di Paola Argenziano

È un caso forse poco interessante dal momento che di fatto riguarda solo i pochi che hanno superato gli astrusi test preliminari diffusi dal Ministero (tra l’altro, sulla base delle nuove precisazioni comparse in data 25/10/2012 nella sezione news del sito del Cineca questi tanto contestati test preliminari sembrano essersi composti da soli: perché gli incaricati alla stesura dei test con decreto direttoriale n.52 del 5 agosto 2011, pubblicato sul sito del Ministero e del Cineca in data 29 agosto 2012, in realtà sarebbero “esperti che non hanno dato alcun contributo alla predisposizione dei test o che hanno fornito contributi non utilizzati (per quanto utilizzabili)”. Insomma chi li ha formulato questi test?).

Siamo pochi, ma il nostro caso è emblematico del ruolo in cui in Italia sono relegati i ‘giovani’ lavoratori, in particolare nel mondo della scuola.

Diciamo ‘giovani’ tra virgolette: perché a guardare i dati forniti dal CINECA  (https://tfa.cineca.it/documenti/ESTRAZIONE1.pdf) l’età media degli iscritti per classe di concorso va dai 32 ai 40 anni. Siamo cioè ‘ragazzi’ che, per lo più,  hanno già acquisito una certa esperienza nel mondo della Scuola o dell’Università e che aspettavano, dal 2007, cioè dall’ultimo anno di esistenza della SISS, una nuova occasione per abilitarsi all’insegnamento.

Siamo lieti che finalmente, con il TFA, questa nuova occasione di abilitarsi ci sia stata data e siamo convinti che le Università che patrocinano il TFA, in associazione con le Scuole, ci arricchiranno con conoscenze e competenze utili per il mestiere che abbiamo deciso di intraprendere.

Tuttavia ci preme di rendere nota alla pubblica opinione l’assurda condizione in cui ci verremo a trovare: essere tirocinanti nelle Scuole quando già nelle Scuole – o nelle Università – si sono ricoperti ruoli di responsabilità; ed in più pagare profumatamente questo servizio di tirocinio (siamo intorno ai 2.500 euro a tirocinante). Siamo tutti grandi, la maggior parte di noi già da anni si è resa economicamente autonoma dalla propria famiglia di origine ed ora ci troviamo inseriti in un percorso di formazione costoso e tanto impegnativo da non lasciare tempo ad alcuna attività fonte di guadagno. Chi può si paga il TFA con i soldi che ha messo da parte, chi non ne ha si affida alle famiglie, e chi non ha famiglie che possano aiutare dovrà contrarre dei debiti (la situazione è particolarmente dura per i ‘ragazzi’ che non vivono con i genitori e devono pagare un affitto).

Ma questa gravosa situazione è resa ancora più amara dal fatto che vediamo sfuggire sotto i nostri occhi una preziosa, perché rarissima, opportunità di ingresso nel mondo del lavoro: il concorso a cattedre indetto con DDG n. 82 del 24/09/2012. A questo concorso non possiamo prendere parte perché, secondo le disposizioni del Decreto Interministeriale n. 460 del 24/09/1998,

http://archivio.pubblica.istruzione.it/normativa/1998/di460_98.shtml,

“a partire dal primo concorso a cattedre, per titoli ed esami, nella scuola secondaria bandito successivamente al 1 maggio 2002 […] il possesso della corrispondente abilitazione costituisce titolo di ammissione al concorso stesso (art. 1)”.

Non riusciamo a comprendere perché questo concorso a cattedre debba accavallarsi in modo illogico al nostro processo formativo. Infatti prerequisito per accedere al concorso a cattedre (i cui termini di presentazione della domanda scadono il 7 novembre) è l’abilitazione, un titolo che noi conseguiremo solo tra qualche mese.

In nessun modo ci possiamo sentire rassicurati dalle parole pronunciate dal Ministro Profumo in dichiarazioni rilasciate agli organi di stampa riguardo all’ipotesi di indire un secondo concorso a cattedre il prossimo anno, perché ci sembra del tutto inverosimile che dopo un intervallo di dieci anni in cui nessun concorso è stato celebrato, ora, nella disastrosa situazione economica in cui il Paese si trova e con i tagli di organico che le misure sulla Scuola proposte dal Governo rischiano di produrre, si celebrino due concorsi in due anni consecutivi.

Allo stato attuale l’unico dato certo è che i candidati che hanno superato le difficili prove di selezione per accedere al TFA sono stati esclusi dall’agone del concorso a cattedra. Che questo risultato sia frutto di una pura casualità riesce difficile a credersi. Quel che è certo è che l’esclusione degli ammessi al TFA non aiuta certo quel processo di rinnovamento e rilancio della scuola italiana che il ministro Profumo ha più volte dichiarato di perseguire.

[Immagine: Andrew Brodhead, Not Recyclable (gm)].

16 thoughts on “Lo strano caso dei “ragazzi” del TFA

  1. Sono contento che questo intervento, che avevo già letto su http://www.claudiogiunta.it, sia stato pubblicato qui, perché richiede qualche commento.
    In primo luogo, sottoscrivo del tutto le osservazioni iniziali.
    Il TFA (per i profani: Tirocinio Formativo Attivo, il corso di formazione per ottenere l’abilitazione, istituito dal 2010 e di fatto avviato solo con l’a. a. 2012-13) è partito molto male.
    In primo luogo, è molto grave che il corso abbia il costo esorbitante ricordato (2500 euro circa) e che l’esame stesso per accedervi abbia costi spesso elevati.
    Secondo, è scandaloso che l’esame di accesso sia di fatto un esame senza programma: il bando non definiva precisamente quali erano i contenuti su cui i candidati dovevano prepararsi. Non ho mai visto un concorso senza programma.
    Terzo: il punto precedente ha avuto come conseguenza che i candidati si sono trovati di fronte, nel test preselettivo, domande di una erudizione assurda, molto spesso del tutto inutile; ma se avessero saputo prima che quello era il livello richiesto, la cosa sarebbe stata accettabile. In questi termini, invece, l’esame è stato insultante e, inizialmente, ha tagliato le gambe a tante persone senza ragione.
    Quarto: poi si è cercato di rimediare alla cosa abbuonando una quantità enorme di test “sbagliati”, ma lo si è fatto in modo così approssimativo che si è aggiunta ingiustizia a ingiustizia.
    Su tutto questo concordo, e va denunciato. L’esame del TFA non deve più essere condotto in questi termini.
    Diversa è invece la questione del concorso.
    In primo luogo, ci sono norme di legge, del 1998, che stabiliscono che da quell’anno si può accedere ai concorsi per la scuola solo avendo già l’abilitazione. Il bando di concorso è un decreto ministeriale, normativamente inferiore ai decreti legislativi, e che quindi non poteva cambiare quella norma.
    Inoltre, da un punto di vista più generale: in questa faccenda bisogna evitare di contrapporre gli interessi in conflitto dei diversi gruppi e cercare di trovare un equilibrio.
    Mi spiego.
    Se non si fosse fatto nessun concorso, continuando a fare assunzioni solo dalle graduatorie a esaurimento, si sarebbero tenuti bloccati ancora per molto tempo sia gli abilitati più giovani (ma spesso molto preparati) sia i non abilitati.
    Se si fosse fatto un concorso aperto a tutti (cosa impossibile sul piano legislativo) si sarebbero penalizzati enormemente gli abilitati con più anzianità di servizio, inasprendo il conflitto tra i gruppi, che in parte è generazionale (ma solo in parte).
    E’ necessario fare nuove assunzioni nella scuola, ma senza bloccare le assunzioni dei laureati delle ultime leve; allo stesso tempo, non si può fare finta che gli abilitati che hanno fatto funzionare la scuola per anni non esistano.
    Quindi, l’unica soluzione è procedere con i concorsi con regolarità.
    Un primo concorso per iniziare ad assorbire gli abilitati delle graduatorie; un secondo concorso ravvicinato per iniziare ad aprire le porte ai primi abilitati dei TFA. E poi concorsi regolari. Il governo dice ogni tre anni. Meglio sarebbe ogni due.
    Ovviamente, il grande problema sono le risorse. Attualmente, il provvedimento inizialmente proposto dal governo (aumento delle ore di lavoro dei professori della secondaria, e conseguente riduzione di spesa) dovrebbe essere ritirato: è già stato presentato un emendamento, che il governo sosterrà, che sopprime la norma e reperisce i soldi altrove (non nella scuola).
    In ogni caso, con il grave problema dei precari il problema delle risorse rimane. Tuttavia, la rivendicazione, da parte di tutti, dovrebbe essere quella di garantire gli investimenti adeguati e di trovare soluzioni flessibili per il reclutamento, non di prendere posizioni che inevitabilmente portano alla guerra tra poveri.
    I futuri partecipanti ai TFA devono richiedere il concorso per la primavera prossima, come annunciato. E’ su quello che la rivendicazione deve essere ferma, non sull’ammissibilità al concorso attuale, che serve solo e mettersi in opposizione con gli abilitati delle graduatorie.

  2. Anche io avevo già letto questo pezzo e altri su questo tema sul sito di Claudio Giunta; anche io sono felice che qui si possa commentare. In realtà non commento, ma aggiungo informazioni. Ringrazio Claudio Giunta, che come sempre presta attenzione ad aspetti complessi e purtroppo noiosi della scuola, ma che sono quelli che poi ne fanno la qualità vera (o le impediscono di produrla). Altrove sento quasi solo retorica.
    Chiedo già scusa per la lunghezza, ma ci sono alcuni punti su cui vorrei offrire la mia testimonianza e bisogna spiegare ai profani una materia che è intricatissima; però già questo sarà un indice significativo della situazione della nostra scuola e in particolare di uno dei suoi segmenti delicati, il mondo dei precari, che sarebbero poi i giovani che dovrebbero fare la scuola dei prossimi anni. Vado per punti.

    1) CONCORSO. Dal punto di vista formale, ha ragione Mauro, ovvero, il concorso taglia la testa al toro, perché in modo molto rigoroso stabilisce che chiunque abbia un titolo ABILITANTE può concorrere: il concorso del ’99, le Sis, le lauree o i diplomi precedenti certe date, quando questi titoli erano ancora abilitanti. Ciò per evitare ricorsi e contenziosi.
    Ma nella sostanza ci sono alcune contraddizioni. Il ministro “tecnico” conosce e pratica le più scaltrite arti del politico: dissimulare sotto mantelli sgargianti la triste realtà. Per il Tfa parlava di aprire ai giovani. Già è stato detto quale fosse l’età media dei concorrenti al Tfa. Per il concorso parla, grosso modo, di prima vera selezione meritocratica dopo anni di confusione. Falso, perché le Sis sono state per dieci anni un canale di selezione a numero chiuso, con due anni di studio e tirocini e un esame finale con tesi. Chi le ha fatte le ha pagate profumatamente.
    L’assurdo è che questo personale già selezionato ora debba sottoporsi a un’altra selezione, quella appunto del concorso. Occhio, non si tratta di gente che sia a spasso a far altro e pretenda di far valere un diritto di prelazione, ma docenti che insegnano nella scuola ormai da anni e che sono ancora precari solo perché in questa condizione li si è voluti lasciare. Per inciso, il concorso costa, e non poco (mi pare un milione di euro): ma “chisto è o paese do sole” e siamo capaci di spender soldi per selezionare personale già selezionato. Poi il governo tecnico ci massacra su tutti gli altri fronti, ma questo spreco, passi: serve a cingersi le tempie del fulgore dell’alloro della “meritocrazia”.

    2) TFA. Dal tono risentito del precedente punto si sarà capito che sono un ex-sissino. Gli abilitati ancora precari come me in linea di massima non vedono di buon occhio nuove abilitazioni: dicono, più o meno, “se hanno selezionato me per primo, entro prima io”. Messa giù così può sembrare egoismo bello e buono, ma si tratta della, credo, legittima rabbia di chi ha investito tempo, denaro, passione nelle Sis e dopo magari 7-8 anni di precariato si trova ancora al punto di partenza. Però vorrei anche dire che una ragione non sempre ne esclude un’altra e mi sembra legittimo da parte di chi ha 25 anni (quei pochi che a quest’età hanno tentato il TFA) aspirare alla professione di insegnante così come vi aspiro io. Poi, non si può far pagare il conto della situazione attuale a un’intera leva.
    C’è però un problema: l’uso che dei Tfa hanno fatto gli Atenei. Spiego.
    Quelli passati sono stati anni di tagli feroci alla scuola. I posti si sono ridotti, dunque la richiesta di personale si è ridotta. Tuttavia parlare in generale non serve. Ci sono materie in cui il fabbisogno di docenti è addirittura alto, ad esempio matematica e scienze alle medie, dove gli abilitati non bastano e si ricorre anche ai neolaureati. In questo caso non è solo giusto, ma addirittura necessario, abilitare nuovo personale. Però ci sono materie in cui sono saltati addirittura insegnanti di ruolo, che hanno cominciato a girare come palline impazzite, venendo ricollocati ora in una scuola ora in un’altra ogni anno (hanno diritto al posto, diversamente dai precari, ma direi che ciò è perfettamente legittimo). Io conosco bene la situazione di italiano e latino nei licei ed essa rientra proprio in questo caso. Ora, il buon senso inviterebbe a evitare – magari almeno per il momento – di abilitare nuovo personale in queste materie. E invece che fanno gli atenei? Chiedono di poter attivare il Tfa anche per futuri docenti di lettere nei licei, e il ministero concede. Per chi vuole approfondire, mi permetto di rimandare a un mio intervento su di un sito per insegnanti, in cui cercavo di spiegare, con qualche dato alla mano, le ragioni di questo comportamento; evito così di ripeterle qui e allungare un brodo già lungo. (http://diventareinsegnanti.orizzontescuola.it/2012/03/22/su-chi-speculano-le-universita-con-il-tfa/). Comunque, molto in sintesi, le Università avevano stringenti ragioni di cassa e di sopravvivenza e hanno pensato bene di sfruttare a questo fine i Tfa: introiti in cambio dell’abilitazione per un posto che chissà quando arriverà. Mi dispiace molto per chi ci è cascato. Ma, d’altra parte, non poteva saperlo. Solo da dentro si capisce questo folle mondo della scuola italiana.

    3) MASTER FASULLI. La follia più grande e il fatto più vergognoso della carriera di un precario che aspiri a fare l’insegnante, però, sono i master fasulli. Essi servono a resistere nel tritacarne delle graduatorie per le supplenze. Con il beneplacito della politica, degli atenei, del Ministero stesso (che appone i suoi timbri all’impresa e perciò rende i master perfettamente legali) diverse joint-venture di numerose università italiane (il termine mutuato dal sistema privato e dalla sua logica di lucro non è casuale) e alcuni enti privati erogano questa “alta specializzazione post-laurea”. Dietro il pagamento di rette che vanno dai 600 ai 1200 euro a corso, predispongono materiali di studio e un esame finale costruiti apposta perché nulla si debba studiare, affinché il precario possa raggranellare tre preziosi punti in graduatoria. Contenuto formativo, ovviamente, pari a zero. “Ma rifiutatevi di farli!”, penserà chi è fuori dal mondo della scuola, “è una vergogna!”. Lo so. Ma racconto qual è stata la mia esperienza.
    Nell’ingenuo moralismo dei venticinque anni, appena abilitato, mi rifiutai di pagare l’estorsione. Due anni dopo arrivò il cosiddetto aggiornamento del punteggio in graduatoria, che permette di salire o scendere di posizione a seconda del servizio prestato, dei nuovi titoli acquisiti (dottorati, specializzazioni, seconde lauree e, appunto, master veri e falsi) e così via. Bene, scoprii di essere stato scavalcato da parecchi persone, perché la massa di coloro che l’estorsione la pagavano era la grande maggioranza. Un po’ come correre una maratona con tre quarti degli atleti dopati. Mi trovai di fronte al dilemma di coscienza: rinunciare a correre la maratona? accettare le regole del gioco? correre senza doping rischiando di non arrivare mai in fondo (considerando soprattutto che la drammatica contrazione di posti nei licei, dove ho insegnato prima che la Gelmini me ne estromettesse, aveva messo in concorrenza centinaia di podisti per qualche decina di posti)? Mi dissi che l’insegnante volevo farlo e che se in un paese in guerra l’Onu paracaduta cibo dall’alto, gli abitanti lì sotto non stabiliscono regole per un’equa divisione, ma sgomitano o si scannano per arrivare per primi. Mi sentivo in guerra. Così pagai per due corsi, per un totale di 1200 euro, da aggiungere ai 3000 già spesi per la Sis. Per quella che ora mi sembra solo un’impagabile dimostrazione di stupidità – come se non sapessi come va il mondo –, mi dissi anche che, dovendo studiare, almeno potevo sforzarmi di mettere a frutto pure quella robetta. Così mi misi sotto con la prima unità del primo master, scoprendo ben presto che non solo studiare era superfluo, ma che era impossibile, visto che le dispense erano scritte così male e i quiz di esercitazione erano così insensati, che non si poteva cavarne niente.
    Per fortuna la mia coscienza non si era del tutto sopita e due anni dopo si ribellò, obbligandomi a cercare, se proprio la legge della sopravvivenza imponeva di prendersi titoli su titoli solo per non restare indietro, di cercare almeno un corso serio, che sarebbe stato certamente più costoso ma almeno mi avrebbe insegnato qualcosa e mi avrebbe fatto sentire a posto con me stesso. Scelsi una specializzazione in italiano a stranieri (utile nel caso di una fuga all’estero…); studiai con soddisfazione (e fatica, stavolta), ma il totale della spesa in formazione post-laurea ammontava, a questo punto, a più di 6000 euro.
    Tanto può arrivare a costare il percorso di avvicinamento a un posto da insegnante fisso nella scuola italiana. Comunque so che alcuni, pochi e coraggiosi, si rifiutano di fare quei corsi. Di solito la pagano con ulteriori anni di precariato. Io non ho avuto tanto coraggio e questo non mi fa onore.
    È anche vero però che basterebbe che il Ministero avesse la volontà di estirpare il virus e rifiutasse di apporre il bollino di validità legale ai corsi. Neanche il Governo di coloro che possono permettersi di non tener conto di nessun interesse particolare è stato capace di farlo. Ah, già: dimenticavo che il nostro ministro dell’Istruzione è un ex-rettore e che sono le università a mangiarci su. Non si fanno sgarri agli amici.

    4) PROGRAMMI DEL CONCORSO. Chi ha letto i programmi del concorso? Invito chiunque voglia farsi due risate, e belle gustose, a leggersi quelli di lettere. A fronte della situazione suddetta e di uno stipendio da impiegato (con rispetto per gli impiegati, ovviamente) la burocrazia ministeriale e i suoi esperti esigono che il futuro professore di ruolo conosca la letteratura dalle origini a oggi (con particolare attenzione per il Novecento), una trentina di autori del canone con lettura approfondita e diretta di quante più opere è possibile, la critica letteraria, nelle sue differenti opzioni metodologiche e nei suoi autori più importanti, la linguistica teorica ed applicata, la sociolinguistica e la dialettologia, la storia della lingua, la semiotica e i nuovi media, la letteratura dialettale, il funzionamento dei mass media e della cultura pop, la storia universale dal Paleolitico ad oggi, la geografia e l’educazione civica (o meglio: “cittadinanza e costituzione”, come ha voluto la Gelmini, perché bisogna cambiar nome perché nulla cambi), la bibliografia essenziale e la sitografia di riferimento di ciascuna disciplina, le scienze dell’educazione, la psicologia dello sviluppo, la docimologia; inoltre si esige che l’insegnante sappia gestire la classe multietnica “come risorsa e non come problema” e maneggiare le letture facilitate per i ragazzi con handicap; infine, che conosca la normativa ministeriale in materia di scuola. Ovviamente il futuro professore di ruolo deve dimostrare non solo una sicura padronanza dei contenuti di tutti questi ambiti, ma anche conoscerne i fondamenti epistemologici, in modo tale da saper cogliere di ogni disciplina i tratti più significativi e caratterizzanti, per organizzare l’apprendimento nelle forme più adatte alle esigenze di una moderna didattica; in cauda, si dovrebbe aggiungere la familiarità con le nuove tecnologie, pratica e anche un po’ teorica, perché esse siano usate consapevolmente e non acriticamente, nonché la padronanza di una lingua straniera, posseduta ad un livello almeno B2 (che, per intenderci, prevede la capacità di comprendere due madrelingua che parlino fra di loro senza attenzione alla presenza dell’ascoltatore straniero…).
    Il paradosso è che, mi dico, tutto ciò in effetti un insegnante dovrebbe saperlo o saperlo fare: come negare che sia fondamentale che abbia una conoscenza il più possibile ampia e profonda della letteratura? Che debba aver letto la Vita nuova e La cognizione del dolore? E le conoscenze necessarie all’educazione linguistica? Non vorremo mica riportare la scuola a prima che si scrivessero le tesi GISCEL? E tutti gli stranieri e i disabili, non hanno forse legittimi diritti? E poi, può la scuola, oggi, non aprirsi alla cultura di massa e ai nuovi media?
    Ma se tutto ciò è sensato, che cosa allora non funziona in quella sterminata enciclopedia del sapere? Da quando fare l’insegnante è diventato un mestiere impossibile, perché presuppone conoscenze e capacità che è evidente non possano ritrovarsi tutte in un’unica persona? E vale la pena farlo se il precariato che si deve affrontare è quello descritto?

  3. Lo stesso concorso è profondamente ridicolo: vi possono partecipare all’ingrosso solo quelli che sono abilitati: quindi? Non sono all’ingrosso gli stessi che sono nelle graduatorie ad esaurimento?

  4. Ringrazio gli amici che hanno speso il loro tempo a spiegarci la situazione surreale in cui si trova la scuola italiana: un esempio istruttivo, tra l’altro, di cosa significhi fare critica non ideologica ma concreta delle politiche del governo “tecnico”. La condizione dell’insegnante (retribuito quando va bene, lo si ricordi, con 1.500-1.600 euro al mese) è uno specchio del paese e di ciò che è diventato. E ciò a fronte del fatto che, ben più dell’università (che sul precariato scolastico ha addirittura “speculato”), la scuola ha una funzione formativa fondamentale.

  5. Grazie a Claudio Giunta per aver concesso spazio alla nostra voce di denuncia. E grazie anche a Mauro Piras e Daniele lo Vetere per le dettagliate informazioni.

    Anche io, come Piras, sono convinta della necessità di un ritorno ai “concorsoni” e, aggiungo, il più difficili possibile: l’insegnamento è un compito delicato e per accedervi è giusto che ci sia un concorso difficile (come sono difficili, ad esempio, i concorsi per la magistratura).

    Concorsi difficili introdurrebbero in ruolo insegnanti davvero preparati e motivati, e questo contribuirebbe a migliorare lo statuto dell’insegnante e renderlo all’opinione pubblica una figura professionale più rispettabile (perché l’insegnante non è un mestiere che gode nell’opinione pubblica di molta solidarietà né di molto rispetto) . Questo maledetto sistema delle graduatorie ad esaurimento ha infatti premiato più che la bravura del docente, la sua età ed i soldi che ha speso in master e corsi vari utili ad acquisire punteggio.

    Dunque ben vengano i concorsoni. E in linea teorica sono anche d’accordo che requisito d’accesso al concorso sia l’abilitazione: un fresco laureato a mio avviso difficilmente è in grado di affrontare una classe; e neanche è giusto che l’insegnante, come avviene negli altri mestieri, acquisisca poi le competenze necessarie direttamente sul campo, ovvero sulla pelle degli studenti.

    Ma quello che lamentiamo noi del TFA è l’insolita celerità con cui si è provveduto dai piani alti a bandire questo concorso, senza attendere l’abilitazione di noi “ragazzi” trentenni o ultra-trentenni del TFA (ricordo che è dal 2007 che manca la possibilità di conseguire l’abilitazione).
    Sarebbe bastato appena qualche mese, bandire il concorso a primavera, per dare modo anche a noi tirocinanti di partecipare a questa importante occasione di ingresso del mondo del lavoro.

    SI parla di un altro concorso a breve per gli abilitati del TFA: ma voi ci credete? ci saranno i soldi?

  6. “l’insegnamento è un compito delicato e per accedervi è giusto che ci sia un concorso difficile (come sono difficili, ad esempio, i concorsi per la magistratura)” (Argenziano).

    Anche nell’antica Cina gli esami erano difficili.
    Copio questo brano, il resto al link:http://www.treccani.it/enciclopedia/mandarini_(Enciclopedia_delle_Scienze_Sociali)/

    “L’istituto degli esami costituì il principale punto di forza della classe dei mandarini e le garantì spesso l’appoggio della popolazione, che vedeva in tale meccanismo la possibilità, almeno teorica, di entrare a far parte del ceto dirigente.
    Il sistema degli esami, pur assolutamente rivoluzionario e ‘aperto’ se paragonato ai sistemi di reclutamento in uso in tutte le altre civiltà antiche, in realtà era soggetto a tali e tante limitazioni che, in pratica, era destinato solo alle classi più agiate.
    La partecipazione alle competizioni era formalmente vietata a quattro gruppi di persone e ai loro discendenti per tre generazioni: figli di prostitute, attori di teatro, carnefici o sgherri al servizio dei mandarini e, infine, guardie carcerarie.La preparazione, che poteva durare anche alcuni decenni, le spese sostenute per tutori e insegnanti privati, nonché le lunghe trasferte nelle sedi d’esame, costituivano, anche in epoche di maggiore liberalità, un ostacolo assolutamente insormontabile per coloro che non provenivano da famiglie di funzionari o di proprietari terrieri. Piuttosto che uno strumento per aprire la carriera mandarinale alla popolazione, il sistema degli esami fu quindi il principale meccanismo per l’autoconservazione del ceto burocratico.”

    E mi chiedo e vi chiedo: basta il superamento di un esame difficile per fare un buon insegnante?
    E, superato quello una volta, si resta per tutta la carriera “buoni insegnanti”?
    E in una scuola, che resta scassata e irriformata, che miracoli saranno richiesti ai “buoni insegnanti”?
    E a queste domande aggiungo un tozzo di B. Brecht:
    “Se le istituzioni sono buone, l’uomo non deve essere particolarmente buono. Certo, allora” gli si offre la possibilità di esserlo”
    (B. Brecht, Me-Ti. Libro delle svolte, p. 115, Einaudi, Torino 1970)

    Un saluto
    prof Samizdat (ex insegnante)

  7. Cara Paola (a scuola, tra colleghi, ci si dà del tu fin dal primo giorno, anche se non si ha confidenza e prossimità di amicizia: se per te non è un problema, rispetterei questa abitudine anche in questo incontro virtuale, nell’auspicio che il tuo percorso nel Tfa si concluda positivamente), sono d’accordo con te sia sulla fretta nell’indire il concorso sia sulla severità che un percorso di selezione del personale docente dovrebbe avere.

    Della fretta del ministro io mi sono dato questa spiegazione, perché non me ne sovvengono altre sensate: Profumo sa che tra pochi mesi non sarà più ministro dell’Istruzione e perciò sa di non avere tempo. Avrebbe potuto soprassedere sul concorso e fare altro, ma ci teneva a mostrarsi attivo. Spero che la ragione sia solo quella che traspare dalle sue parole, quando ha detto di voler lasciare un modello di lavoro in eredità ai futuri governi. Parte infatti dal presupposto che un concorso siffatto sia un buon modello per il futuro. Vedremo.

    Quanto alla formazione severa, io credo che questo sia un mestiere intellettuale e dunque non possa che farlo, per dire le cose in modo molto semplice e un po’ rozzo, chi legge molto, e criticamente, e pensa ogni giorno al rapporto tra cultura e realtà (tra “parole” e “cose”), sapendo perciò intervenire nel modo più efficace possibile nell’educazione di persone che vivono in QUESTO presente, con le sue esigenze, nobili o ignobili che siano.
    Il problema, enorme, è che questo tipo di cultura cui faccio riferimento, l’unica in realtà sensata dentro la scuola, è difficile da valutare, tanto più da valutare con un esame secco.
    I bravi insegnanti non riducono mai il giudizio sullo studente ai suoi risultati nei test, ma se ne fanno un’idea completa. Capita a volte addirittura di dover constatare come un ragazzo con risultati non brillanti sia in realtà acuto e ricettivo, dotato di un’intelligenza per misurare la quale i nostri strumenti sono inadatti. Per arrivare però a questo giudizio, l’insegnante deve imparare a conoscere il ragazzo un giorno dietro l’altro, un anno dopo l’altro. Ora, nella selezione del personale docente, questo tipo di valutazione è difficile, per non dire impossibile. Presupporrebbe un’osservazione sistematica protratta nel tempo e la possibilità di dire, ALLA FINE del percorso, se una persona è valida o no per il mestiere di insegnante. Purtroppo ci si deve limitare alla selezione in ingresso e una volta per tutte, tramite test e domande. Quello sul quale si può lavorare è la serietà nella preparazione di quei test e domande, nella trasparenza, nello sforzo di migliorarli, emendandoli un po’ alla volta. Mi pare infatti difficile sostenere che un test non valuti PER NULLA le capacità di una persona. Una qualche correlazione positiva, per dirla con gli statistici, tra conoscenze e capacità, c’è.
    Tuttavia un test (un concorso) è un mezzo molto “povero” per fare quella selezione di persone dotate di spirito critico e cultura attiva di cui parlo, e non va idolatrato. Per questa ragione ho paura che la richiesta di una selezione severa si scontri con oggettive impossibilità, intrinseche al processo stesso di selezione. Probabilmente un serio sistema di valutazione in itinere al servizio potrebbe tenere “sotto pressione” gli insegnanti e aumentare la qualità del loro lavoro. Però anche questo è un tema delicatissimo. Non apro la questione della valutazione autentica, perché scriverei un post lunghissimo, ma mi limito a dire che è molto facile che la valutazione degli insegnanti, come quasi ogni altra valutazione (anche le certificazioni di qualità del settore privato, come ISO e simili), si trasformi in valutazione formalistica della correttezza delle procedure e non della sostanza. Esempio concreto: il bravo insegnante sarà quello che ha imbrattato più carte con progetti e programmazioni, non quello che entra in classe ed educa.

    Permettimi un’osservazione. Non so se nella tua menzione polemica alle graduatorie e ai soldi spesi per progredirvi tu facessi riferimento anche al mio coming-out sui master fasulli. In ogni caso io ho collegato le due cose e vorrei precisare ulteriormente quello che ho già scritto. Non vorrei infatti che la mia volontà di denunciare uno scempio si traducesse nella generalizzazione che allora tutte le persone iscritte nelle graduatorie siano poco pulite.
    Di quanto il sistema stesso imponga la logica perversa del master a pagamento ho già detto, e anche di quanto sia importante ricordare i pochi “martiri” che hanno rifiutato di soggiacervi.
    Però dentro le graduatorie a esaurimento ci sono tante e diverse persone. Essendo quello il canale privilegiato di ingresso nella scuola degli ultimi dieci anni, dire che chi è dentro le graduatorie non ha alcun merito significa sostanzialmente mettere nel mucchio dei professori incapaci (o poco capaci) un’intera generazione di coloro che domani saranno dentro la scuola, a reggerla e farla avanzare. Mi preoccuperei molto se i nostri studenti fossero in mani così poco raccomandabili.
    Così però non è. I sissini (sono loro infatti gli iscritti nella graduatorie a esaurimento) sono persone che hanno superato una selezione equiparabile a un concorso. Come dicevo, un test d’ammissione è un mezzo molto imperfetto, pur se necessario, di selezione, ma questo vale per ogni concorso: l’attuale e quello di accesso alla Sis non sono diversi.
    Alcuni dei punti di titoli in graduatoria poi sono guadagnati attraverso dottorati, scuole di specializzazione, seconde lauree, ecc… Non si può pensare che un’intera coorte d’età stia arrivando all’insegnamento solo per estorsione di denaro. Poi, anche molti di quelli che sono costretti a pagarla, sono bravi professori. Ne conosco un sacco e ti chiedo di fidarti del mio giudizio.
    Parlando dell’età, poi, sono d’accordo che non possa essere l’unico criterio, ma in questo senso. Con un sistema di reclutamento serio, potremmo forse garantirci una discreta selezione in ingresso di personale capace. Ma una volta fatta la selezione, quel personale deve avere qualche garanzia sul percorso intrapreso, ovvero deve sapere che se spenderà denaro e tempo, quel percorso lo porterà da qualche parte. Diversamente, nessuno lo intraprenderà più, poiché troppo rischioso ed aleatorio. In questo senso l’età diventa un fattore di cui tenere conto: tra i meritevoli, ci dovrebbe essere uno scorrimento ordinato per classi di età, in modo che chi ha intrapreso il percorso prima entri prima in ruolo. In un sistema siffatto nessuno pesterebbe i piedi a nessun altro. Credo che anche quello che tu dicevi, sull’importanza che nell’ingresso in ruolo sia data la priorità a chi ha esperienza, non significhi poi niente di diverso.
    Se i sissini ancora precari sono arrabbiati è perché un sistema di reclutamento a numero chiuso li aveva illusi (tutti ce lo dicevano) di essere entrati nell’“imbuto” giusto. Invece poi i tagli della Gelmini e le iniziative confuse di Profumo hanno messo in discussione tutto. Il sistema delle graduatorie è, secondo me, un pessimo sistema e io sarei per abolirlo. Però attenzione a non dedurre dal fatto che il sistema sia pessimo che anche chi è stato costretto a entrarvi lo sia.
    Io sto impazzendo da otto anni per sopravviverci. Provo anche a spiegarlo a chi della scuola non sa molto e fatico davvero a farmi capire. Perdonami se ti racconto il mio percorso, ma credo sia istruttivo.
    Forte del fatto di essere fra i soli 20 vincitori alla Sis di un posto da insegnante di italiano e latino nei licei e visto che lì volevo insegnare, iniziai a lavorare in quell’ordine di scuola. Con i tagli della Gelmini persi il posto, ma riuscii a ricollocarmi alle medie (la Sis consentiva di ottenere più abilitazioni contemporaneamente, diversamente dal Tfa, che vi impone la scelta, a quanto ne so). Ma il sistema delle graduatorie ha regole tanto rigide quanto idiote. L’esperienza concreta e viva non conta nulla e tutto è contabilizzato solo in punti: aver lavorato in un ordine di scuola non ti dà nessun diritto nella graduatoria di un altro, per cui da tre anni mi ritrovo a lavorare dal fondo della graduatoria delle medie e, se non riuscirò a vincere un posto in questa gara al massacro del concorso, mi dovrò con pazienza scalare dal fondo alla cima un’altra graduatoria. Anche a molti altri, ovviamente, è capitato questo. Capirai, quindi, quanto per noi l’“anzianità” non sia un privilegio, bensì un diritto che cerchiamo di difendere, ma che viene conculcato, per gettarci nell’incertezza e nella frustrazione.

    Un’ultima cosa: da chi è composto attualmente il mondo del precariato? Esistono sottogeneri di precari per tutti i gusti: abilitati con concorso, abilitati con leggi speciali, abilitati con Sis, abilitati con Tfa, non abilitati, ecc… Questi sottogeneri di una medesima specie si beccano tra loro, come i polli di Renzo. I vincitori di concorso videro come fumo negli occhi noi sissini, noi sissini vediamo come fumo negli occhi voi iscritti al Tfa, i non-abilitati vedono come fumo negli occhi tutti gli altri…
    Chi crede alla teoria del complotto sostiene che dietro tutto ciò ci sia una lucida volontà politica, insomma, il romano “divide et impera”; io credo molto più semplicemente che l’attuale caos dipenda da disinteresse e imperizia della politica e da tentativi di riforma lasciati a metà o troppo contraddittori e insensati per poter andare a buon fine.
    Di fronte a questo marasma, dovremmo evitare di incorrere in semplificazioni nell’analisi, di buttare la responsabilità addosso a quel capro espiatorio o a quell’altro. Come ho detto, non credo che ci sia un Grande Vecchio che ci divide per meglio manovrarci, ma di sicuro riflettere (e lottare) divisi devia preziose energie intellettuali nella direzione sbagliata.
    Spero che potremo presto parlare di letteratura, di filosofia, di arte, di fisica, di matematica e di come insegnarle, non dovendo più snervarci per ottenere una cosa così semplice: un posto di lavoro nel quale, molto semplicemente, fare bene il nostro mestiere.

    Saluti

  8. Test per aspiranti insegnanti.
    Alla convenzione Diesse, Il Ministro della Pubblica Istruzione in carica ha pronunciato la seguente frase: «La scuola, come luogo fisico, diventerà un ambiente di interazione allargata e di confronto, che mano a mano supererà gli spazi tradizionali dell’aula e dei corridoi. La immaginiamo come un vero e proprio Hub della conoscenza. Aperto agli studenti e alla cittadinanza, centro di coesione territoriale e di servizi alla comunità, un vero e proprio centro civico».
    A) che cosa significa?
    B) quale prognosi per la scuola italiana si può ricavare dalla lettura della suddetta frase?
    C) di che cosa è tecnico il suddetto Ministro? Barrare con una crocetta una delle seguenti risposte: 1) ingegneria dei trasporti 2) assistenza sociale 3) disinformazione e sovversione

  9. @ Abate. Sulla sua domanda, se un concorso basti a fare buoni insegnanti, credo di aver detto come la penso nel mio commento precedente, scritto quando ancora non avevo letto il suo.
    Quanto al fatto che la scuola resti irriformata, a me pare invece che di riforme negli ultimi due decenni se ne siano fatte anche troppe e molto confuse, spesso stabilendo l’equazione “riforma=razionalizzazione(= tagli)”.
    Le qualità vere dell’insegnante sono qualità imponderabili: né l’istituzione né i concorsi possono valutarle, però dietro questa affermazione in passato si è anche nascosta l’idea pelosa che l’insegnante possa sgusciar via da ogni rendiconto del proprio lavoro. L’obiettivo difficilissimo da raggiungere sarebbe come trovare un modo sostanziale e non formalistico di rendicontare, ovvero fornendo un “rendiconto intellettuale” e non un “rendiconto burocratico”. Sarei felice di accogliere qualche suo suggerimento su come fare, dal momento che ha conosciuto il mondo della scuola.
    Io temo che nel silenzio e isolamento in cui lavorano gli insegnanti, e nella crisi della cultura umanistica, domani la scuola diventerà un’istituzione ancor più burocratizzata e, se mi si passa la brutta parola, tecnificata. Con questo rispondo a @Buffagni.
    Sulle parole e le idee del ministro: io trovo che siano solo piene della retorica di tutti gli esperti di nuove tecnologie, retorica che proprio dal fatto di non essere accompagnata da nuovi investimenti è tanto più odiosa. Probabilmente sa che quel linguaggio futuribile e fantascientifico avrà presa sull’opinione pubblica. Io lo trovo un non-linguaggio. Ma, constatato ciò, il problema vero è: dov’è la cultura umanistica? Che cosa abbiamo da far valere noi contro questo imbarbarimento del pensiero e della lingua? Molto spesso solo il rimpianto per il bel mondo perduto. Invece solo contrattaccando potremmo provare almeno a scendere in campo e guerreggiare (certo, senza certezze sull’esito). E oggi contrattacchiamo efficacemente solo partendo dal presupposto, ad esempio, che le nuove tecnologie CI SONO. Togliamole dalle mani dei tecnici e dei guru e usiamole ai nostri fini. Se pretendiamo di discutere ancora a monte (“nuove tecnologie sì o no?”), Profumo avrà facile ragione con le sue stupidaggini. Certo, questo non dovrei dirlo qui su LPLC, che immagino raccolga persone che non hanno preconcetti su di esse. Ma qualche difficoltà in più si ha con colleghi e critici accademici.

  10. a Daniele Lo Vetere.

    Non ho esperienza diretta del mondo della scuola, se non come studente tanti anni fa, e come genitore di studenti oggi. Me ne interesso come italiano. Sulle disastrose riforme della scuola italiana ho trovato molto accurate e profonde le diagnosi di Costanzo Preve; sulla valutazione degli insegnanti e degli studenti, sagge ed equilibrate le posizioni di Giorgio Israel. Sono facili da trovare su internet, e a quelle rimando per una discussione seria di quei temi.
    Per quanto riguarda la “spendibilità” politica immediata della cultura umanistica, faccio notare che il sistema scolastico (specie pubblico, ma non solo) anglosassone, al quale di solito si ispirano le varie riforme della scuola italiana, è una fabbrica di ignoranza e disaffezione, dove un decente liceale italiano fa la figura di Leonardo da Vinci.
    Se ne sono accorte anche le autorità preposte, e nel mondo anglosassone si sta assistendo alla reintroduzione di materie di studio accantonate come il latino e addirittura il greco. Stanno cominciando le scuole private più prestigiose (e costose), e vi sono tentativi anche nella scuola pubblica. Ecco, magari con l’autorità e il prestigio degli esempi anglosassoni gli insegnanti italiani di materie umanistiche potrebbero tentare di far breccia nell’opinione pubblica.

  11. @ Lo Vetere

    Caro Lo Vetere,

    quando confronto la mia esperienza nella scuola, che ho lasciato nel 1998, con certi squarci sulle “rovine” (i rendiconti depressi di amici e amiche che ancora lì lavorano o quello sincero che emerge dal suo intervento), non mi sento di suggerire alcunché.
    In generale la situazione (non solo quella della scuola) peggiora (al di là di quel che dicono i governanti) e non vedo movimenti o gruppi politici capaci di arrestare questo declino.
    Ho letto, tuttavia, con simpatia la sua analisi; e dalla collocazione di ex una sola cosa mi sento di fare: confrontarmi e diradare un po’ di nebbiolina ideologica che mi pare avvolga il suo discorso.
    Mentre, infatti, trovo lucide sia la descrizione dei suoi colleghi annaspanti nel precariato e sia le denunce della nuova selezione di un personale già selezionato o dell’uso corporativistico che gli Atenei hanno fatto dei TFA o dei master fasulli o della spesa che un aspirante docente deve sostenere per andare all’arrembaggio di «un posto da insegnante fisso nella scuola italiana», meno convincente mi pare l’individuazione dei responsabili politici di questa situazione.
    Definirla folle o surreale (Genovese) a me pare generico. Forse non si è in grado di fare nulla contro di loro, ma almeno individuarli e nominarli si deve. Tutti e non solo la solita Gelmini.
    Lei scarta l’antipatica teoria del complotto e il romano “divide et impera”. Però le scelte strategiche (che, non essendo mai del tutto trasparenti, ai complotti possono avvicinarsi) ci sono. L’attuale caos (e non solo nella scuola) non dipende solo da «disinteresse e imperizia della politica e da tentativi di riforma lasciati a metà o troppo contraddittori e insensati per poter andare a buon fine». Forse non c’è più in Italia neppure una classe dirigente coi fiocchi, con una «lucida volontà politica». Ed è peggio. Vuol dire che le mosse di quella attuale, anche nel campo della scuola, sono condizionate da altro o sono suggerite da altri, più potenti. Ma comunque essa domina (anche se non governa nel senso classico della parola) e impedisce di pensare e d’imboccare altre strade. Domina conservando una situazione di caos, circondandosi di funzionari meno esperti e più manovrabili, lasciando a metà delle (false) riforme. E lo può fare, perché sa che una tale politica non va (lo si vede) incontro a una reale opposizione. (Non ce n’è. È stata fatta terra bruciata – questa la mia convinzione – di tutto un patrimonio culturale e politico che costituiva un serbatoio o una banca dati per un’opposizione vera).
    Lei sbaglia, perciò, a non pensar male dei potenti, degli attuali (o dei precedenti), a concedergli ragionevolezza e buon senso. Ho l’impressione che su questo terreno opaco e scivoloso lei non voglia inoltrarsi. Comprendo le sue resistenze. Capisco che un insegnante bravo e preparato abbia voglia di «parlare di letteratura, di filosofia, di arte, di fisica, di matematica e di come insegnarle». O occuparsi di grandi problemi come quello del destino della cultura umanistica. E che organizzarsi assieme ad altri è sicuramente «snervante» e nulla garantisce un risultato positivo. Eppure, se non si riorganizzano delle minoranze critiche (dentro e fuori la scuola), ci si dovrà rassegnare solo al mugugno e lo slittamento verso «la legge della sopravvivenza», che è in effetti sottomissione alla legge dei più forti, continuerà inevitabile.

    P.s.
    Sì, ho sbagliato a parlare di scuola irriformata. Avevo in mente le possibili (ideali) buone riforme e ho sorvolato sulle cattive che hanno peggiorato la situazione di studenti e insegnanti.

  12. Caro @Abate, lo so, ho chiuso su di un auspicio a discutere di didattica e i destini della cultura umanistica sono quelli che più mi appassionano. Tuttavia posso garantirle che anche un umanista “puro” come me fa le sue analisi politiche e, perfino, arriva all’azione, anche in piccole “minoranze critiche”. Se intervengo a dirlo non è perché voglia correggere il tiro sulla sua intepretazione delle mie parole – quello che ho apprezzato molto di questo post è stata la possibilità di parlare nel merito della situazione tragica della scuola e metterei da parte il mio narcisismo -, ma perché farlo mi permette di aggiungere un elemento (ahimé non positivo) al quadro.
    Ho partecipato pochissimi anni fa e ancora bazzico movimenti spontanei di precari che cercano di organizzarsi. E’ molto difficile farlo, perché i più “tengono famiglia” e mandano sempre avanti altri, i movimenti precari, prima o poi e volenti o nolenti, restano impigliati nelle faide tra sindacati (e loro iscritti), molti colleghi neanche conoscono i propri diritti e se questi vengono conculcati a volte quasi non se ne accorgono e ti guardano con lo sguardo bovino se provi a spiegarglielo, eccetera eccetera eccetera.
    Insomma posso garantirle per esperienza che “organizzarsi assieme ad altri è sicuramente «snervante» e nulla garantisce un risultato positivo”, al punto tale che spesso poi molte volte si torna a casa mesti.
    Un saluto

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