai vinto ed io no. E questi pseudo dibattiti diventano a senso unico, incapaci cioè di dare uno spessore culturale alla libera circolazione delle idee. Perchè la scrittura deve avere la funzione di far circolare, nel miglior modo e con la miglior forma, le idee. Altrimenti è materiale confinato nel cassetto di quei pochi addetti ai lavori.

  5. @Andrea: senza entrare nel merito da te sollevato e senza voler difendere nessun attore della questione, che non mi interessa e sulla quale non ho una visione di insieme, puoi gentilmente eliminare dal tuo vocabolario l’aggettivo “isterico”? Sai, viene dal greco, e in greco significa utero: non credi siano finiti i tempi in cui un uomo può liberamente tacciare una donna di (fantamedica) “crisi uterina”, sottintendendo quindi che una donna si faccia guidare (male) nelle sue esternazioni (ovviamente scomposte) dall’utero? Capisco che degli uomini si è sempre favoleggiato su quanto ragionino solo con il loro membro, ma le persone intelligenti e di cultura (quale certo sarai e quali, grazie a dio, sono tante donne) aboliscono certi luoghi comuni e certi comuni merdosi modi di dire (e di pensare, che è un tutt’uno).
    Grazie.

  6. @Fiorella:

    Vocabolario alla mano, riporto che il termine “isterico” (nel genere femminile “isterica”) indica chi è affetto da isterismo. Per “isterismo” si intende, invece, in senso esteso: “Eccitazione nervosa che porta a reazioni emotive incontrollate ed esasperate”.

    La fonte è questa: http://dizionari.corriere.it/dizionario_italiano/I/isterismo.shtml
    (mi si voglia perdonare se utilizzo il vocabolario online e non, che so, un più sapiente De Mauro)

    Detto questo, dovrebbe essere chiaro che il comportamento isterico e la sua accezione nel linguaggio comune (e scientifico), non è riconducibile solo alla natura etimologica ed uterina, anzi, se così fosse,sarebbe davvero discriminatorio (mentre sappiamo che i problemi nervosi coinvolgono con generosa democrazia sia uomini che donne)

    Vedere un attacco di genere, maschilista in questo caso, anche dove non c’è (e per appurarlo basterebbe leggere i trend degli scorsi mesi della Policastro su questo blog) è francamente un atteggiamento ottuso, vittima di tanta retorica, di frasi fatte, e di un totale scollamento dai fatti reali, limpidi e oggettivi. Lo dico da donna (donna che odia ogni forma di -ismo, maschilismo compreso)

  7. Ultime dal Sole24ore: investire tutto nelle azioni di bianchetto e scolorina…

  8. dal commento di andrea si capisce come l’aggettivo “isterico” sia stato usato pure da gilda policastro (“narcisismo isterico”). se è sbagliato, lo è per entrambi.

  9. Rimando tutti al più calzante dizionario etimologico

    http://www.etimo.it/?term=isterico&find=Cerca

    e Vi lascio convinti, specie Ellida, che se fosse davvero “(donna che odia ogni forma di -ismo, maschilismo compreso)” dovrebbe riflettere sulla presunta buona fede di chi usa le parole senza sfumature di genere.

    Sergio Garufi: se è così, allora sbagliano entrambi. Anche le donne usano parole senza rendersi conto della loro natura etimologica che inviterebbe a una maggiore cautela nel selezionarle.

  10. @ Fiorella d’Errico: perfetto modo di innescare una polemica su un post a sua volta sulla polemica e con nessuna attinenza al tema del post. Appigliarsi a una scelta linguistica in un commento (tra l’altro), e in più tirandone in ballo l’etimologia anziché l’uso e il valore semantico (non è l’etimologia che decide l’uso), e perseverare è… pazzesco. Io posso ritenermi offeso dall’uso di “merdoso” nel tuo commento (che no, non ha connotati di genere, ma sai, mi respinge il registro e il suo essere fuoriluogo e indice di aggressività, forse non isterica, ma comunque), e allora? smettiamola, una volta per tutte, di dilettarci nel decostruire (il gioco delle etimologie è un brutto vizio decostruzionista) e di bearci delle derive. In casi come questi rimpiango la censura dei commenti fuori tema…

  11. “Decostruzionismo” dell’etimologia? Davide Castiglione, con quale consapevolezza usi il linguaggio? Quindi, se dico (come tutti dicono) “casino” o “”ficata”, essere consapevole dell’etimologia e quindi scegliere appropriatamente il contesto in cui usare tali parole, è decostruzionista?
    Sul cassare i commenti che TU ritieni fuori tema, non “rimpiangerlo”, o rischi la figura del reazionario. Che poi, fuori tema non lo è affatto; se esistono le polemiche – anche sterili – di cui in Italia abbondiamo è perché pochissimi sanno vedere il cuore semplice delle cose, e regolarsi di conseguenza.
    Dopodiché, se tu e altri ritengono il mio intervento non condivisibile, abbandonatelo, non ergetevi a scandalizzati censori.

  12. Per ragioni contingenti ora posso intervenire solo rapidamente, scusatemi tutti se mi limito a un paio di precisazioni, credo indispensabili.
    Personalmente io non credo granché alla censura, salvo casi davvero eccezionali. Credo piuttosto alla consapevolezza, alla capacità di riflessione di ogni singola persona. Alcuni degli intervenuti stanno commentando non il post ma i rispettivi commenti: certo, in un blog può succedere, e finché i punti in discussione possono interessare tutti va bene; ma se il loro diventa uno scontro del tutto privato, forse sarebbe meglio, per loro innanzitutto, che se vogliono, continuassero a farlo privatamente.
    La formula “narcisismo isterico” è compresa in un brano che riassume parte del libro di Policastro, ma è mia (me ne assumo tutta la responsabilità). Per verificarlo basta un’occhiata (anche velocissima) oltre che ai commenti, al post.

  13. se l’espressione è tua cambia poco, clotilde. ciò che mi premeva sottolineare è che quel “merdoso modo di dire e di pensare” non è appannaggio esclusivo di maschi beceri che pensano che “una donna si faccia guidare (male) nelle sue esternazioni (ovviamente scomposte) dall’utero”.

  14. La citazione che la Policastro preferisce è “ e cortesia fu lui esser villano “, verso dantesco che più violento contro l’altrui esistenza non v’è, e che usato inappropriatamente raggiunge l’infamia (verso da qualche altro usato anche qui, almeno una volta, per offendere di brutto gli interlocutori polemici, indirizzato a…). Policastro quando un interlocutore non gli piace lo invita a lasciare la discussione… Non lo fa mica così, a caso, senza spiegare… Spiega pazientemente all’interlocutore che manca di stile (se le fai notare che ha sbagliato una citazione), che ciancia, che è intemperante, che capisce poco, che sproloquia… In una precisa e decisiva discussione, sempre qui http://www.leparoleelecose.it/?p=2783 prima dice che Cassola andava a prendere il caffè con Edoardo Sanguineti nonostante fosse da lui offeso come Liala della letteratura (magari ci andava per tentare di avvelenarlo…); poi minaccia di querela un interlocutore fuori le righe. Infine, ciliegina sulla torta, invoca il manicomio per gli interlocutori a lei avversi, e – ciò che è ancora più grave in un ambito letterario – che usano linguaggi e stili che a lei non garbano: “ Ah, Basaglia! “ Giusto per dire.

  15. Gentile Fiorella D’Errico,

    il suo post solleva un tema che mi interessa molto, ovvero quello del sessismo nel linguaggio.
    Tuttavia, riguardo a quello che lei scrive: non le sembra che la conoscenza dell’etimologia della parola sia un requisito un po’ alto per un suo “uso consapevole”, che nel caso specifico significa “non sessista”?
    Dopotutto, in italiano vi sono molti modi di dire derivanti da pratiche tipiche di sistemi sociali passati, che sono diventati -attraverso l’uso- elementi cristallizzati della lingua, oggi utilizzati senza che ci si renda conto della loro motivazione originaria. Molti ad esempio erano legati -alla loro nascita- alla sfera delle pratiche religiose, e oggi vengono usati anche da persone che con la religione non hanno mai avuto nulla a che fare.
    Lei dice che “le persone intelligenti e di cultura (quale certo sarai e quali, grazie a dio, sono tante donne) aboliscono certi luoghi comuni e certi comuni merdosi modi di dire”… ma se il requisito per l’uso consapevole del linguaggio fosse la
    conoscenza della storia di ogni parola che si usa, si tratterebbe di un obiettivo raggiungibile (ad essere estremamente ottimisti) solo da una sparuta élite di persone colte.
    Chi lotta per la parità dei sessi, mi auguro, si pone obiettivi un po’ più ampi di questi.

    Una cosa mi lascia perplesso: tutte le persone che ho sentito parlare di sessismo nel linguaggio hanno formulato delle proposte di uso non sessista -a mio avviso- di difficilissima attuazione (del tipo: ricordarsi di fare l’accordo del participio passato al femminile in caso di nomi maschili e femminili).
    Se invece ci concentrassimo, ad esempio, sugli impliciti presenti nel linguaggio dei mezzi di comunicazione (penso soprattutto alla TV e al Web), troveremmo una marea di stereotipi sessisti che vengono fatti passare nella maniera più innocua. L’esempio classico, da manuale di linguistica, è “Francesca è una bella ragazza, ma ha anche un cervello”. Ora, di sottintesi di questo genere, che secondo me hanno un impatto sulle mentalità molto maggiore di quanto non ne abbia l’etimologia di parole usate oggi con tutt’altra accezione (tanto più che spesso si tratta delle trasmissioni seguite dai più giovani), mi pare che sia pieno il linguaggio della televisione italiana, e non solo nei “programmi spazzatura”.
    Parlando con molti dei miei coetanei e colleghi di studio (io ho 24 anni e studio all’Università), mi sono reso conto di quanto questi stereotipi siano presenti nella comunicazione quotidiana delle giovani generazioni.

    Denunciare la presenza di questo tipo di discriminazione nel linguaggio dei media, e fare attenzione al tenerla fuori dai nostri discorsi, mi pare sia un obiettivo assolutamente alla portata, perché l’abitudine a pensare in un certo modo si cambia molto più facilmente dell’abitudine a parlare in un certo modo.
    Se poi la mia incapacità di riflettere sull’accordo dei participi che pronuncio mi qualifica come maschilista, beh… ho il timore che sarò a lungo in buona compagnia.

    La mia impressione è che sull’aspetto a cui accennavo si discuta relativamente poco rispetto al dibattito sulle forme sessiste della nostra lingua (vedi le “Raccomandazioni” di Alma Sabatini) da abolire e da sostituire; se mi sbaglio su questo punto, lo prenda come una mia lacuna di aggiornamento.

    Il senso generale dell’intervento spero lo si sia capito: credo sia più semplice e più utile porre l’attenzione sugli impliciti e sugli stereotipi che stanno alla base 1) di ciò che diciamo e 2) di ciò che sentiamo e/o leggiamo accendendo la televisione, o navigando in Rete, rispetto all’abolizione di modi di dire che (in questo mi trovo in totale disaccordo con la chiusura del suo intervento) possono anche restare molto più indietro dei modi di pensare.

    Un cordiale saluto, e perdonatemi tutti per l’off-topic.

  16. L’autoreferenzialità della “critica” italiana lascia spesso senza fiato. La sollecitudine con cui essa ricostruisce le proprie evenienze storiche, le proprie condizioni di possibilità stante questo o quel contesto, le aneddotiche relative alle proprie linee di conflitto e ai vari posizionamenti nel campo letterario, è inversamente proporzionale alla sua attenzione nei confronti dei soli oggetti che ne giustificherebbero in qualche modo l’esistenza: le opere letterarie. Non bastava, dall’alto del suo superiore e irraggiungibile sapere, averle trattate per decenni come pretesti su cui esercitare le proprie proposte di metodo e di storicizzazione (si legga: schermaglie scolastiche, dissidi corporativi), al limite mostrando di stilare una tantum qualche classifica inverosimile, o qui e là confezionando “tendenze” basate sui tratti più esteriori e di breve momento; ora, completato il proprio processo di emancipazione, la critica passa allegramente a non leggerle tout court, le opere: le quali, inservibili, non comprese, peraltro troppo spesso refrattarie a quelle strumentazioni ermeneutiche sulle quali nel frattempo ci si è concentrati al di là di ogni fattivo ancoraggio testuale, è bene che restino inedite o che trovino sbocco nei luoghi più esoterici e irraggiungibili. Ché la critica, quella, ha imparato, negli anni del suo infinito suicidio, a farne evidentemente e definitivamente a meno.

  17. Adminicula. Questa è la parola giusta. Un armamentario che proviene dalla storia e non solo dalla radice etimologica di isteria, restituisce verità non solo al significato della parola, ma all’uso.
    Perché le derive linguistiche hanno anche loro una tradizione storica.
    Hysteria, infatti, nella sua accezione etimologica viene dal greco, e ὑστερα significa utero.
    La sua radice, o meglio la sua matrice linguistica, nasconde una storia che spazia nel torbido sospetto in cui era avvolta la malattia, tutta al femminile.

    L’uso di questo termine non può quindi prescindere dall’abuso che nel passato la scienza medica ne ha fatto per la donna.
    Nell’antica Grecia si pensava che i sintomi di questa malattia, tipicamente femminile, fossero dovuti allo spostamento dell’utero ed ogni fobia impulsiva o caratteriale della donna, meramente di stampo psicogeno, veniva medicalmente trattata con l’isterectomia ovvero con l’asportazione dell’utero. Giungendo così a confondere i sintomi con i rimedi (cfr. Ilza Veith, The History of a desease, The University of Chicago, 1965, pag. 5 e seg.).
    Con l’accusa di Hysteria venivano anche etichettate quelle donne che osavano ribellarsi alla sottomissione da parte dell’uomo, oppure quelle che si comportavano da uomini, con carattere dominante, o con pulsioni sessuali accentuate, per poi essere portate al rogo ed arse vive nel Medioevo. Bollate come streghe.
    Il Malleus Maleficarum, scritto da due frati domenicani, professori di teologia, Jacob Sprenger, Hienrich Institor Krämer, che risale al 1487, è stato, per secoli, il manuale utilizzato per la caccia alle streghe, anche se mai adottato ufficialmente dalla Chiesa.
    Con la Bolla Summis desiderantes affectibus del 5 dicembre 1484, Innocenzo VIII conferì pieni poteri ai quei due frati per scorazzare liberamente in alcune regioni della Germania al fine di svolgere -incontrastati- la loro opera di Inquisizione contro il delitto di stregoneria, e procedere alla correzione, all’imprigionamento ed alla punizione delle persone macchiate di eresia e di altri simili mali. Il dato materiale, o meglio il delitto nella sua sfera oggettiva era indicato nella bolla papale: incantesimi, lusinghe, sortilegi ed altre pratiche abominevoli.
    Nello stesso titolo della prima parte del manuale i due nominanti inquisitori (dell’eretica pravità) attestano che il termine maleficarum ha la vocale al femminile e gli autori dichiarano, erroneamente, che la parola femina (donna) deriva da fide+minus (fede minore). (cfr. “Institoris: il martello delle streghe “, in Storia della Stregoneria, di Giordano Berti, Mondadori, Milano, 2010).
    Jean Martin Charcot, nella prima metà dell’ottocento, intuì, per primo, che l’isteria poteva essere una nevrosi sprovvista di danno anatomico specifico, peraltro non sempre tipicamente femminile.
    Pierre Janet, allievo di Charcot, dimostrò attraverso studi statistici che fra i pazienti isterici non era presente una costante di atteggiamenti spiccatamente erotici compulsivi della donna, gettando le basi per uno studio approfondito della psicanalisi
    Solo per verificare il forte sessismo con il quale, nel passato, veniva usata la parola isteria basta vedere alcune iconografie di Salpêtrière, dove venivano bollate come isteriche donne in attitudes passionalles.
    L’uso comune della parola “isterico” ha, in parte, banalizzato il suo significato storico, per arrivare, oggi giorno, ad indicare genericamente “chi ha umore stravagante, irritabile, facile agli scatti nervosi e a reazioni incontrollate, e con tendenze istrioniche” (cfr. Enc. Treccani on line, voce isterico, http://www.treccani.it), senza distinzioni di sesso.
    Mi sentirei deprivato del mio isterismo se fosse un vocabolo riservato alle sole donne. Ma sentirei di difendere una donna se le fosse usato, spregiudicatamente, contro.
    Trovo, però, che l’accoppiata narcisismo isterico, se riferito al solo stile, possa rimanere beatamente confinata nel crepuscolo della critica letteraria. È un metalinguaggio, punto e basta. Con quel tocco di ridondanza, quasi onomatopeico nella sua derivazione (narcisismo-isterismo), perché il narciso, di per sé, è sempre un po’ folle e creativo. E, dove c’è l’arte o il genio, c’è liceità di dare libero sfogo a quell’umore che plasma la parola, il verbo, l’aggettivazione, destrutturando l’oggetto.

  18. Dei comportamenti di Policastro nei lit-blog non c’è molto altro da aggiungere rispetto a quello che si era già detto nel thread di un post di NI e di quello che con riferimenti testuali (più di così…) si è detto finora qui.

    Per quanto riguarda le polemiche sui blog, la mia esperienza è stranamente diversa da quella di Gilda Policastro, pur frequentando per certa parte gli stessi siti.
    La mia esperienza è che in internet più che i rissaioli da pollaio, i pistolafacile e gli oclocratici, c’è tanto conformismo: La maggior parte dei commenti che si leggono sono dei coriandoli, complimenti e stati di solluchero per padroni di casa. C’è molto più olio da massaggi che polvere da sparo su internet, tanto per capirci.
    Credo che questo tipo di commentatore-massaggiatore faccia molto male a qualsivoglia blog, più dei fantasmatici oclocratici, più che altro perché trattano i blog non come andrebbero trattati (cioè come delle piazze ammodernate) ma come delle capanne nelle quali entrare solo se in veste di re magi, rinforzando l’idea forzuta del blog padronale.

    L’altra tendenza è l’intolleranza verso il dissenso (proprio perché fatto “a casa d’altri”), verso le critiche o le tesi non conformi a quelle del post. Non c’è educazione che tenga in quei casi. Si può adoperare anche il più aggiornato bigino del galateo, o attingere dai testi cortesi primigeni, la percentuale che un autore ti tacci di maleducazione, trollismo, dossieraggio persecutorio, macchina del fango è davvero altissimo.

    Certo, ci può sempre scappare quello che fa il cafone… ma da quello che sempre visto io nei blog penso che i discorsi si tengono piacevoli e positivi e qualitativi quando chi gestisce il post si mostra poco permaloso e non crede che i suoi testi siano intoccabili, o che peggio padre una critica al suo pezzo equivalga alla violazione di un manoscritto dantesco.
    Spesso, voglio dire, è il blogger a mandare alle cozze i commenti e con loro i commentatori… quando succede così, di solito, è il post ad essere scarsuccio e molto (argomentativamente) attaccabile. Ma questo è un altro discorso… forse.

    Spero in ultimo che, nel libro, Policastro non abbia dato alla blogosfera una colonna sonora da far west, perché non credo sia quella la verità. LPLC ospita solitamente delle discussioni civilissime, sia per merito di chi vi partecipa sia di chi gestisce i suoi post (sono però in totale disaccordo con la moderazione preventiva).
    Vi dirò di più il commentario è talmente civile qui che anche quando per esempio uno come Franco Buffoni decide di ignorare bellamente chiunque gli muova delle critiche, rispondendo solo a chi la pensa come lui, operando in sostanza una discriminazione per alcuni postattori, i toni restano perfettamente urbani.

    E molti altri posti sono così.

  19. Intervengo una seconda e ultima volta, dopo aver pensato un bel po’ se farlo o no. In generale sarei d’accordo con Bertoni, che trova che i commenti dovrebbero avere per oggetto il post e non altri commenti, almeno se ciò significa deriva infinita della discussione e spostamento del focus. Però mi sento un po’ responsabile di avere (spero mi si creda, del tutto involontariamente) innescato una polemica. Se ho scritto quel mio primo commento è proprio perché non amo le risse virtuali e mi piace discorrere del merito. Ecco perché mi aveva colpito e, devo dire, anche un po’ infastidito, leggere di quello che a me pareva un atteggiamento ipocrita al riguardo. Dunque, faccio un’eccezione alla regola che mi do e intervengo a commentare altri commenti.
    Perché ho definito quella di Policastro una “crisi isterica”? Io seguii da semplice lettore la discussione su Montale e ne notai la completa deriva verso l’offesa gratuita. Era chiaro che Policastro si difendeva e attaccava ormai sul piano personale, sempre più esasperata. Immagino che un gesto piuttosto grave come la pubblicazione degli indirizzi fosse dettato da una perdita completa della pazienza, fosse un atto di stizza violenta. Ora, io metaforicamente l’espressione “crisi isterica” la uso e continuerò a usarla, senza eliminarla dal mio dizionario. La uso per le donne e pure per gli uomini (che, mi consta, non hanno l’utero), a indicare una perdita di controllo che dà in gesti inconsulti e rabbiosi.
    Però è vero che è un’espressione forte e magari chi se la veda affibiata può anche giustamente risentirsi. L’ho usata con un po’ troppa disinvoltura. Non volevo offendere né Policastro, né nessun’altra donna. Ho peccato di scarsa ponderazione e me ne scuso. Se il risentito commento di D’Errico contiene anche l’invito a usare con cautela le parole, l’accetto, aggiungendo però che più importante dell’espungere parole dal vocabolario è saper ammettere i propri errori e chiederne venia. Si parla, si scrive, si fa la frittata e si rompono delle uova. Può capitare. L’importante è non mostrare protervia, credo.

    Proprio perché credo che non valga la pena offendersi e offendere attaccandosi a questa o quella parola, non mi offendo per le molte aggressive allusioni di D’Errico a me rivolte (in quanto maschio): non mi offendo per il fatto che si dica che un certo mio uso linguistico sarebbe “merdoso”, né per il fatto che si dica che, se non fosse per la cultura di cui certamente sono fornito, anche io ragionerei con il membro come tutti gli uomini (curioso: la donna non è riducibile al suo utero ma il maschio sì al suo membro?).
    Gentile D’Errico, l’aggressività non manca di sensibilità e tatto verso i propri interlocutori tanto quanto gli usi sessualmente connotati della lingua? Le intenzioni, i contesti d’uso, la storia che le parole si portano dietro, poi, non contano nulla?
    Dio è parola di genere maschile e sappiamo tutti che dipende da una storia religiosa maschilista. Da ciò possiamo seriamente trarre la conseguenza che tutti coloro che continuano a pregare Dio senza cambiar la parola di genere sono dei maschilisti o, se donne, delle sottomesse a una logica di potere fallocentrica? A me va benissimo anche decostruire il linguaggio e riportarlo alla sua etimologia, ma gli usi, la storia, i contesti, non possono essere cancellati con un colpo di penna. Pesano troppo, per cui è impossibile farlo; poi non sono così sicuro che sarebbe davvero auspicabile che ciò accadesse. Non vorrei azzardare troppo e portare lontano il discorso, ma le logiche giacobine di radicale denegazione del passato di solito non hanno prodotto poi i valori di libertà ed eguaglianza dai quali prendevano le mosse…
    Saluti a tutti

  20. Ma possibile che ci si debba scusare quando, senza insultare nessuno, si usano le parole nel loro senso corrente? E che ci si debba sciupare tanto tempo e tanto spazio altrimenti impiegabile per discutere dell’argomento in tema?
    Che si debbano fare tanti giri di parole, camminando sulle uova, per timore di lesa maestà del politically correct?
    Mamma mia, un equilibrismo verbale peggio che nei salotti vittoriani dove se dicevi “gambe del tavolo” svenivano tutti; mentre poi si osannava la repressione della rivolta dei sepoys, con l’esercito che legava i ribelli indiani sulle bocche dei cannoni e bùm! li spediva in mille pezzi ad maiora. Come oggi: congratulazioni e Te Deum per la macellazione di Gheddafi, dittatore maschilista, volgare e berlusconiano, pas de deux e pensose geremiadi per le etimologie sgarbate….

  21. Errata corrige:

    al posto di “Mamma mia”, prego inserire “Genitore (1 o 2?) mio/a”

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