[Questi due articoli, pubblicati sulla «Domenica» del «Sole 24 Ore» dell’11.09.2011, dialogano con questo intervento di Gabriele Pedullà, apparso nella stessa sede il 28.08.2011].

È la lingua che non ha più fascino

di Daniele Giglioli

Sul Domenicale del 28 agosto Gabriele Pedullà ha lamentato la caduta verticale dell’interesse per lo stile da parte dei critici e degli scrittori italiani: se non tutti, almeno la maggioranza. L’articolo è pieno di osservazioni acute, tra tutte la possibilità del l’avvento, anche in campo letterario, di un fenomeno che ha investito ormai da molto tempo (diciamo da Marcel Duchamp, e poi dalla pop art, dal concettuale, da Fluxus…) le arti visive: non più opere ma “concetti” o performance che si esauriscono in se stesse e nella reazione che suscitano senza passare per la mediazione del lavoro sul testo. Ma manca, a mio avviso, la radice del problema, del quale non a caso non addita in alcun luogo le cause, se non, parrebbe, l’ignavia degli scrittori, il cinismo del mercato e la malafede dei critici che non fanno il loro dovere.

Ma il primo dovere dei critici davanti a una trasformazione radicale (appunto) è quello di capire, e con ciò delimitare il perimetro in cui potranno poi misurarsi le opere e i giudizi. Diciamo allora che ci troviamo di fronte a un fenomeno di proporzioni ben più vaste, di cui gli scrittori sono una componente importante ma non unica né maggioritaria. Quello che accade non è solo e non è tanto che gli scrittori scrivono “male” (molti sì; ma è stato così in tutte le epoche; solo i puristi ottocenteschi credevano che nel benedetto Trecento tutti scrivessero bene, compreso gli autori di partite doppie o di lettere commerciali); è piuttosto il fatto che la lingua comune, il linguaggio verbale, l’idioma nazionale, si è drammaticamente impoverito, ovvero non è più ritenuto un luogo in cui avvengono esperienze significative sotto il profilo sia della conoscenza che dell’emozione. La lingua ha perso carisma, non è più oggetto di amore, non è più palestra di lavoro né di gioco, non veicola più né sacro né eros. Passioni, interessi e pensieri, individuali e collettivi, vengono simbolizzati altrove: nella vasta galassia del visivo (cinema prima, poi televisione e nuovi media, videogame compresi); e più ancora in quella capillare estetizzazione dell’esperienza quotidiana che è tipica di una società dominata dal marketing.

Certo non è un fenomeno recente. La storia letteraria del Novecento sta tutta sotto la sua costellazione; e già Gautier, Baudelaire e Mallarmé sapevano quanto la vera Medusa che pietrificava la loro scrittura fosse ciò che chiamavano La Moda. Non si spiega altrimenti l’ermetismo della letteratura modernista, il sabotaggio della comunicazione praticato dalle avanguardie, la scelta operata da molti, per competere con la concorrenza spietata di questo diverso e ostile universo simbolico, di incrementare lo spessore dei propri procedimenti, di esasperarne gli effetti, di estrarre la quintessenza del proprio medium, da Proust (i cui personaggi erano consumatori compulsivi), a Joyce (il cui Leopold Bloom era un pubblicitario), fino al borborigmo dei personaggi di Beckett o all’isteria interiettiva del l’ultimo Céline. Solo che, come dire, non ha funzionato. La battaglia è stata persa, e bisogna dirselo: il grande stile modernista è rimasto un fenomeno di élite, o di studio accademico, così come quelli che si proclamano rivoluzionari si incontrano ormai solo nelle università. Il postmoderno è solo un nome, uno tra i tanti, della sconfitta subita.

Riconoscere questo stato di cose non significa approvarlo. Che la letteratura (e la società) risultatane sia peggiore di quella del passato non può e non deve essere taciuto. Ma per reagire si deve disporre di una mappa accurata. Piuttosto che accusare gli scrittori di scrivere male, si deve capire il perché della loro subalternità (e con essa, di tutte le subalternità): il fatto per esempio, paradossale se ci si pensa, che per molti il doversi esprimere attraverso il linguaggio verbale sembra più una condanna che un’opportunità. Potessero, si ha l’impressione ne farebbero a meno, comunicando direttamente con le immagini, un po’ come gli adolescenti che postano brani e sequenze su YouTube o su Facebook. Non competono più, si sottomettono. E non a un diverso linguaggio ma a chi attraverso di questo detiene il potere.

Purtroppo, o meglio per fortuna, non si può. La letteratura si fa con le parole. E tante altre cose si continuano e si continueranno a fare con esse: la politica, l’amore, praticamente tutto ciò che ci rende esseri umani. Un popolo senza lingua è un popolo senza polis, e dovrebbero riflettere gli atenei che oggi erogano corsi direttamente in inglese, retrocedendo così l’italiano a un dialetto, una lingua domestica incapace di parlare di cose serie come la scienza e l’economia. Una letteratura che si limiti a rispecchiare questa situazione non può che avere un valore sintomatico. Ma non bisogna sottovalutare il valore del sintomo: in forma straniata e dolorosa (o falsamente euforica, che ne è il rovescio speculare) esso è sempre l’espressione di una verità nascosta, occultata, cancellata. E la verità da portare in luce è proprio quella condizione di subalternità in cui si dibattono non solo gli scrittori ma tutti. Per uscirne non serve a nulla ammantarsi delle glorie del passato. Riconoscersi subalterni è il primo passo per non esserlo più.

 *

Un sintomo dello stato dell’opera

di Gilda Policastro

Gabriele Pedullà ha lanciato da queste pagine il tema della latitanza dello “stile” dalla narrativa italiana contemporanea, provando a localizzarne l’origine o l’effetto in un doppio deficit di consapevolezza estetica da parte tanto degli scrittori (o scriventi, per recuperare una efficace distinzione di Luigi Malerba) quanto dei critici, nella loro quasi totalità maggiormente propensi a considerazioni di volta in volta sociologiche, storiche, ideologiche, politiche eccetera (Daniele Giglioli parla di «sintomi», nel suo recente Senza trauma, contrapponendoli, via Žižek, ai «feticci», ovverosia alla persistenza e valutazione delle opere in un senso monumentale).

Lo stile, a dirla con l’uso tradizionale della categoria, è una misura di coerenza propria o rispetto al genere prescelto (comico, tragico, elegiaco, nella classica separazione) ma se si vuole provare ad aggiornarla, tale categoria, si dovrà ripartire da quegli autori del Novecento (non solo italiano) che dell’assenza di stile (ma già, teste Auerbach, della mescidanza) hanno fatto, significativamente, programma di poetica, da Beckett a Sanguineti: quest’ultimo chiudeva una poesia di Postkarten col dichiarato impulso a violare continuamente una propria ineludibile maniera e, insieme, quella sorta di luogo comune mondano che è lo scrivere o il comportarsi bene: «Oggi il mio stile è non avere stile». Viceversa i romanzi contemporanei, così poco debitori alle avanguardie e in generale a un uso spregiudicato e “sabotatore” della lingua uno stile, effettivamente, ce l’hanno, sia pur piatto e monocorde: è nella gran parte dei casi lo stile precotto della fiction o dell’autofiction, del romanzo apocalittico o post-apocalittico, del noir, del poliziesco. Uno dei “casi” letterari della passata stagione, Elisabeth, di Paolo Sortino, ha uno stile “da thriller” e dunque ha uno stile, e ne ha un altro, quello dell’entertainment delle serie televisive, il recente e non riuscitissimo Libertà del pure altrove (ne Le correzioni, ad esempio) magistrale Franzen.

Ciò che manca ai romanzi nostrani è, allora, più propriamente la lingua, che è dallo stile differente, pure se a esso inevitabilmente connessa: non si ripeteranno nozioni abituali per teorici della letteratura, linguisti e post-strutturalisti, andando a distinguere il codice convenzionale di espressione dalle sue varianti diafasiche o dal suo inveramento individuale. La differenza tra la lingua che si parla al bar e quella che parla la letteratura è, per dirla in modo semplice, una differenza di natura prevalentemente funzionale: la lingua non serve, avrebbe detto Lacan, solo a trasferire informazioni, ma a godere delle cose, o a soffrirne, a illuminarle, o velarle, smontarle, interrogarle, corromperle, infettarle. La lingua è allora il vero «sintomo» dell’opera, nella misura in cui essa è palpabile: come il medico tocca il polso del paziente e diagnostica il male, se non la cura, apriamo un libro e ne sentiamo la lingua, prima di apprezzarne la tenuta narrativa o la costruzione dei personaggi e della trama. La materia prima, e insieme l’aura mai perduta, della vera opera d’arte, a dispetto e contro ogni serialità e riproducibilità dominante.

63 thoughts on “Stile e romanzo: Daniele Giglioli e Gilda Policastro

  1. Ma la distinzione (derisoria) tra scriventi e scrittori non era di Roland Barthes? Boh, non si finisce mai di imparare. Comunque sono d’accordo con tutti e tre.

  2. L’omonimo saggio di Barthes è in effetti del ’60, dunque precedente rispetto al mio riferimento che va invece al pamphlet di LM “Che vergogna scrivere”, del ’96. Ma citavo Malerba e non Barthes perché il discorso del primo era più immediatamente legato alla “foga” dell’iperproduzione nella scrittura (e alla conseguente esiguità dei lettori, tra l’altro), discorso non solo quanto mai attuale, ma evidentemente intrinseco al tema della mancanza di stile. A proposito.

  3. Mi chiedo se questa rilevante questione (attiva nella riflessione sulla letteratura contemporanea almeno da Prima lezione di letteratura italiana di Ferroni, se non erro) non sia sollevata da una generalizzata equazione del tipo: scrittura creativa=autenticità=spontaneità; autenticità che nel mondo della fiction e dell’immagine è senz’altro un bisogno primario. L’equivoco è nel modo in cui essa si raggiunge; l’opinione diffusa che la scrittura “di getto”, senza filtro, senza labor limae sia “autentica” e un generale oblio della vecchia ma sempre sacrosanta nozione di “sprezzatura” sono sicuramente alimentate dalle varie writing school o dai diffusi servizi di autopubblicazione (“Se l’hai scritto, va stampato”), che certo non invitano allo scavo e alla profondità del lavoro testuale. Ne è testimone almeno un recente intervento di Faletti, mi pare sul Venerdì, in cui rivendicava giustappunto di “scrivere come mi viene” e di essere apprezzato per questo perché “la gente riconosce la mia scrittura come autentica” (cito a memoria). Da qui anche l’insofferenza verso l’intervento correttivo anche ai livelli minimi, come a scuola (si rivendica la validità dell’espressione sgrammaticata, sgradevole, stilisticamente invalida in virtù di supposte qualità espressive anche nei temi).
    Che tutto questo sia una conseguenza depravata dello sdoganamento di ogni tipo di non-stile (ma anche la negazione dello stile è uno stile) del tardo Novecento è ovvio. Il problema è come rimediare alla sua popolarizzazione e degli equivoci che ne sono nati.

  4. Trovo giuste molte delle riflessioni fatte nell’articolo, ma mi chiedo: in tutto questo non andrebbe considerata anche l’elitarietà di un certo tipo di letteratura? Voglio dire, noi nel tempo della globalizzazione tendiamo sempre a pensare che il pubblico di lettori si sia ridotto rispetto al passato, che il numero di autori in grado di padroneggiare la lingua e di utilizzarla Landolfianamente sia in calo. Spesso non consideriamo, però, che nei secoli passati le proporzioni erano molto simili. Uno, due autori di una certa rilevanza per decennio, che guardavano dall’alto la marmaglia di scribacchini anonimi, molti dei quali, magari, a noi neanche pervenuti. E così i lettori: vasto pubblico di fruitori di narrativa di livello medio-basso per un range strettissimo di ammiratori del concetto e della prosa come forma assumente una propria vita. Voglio dire, negli ultimi vent’anni tra i vari Arbasino, Parente, Di Grado noto esperimenti stilistico-semantici di un notevole spessore. Forse spesso crediamo che la globalizzazione porti sia adeguazione al migliore e non al peggiore, e magari è questo che ci porta a fare del vittimismo che a mio parere è spesso controproducente e maggior contribuente dello sviluppo d’una atmosfera piuttosto malsana.

    Detto questo, è tendenza comune per i fruitori di narrativa di genere, soprattutto la fantastico/fantascientifica ed horror/giallistica considerare il ” pacchetto libro ” come ed amplificazione di quella che può essere un’opera visiva. Soprattutto negli ultimi tempi mi è capitato non di rado di imbattermi in ferventi sostenitori del ” raccontare una storia su tutto “. Il libro di genere viene valutato da editore, da critico, da lettore per l’intreccio, così l’uso e sperimentazione della lingua passano in secondo piano. Su questo non posso che darvi ragione; mi chiedo solo, siamo noi che ne facciamo un problema oppure è un problema veramente?

  5. Come possono discorrere di lingua e di stile i tre “scriventi” qua sopra? Qualcuno dovrà pure avvisarli che chi scrive con tale sciattezza non può saper nulla, assolutamente nulla, di lingua e stile.

  6. Per fortuna (e sia Daniele Giglioli sia Gilda Policastro lo sanno, s’intende; non è che sto informandoli, solo aggiungendo un dettaglio alla discussione), anche nei tempi più cupi, esistono eccezioni, e segnali – se non di inversione di rotta, che sarebbe troppo ottimistico postulare – almeno di effrazione di uno stato di cose oggettivamente deprimente. Il primo e il più importante, secondo me, è “Dai cancelli d’acciaio” di Gabriele Frasca. Un libro coraggiosissimo, sia per lo stile/gli stili che adotta, sia per i temi (lo dico frettolosamente) che tratta, sia per le sue stessa mole. E allora mi viene da aggiungere che il segnale non è un segnale singolo, perchè coinvolge almeno un altro soggetto, cioè il suo altrettanto coraggioso editore, Luca Sossella. E se pure un libro del genere ha dovuto sottostare a un esperimento che era norma nel primo Ottocento, e che oggi non s’usa più, ossia la creazione preliminare di una comunità di lettori-sottoscrittori che aiutassero il libro a venire alla luce, bene, benissimo, anzi. Anche nel tempo della produzione editoriale di massa, spesso standardizzata per forme linguaggi e contenuti, si può tentare vie differenti. E mi permetto di ricordare per inciso che fu soprattutto il passaparola a trasformare lo strano volume di un esordiente assoluto, per di più di difficile collocazione sui banchi delle librerie, nel massimo bestseller degli ultimi anni. Un libro (è ovvio, parlo di Gomorra), che era sì uscito per Mondadori, ma che all’inizio non aveva nessuna chance di raggiungere il grande pubblico. Tornando alla questione di Frasca, mi permetto di fare altri tre esempi, diversissimi. “Le rondini di Montecassino” di Helena Janeczek (Guanda), “Tutto deve crollare” di Carlo Cannella (Perdisa Pop), “Il nome giusto” di Sergio Garufi (Ponte alle Grazie). Guanda, Perdisa Pop, Ponte alle Grazie non sono Einaudi, né Mondadori, come non lo è Sossella, ed è un peccato, tuttavia fortuna che ci sono (specie se penso che Einaudi pubblica un libro sbagliato, sbagliatissimo, come “Elisabeth”, e raddoppia, vorrei dire, scegliendolo, il cinismo del suo autore). Ma scrittori italiani di talento e con uno stile personale e alte ambizioni – si pensi alla costruzione del libro della Janeczek, magistrale meditazione sull’incrocio, tanto inflazionato e invece sempre tanto cruciale, tra storia e invenzione – io ritengo che ve ne siano ancora.
    Tra l’altro (a onor del vero) in “Senza trauma” Giglioli parla acutamente della Janeczek e di altri scrittori di valore del presente. E ha recensito da par suo “Dai cancelli d’acciaio”.

  7. @Martina il problema del sabotaggio neoavanguardista non è quello di avallare la sciatteria o peggio l’ignoranza, perché di tutto possono essere tacciati i singoli autori di quel movimento, tranne che di assenza di competenze linguistiche o letterarie in genere. Il problema era quello, ancora a mio parere attualissimo, di smascherare l’inganno della cosiddetta letteratura ben fatta, nelle sue forme ma anche, e soprattutto, rispetto alla lingua. Ovvero: il romanzo di genere e un certo “letteraturese” che si assesta su una linea proprio opposta a quella che stigmatizzi tu, e cioè una linea di apparente ricercatezza e sostenutezza dei toni. E se scorri le classifiche di vendita sono zeppe di libri scritti con pretese letterarie (Franchini, in “Senza scrittori” di Cortellessa dice di Margaret Mazzantini che ha uno “stile letterariamente alto”, mentre chiunque abbia competenze e conoscenze letterarie anche solo scolastiche troverebbe tale affermazione infondata se non provocatoriamente falsa). Il problema è proprio quello del presunto assottigliamento dei confini tra un’opera qualitativamente significativa e un’opera di consumo immediato. Presunto, perché è una differenza che resiste ed è ben chiara in ambiti diversi da quelli legati immediatamente al successo di vendite e alla visibilità mediatica. Il dibattito, a mio parere, deve ripartire dalla dissipazione di questo equivoco: sulla “Stampa” di qualche giorno fa si pubblica un’anticipazione del nuovo libro di Antonio Scurati. Scurati è il campione di una narrativa con pretese letterarie, che non parla, dunque, la lingua che si parla al bar, ma che al tempo stesso occhieggia alla letteratura di massa rispetto all’impostura della ricercatezza stilistica e dell’impegno del tema. Nell’incipit, si susseguono espressioni ricercate come “accasermati”, “serpeggiare”, “conferì”, ma non è questo lessico colto a marcare, evidentemente, la distanza tra scrivente e scrittore. Come si racconta, oggi, l’apocalisse? Se il problema posto con maggior urgenza dal presente (e il fatto che tanti scrittori così diversi l’uno dall’altro, da Laura Pugno a Tommaso Pincio a Bertante e Scurati stesso, vi si accostino, rende innegabile che così sia) sarà necessario trovare una modalità nuova di racconto, che renda conto della specificità del nostro presente attraverso una lingua che ne scardini le mistificazioni televisive o le semplificazioni giornalistiche. So direttamente, per averlo esperito in prima persona, che certi temi sono in partenza interessanti, per i media, altri zero: le sciagure, le catastrofi, i temi più legati all’attualità cronachistica, tutto ciò che possa venire incasellato in un’etichetta passe-partout, e che abbia una forma convenzionale (“è un romanzo? Ma di che genere?”) ”passa”, altrimenti non merita farci discorso intorno. (Credo di aver risposto in qualche modo anche a @Luca, o almeno ai punti del suo intervento che mi sono parsi più urgenti).

    @Weber Il problema del libro di Frasca, rispetto alla cui importanza evidentemente concordo in pieno, è che non abbia nessun tipo di distribuzione. Lo sappiamo io, te, Giglioli che l’ha recensito, il suo editore e forse nemmeno i suoi sottoscrittori (altrimenti, essendo costoro un centinaio, se ne sentirebbe parlare un po’ di più) che è uscito. Puoi segnalarmi altri pezzi usciti sulla stampa? Il circuito chiuso che rende i soli grossi gruppi capaci di “creare” il caso editoriale o di sostenere con i dovuti mezzi i propri autori (Ponte alle Grazie e Guanda afferiscono, di fatto, al terzo gruppo editoriale in Italia, proprietario al contempo di un canale di distribuzione tra i più potenti), anzitutto e soprattutto rendendoli visibili (e acquistabili, ovviamente) in libreria. Ricordo una frase illuminante di Ginevra Bompiani (di nottetempo), intervistata sul “Verri”, nel numero mai troppo citato dedicato alla “Bibliodiversità”, nel 2007: la vita di un libro è predeterminata, a partire dal gesto (solo apparentemente libero) del libraio di collocarlo sul piatto del tavolo o nello scaffale in verticale. Ecco, se già questa scelta determina la vita di un libro, figurarsi l’impossibilità di rinvenirne la presenza anche solo nella verticalità dello scaffale (è il caso di Frasca), dove, si presume, se lo stai cercando, sai già che esiste. Ecco che “Gomorra” è proprio l’anti-“Cancelli d’acciaio”, o viceversa. Il potenziale c’era tutto, e il caso è stato sin troppo abilmente cavalcato, a partire dalla prima apparizione in tv di Saviano, da Santoro. Vedi bene che la questione della circolazione (come Schiffrin ha magistralmente dimostrato) è cruciale, e non è che non incida sullo stile: sapendo in partenza che solo certi libri hanno possibilità di essere venduti barra letti, perché mai gli scriventi dovrebbero ambire, nelle condizioni attuali, a farsi scrittori, dunque ghetto, marginalità assoluta, inesistenza?

  8. @Gilda, ovviamente non intendevo dire che la scomposizione neoavanguardista abbia “avallato” la crisi nella percezione dello stile, e sono d’accordissimo sulla qualità critica della loro ricerca. Se mai intendevo criticare come questa decostruzione sia stata letta, cioè superficialmente, come un avallo, stavolta sì, a scrivere qualunque cosa in qualunque modo.

  9. Sinceramente mi pare che il problema di questo ” Dai cancelli d’acciaio ” sia anche il prezzo; distribuzione zero, prezzo altissimo, errori ben noti che si ripropongono più e più volte tra e i coraggiosi ( ma spesso inesperti ) esponenti della nuova editoria.
    Mi sembra un punto di partenza interessante, questa definita retroattività della percezione d’un oblio conseguente allo scrivere di cose non fruibili dal pubblico che ha effetti sensibili sulla mentalità dello scrittore; tuttavia, secondo me, non quadra. Non dimentichiamo che il genio di Van Gogh è stato genio controcorrente, se vogliamo fare l’esempio forse più noto, genio considerato, al tempo, inutile, genio invenduto. Non dimentichiamo che lo stesso Manzoni pensava la sua narrativa come destinata ad un plotone assai ridotto di folli. A mio parere il talento letterario e la conseguente espressione dello stesso non può essere arrestato dalla scarsità di fama estemporanea, né dalla corrente avversa generata dalla società.
    Il fatto che nessuno lo sappia, vuol dire forse che non ci sono?
    ( D’altronde, attualmente, la letteratura del passato vende, eccome se vende, probabilmente più del romanzo attuale, della moda dell’ultima settimana, ed a tal proposito c’è da citare l’assunzione di una certa rilevanza. Se non sbaglio Infinite Jest è uno dei libri più venduti nel mondo; magari pochi conoscono la pietra lunare, ma insomma, non si può pretendere tutto ).
    Io la vedo più come… Verrà il giorno della ribalta anche per il talento di oggi.

  10. “accasermati”, “serpeggiare” e “conferì” sarebbero “espressioni ricercate”? Ma per carità del cielo: si tratta di lemmi comunissimi, lemmatizzati da tutti i lessici (solo accasermare è marcato come termine militare, ma è anch’esso presente in ogni vocabolario della lingua italiana; e si veda, nel Battaglia, quante siano le sue occorrenze in letteratura) . Mi permetto di insistere: chi ignora sia la lingua che lo stile non ha nessun diritto di parlarne dai pulpiti.

  11. Mai sentito parlare di libertà di pensiero e di espressione? E di diffamazione?
    Anche questi, se non erro, sono lemmi… “lemmatizzati” da tutti i lessici della lingua italiana. Absit Iniuria Verbis.

  12. @Danny Ma perché sono invece termini da bar o da conversazioni spicciola? Bisogna però, effettivamente, riportare per intero almeno uno dei passi cui mi riferivo, perché non è il singolo prelievo lessicale, pure sintomatico, a dar conto da solo della scelta di stile, quanto l’andamento sintattico dominante, banalmente replicato da modelli tradizionali del genere: ”Rifluite le acque salmastre che, sormontando le dighe a mare, avevano sommerso la vecchia Venezia, i pochi superstiti furono acquistati assieme alle macerie dei palazzi in cui un tempo erano vissuti. Strappati a un’esistenza ferina, accasermati nei pressi degli antichi arsenali, furono impiegati nella ricostruzione della città emersa”.

    E adesso, dai ”Cancelli” di Frasca, ancora da un momento incipitario; ”Fu dunque attraverso la stretta di quella stoffa nera che gli serrava il velo delle palpebre contro l’umida cavità in cui, sporti a vuoto, pulsavano i bulbi degli occhi, ma anche sulla bocca livida con cui succhiava i grumi dolciastri di colla che rilasciava aderendo alle labbra il nastro, e persino sotto i tappi di gomma che gli orchestravano nel cerume il mugliare con cui il sangue informa e vive come un fiato il fango, che sentì d’un tratto il vento freddargli il sudore che, inzuppata la benda, colava dalle tempie sulle mascelle e sul collo. Gli avevano cavato via il cappuccio, allora, ma con quale delicatezza”. La ”sente”, almeno, una differenza, e le è più chiaro, adesso, il mio discorso ”senza stile”, @Danny?

    @Luca tra gli esempi del passato che lei cita e quelli attuali cui mi riferivo io c’è un elemento di differenza dirimente: il mercato come indicatore di valore sovrano se non unico ha conosciuto una crescita esponenziale nell’ultramodernità in cui ci troviamo, e, non bastasse già solo questo, ciò ha comportato poi la perdita totale di incidenza dei contrappesi tradizionali al mercato, dalle istituzioni preposte alla salvaguardia e tutela del ”canone” e dei valori letterari alle istituzioni formative alle terze pagine di onorata tradizione, che non vantano al momento nessun tipo di autorevolezza rispetto all’opinio communis. (Che poi, già Leopardi nel ”Parini” si chiedeva come avrebbe potuto mai, un’opera assolutamente trascurata dai contemporanei, vedersi mai riconosciuta nel suo valore dalla posterità). Quanto al fatto che i classici siano ancora venduti, lo si deve probabilmente alla resistenza delle letture obbligate nelle scuole, che si fermano però fatalmente ad autori di primo Novecento. Vogliamo parlare invece della sparizione completa delle Opere, a dire di un caso italiano macroscopico, di Volponi dal catalogo Einaudi? Come potrebbe non incidere tale evidenza commerciale sul percorso di un giovane scrittore, che abbia come esempi di scrittura e di stile non il “Memoriale” (che se l’aspirante scrittore non legge a scuola e non trova in libreria, non vedo come possa far entrare nella sua formazione), ma “Acciaio” (ancora in libreria, e non nello scaffale, ma sui tavoli) a distanza di due anni o i famigerati “numeri primi”, mai usciti dalle classifiche di vendita da un sessennio a questa parte? Si dirà: sono classifiche di vendita, appunto. Ma dov’è il contrappeso, se poi sono l’unico spazio o quasi che i giornali dedichino ai libri, a prescindere dalle segnalazioni giornaliere di solito concordate con gli editori (e dunque libro grosso di autore grosso= spazio grosso)?

  13. @Luca: libertà d’espressione? Be’, un profano dell’ingegneria spaziale dovrebbe almeno conoscere i rudimenti di quella disciplina. Quanto alla diffamazione, lei non può riferirsi al mio post; dunque, affari suoi.
    @Gilda: sbaglio o è stata lei stessa a scrivere *si susseguono espressioni ricercate come “accasermati”, “serpeggiare”, “conferì”*? Ora dice che no, non è il singolo prelievo lessicale che… Si decida, poi le rispondo.
    Se “sento” (perché le virgolette?) la differenza? Differenza tra cosa, tra i due autori citati o tra la lingua di coloro e l’italiano medio? Si decida anche qui e le rispondo.

  14. Non che non sia giusto questo discorso, mi chiedo solamente se è giusto pensare che il “contrappeso” non possa essere rappresentato semplicemente dalla ristretta cerchia di persone in grado di “riconoscere” una determinata opera, che esse siano due, cinque, cento o duemila. Anche per gli autori passati vale questo; quant’è facile considerare un Orwell che tutti possono leggere e capire quando lo scoglio di maggior profondità sarebbe Proust.
    Poi ovviamente, si tratta di opinioni; per tutto il resto concordo, lo spazio oramai è riservato a libercoli che non a caso sono spesso assimilabili ad un qualunque film di medio-bassa qualità. Tra l’altro segnalo ( ma lo saprete già ), che la Rizzoli ha svolto un pessimo lavoro di correzione di bozze ed editng sulla Avallone. Non che importi molto; certo è che l’odore della spazzatura ha sempre affascinato le masse, in un certo qual modo.

  15. Caro @Danny, chiedevo solamente se conoscesse la parola; dice di conoscerla, beh, buon per lei, era solo un… accertamento. Certo non è carino avere tali preconcetti su persone di cui non conosce assolutamente nulla, persone che, dietro lo schermo, potrebbero saperne centinaia di volte più di lei. Ovviamente non è il mio caso, sono un fisico non un letterato. Ma se è vero che Newton ha tratto ispirazione da una MELA per sviluppare la sua teoria della gravitazione, non vedo perché una PERSONA qualunque non possa esprimersi riguardo alla letteratura che, in quanto arte, è soggetto fortemente condizionato dal relativismo d’opinione.
    Se poi lei, che presumo sia un erudito professore nelle discipline letterarie ed emerito studioso di lingua e stile dichiara che non vi sono le basi, non i presupposti per considerare tali teorie, sviluppate da persone comuni ( parlo di me, la signorina Policastro da quanto ne so possiede titoli di studio che dovrebbero comprovare la sua competenza in questo campo ) può sempre lasciare al volgo la vana illusione di aver per un attimo espresso pensieri mediamente profondi su argomenti che non gli competono, comportamento peraltro più da signore ( quale sono convinto lei sia ), rispetto allo sproloquiare su una chat pubblica con la possibilità di dare, per giunta, a chi non è a conoscenza degli alti riconoscimenti che sono convinto lei possieda, l’idea di una premeditata volontà di impersonare la figura del ” guastafeste senza scopo “. Felice di averla conosciuta abbandono la conversazione in cerca di atmosfere meno tese, e quindi più idonee al mio status mentale, speranzoso di non riscontrare in altre persone questa curiosa ed improduttiva fastidiosità, che impedisce, almeno da parte mia, una sana partecipazione. Distinti Saluti. Luca.

  16. @Luca, non la prenda così: è evidente che lei ha equivocato: nel mio primo post non mi riferivo a lei e agli altri commentatori, ma ai tre – scusi la parola grossa – critici letterari dei cui articoli si discute.

  17. @Danny usi le parole in modo appropriato, invece, visto che di questo qui si parla. Giglioli, Pedullà, Policastro non sono critici letterari e s’arrischiano a parlare di stile non avendone uno loro proprio. Benissimo: siccome in questa discussione ci siamo tutti presentati con nome e cognome o comunque con una qualsivoglia qualifica (@Luca: faccio il fisico), ci usi la cortesia di svelarci anche lei da quale pulpito viene cianciando, e, da quel pulpito, a quali dei critici attuali riconosce autorevolezza. Poi dopo risponderò a tutte le domande che crede, ma fare il bersaglio al banchetto dello zucchero filato, no.

  18. Gilda, se non tollera i miei commenti (qua sopra si dice “Lascia un commento”, e ho compilato tutti i “campi obbligatori”) lo dica e tolgo le tende. Si fa così presto. Ma, la prego, non mi copi: io per primo ho parlato di pulpiti e ciance. Stia bene.

  19. Vorrei si riuscisse a entrare in dialettica con le idee di ciascuno senza pregiudizi preliminari: non per caso ho postato qui un pezzo che aveva già avuto i suoi lettori e le sue reazioni, a seguito della pubblicazione su carta. Se lo ripresento a una discussione più allargata, nel web, è perché ho interesse a sviscerare la questione dello stile a partire da svariati punti di vista e prospettive, non necessariamente appartenenti ai cosiddetti “specialisti”. Punti di vista e prospettive che devono però andare a riguardare i contenuti, come negli interventi precedenti, e non la continua messa in discussione, peraltro arbitraria, del diritto mio o altrui a esprimersi, da pulpiti o vetrine che siano. Io questo diritto, avendolo a mia volta non ricevuto da investitura divina ma conquistato, non sto qui a negarlo a nessuno, e anzi proverei anche a rispondere alle domande, se alcune di queste non suonassero retoriche o pretestuose. Ma assumersi la responsabilità di un’identità e di un’idea, è per me un fondamento irrinunciabile del dialogo. Se non vuole proseguire su questa rotta, @Danny, sì, devo chiederle di abbandonare la discussione, che mi pare si sia arenata proprio a partire dalle sue intemperanti irruzioni.

  20. Quando c’è l’adorabile Gilda lo spettacolo è assicurato. Che stile: si qualifichi?!!! Gilda, si fa pe’ chiacchierare, non se la pigli, ma se uno/a è così sicuro di quello che dice, perché si irrita tanto se un eventuale cialtrone mette in dubbio le sue competenze? Gli risponda o non gli risponda, ma se fa così si mette dalla parte del torto. Scusi è…

    Dal punto di vista di un non critico, poi, a me non sono piaciuti nessuno dei due passaggi citati, mi sembrano tutti e due falsi, stile precotto, come dice lei, anche se il secondo con più adeguate conoscenze letterarie (certo, mi rimane più voglia di leggere Frasca che quell’altro). Sono da sparare?

    Siamo in rete, Gilda, lo strumento è fatto apposta per per andare veloci, e si presta a una quanto mai favolosa smoltiplicazione delle identità (grazie, addio), a un loro naturale ridimensionamento, come se uno nascesse tutti i giorni. Poi permangono altri spazi in cui le cose vanno come prima peggio di prima, dove l’AUTORITA’ conta, a partire da università e testi scritti. Però si deve decidere: o se ne sta a far valere l”autorità in ambiti editoriali accademici, dove le cose avvengono LENTAMENTE, o accetta la regola che in rete l’autorità si forma VELOCEMENTE a partire dai contenuti, purtroppo anche dal loro appiattimento sulla mediana (ma anche qui, veloce appiattisce, lento approfondisce, nessuno può prevedere che cosa sta davvero producendo la discussione letteraria nei vari blog). Così è la rete, bellezza! E quindi, non potrei io dire a lei, in questa magica rete, più appropriatamente, si squalifichi?!!!

  21. Vorrei si riuscisse a entrare in dialettica con le idee di ciascuno senza pregiudizi preliminari: non per caso ho postato qui un pezzo che aveva già avuto i suoi lettori e le sue reazioni, a seguito della pubblicazione su carta. Se lo ripresento a una discussione più allargata, nel web, è perché ho interesse a sviscerare la questione dello stile a partire da svariati punti di vista e prospettive, non necessariamente appartenenti ai cosiddetti “specialisti”. Punti di vista e prospettive che devono però andare a riguardare i contenuti, come negli interventi precedenti, e non la continua messa in discussione, peraltro arbitraria, del diritto mio o altrui a esprimersi, da pulpiti o vetrine che siano. Io questo diritto, avendolo a mia volta non ricevuto da investitura divina ma conquistato, non sto qui a negarlo a nessuno, e anzi proverei anche a rispondere alle domande, se alcune di queste non suonassero retoriche o pretestuose. Ma assumersi la responsabilità di un’identità e di un’idea, è per me un fondamento irrinunciabile del dialogo. Se non vuole proseguire su questa rotta, @ Larry Massino (che a quanto pare non aveva letto, o forse aveva capito poco), sì, devo chiederle di abbandonare la discussione, che mi pare si sia arenata proprio a partire dalle sue intemperanti irruzioni.

  22. Esimia Gilda, non avevo letto il penultimo suo perché mentre lei postava stavo LENTAMENTE scrivendo. Vedo che non risponde alle mie legittime osservazioni sulle forme del mezzo comunicativo. Suo diritto. E’ stile anche questo. Giudichino i passanti a partire dai toni e dai contenuti. Buon pomeriggio.

  23. In merito allo stile, tra gli articoli usciti sul domenicale mi sento più vicino alla definizione che ne dà Elisabetta Rasy: “lo stile è il modo in cui uno scrittore abita lo spazio letterario, la sua prossemica nel testo, la posizione che prende verso il lettore.”
    A piacermi è proprio il fatto che la definizione comprenda in sé, in un certo qual modo, anche quella di lingua (evitando così, ad esempio, di ridurre lo stile a una mera questione di genere).
    Per quanto riguarda i due contributi di cui sopra, mi sembra di capire che la questione sia incentrata sulla maggiore o minore “letterarietà” di quanto oggi si scrive: è un dato di fatto che, nell’abbondare della produzione, il prodotto standard soffochi ancor più che un tempo quelle opere che cerchino di sperimentare, di mettere insomma alla prova e la lingua e lo stile (anche se a volte mi viene il dubbio che a parlare così genericamente ci sfuggano poi gli oggetti: e a maggior ragione perché oggi si sforna una quantità impressionante di libri, per cui mi viene il sospetto che molti, per ovvie ragioni fisiologiche, non possano esser letti neanche dai critici o dagli studiosi).
    Mi pare molto interessante anche il problema sollevato da Giglioli, quando parla di una perdita di carisma della lingua – e dunque del sistema delle lettere a discapito dell’universo del visivo. Qui mi pare di cogliere un “pregiudizio da letterati”, ma forse mi sbaglio: davvero pensate che la fiction (la televisione, il cinema, etc) abbiano contribuito (soltanto) a un impoverimento della lingua e a una standardizzazione dello stile?

  24. Se la convinzione di “diventare” scrittori passa attraverso le innumerevoli e miserande scuole di scrittura di cui ormai anche l’Italia, dopo la loro comparsa negli USA negli anni 30, abbonda, non c’è da meravigliarsi se lo stile è il Ricercato Numero 1.
    L’appiattimento della scrittura (che non è letteratura) e di conseguenza la perdita dello stile, è legato a molti fattori che appunto l’articolo indica: il clientelismo imperante nelle grandi e medie case editrici, del tutto disinteressate a pubblicare la qualità o il nuovo,
    La pletora di infanti (mai etimologia fu più adatta) lanciati nello spazio come “casi letterari”, sfruttati a dovere, montati come panna, per cui si autoeleggono “scrittori” dopo il primo romanzetto e poi gettati nel cassonetto.
    Gli innumeri “casi letterari”, “romanzi dell’anno” “scrittori rivelazione”, quelli pure costruiti a tavolino e venduti come roba autentica.
    La convinzione che i lettori non vogliano rompersi il capo con cose difficili o impegnative e desiderino solo del fast food.
    Le mode (vedi ad esempio gli scrittori indiani, tradotti a palate, mediocri o buoni che siano, basta che scrivano in inglese, perché la VERA letteratura indiana qui da noi non arriva, né gli editori la vogliono) che però investono anche la produzione scribacchina de noantri. Dunque miserie matrimoniali a palate, crisi di mezza età con conseguenti amori clandestini e tragici, crisi adolescenziali con tanto di pruriti, elucubrazioni infinite di quarantenni sfigati, adolescenti con corredo di linguaggio alla bisogna, autori regionali (la Sardegna pare diventata la Scuola di Atene) ecc ecc.
    Non se ne può più!
    Ma il fatto è che gli scrittori di sicuro ci sono, ci saranno. Ma non arrivano mai né alle case editrici né sono rappresentati da agenti letterari con un minimo di credibilità.
    La commistione di letteratura e profitto inizia con la Rivoluzione industriale e la letteratura popolare inventata da editori come il londinese John Murray, (geniale la sua Family Library, con grandi classici e opere di qualità a prezzi stracciati). Ma quello cui si assiste oggi in Italia non ha nulla a che fare con quegli esempi ottocenteschi.
    Qui da noi è passato solo il messaggio “scrittore – successo – denaro”. La si vede come l’ennesima scorciatoia per fare un mucchio di soldi, subito e senza fatica. Ed ecco i risultati.
    Dopo 30 anni passati a fare la traduttrice letteraria, l’editor, la saggista e a vedere cosa accade all’interno delle case editrici italiane e come si comportano molti che dovrebbero fare e promuovere letteratura e cultura, l’unico sentimento che provo è la nausea.

  25. Non avendo mai lavorato in una redazione non sono in grado di affermare chi scriva davvero i libri oggi, se gli editor o gli scrittori. Ammettiamo pure che siano gli editor. Concentrarsi su questa ipotesi significa comunque eludere il cuore di un problema che tutti noi avvertiamo, il problema che Daniele Giglioli ha sintetizzato alla perfezione: il nostro idioma si è drammaticamente impoverito. Non dobbiamo commettere l’errore di pensare che molti libri siano privi di una loro lingua, di un proprio stile, soltanto perché prodotti editorialmente (e commercialmente) modificati. La tentazione di evitare una pagina complessa, di snellire la prosodia, di semplificare, è certo presente e forte nelle redazioni. Al tempo stesso non è sensato limitarsi a sostenere che gli scrittori non hanno più stile ovvero che scrivono male o, peggio ancora, che manco scrivono più, avendo delegato gran parte di questa funzione ai loro ghost-warden, gli editor. Resto peraltro perplesso quando qualità di scrittura e stile vengono identificati con la complessità della lingua a tutti i costi, con l’indifferente distanza dal parlare contemporaneo. Il sabotaggio di cui parla Policastro è una possibilità, ma è soltanto una possibilità. Non si può seguitare a scrivere come niente fosse, fregandosene del drammatico impoverimento della lingua. Che ci piaccia o no, dobbiamo almeno in parte accettarlo e imparare a gestirlo. Se, per semplificare, il nostro vocabolario si è dimezzato, dobbiamo imparare a dire le stesse cose con la metà delle parole oppure dobbiamo riuscire a usare le parole scomparse o inconsuete senza che suonino ridicole o fintamente ricercate. Ma il fatto per me più rilevante è che l’impoverimento della lingua non riguardi soltanto l’italiano medio, vale a dire l’italiano che non legge libri. Un paio di giorni fa Paolo Sortino ha riportato sulla propria bacheca di Facebook il commento di sua “fan”, tale Cocca Fresca, che censurava così Elisabeth (romanzo peraltro citato da Policastro nel suo intervento): “Non dono riuscita a trattenere i nervi…. Lei è pazzo scrive di elisabeth un libro erotico, stupri nei dettagli leggere il libro è stato vomitevole. Si ritiri! scriva libri erotici sarà sicuramente meglio!!!” Ha fatto seguito una lunga serie di commenti tutti centrati sul nocciolo della contestazione, la presunta natura erotica del libro, gli stupri. Qualcuno ha liquidato Cocca Fresca come un’esagitata, ma a nessuno è saltato in mente di preoccuparsi della lingua in cui la “fan” ha espresso il suo tranciante verdetto. E quando ho notato con sincero rammarico “come una persona rara (qual è per questo paese quella che legga un romanzo ben scritto dall’inizio alla fine) non tragga almeno il profitto di migliorare un italiano evidentemente ai minimi termini”, la prima scherzosa replica ha rivendicato il diritto di badare alla sostanza. Insomma, conta solo la polpa del pensiero non la buccia con cui viene espresso. Ho tuttavia insistito, sottolineando che il mio commento non voleva essere in alcun modo inteso quale giudizio critico né del romanzo di Sortino né dell’opinione di Cocca Fresca. Notavo soltanto il totale disinteresse di quest’ultima per la forma del suo italiano. Affinché non sorgano equivoci: il problema non sono gli errori o l’eventuale ignoranza. È più che umano commettere errori, ancor più lo è l’ignoranza. È il totale disinteresse per il modo, il problema. Il fregarsene a prescindere. Il buttare lì il proprio giudizio come viene, con le virgole a casaccio o, meglio ancora, senza virgole, perché tanto è il giudizio che conta. È lo sfogo nudo e crudo. Sono i tre punti esclamativi. Mi sbaglierò, ma la religione della sostanza è l’anticamera della barbarie ed è proprio questa religione la causa prima del “drammatico impoverimento”. Il nostro idioma non si è impoverito perché parliamo peggio, ma perché non ce ne frega più nulla di come parliamo. Di questo menefreghismo è certamente colpevole la digitalizzazione della scrittura. Ma c’è pure dell’altro, un cambio di prospettiva derivato da questo mutamento. Pur non essendo ancora un vecchio rimbambito, sono abbastanza adulto da avere alle spalle l’esperienza di un anno di servizio di leva. Nelle caserme ho conosciuto tanti ragazzi pressoché analfabeti. Alcuni di loro mi chiedevano di correggere le lettere che spedivano ai familiari o alla fidanzata. Non stavano scrivendo al papa o al presidente della repubblica, solo a persone semplici come loro. Nondimeno volevano evitare di commettere errori di ortografia. Volevano gli accenti al punto giusto. Volevano la punteggiatura. Lo volevano perché esprimersi al meglio della forma è prima di tutto un modo di rispettare sé stessi e ciò che si sta cercando di dire. Cocca Fresca ha mancato prima di tutto di rispetto verso sé stessa e verso il suo pensiero. E il mio rammarico nasce dal fatto che questa mancanza di rispetto è sempre più diffusa. Non frega più niente a nessuno delle virgole. Solo la sostanza conta. La lingua si è impoverita, vero. Ma l’impoverimento sarebbe accettabile e potremmo persino farne buon uso, costruendoci sopra una lingua nuova, povera ma bella. Il guaio, la bruttezza, è l’avverbio. Drammaticamente. E l’avverbio non è generato tanto dalla povertà dell’idioma in sé quanto dalla religione della sostanza. Non so, questa è la mia opinione. Forse è più un’impressione che un’opinione. Comunque sia, spero possiate perdonare questa lunga intrusione.

  26. Sono sostanzialmente d’accordo con Giglioli e Policastro quando dicono che il problema del poco interesse per lo stile sia dovuto a un crescente disinteresse per la lingua, spostando il fulcro della questione proposta da Pedullà da un fatto di esecuzione (dello scrittore) a un fatto di competenza (per lo più del lettore). Si dice anche che il pubblico ha una sensibilità sempre minore per la ricchezza della lingua, che la lingua ha perso carisma, che non è nella lingua che si simbolizzano passioni, interessi, etc… Ma questo non è vero! La lingua non è un vecchio strumento indebolito che scrittori, politici e innamorati (neanche avesse detto niente!) usano perché non hanno ancora trovato di meglio! Se la lingua non è sentita come un luogo in cui avvengono esperienze significative di conoscenza o di emozione, perché ci si degna di erogare corsi universitari direttamente in inglese, perché si fanno lotte politiche con largo sostegno popolare per l’istituzione di insegnamenti di dialetto a scuola? Cosa mi dice Giglioli degli slogan pubblicitari? Sono anch’essi dei superstiti che riescono magicamente a fare leva su “passioni, interessi e pensieri, individuali e collettivi,” pur facendo ancora ricorso a questo strumento inservibile di cui io e lei facciamo uso al momento per comunicare?
    Se è avvenuta un’estetizzazione della vita quotidiana, non vuol dire che la dimensione visiva sia diventata l’unica capace di simbolizzare. Vuol dire semplicemente che se nel Medioevo gli oggetti estetizzati erano il crocifisso appeso al muro o – in altro contesto – gli stendardi dei Comuni, oggi gli oggetti estetizzati sono quelli che ci stanno addosso e tutt’intorno continuamente (vestiti, automobili, elettrodomestici, etc.). Ciò non toglie nulla alla nostra capacità di essere attratti e soggiogati dalla lingua.
    La questione è un’altra, e l’aveva capito Pasolini quasi 50 anni fa (“Nuove questioni linguistiche”, 1964): questa mancanza d’amore per la lingua che Giglioli lamenta non è una mancanza d’amore generalizzata a tutti gli aspetti di essa, è una mancanza d’amore per la lingua nella sua specie umanistica. Se si ascoltano attentamente i giovani, ad esempio, ci si accorgerà che la loro creatività nella formazione di neologismi (pressoché proverbiale) prende i propri materiali quasi interamente dalla lingua della tecnologia. Dico che la capacità di simbolizzare che la lingua possiede, oggi come ieri, è enorme, soltanto che non è più la lingua umanistica a farlo, ma la lingua della scienza, dell’economia (cosa c’è di più simbolico della “crisi” economica di questi anni? Quante volte la si sente nominare, anche nei discorsi meno impegnati?), dell’high-tech e di tutto l’armamentario lessicale legato ai prodotti di consumo.
    E allora, il vero problema dello scrittore oggi non è, come dice Giglioli, riconoscere la subalternità della lingua e da essa ripartire, ma riconoscere la subalternità della lingua umanistica e appropriarsi della lingua tecnologica. Non però, come la grandissima maggioranza degli scrittori fanno, adattandovisi passivamente come a un abito facilmente spendibile (volta a volta giovanilistico o iperintellettualistico, ammiccante e (inter)nazional-popolare o ipererudito), ma usandola a fini espressivi, facendola scoppiare dal di dentro, trasfigurandola poeticamente, svelandone il coefficiente conoscitivo, la contropartita estetica, etica, metafisica. Uno che mi sembra abbia fatto questo in maniera magistrale è Antonio Moresco nei suoi “Canti del caos”.

  27. Prima impressione. Peccato, perché interrompere e guastare una discussione su temi importanti con battibecchi, permalosità e inviti addirittura ad “abbandonare la discussione” rivolti – guarda un po’ – proprio ad alcune voci di (probabili) non addetti ai lavori, che sarebbero comunque da ascoltare?

    Rileggendo il tutto (fino a ore 16,54) a me pare che gli interessanti spunti presenti nel pezzo di Giglioli siano stati persi di vista. A me è piaciuto per le implicazioni “quasi politiche” (o timidamente politiche o saggiamente mascherate?) che io ci vedo. E che non andrebbero aggirate o diluite in altri discorsi pur informati e interessanti, ma “endoletterari” o riguardanti problemi più specifici di politica editoriale e distributiva dei libri (fino al distraente e unilaterale “soffietto quasi editoriale” pro Frasca e Sossella).
    Non so se sia possibile recuperare il bambino gettato con l’acqua sporca ma alcune osservazioni-obiezioni le faccio lo stesso:

    @giglioli

    1.
    «La lingua ha perso carisma, non è più oggetto di amore, non è più palestra di lavoro né di gioco, non veicola più né sacro né eros».

    Aggiungerei – memore ancora di Gramsci – non veicola, non chiarisce più le questioni politiche fondamentali che sempre porta in sè. E lei sta troppo al gioco o allo “spirito del tempo” se si attesta su esempi tutti ”letterari” («già Gautier, Baudelaire e Mallarmé sapevano quanto la vera Medusa che pietrificava la loro scrittura fosse ciò che chiamavano La Moda») o se, nuotando in superficie, sostiene che La Moda oggi è la «vera Medusa».
    Nel Novecento – per dirla tutta e chiarire da quale passato retrò parlo – la vera Medusa era stata individuata in Das Kapital, divenuto oggi tra i letterati l’Innominato. (Anticipo: la Pontecorvo, e non solo lei, eufemisticamente parla di “mercato”, senza specificare che trtattasi di mercato capitalistico, ignara o immemore di tutto un continente di problemi inabissatosi con quell’aggettivo ‘capitalistico’; e che un libro di Nicolò Pasero «Marx per letterati. Sconvenienti proposte», ripubblicato ora da Meltemi, provava comunque a sondare per i pigri letterati italiani).

    2.
    «Il grande stile modernista è rimasto un fenomeno di élite, o di studio accademico, così come quelli che si proclamano rivoluzionari si incontrano ormai solo nelle università. Il postmoderno è solo un nome, uno tra i tanti, della sconfitta subita».

    Troppo liquidatorio. Anche le élite, gli accademici e «quelli che si proclamavano rivoluzionari» sono vecchi alberi che andrebbero ancora scrollati dai giovanotti e dalle giovinette per vedere se qualche frutto ancora cade. Ma il postmoderno continua ad imperare: è stato certo una pietra tombale sul Conflitto Sconfitto, ma mi pare che parecchi usino questa pietra come comoda panchina per amabili conversazioni «inter nos».

    3.
    Meno male che «riconoscere questo stato di cose non significa approvarlo». Ma lo «stato di cose» riguarda solo la lingua? «Che la letteratura (e la società) risultate [ho corretto il refuso] sia peggiore di quella del passato non può e non deve essere taciuto». Bene. Ma se «si deve capire il perché della loro subalternità (e con essa, di tutte le subalternità)», se «riconoscersi subalterni è il primo passo per non esserlo più», bisogna pur tentare di dire a chi o a cosa esse – letteratura e società – si sono subordinate.
    E qui, per me, torna l’Innominato, che invece io nomino, “all’antica” e in generale, Das Kapital ( e che poi andrebbe nominato in dettaglio e con precisione analitica nel tempo e nello spazio “globale”). E tento di dare una piega «politica» a questi interessanti discorsi sulla lingua, la letteratura, i libri ecc.
    Lei non è che la politica non la nomini. Infatti scrive: «La letteratura si fa con le parole. E tante altre cose si continuano e si continueranno a fare con esse: la politica, l’amore, praticamente tutto ciò che ci rende esseri umani.»). La nomina però di striscio e mettendola nel “mucchio”. Col rischio di sorvolare sul peso della politica anche sull’amore e su tutto ciò che (pare) ci faccia umani. O di non chiedersi rigorosamente (non mi dica che lei non è un politico e non può farsi tali domande!) cosa sia oggi la politica, cosa sia il «popolo» cosa sia la mitica «polis» (alias ‘democrazia’ del tutto americanizzata), che pur entrano nel suo discorso. Che finisce ( impressione mia, eh!) per rincantucciarsi nella difesa della letteratura, intesa come orticello dei letterati, degli “addetti ai lavori”.

    @ Policastro

    1.
    Chiarito che il «non stile» di Sanguineti fu lo stile di Sanguineti (e dei suoi colleghi neo-post-avanguardisti) e che anche i narratori d’oggi uno stile (magari «precotto») ce l’hanno, il problema potrebbe essere quello classico di distinguere uno stile buono da uno cattivo. Ma ci vorrebbe un criterio per distinguere. Qual è? Questo è il problema.
    Evitandolo o ignorandolo, lei se la cava scagliandosi contro la «foga” dell’iperproduzione nella scrittura (e […] la conseguente esiguità dei lettori». ( Scusi, perché«conseguente»? Forse se gli «scriventi» fossero di meno e lasciassero il campo solo agli «scrittori», ci sarebbero automanticamente più lettori? I due fenomeni sono così strettamente e causalmente correlati?

    2.
    Se «“Gomorra” è proprio l’anti-“Cancelli d’acciaio”», siamo alla convivenza di alto e basso, di pop e post-avanguardia (o di scrittura “come viene” o quasi e di “scrittura ad arte”, coi bei lemmi di una volta più o meno ricercati e conosciuti messi al posto giusto.
    Frasca e Sossella, cioè, sono complementari e non alternativi a Saviano e a Mondadori. Sono segmenti maggiori o minori (“di nicchia”) dello stesso mercato (capitalistico). Vederli in contrasto (o parteggiare per uno piuttosto che per l’altro, per il piccolo editore “coraggioso” contro il grande ditore corruttore ( che però pubblica persino il Saviano (di turno) è ridurre un problema politico (chi comanda anche nell’editoria e che peso hanno i piccoli “capitali coraggiosi”) a problema “endoletterario”. Dasvvero se i “piccoli editori” crescessero avremmo risolto i nostri guai?
    Se sì, chi lo sostiene per me è ingenuo o – mi permetto il termine in senso nobile, sartriano – in malafede.
    Questo problema, per quel che ne so, l’aveva messo ben in luce Pietro Cataldi tempo fa. Le stralcio il brano. (Si riferiva alla poesia, ma vale per estensione ai problemi che qui si discutono):

    «I maggiori poeti oggi attivi in Occidente producono, nella quasi totalità dei casi, oggetti destinati a una circolazione e a un apprezzamento in partenza circoscritti e parziali; oggetti che si affiancano, più o meno negli stessi canali di produzione e di vendita, ad altri simili in apparenza ma in realtà costitutivamente destinati a un pubblico ben diverso e molto più ampio; così come accade che i dischi contenenti musica classica di autori contemporanei, anche i maggiori (Berio o Boulez o Stockhausen), vengano prodotti dalle stesse case discografiche e venduti negli stessi negozi adibiti alla produzione e alla vendita dei dischi di musica leggera. La differenza, evidentemente, non sta solo e non sta tanto nel numero delle copie vendute. La differenza sta già, e profondamente, nel momento generativo. Da una parte si hanno prodotti in partenza riservati a un pubblico di esperti (semplici appassionati o intenditori specialisti); dall’altra, invece, prodotti disponibili teoricamente a ogni segmento di mercato. I primi già appartengono di fatto alla storia della musica (o alla storia della letteratura) ma intrattengono con il pubblico reale un rapporto estremamente circoscritto. I secondi sono tendenzialmente esclusi dalla storia della musica (o della letteratura) ma si offrono al pubblico nella sua interezza. La definizione di un canone non sta più a registrare, in sede di ricezione, il valore e la differenziazione gerarchica di ciò che viene offerto al giudizio; ma si svolge su due canali paralleli e sempre meno comunicanti: quello del valore appunto canonico (valido entro l’hortus conclusus di un codice anacronistico e marginale), e quello del valore di mercato (decretato dal successo). Il secondo non è un canone perché privo di giudizio; il primo tende a perdere il carattere di canone, perché il giudizio è già a tal punto interiorizzato in sede produttiva da sottrarsi alle mani del destinatario, e soprattutto perché è venuto meno un pubblico verso cui gestire il transito dei possibili valori esemplari, cioè è venuta meno la possibilità di un giudizio la cui parzialità aspiri e confidi in una validità e condivisibilità universali.»

    (P. Cataldi, La fine del canone. I poeti e il postmoderno, in «Moderna», Anno III, 2, 2001…)

    3.
    «Come si racconta, oggi, l’apocalisse?».
    Che domanda precipitosa e ad effetto. Prima di mettersi a raccontare, non sarebbe doveroso essere sicuri che di «apocalisse» trattasi o di altra cosa più terra terra ( e magari più pericolosa)? Qual è davvero lo “stato delle cose”?
    Con quali categorie (criticamente controllate) lo nominiamo ( o lo sfioriamo soltanto)?
    Lei, per es., parla del «mercato come indicatore di valore sovrano se non unico». Ma c’è stato Marx (uffà, mi dirà!) e molti oggi parlano di “mercato” per non parlare più di Capitale e di altri «deus ex machina» di cui per un secolo si cercò di scoprire gli altarini.
    Ricontrolliamo le nostre parole, suggerisce Zinato. Bene, ricontrolliamo anche questa e non la usiamo come chi il mercato sa usare a suo vantaggio.

    4.
    «”Rifluite le acque salmastre che, sormontando le dighe a mare, avevano sommerso la vecchia Venezia, i pochi superstiti furono acquistati assieme alle macerie dei palazzi in cui un tempo erano vissuti. Strappati a un’esistenza ferina, accasermati nei pressi degli antichi arsenali, furono impiegati nella ricostruzione della città emersa”» (Scurati)

    «”Fu dunque attraverso la stretta di quella stoffa nera che gli serrava il velo delle palpebre contro l’umida cavità in cui, sporti a vuoto, pulsavano i bulbi degli occhi, ma anche sulla bocca livida con cui succhiava i grumi dolciastri di colla che rilasciava aderendo alle labbra il nastro, e persino sotto i tappi di gomma che gli orchestravano nel cerume il mugliare con cui il sangue informa e vive come un fiato il fango, che sentì d’un tratto il vento freddargli il sudore che, inzuppata la benda, colava dalle tempie sulle mascelle e sul collo. Gli avevano cavato via il cappuccio, allora, ma con quale delicatezza”. La ”sente”, almeno, una differenza, e le è più chiaro, adesso, il mio discorso ”senza stile”» (Frasca).

    E questi sarebbero buoni esempi di quella lingua o stile che dovrebbe esprimere «l’apocalisse»?

  28. Premesso che nel frattempo si sono raccolti materiali per un nuovo post, intervengo per il momento cursoriamente solo su due questioni poste da @Pincio e da @Abate. La prima: non esiste un solo modello di lingua alta, e quello che io propongo del “sabotaggio” è solo uno dei modelli possibili, scrive, sintetizzando all’estremo, Pincio. Certamente, e rivendico questa parzialità come atto propriamente critico, e però rivendico al tempo stesso l’efficacia direi gnoseologica di quel modello linguistico che vado sostenendo: più la lingua è straniata (e non necessariamente iper o finto colta: Sanguineti scrive “io ce lo avevo proprio tutto il mio sonno”, e non è che non sappia dire “avevo sonno” oppure “mi apprestavo a lasciarmi cadere tra le braccia di Morfeo”, come avrebbe potuto scrivere una Mazzantini), più sarà in grado di restituire un’idea di mondo che non sia quella spacciata per realistica o fedele o fotografica (la realtà col magnetofono, dice Arbasino nell’ “Anonimo lombardo”) della vulgata mediatica o romanzesca (che i due fenomeni stanno arrivando a coincidere: vedi intervento di @Francesca Diano, tra l’altro, a conferma). Se io leggo l’incipit di Frasca (e mi spiace che Abate non abbia colto che lo ponevo in contrapposizione e non certo in gemellarità allo stile trombonesco di Scurati, e nient’affatto come modello apocalittico, che di apocalissi in senso stretto non si parla) ho come l’impressione di trovarmi in una dimensione che è sì quella in cui vivo anch’io, ma vista da un occhio che me la restituisce in qualche modo diversa, più grande, più piccola, più contorta, meno contorta, più bella, più brutta, più oscena, più disperata, più finta, più composta, più sbrindellata, e nel mio sforzo di ricomporla e decodificarla si replica lo sforzo conoscitivo preliminare dell’autore, e anche quella necessaria inevitabile fatica che costa capire le cose quando sono rizomatiche, quando, gaddianamente, non si lasciano prendere, afferrare, comporre, appunto, tanto in un periodone pomposo come in una sintassi preordinatamente paratattica o lineare, che è quella che predilige la narrativa di consumo. La questione della nicchia cui sarebbero fatalmente destinati certi autori o certi editori, la risolve poi molto bene ancora una volta il già citato numero del “Verri” sulla Bibliodiversità, in particolare un intervento nel dibattito finale di Andrea Cortellessa che notava a) come i grandi capolavori che hanno costituito la nostra formazione non li si sia letti in passato in edizioni esoteriche ma tutti pubblicati dai grandi editori della nostra pur gloriosa tradizione (Einaudi, Garzanti e via così). Non si vede perché oggi i maggiori gruppi editoriali debbano dedicarsi alla produzione seriale delle fetenzie, e i libri cosiddetti di qualità riservarsi agli editori che a malapena si trovano su Internet (e su Internet, com’è noto, trovi pure “a caso”, ma in prevalenza trovi quello che cerchi: e Frasca, se non te lo vai a cercare di proposito, manco su Internet, allora, lo trovi); b) che la definizione di cultura da cui ripartire è ancora quella praghese, per cui il linguaggio parlato da una sparuta minoranza di scrittori a inizio secolo può diventare circolazione corrente mezzo secolo dopo. (Cito a memoria, data l’ora, magari in momenti diversi si potrà riprendere il passo preciso). Un buon esempio, infine, di stile che racconti l’apocalisse, o un mondo a venire che somigli al nostro (altrimenti che c’importerebbe di sapere come sarà?), superando la “fotografia” con la proiezione, per così dire, rimane per me “Sirene” di Laura Pugno, dove non si strombazza dalla prima riga: ehi tu che leggi, è accaduto qualcosa, il mondo è alla rovina, le donne si sono trasformate in sirene omicide, a loro volta destinate allo sterminio. No, è la narrazione che si fa, con uno stile in cui nemmeno una parola è ridondante o ampollosa, realtà attraverso il taglio, lo scorcio o lo squarcio, ancora meglio, sulla superficie, che altrimenti rimarrebbe piatta, incolore, senza significato.

  29. @ Gilda Policastro

    Perché io, tra i due incipit dati in reperto qui di seguito, ho l’impressione che solo il secondo si avvicini a raccontare letterariamente l’apocalisse?

    «Fu dunque attraverso la stretta di quella stoffa nera che gli serrava il velo delle palpebre contro l’umida cavità in cui, sporti a vuoto, pulsavano i bulbi degli occhi, ma anche sulla bocca livida con cui succhiava i grumi dolciastri di colla che rilasciava aderendo alle labbra il nastro, e persino sotto i tappi di gomma che gli orchestravano nel cerume il mugliare con cui il sangue informa e vive come un fiato il fango, che sentì d’un tratto il vento freddargli il sudore che, inzuppata la benda, colava dalle tempie sulle mascelle e sul collo. Gli avevano cavato via il cappuccio, allora, ma con quale delicatezza.»

    «E il mondo, avvolto da nebbie rossastre, taceva come cosa irreale. Sommerso dall’acqua, e abbandonato all’incertezza, si ritrovava soffiato dal vento, e proprio per questo, per questo vento gelido che spirava con raffiche improvvise, si svelava a tratti nella sua immagine dolente, quasi demoniaca. Si svelava, ma solo a se stesso, giacché l’orda umana, il gregge dei parlanti, l’unità dei respiri e delle relazioni, sono fuori dell’immagine, ricordi sbiaditi d’un passato lontano, e sono perduti. Esso stesso era perduto, investito da un nubifragio senza precedenti. Mai il presente era stato un oceano solenne fuori da ogni tempo.
    E questa enorme, immensa, nera e verissima inondazione epocale, nella quale tutto accade per strappi fulminei d’onde, spalancava davanti ai tre, ai tre sopravvissuti, i tre intombati là sotto, restituiti alla disperazione con gridi di gioia, una nuova preistoria, e alla vista di questo caos primigenio, di quest’ordine violento, e nell’inesorabile malvagità del caso, i tre uniti nella sofferenza, i tre rimasti nel ciclo dell’aria salmastra, i tre provavano a riprendere fiato.»

  30. Tommaso Pincio ci racconta il caso di Cocca Fresca; ma quello forse non è il modo di scrivere della ex fan di Sortino; quello è il suo “sfogo” nella rete, per sorridere un po’ lo si potrebbe anche chiamare il suo spurgo nella rete; è la “smoltiplicazione dell’identità ” di cui dice Massino. E se fosse per davvero il suo modo di scrivere, è così che le hanno insegnato a scrivere. E non certo in classe. Quanto riguardo c’è stato per lei? Quanta educazione c’è stata? La questione è che Cocca Fresca, in rete, con quella sua frase “coatta” grida a Sortino uno sdegno. Lo stile, in senso stretto, è il proprio modo di comportarsi prima e di esprimersi poi. Non si sta dicendo se hanno “più stile” le pochettes di Louis Vuitton o quelle alla Ellecorta. Non si sta dicendo di privilegio, o di moda. Si sta dicendo, almeno credo, di come è possibile che Cocca Fresca abbandoni il suo nick e “ci scriva” con il suo nome; allora penserà cento volte prima di dire qualcosa, penserà e poi ci scriverà. Per noi che la leggeremo “Vorrà la punteggiatura” anche lei. Un caro saluto

  31. @ ng

    Capisco che l’immaginario dell’apocalisse sia più attraente e “ispirante”, ma – alzando il dito dall’ultima fila – ripeto la mia domandina: Prima di mettersi a raccontare, non sarebbe doveroso essere sicuri che di «apocalisse» trattasi o di altra cosa più terra terra ( e magari più pericolosa)? Qual è davvero lo “stato delle cose”?

  32. @ Ennio Abate
    sì, hai ragione: e non sarò certo io a negare l’importanza di definire l’apocalisse nei termini concreti di situazione precipua del capitalismo nell’oggidì; prima di ogni racconto, prima di ogni parola e di ogni respiro, c’è la materialità del rapporti (di produzione et ultra) … Ma se parlo di letteratura, sto parlando di letteratura; che certo è sempre un “doppio” di qualcos’altro, però è anche dotata di una sua specificità. L’articolazione della lingua, di quella impoverita persino (e il caso di Cocca Fresca lo dimostra), segna, al tempo stesso, una mancanza e una presenza: la mancanza di ciò che non è, per dirla con Bloch, e la presenza di ciò che è, di quell’altro da sé della letteratura (chiamalo Reale, chiamalo come vuoi). La letteratura tratta tutto ciò coi modi suoi propri. L’apocalisse è solo una figura. Il problema non è fare entrare – nella figura – quello che dici tu: lo stato delle cose; perché tanto, anche se non lo vogliamo, lo stato delle cose ci entra ugualmente. E allora: in che modo la testualità si fa politica? In che modo – per restare a Giglioli – si incrina, si mette in crisi, si mina dall’interno la subalternità dello scrittore alla lingua impoverita? Il modo di Frasca è quello giusto? Esiste solo quello di Frasca (che, per inciso, me gusta assai), quello di Pugno (che un pochino m’annoia) o dei soliti nomi citati in questi casi, o esistono anche altri autori? Autori marginali ancora più di Frasca, che però provano a uscire dalla lingua “materna” facendo coincidere la loro – chiamiamola così, per comodità – alterità nel letterario con quella agita quotidianamente, non facendo distinzione, o facendola solo in seconda istanza, tra l’agire tra / con le parole e agire nell’opera di sistematica messa in dubbio del presente (direi nella lotta, anche qui dicendolo per capirci immediatamente). Io sono un grande lettore di Frasca. Il passo citato dalla Policastro, però, non rende giustizia al suo modo di “raccontare l’apocalisse”, tutt’altro.

    Vedi, Ennio, che il linguaggio comune si sia impoverito, e che gli scrittori avallino questo scadimento, è una banalità; per l’appunto, e giustamente, è stato citato Mallarmé come autore che aveva già colto questo decadimento. Proprio a partire da Mallarmé, Fausto Curi spiegò meravigliosamente (in “Perdita d’aureola”) il legame tra quell’impoverimento e il capitalismo (chiamandolo proprio così, e non, come giustamente rilevi, mercato etc.). E’ una banalità, dicevo, ma ha il suo senso ripeterla; e avrebbe ancora più senso, ad esempio, farla emergere dal tipo di immaginario che attiva una certa testualità “da supermercato”. Questo è il punto che bisognerebbe affrontare criticamente: questa lingua così impoverità, così scaduta, che tipo di immaginario sta contribuendo a formare? Io non so se l’immaginario che fuori-esce dagli scritti degli autori “alla moda” sia del tutto consapevole; né mi interessa saperlo. Il linguaggio riesce a trascenderci, sempre e comunque. So però che un immaginario, quand’anche fondato su una serie di “banalità”, è pur sempre una realtà con cui fare i conti. Quello che manca, o che mi piacerebbe si affrontasse, è il legame che esiste tra la lingua banalizzata di partenza e la costruzione letteraria che ne scaturisce: un’analisi precisa delle testualità, insomma, che punti a fare emergere – e qui la dico con Brecht – le ricadute pratiche, diciamo comportamentali, a cui danno luogo: il gesto che nascondono e verso cui si dirigono.

    NeGa

  33. Credo di aver già precisato che l’esempio di Frasca era funzionale alla messa in evidenza di come la sintassi, ancora prima del lessico, sia il principium individuationis della matrice linguistica, e non già alla definizione di una figuralità apocalittica (non in quel caso specifico, e non nell’accezione vulgata, certamente). L’autocitazione di ng (da Nevio Gambula, dunque) mi pare, analogamente a quella da Scurati, perfettamente in linea con un immaginario abusato (“i ricordi sbiaditi di un passato lontano”, “l’immagine dolente” etc.) o comunque atteso, senza sorprese né scosse, tanto a livello sintattico (l’ovvio imperfetto narrativo), quanto di costruzione metaforica. In merito al passaggio ripreso da Curi, il riferimento credo fosse al Baudelaire dello “Spleen de Paris”: se l’aureola fosse caduta, dice Curi, a Pascoli o a D’annunzio, si sarebbero senz’altro chinati a raccoglierla. Ecco, forse una prima differenza, in merito allo stile, è proprio questa: la necessità, avvertita o meno, dell’aureola, e la conseguente disponibilità a rischiare di vedersela cadere nel fango (metafora tra l’altro propriamente sanguinetiana sin da “Laborintus”). Quanto alle ricadute pratiche, sono d’accordo, invece, con ng: ma perché la linea dell’intervento debba essere quella della fotografia o del “magnetofono” e non della trasfigurazione-travestimento, mi sfugge, come principio.

  34. @ Gilda Policastro
    attenta, sei completamente fuori strada.

    Intanto, in “Perdita d’aureola” le considerazioni di Curi riguardano l’Erodiade di Mallarmé (“La metafora del bordello”, in introduzione, e il saggio iniziale); nel volume non viene mai citato, se non tangenzialmente, Baudelaire … L’aureola è perduta per sempre.

    In quanto alla mia autocitazione, anche qui permettimi: trattasi di smaccata parodia. Anzi, meglio: un vero e proprio travestimento, se mi concedi l’uso di questo termine sanguinetiano; e fatto proprio per prendere in giro alcuni scrittori contemporanei (alcuni dei quali tuoi “amici”). Il punto di partenza (il vero serbatoio di metafore e sintassi, sì!) è “La morte di Virgilio” di Hermann Broch. Prova a confrontare l’originale con il mio prodotto e non mancherai di notare le coincidenze … Se poi avrai la pazienza di arrivare alla fine, là dove si svela il tutto, potrai cogliere il ribaltamento politico del dettato (la trasfigurazione, sì) …

    Io non sono uno scrittore, né ambisco ad esserlo; se scrivo, e scrivo anche tanto, è solo per puro divertimento (meglio: per esercitarmi sulla lingua); amo, in aggiunta, prendere in giro la categoria degli scrittori “engagé”. L’ho fatto con Wu Ming (in “Qui si vende storia”, Odradek 2010), e l’ho fatto in centinaia di altre occasioni … Sono nient’altro che un “saltimbanco” …

    NeGa

  35. Sarebbe ben strano se le considerazioni di Curi riguardassero ”tangenzialmente” l’autore cui si deve primariamente la metafora o, se vogliamo, allegoria: infatti, così non è. E la tua parodia, che non avrei colto, in questo caso cosa mira a sovvertire? Quali valori/significati va a colpire? Il testo che l’autore mette in parodia, di solito, è un target-text, come si dice negli studi più aggiornati sul genere: in questo caso, perché? Poi sull’impegno dei Wu Ming possiamo aprire un altro forum, ma il dibattito preferirei mantenerlo centrato sul focus principale: lo stile e la mancanza di, piuttosto che sull’autopromozione.

  36. Gabriele Pedullà denuncia che il “sintomo” della critica contemporanea è la sua caduta verticale di interesse per lo stile letterario, e come dargli torto? Soprattutto perché ciò che questo sintomo tradisce e occulta è la mancanza di un pensiero forte, per dir così. Mancanza che agisce non solo, naturalmente, in letteratura, perché tutti i campi della prassi sociale oggi sono segnati da questa deficienza. Politica docet. Lì, e mi riferisco soprattutto alla “”sinistra””, il pensiero forte (la teoria, l’analisi politica complessiva) è stato seppellito dai padri, dopo un funerale sbrigativo e senza troppe motivazioni, poi si è passati alla gestione quotidiana, burocratica, dell’esistente, e adesso i figli – che nella migliore delle ipotesi vedono questo pensiero forte come anticaglia da antiquari – che possono fare se non spendersi in rituali superficiali, scambiati per essenziali? In tempi passati la critica letteraria (specie quella che si diceva militante, defunta anch’essa) faceva dello stile letterario il momento di lotta più alto nel conflitto delle interpretazioni. Ma nel romanzo attuale sono scomparsi “gli” stili, pluralità che implicava delle tendenze, e chiamava il critico a prender partito, a schierarsi, c’è un unico stile dominante, ossia una serie di frasi messe una dopo l’altra sulla pagina al solo scopo di completare una trama. Ovviamente mi riferisco al romanzo e alla critica letteraria mainstream, a ciò a cui il mercato conferisce visibilità (il resto, ciò che gli sfugge, può essere cercato in rete, ma anche lì viene confinato negli angolini più reconditi del web, in siti o blog letti e condivisi da quattrogatti). Del resto, questa mancanza di stile come pensiero forte in letteratura, è complementare – e non potrebbe essere altrimenti – alla mancanza di pensiero forte negli editor e nei lettori dell’editoria, dove non si cerca uno stile, ma una trama narrativa che funzioni (e da qui dipende, forse, il notevole successo avuto in questi anni dagli “stili” triller, fantasy, ecc.). Credo a questo proposito che un giovane Pizzuto che si affacci oggi nel mondo letterario, non abbia alcuna possibilità di farsi accettare. E anche l’Ingegnere incontrerebbe, a mio parere, enormi difficoltà. Per farla breve: ritengo che la ragione della mancanza di stile nell’odierna letteratura, e lo speculare disinteresse per lo stile della critica letteraria (be’, so anch’io che ci sono eccezioni, ma queste eccezioni sono anomalie e non fanno tendenza), siano dovuti non già a una peculiarità “creativa” o di metodologia critica, bensì (e in soldoni) alla crisi politica, socio-economica e culturale di sistema che si sta attraversando. E che implica – da parte dello stesso sistema, e al fine della sua sopravvivenza – la messa al bando dello stile come pensiero forte.

  37. @ Gilda Policastro
    l’autopromozione è sempre quella degli altri. E allora mi autopromuovo: alla seconda elementare. Così va meglio?

    Ultimo appunto, poi torno dietro la lavagna.

    In “Perdita d’aureola” (Einaudi 1977), Fausto Curi parla nell’ordine di: Mallarmé, Lucini, Palazzeschi, Marinetti, Raimondi, Boine e della neoavanguardia italiana. Baudelaire lo cita brevemente (pagg. 11-13). Così è. [Precisazione: cosi è in questo testo; in altri, gli riserva una maggiore attenzione; ma io questo citai]. Posso ambire alla terza elementare?

    Ora vedo se passo l’esame di quarta.

    Sulla parodia, rimando al solito Curi (questa volta dal volume “Parodia e utopia”): riscrittura del già scritto, controllo e selezione di materiali “rubati”, integrazione e stravolgimento di scritture esistenti o, ancora, assemblaggio e mescidazione di lacerti testuali strappati … Etc. Oppure, tornando al me stesso più discolo, la direi con Francesco Muzzioli: esiste un’altra parodia, diversa da quella studiata nelle accademie, la “parodia rossa”: prende a prestito stili e materiali precedenti per colpire un obiettivo esterno, che è un obiettivo in senso lato politico.

    Sullo stare in tema: non che l’avessi mancato, in precedenza. Prendo di nuovo la mira (e un profondo respiro): l’assenza di stile non esiste, giacché ogni autore ne ha uno riconoscibile, Beckett e Sanguineti compresi. Il problema è verificare quali porte apre una data configurazione stilistica: che cosa apre nel lettore. E siamo di nuovo nell’immaginario che produce. Cosa si nasconde dietro lo stile? E dietro la lingua letteraria?

    In ogni caso, tento, con Gramsci, una mediazione: ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la quistione della lingua, significa che si sta ponendo il problema dell’egemonia. Ovvero, per dirla questa volta con Sanguineti, dietro lo stile c’è un’ideologia e una precisa idea di mondo. Bene, scoviamole. Smettendo, però, di pensare agli altri (anonimi o asinelli che si vogliono autopromuovere alle classi superiori) come non all‘altezza.

    Sia chiaro: non ambisco alla licenza elementare.

    NeGa

  38. @Errebì, a me non pare che non esista un pensiero forte: esiste, invece, ed è quello dominante del tardocapitalismo. Siamo qui a discutere da un paio di giorni anche del peso dell’industria culturale, ossia del mercato, orizzonte che viene troppo spesso trascurato e ridimensionato, sulle scelte di stile singole e complessive. In generale, vige certamente un’impreparazione e un’improvvisazione maggiore che nei decenni precedenti, nell’esercizio dell’attività critica, che dipende probabilmente anche dalla maggiore accessibilità, rispetto al passato, delle informazioni culturali (informazioni, appunto, non conoscenze e competenze), accessibilità che da un lato favorisce il proliferare di avventizi (con gli esempi raccapriccianti di alcuni pubblicitari che arrivano ad autodefinirsi “critici letterari” per aver azzeccato qualche formula d’assalto, rispetto a libri o autori in evidenza, su qualche rivista più o meno patinata), ma dall’altro rende l’attività della ricerca tradizionale, preliminare a qualunque attività critica, sempre meno praticata in luoghi tipo le biblioteche e sempre di più nell’agorà della rete. (Ma tra l’altro già a inizio secolo Cecchi descriveva le biblioteche come luoghi “pieni di muffa, a petto del “verdeggiare delle emeroteche”). Questo è un bene o un male? Il “critico nella rete” è indubbiamente la figura più nuova degli anni Zero: il critico che viene accerchiato ed è costretto a difendersi anche solo per essersi trovato in possesso, previa specifica formazione, di una strumentazione apposita e di una capacità di analisi critica e di elaborazione retorica un po’ più approfondita dell’ “I like” di Facebook. Ma è al tempo stesso uno specialista o un sapiente, per dirla con Fortini, che si vede costretto a rinegoziare di volta in volta la propria funzione, il proprio spazio, il proprio ruolo, mancandogli quello che si diceva una volta il «mandato», e che è costretto sempre di più a chiedersi, negli spazi non garantiti del giornalismo culturale, meno che mai delle carriere accademiche, quale possa essere la sua sopravvivenza materiale, se non in uno snaturamento, in una mutazione radicale della propria veste. Le ragioni del degrado dello stile, allora, se valgono in misura paritaria per i critici e gli scrittori, andranno però cercate in ambiti diversi, se non opposti, perché il mercato può forse aver determinato la piattezza e l’omologazione delle narrazioni contemporanee, ma non può valere invece a spiegarle per un’attività editorialmente marginale in partenza e che viene esercitata nei casi più fortunati come hobby o volontariato, e in quelli assolutamente suicidi della vocazione o della passione come puro raptus mistico o bisogno irrefrenabile, senza la minima idea di un possibile ritorno, nemmeno per i più ciechi o folli. Diverso è il discorso per i romanzieri, che ormai si programmano insieme agli editori in base alle stagioni di vendita, come i maglioni o i costumi, e si esprimono solo o prevalentemente nei termini di copie vendute e di anticipi milionari.

  39. “ritengo che la ragione della mancanza di stile nell’odierna letteratura, e lo speculare disinteresse per lo stile della critica letteraria (be’, so anch’io che ci sono eccezioni, ma queste eccezioni sono anomalie e non fanno tendenza), siano dovuti non già a una peculiarità “creativa” o di metodologia critica, bensì (e in soldoni) alla crisi politica, socio-economica e culturale di sistema che si sta attraversando” (errebi)

    Appunto. Ma allora parliamone. Qual è davvero lo “stato delle cose”?
    Ne abbiamo il coraggio o no?
    Al momento mi pare che, appena qualcuno accende la candelina ‘politica’, c’è chi subito la smorza e ci mostra i suoi complicatissimi ombelichi critico-letterari su cui sa tutto.
    Ma cosa si sa del cosiddetto “tardocapitalismo”? E delle guerre che va seminando? E della fine che sta per fare questo Paese in cui siamo nati e cresciuti?
    Ho sollevato varie questioni POLITICHE nei miei precedenti interventi.
    Sono lecite su questo blog o sono “fuori tema”?
    Qualcuno può dire cosa ne pensa?

  40. Intervengo da non addetta ai lavori (editoriali) e da scrivente (spero almeno in questa definizione, all’altra nemmeno oso tendere lo sguardo).
    Penso che effettivamente la questione dello stile e della ricchezza lessicale sia questione di civiltà-identità-sviluppo-cultura di un popolo. Il nostro – la faccio breve – ha perso il treno di una letteratura che indichi una qualche strada al lettore (sia essa di anima o di ragione) dagli anni 80 in poi, parallelamente con il sonno indotto collettivo. Non che questo sia estraneo ad altri Paesi; ma altrove gli scrittori hanno più o meno mantenuto il ruolo di risvegliatori delle coscienze, qui no, o non abbastanza. Le ragioni storiche le conosciamo, e va detto di volata che dalle colpe non è esente la sinistra politica, la quale si è chiusa sempre più in un intellettualismo e elitarismo che tradiscono la funzione stessa della scrittura e della comunicazione letteraria. Da una parte, quindi, l’impoverimento della lingua che è stato rilevato, dall’altra l’uso di un sottolinguaggio astruso e alchemico riservato a pochi. Infine, l’abbandono di un messaggio che non sia solo la registrazione pedissequa della realtà o – all’opposto – la fuga dalla realtà. Da questo punto di vista, mi sembra che Gomorra sia da salutare con entusiasmo come fra i pochissimi tentativi di una letteratura civile, a prescindere dalla qualità formale (comunque alta, a mio parere, e ricca). Che sia stata proprio una casa editrice “padronale” a pubblicare il lavoro di Saviano, ci dice che non tutto è perduto, la possibilità che ancora qualcuno pubblichi roba che val la pena leggere c’è, dove meno ce lo aspettiamo. A maggior ragione dovrebbe esserci anche altrove.
    Ora però credo che non sia più il caso di lamentare tanto squallore, ma di rendersi conto che un Paese produce la letteratura che si merita, e vedere se è possibile cambiare. Ma ci vorrebbe una rivoluzione, nel senso etimologico del termine, quindi un cambiamento totale, dal basso verso l’alto o viceversa non importa, che ci sia è auspicabile. E tutto partirebbe – come sempre, ab aeterno – dal sistema scolastico, dal valore che una nazione attribuisce alla cultura di massa (sì, di massa; che non è sinonimoo di impoverimento, ma di ricchezza, se non si travisa questa specifica). Sarà utopia, ma dai sogni grandi si parte, e forse si arriva almeno a quelli piccoli. E allora, altro che politica e società; qui dovrebbe cambiare davvero tutto, compreso l’atteggiamento veteroborghese di alcuni docenti e intellettuali che sostengono la cultura non sia per tutti, e auspicano un ritorno ai bei tempi, quando il sapere si somministrava a chi era predisposto, di proprio “talento” e di famiglia. Eppure, i docenti e gli intellettuali sono i primi che dovrebbero preoccuparsi della diffusione capillare della conoscenza, diversamente rinnegano la loro funzione sociale. Ed ecco poi il perché, fra i tanti altri, di questa debàcle letteraria.
    Per avere una lingua ricca, per avere uno stile, credo anch’io che non ci si debba sentire subalterni a nessuno; nemmeno però soffrire di complessi di superiorità. E avere realmente qualcosa da dire, qualcosa da vivere, di immediato, senza filtri. Saranno i nuovi Italiani, quelli venuti da paesi poveri, i perseguitati approdati qui, i clandestini dei CIE, a prendere la nostra lingua, ad arricchirla, a parlare al cuore del lettore, ne sono certa. Ed è giusto che sia, perché loro sì, che ne hanno di vita e di ideali e di speranze da raccontare.
    Grazie a LPLC per aver permesso questo scambio.

  41. “Saranno i nuovi Italiani, quelli venuti da paesi poveri, i perseguitati approdati qui, i clandestini dei CIE, a prendere la nostra lingua, ad arricchirla, a parlare al cuore del lettore, ne sono certa.”(Fiorella D’Errico)

    Ahimè, per il momento anche quelli/e che riescono ad approdare e hanno la forza di essere SCRIVENTI
    questo si beccano dai “vecchi” Italiani:

    http://www.fracarma.altervista.org/index.php?option=com_content&view=article&id=151:tara-saye-aaa-straniera-cerca-posto-di-lavoro&catid=1:fare-polis&Itemid=13

  42. “A me non pare che non esista un pensiero forte: esiste, invece, ed è quello dominante del tardocapitalismo” (Gilda Policastro). Non è scontato che il capitalismo (tardo o neo-liberista che sia in questa fase) sia comunque e a prescindere un pensiero forte. La critica politico-economica al capitalismo è, invece, un pensiero forte. Nel suo assetto geopolitico attuale, il capitalismo si “esprime” con le forme della liquidità e della caoticità, che non appartengono tradizionalmente a un pensiero forte. La vittoria mondiale del capitalismo nella seconda metà del XX secolo non è dovuta al suo presunto pensiero forte, ma alla forza della sua “prassi”, ovvero al suo modo di produzione, al suo essere rapporto sociale (non già cosa, e neppure pensiero), contro un “nemico” che sempre più l’assomigliava. E’ stata l’unificazione dei mercati in Mercato che ha rafforzato il capitalismo odierno, non già il pensiero di Milton Friedman. Il capitalismo può prosperare sia in sistemi politici dittatoriali che di democrazia rappresentativa, sia in sistemi politici dove esiste una religione di Stato che in sistemi interamente laici, perciò non ha bisogno di un particolare pensiero forte, né, tantomeno, unico. Questo, almeno, intendendo il concetto di forza a livello qualitativo. C’è in qualcuno degli esponenti politici del capitalismo mondiale, da Cameron a Obama, dalla Merkel a Berlusconi (ma anche da Zapatero a Prodi, da Blair a Papandreou), un pensero forte? Eppure il capitalismo, almeno nella sua forma allegorica (perché non c’è un capitalismo unico, né è privo di contraddizioni interne), ha oggi quelle gambe e quei pensieri per camminare politicamente.
    Mi pare questa una sorta di premessa non estranea, né OT, al “dibattito culturale”, perché il presunto pensiero dominante non è affatto forte. Quindi anche il pensiero dominante nella critica letteraria, nell’editoria, può affermarsi in virtù della sua non-forza. Tanto la sua forza coercitiva o persuasiva gli deriva dall’accettare i parametri del mercato, che sono attinenti a considerazioni pratiche, di profitto,non certo di pensiero.

  43. fra il partito di chi predilige “la polpa del pensiero” e quelli che votano per “la buccia con cui viene espresso”, io auspicherei una bella collisione fra l’essere e l’apparire, il nocciolo guadagnato alla scorza in radicale esternità, al modo di quegli scorticati o quelle larve pensose che, deposto ogni tegumentario riserbo, si agghindano delle proprie entragne sulle tavole anatomiche di casseri o di vesalio.

  44. @Errebì l’ideologia del mercato è eccome un pensiero forte, soprattutto e proprio in ragione delle ricadute pratiche che ha, anche solo rimanendo al nostro campo, nella prassi editoriale attuale. Andando dai massimi sistemi di pensiero ai minimi, in un’inchiesta sulle parole “Tabù” della rivista «Nuovi Argomenti», lo scorso anno, Federica Manzon, autrice ed editor Mondadori, proponeva del mercato un’idea tra il fiabesco e il pratico-economicistico, debitrice tanto ad Adam Smith quanto a un’apposita linea editoriale inculcatale verosimilmente per contratto, e sostenuta a più riprese dallo stesso Franchini, responsabile assoluto del medesimo gruppo editoriale per la narrativa, che rivendica sfacciatamente la “qualità letteraria” di quei capolavori del marketing che sono i libri della Mazzantini, già all’uscita pronti per tradursi in film, magari dello stesso marito regista della cosiddetta scrittrice. Trappola in cui cade, peraltro, chissà quanto ingenuamente, il linguista Giuseppe Antonelli, che sul Sole 24 ore di ieri estrapola da un romanzo della suddetta un esempio di “bello stile” e di scrittura letterariamente elevata, che farebbe arrossire di vergogna, a una pubblica lettura, qualunque principiante di qualsivoglia scrittura creativa di periferia. Bene, la teoria di Manzon è invece che non sia il mercato a pilotare i best-seller, ma il mercato a consentire la felice fuoriuscita dalla massa proliferante delle proposte editoriali (60 mila novità all’anno, conviene tenerlo a mente) il successo del momento, che non si commetterà l’errore presuntuoso (parole, non testuali, ma piuttosto fedeli di Manzon) di credere una ciofeca solo in ragione del suo successo di vendite. Ciò che impressiona è la parzialità di queste rivendicazioni (è il primo gruppo editoriale italiano a parlare, quello che invade la maggior parte del mercato – tradotto in termini pratici: dalle vetrine delle librerie agli scaffali dei supermercati, dove si vendono, accanto alle casse, i rasoi usa-e-getta, e Mazzantini e Paolo Giordano), spacciata per verità incontrovertibile. Si è assottigliato il confine tra qualità e consumo: ma perché Franchini può andare in giro impunemente a propagandare pro domo sua questa menzogna? C’è una larga parte di noi (noi che abbiamo studiato letteratura, teoria e critica letteraria, ma anche solo noi che abbiamo letto un po’ di classici e un po’ di contemporanei) che sa perfettamente che il periodo citato da Antonelli all’interno di un discorso sullo stile ci sta come i pop-corn dopo una cena di nouvelle cuisine, eppure è questo il pensiero dominante, se poi sulle terze pagine dei maggiori quotidiani non trovo recensito Frasca, ma la Mazzantini. I non specialisti, quando vogliono leggere, quella roba lì si trovano davanti. E l’idea che passa di letteratura diventa un modello unico di scrittura, tra l’altro. Il problema non è che quei libri siano i soli a vendersi, è che siano e sempre di più si candidino a essere i soli modelli “letterari”, mancando tanto un contrappeso critico alla ingerenza dell’editoria come industria nel sistema dei valori e nelle rivendicazioni di “qualità” (se anche le pur meritorie classifiche di Pordenonelegge, per via delle cordate attorno a certi autori prima che a certi libri, hanno finito in qualche caso col coincidere con quelle di vendita) quanto una rinnovata volontà di sperimentare e di osare da parte degli scrittori persino giovanissimi, se l’esordiente Viola di Grado, anni più o meno 22, menzionata da qualche commentatore all’inizio di questo thread, ha dichiarato nella totale inconsapevolezza di modelli e stili letterari, che scrivere un buon libro vuol dire, in buona sostanza, saper organizzare una trama e inventarsi dei personaggi. La lingua, questa sconosciuta.

  45. @ Sergio Garufi: sì.

    mi torna in mente Didi-Huberman, da un saggio su Penone:

    “La cipolla non è una scatola: il contenitore in essa si identifica esattamente con il contenuto, secondo un paradosso “pellicolare” che fornisce, certo, un’immagine d’elezione allo specialista della geometria, al filosofo e all’artista. Nella cipolla, in effetti, la buccia è il nucleo: ormai più nessuna gerarchia possibile tra centro e periferia. Un’inquietante solidarietà, fondata sul contatto – ma anche su interstizi ultrasottili – lega ciò che avvolge a ciò che è avvolto. L’esterno, qui, non è altro che la muta dell’interno.”

    un saluto a tutti,

    f.t.

  46. @ Gilda Policastro: di passaggio, che la Manzon faccia l’editor Mondadori e poi pubblichi lì i suoi romanzi (e non è la sola che ha questo doppio “rapporto” conflittuale) la dovrebbe dire lunga, più lunga di un trattato, sull’editoria attuale. Quanto al capitalismo che si caratterizzerebbe (anche), sempre e a prescidendere, per un pensiero forte, rimango coi miei dubbi, ma non la faccio troppo lunga e ti lascio un’osservazione di Soros (che di mercati un po’ se ne intende), il quale associa l’immagine dello speculatore di borsa a quella di un surfista. Ora, per fare surf ci vuole abilità e accortezza, non certo un pensiero forte. Il fatto è che questi economisti neo-liberisti o filo-tardocapitalisti sono degli apprendisti stregoni. La loro forza non deriva certo dal loro pensiero. Nè, tantomeno, l’ideologia del mercato è una forza in sé, per il semplice fatto che l’ideologia non è mai una forza, semmai una maschera (come pensavano certi vecchi teorici marxisti oggi eclissati) che cela ì rapporti sociali, e qui sta la vera forza capitalistica.
    Ora, a proposito di “mercato” ed editoria, so di scoprire l’acqua calda (ma a volte è bene sincerarsi che sia calda) se dico che il mercato, in senso generale e generico, c’è sempre stato, e che “facevano” mercato anche Valentino Bompiani e Giulio Einaudi. Magari, loro lo facevano operando scelte editoriali più coraggiose, ma a questo livello “commerciale” la differenza con l’oggi è minima. Una volta il mercato si chiamava industria culturale, e i suoi “effetti” mercificazione artistica, ma il dibattito sui rapporti tra mercato (o industria) e letteratura era già vecchio ai tempi in cui Vittorini lo propose sul “Menabò”, figuriamoci oggi, soprattutto se resta sul piano generico. Credo che sia inutile demonizzare “il mercato”, imputargli colpe che per lui sono pregi, “il mercato” fa sempre il suo dovere, anche nel caso della Mazzantini.
    Semmai, e chiudo, credo che una cosa pratica, interessante e utile, che la critica letteraria non mainstream potrebbe fare, sia quella – se ne ha le possibilità e capacità – di mettersi a rovistare tra i rifiuti letterari del mercato, tra le sue censure, e accertare se tra questi scarti vi siano stili forti, il cui rifiuto sarebbe spiegabile con motivi politici (di politica culturale, s’intende). E questo non già per auspicare una nuova e magari più “alternativa” classifica alla Pordenonelegge, perché inevitabilmente si finirebbe in vecchi ingabbiamenti, attenzioni e compatibilità che si vorrebbe lasciare alle spalle. Sarebbe un po’ come chi crede di sollevarsi dal suolo tirandosi su per i capelli.

  47. “Semmai, e chiudo, credo che una cosa pratica, interessante e utile, che la critica letteraria non mainstream potrebbe fare, sia quella – se ne ha le possibilità e capacità – di mettersi a rovistare tra i rifiuti letterari del mercato, tra le sue censure, e accertare se tra questi scarti vi siano stili forti, il cui rifiuto sarebbe spiegabile con motivi politici (di politica culturale, s’intende).”

    ecco le parole.

  48. Trovare in prima pagina su Repubblica o il Corriere della sera la recensione di Frasca invece della Mazzantini è il vero sogno della Policastro?
    Tutto qua? Ma allora invece di perdere tempo a studiare letteratura, teoria e critica letteraria o leggere classici o contemporanei di qualità si venda a Mondadori ( o si faccia assumere, se le riesce) e prima o poi un Frasca (come un Saviano) lo riuscirà anche a piazzare.
    Ma che modo è questo di affrontare delle lobby facendogli notare che hanno poco gusto tanto da preferire la Mazzantini a Frasca?
    In un precedente intervento ho citato un brano di Cataldi. Cosa ne pensa la Policastro?
    Faccia uno sforzo generazionale: risalga dai «minimi» ai «massimi sistemi».
    E allora si capirà che i Sossella e i«Pordenonelegge» & C. non sono affatto alternativi alla Grande Editoria (né all’Innominato) ma complementari e subordinati; e lodarli significa sguazzare nel “pensiero unico” (deboluccio) degli intellettuali che si sentono migliori di Berlusconi e della Mazzantini perché hanno più “stile” di lei e di lui.

  49. @errebì prendo atto della volontà (comune, peraltro) di sospendere la questione, però solo una precisazione: dagli anni Cinquanta a oggi qualcosa è cambiato sì, nell’industria editoriale: è avvenuto quel passaggio che Schiffrin definisce “da un’economia di sistema” a “un’economia dei singoli addendi”: se un editore ha avuto sempre, evidentemente, interesse a che la propria impresa non fallisse, intanto l’attesa di profitto era largamente al di sotto delle percentuali attuali (vedi sempre Schiffrin, che le fissa attorno al 15-20%, di contro al 3-4% dei decenni passati: “una prospettiva che cambia radicalmente la natura di quello che può essere pubblicato”, alla lettera), e poi comunque a tale profitto si arrivava con la somma dei singoli titoli di collana, che andavano dal libro di più ampie vendite a quello destinato a sparuti lettori. Viceversa l’editore imprenditore di oggi mira a trarre profitto da qualunque prodotto e un libro che si presume in partenza perdente sul mercato non viene poi bilanciato da altri libri di più facile smercio, quanto piuttosto non pubblicato affatto. Ma condivido in pieno la conclusione: cercare, parafrasando e rovesciando il (sempre troppo citato) Calvino delle “Città invisibili”, non nel mercato ciò che non è mercato, ma fuori: e dargli spazio.

  50. Il vecchio Abate e la bella (si spera) Poli(tica-ti-)castro

    Siam su LPELC o su NI?
    Gilda,
    non far tu pur
    l’indiana.
    Suvvia,
    rispondi a ng
    rispondi a errebì
    e salti mi
    anche se non son pc*
    enon più dei TQ
    da tempo, ohimè.

    Orsù,
    rispondi anche a mi
    se no, per disperazion
    mi faccio male lì
    e mi riduco ad ab!

    *politically correct

  51. Policastro abbiam capito che è studiante, perché deve mettere otto citazioni ad ogni addendo di frase? Lo so, è il prodotto del saggio breve: si ragiona colle frasi degli altri. Coll’ipse dixit. ma lo sa lei che questo dell’ipse dixit è una fallacia (la trova nei manuali di filosofia indiana, è zeppa)?

    Comunque, nel pezzo, come le salta in mente di dire che Beckett è “assenza” di stile? semmai lo può dire di Joyce. Sanguineti poi, che non ha stile, è propaganda, lo stile c’è; non si esce così dalla gabbia.
    In secundis, come fa a essere così netta a distillare lingua e stile? ma non si rende conto che l’una è funzionale all’altra, nella manipolazione che ne fa la penna d’uno scrittore? Dire quello che dite voi significa semplicemente dire che mancano gli ingegni che si sanno fabbricare la lingua che serve per il loro stile. Penuria dei tempi.
    Era molto più interessante, invece, cara Policastro, continuare quel discorso che lei non terminò, almeno con me, quando si discuteva a NI, quando, per dirla tutta, lei accennava ad una standardizzazione linguistico-stilistico, lei diceva koinè, di matrice einaudiana, di matrice fandanghiana, di matrice fantozziana (magari!) e di altre case editrici… questo mi sembra molto più interessante. Lei che pubblica per Fandango che ci dice della lingua e dello stile che lì sono ammessi?

  52. Sgombrerei il campo da un equivoco di fondo: qui si è aperta una discussione sul tema dello stile nella narrativa contemporanea, a partire da due pezzi distinti (per argomenti e “stile”, effettivamente). A parte il rammarico di dover constatare come il pezzo di Daniele Giglioli, che pure contiene elementi di grande interesse in merito a una riflessione più generale sul degrado della lingua non solo letteraria (degrado su cui peraltro non pochi, me compresa, dissentono, a partire dal dato materiale della più diffusa alfabetizzazione e dall’utilizzo pressoché indiscriminato e trasversale da parte delle generazioni nuove e meno nuove dei mezzi virtuali, dunque della scrittura come veicolo prevalente di comunicazione, dagli sms ai social network), sia stato ingiustamente ignorato o trascurato nella gran parte degli interventi di questo thread, vorrei poi ribadire che, proprio perché non siamo a scuola, e questa non è un’interrogazione (né, tanto meno un interrogatorio, voglio augurarmi), la discussione è aperta a tutti, svolgendosi in uno spazio peraltro potenzialmente sconfinato come la rete. Dunque non è martellando la stessa o più domande al mio indirizzo, che si aiuterà la discussione a procedere. Non bastasse questa ovvia constatazione, proprio per la specificità del mezzo la discussione medesima può avvantaggiarsi ma al tempo stesso deve scontare il felice caos del rizoma e della simultaneità degli interventi, e dunque non può fatalmente prevedere risposte dettagliate (non da me, quanto meno) a ogni singola domanda. Ancor più nello specifico, non sono qui a replicare punto per punto quanto già scritto nel pezzo perché mi pare assai chiara, ad esempio, la mia citazione sanguinetiana, dal contesto in cui la riporto, ma anche in sé, se si conosce la poetica dell’autore, mentre forse dovremmo chiedere a Giuseppe Antonelli, che firma l’ultimo pezzo sulla polemica in questione (consultabile qui: http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2011-09-18/imbrogliamoci-lingua-081349.shtml?uuid=AahneP5D) ragione della sua definizione di “inerziale medietà” rispetto a cui le varie e differenti correnti letterarie del secondo Novecento e degli anni Zero si sarebbero poste in posizione di rifiuto o di accettazione, con l’equivoco dell’accostamento tra neoavanguardia e lingua ipermedia, che poco o nulla hanno a che spartire come fenomeni (si parlerebbe, piuttosto, e più correttamente, di stilizzazione, nel primo caso). Infine, non sono qui a rappresentare nessuna casa editrice né a sostenere a oltranza un’idea rigida di stile, ma a discutere assieme a tutti i partecipanti al thread di singole questioni maggiormente in evidenza o rilevanti, e non vedo a che titolo mi si venga a chiedere ragione delle mie pubblicazioni altre. Rispetto alle quali posso comunque dire, in merito al tema che qui si affronta, e cioè dello stile, di essere stata lasciata assolutamente libera di scegliere una forma e una lingua non condizionate da criteri estrinseci (la collana, le aspettative del mercato, etc.), e che probabilmente però tale libertà, non me lo nascondo, si deve soprattutto alla condizione in partenza marginale di un editore comunque di media grandezza, oltre che al relativo vantaggio da cui partiva il mio scritto, che non si configurava come un vero e proprio esordio, avendo io già pubblicato altrove libri per collane universitarie o di poesia. La domanda di partenza è stata, cioè: hai un romanzo? E il romanzo quello era: nessuna imposizione di stile o di lingua (che se hanno due nomi distinti, fenomeni distinti andranno pur considerati), nessuna indicazione editoriale. Detto questo, stiamo parlando di un libro, appunto, dalla tiratura iniziale di 2 mila copie: il discorso della libertà dell’autore non può replicarsi per romanzi le cui previsioni di vendita si attestino dalle 20 mila in su. Non nelle condizioni attuali di mercato, come è stato sopra chiarito.

  53. NON OVVIA CONSIDERAZIONE

    «Dunque non è martellando la stessa o più domande al mio indirizzo, che si aiuterà la discussione a procedere. Non bastasse questa ovvia constatazione, proprio per la specificità del mezzo la discussione medesima può avvantaggiarsi ma al tempo stesso deve scontare il felice caos del rizoma e della simultaneità degli interventi, e dunque non può fatalmente prevedere risposte dettagliate (non da me, quanto meno) a ogni singola domanda. ».

    Quanti opportunismi copre «il felice caos del rizoma e della simultaneità degli interventi»!
    Certo nella forma blog le buone domande scomode e precise rotolano via assieme a qualche buona risposta; e post fessacchiotto scaccia post che fa pensare. Questa è la Norma. Ma a cosa serve una redazione di blog specie se, come da intenzioni, dichiara di voler contrastare «l’esibizionismo, alcuni interventi di bassa qualità, l’autopromozione narcisistica, la degenerazione dei dibattiti» e «mantenere la vivacità del nuovo medium senza assecondarne le derive»?
    Ci sono tanti modi per non cedere allo “stile Web” più in uso. Ad esempio, se il post col pezzo di Giglioli è davvero ritenuto importante, non lo si seppellisce subito con altri post, i redattori si danno da fare a intervenire nei commenti, ai commentatori “ingenui” o “impertinenti” o “insistenti” non si intima di sloggiare magari con una strategia del silenzio che è censura di fatto. E via dicendo…

  54. I cinquantasei commenti letti hanno in comune la medietà. Non derive auliche di teorici di critica letteraria né sbrodolamenti e tanto per. Spero che il linguaggio si mantenga comprensibile anche quando si vuole dare una sterzata autobiografica o riportare parole di filosofi barra linguisti.
    Giacché l’autofiction mi appassiona chiedo a Gilda Policastro come ha gestito l’arrivo nelle librerie del suo romanzo “il farmaco”: ritegno, voglia di farsi ascoltare da più lettori possibili o indifferenza per le copie vendute e contenta per i risultati di Pordenone legge?

  55. @Andrea Serti Non credo che la mia reazione soggettiva alla pubblicazione di un romanzo, che pure, non sto a negarlo, rispetto ai miei precedenti libri di poesia o di critica, ha goduto di una maggior circolazione e visibilità (e però, come dirò, non in modo proporzionalmente così rilevante, a conti fatti), abbia una qualche attinenza col tema in oggetto. Però ne ha, invece, in merito al discorso sullo stile, e, in senso più generale, a un’idea precostituita di romanzo (o di prodotto seriale) che l’editoria impone o rincorre, l’evidenza che un libro difficilmente incasellabile o che comunque non si presenti, sul mercato attuale, come un romanzo “tradizionale”, o come un reportage, o libro-inchiesta, incontri non poche difficoltà a farsi leggere/apprezzare. Innanzitutto perché è lo stesso editore a non scommetterci quanto potrebbe, dal momento che decide per una tiratura iniziale di 2 mila copie, nel mio caso, pur dicendosi entusiasta dell’originalità e della qualità del mio lavoro (rispetto al quale lancia o rilancia, peraltro, la categoria del “disturbante”, che diventa di lì a poco una specie di blasone per molti romanzi). E dunque, la circolazione del mio libro si è poi ridotta, alla fine, al circuito degli addetti ai lavori, e a quei pochi che l’abbiano scorto in tempo sugli scaffali delle librerie. In secondo luogo, se proprio vuole che le racconti (chi non è interessato, salti pure) qualcosa di autobiografico, il mio libro ha avuto la fortuna di uscire in un momento ancora tranquillo per il mercato, ossia la fine dell’estate, e dunque si è subito guadagnato l’attenzione dei settimanali (complice il lavoro inizialmente molto ”mirato” dell’ufficio stampa), e anche di un certo circuito mediatico. E però, gli inviti che mi erano rivolti a presentarlo in tv, ad esempio, riguardavano l’equivoco di fondo che essendo l’autrice, cioè io, precaria, il libro riguardasse il tema (editorialmente abusatissimo) del precariato. Al mio tentativo di spiegarne contenuti e forma (un ospedale-mondo, in cui i pazienti e i medici incarnano un’analoga condizione di sofferenza insieme individuale e sociale, ad ammalarsi sono infatti non solo gli individui, negli ultimi decenni, ma anche le istituzioni del vivere in società, come la coppia e la famiglia, e via così), la redattrice di una trasmissione di successo ebbe a rispondere: “allora la contatteremo senz’altro per una puntata sulla malasanità”. Questo episodio lo racconto perché è sintomatico di come la tv e i giornali in generale riservino attenzione ad alcuni temi di sicuro impatto (il precariato lo è stato per lungo tempo, in letteratura e al cinema), oppure ad autori di richiamo. Dopo il mio libro, ad esempio, ad appena un mese di distanza, uscì per lo stesso editore il romanzo di Sandro Veronesi, che naturalmente si guadagnò, spontaneamente e non, spazio ovunque, dalla tv ai magazine ai quotidiani, attraverso sì, una campagna promozionale massiccia, ma soprattutto a una tiratura iniziale imparagonabile alla mia. Per me questo elemento rimane cruciale: che la “scommessa” editoriale si debba fondare sulle previsioni di vendita e non sulla intrinseca, e specifica, qualità di un testo. Quanto alle classifiche di Pordenonelegge, il mio libro vi è rimasto, peraltro in zona alta, per tutto il periodo in cui era votabile, e di questo risultato non posso che essere molto soddisfatta. Cresce però a maggior ragione il rammarico di non essere stata presa in considerazione per praticamente nessuno dei premi letterari che si sono assegnati nel corso dell’anno. Nessuno, ecco, è un po’ poco, per un libro di cui comunque si è parlato e su cui critici che stimo hanno scritto cose assai lusinghiere. Fine dell’invocata autofiction (che non coincide peraltro in questo caso con l’aborrita e temuta “autopromozione”, perché tanto, pur volendo, il libro nelle librerie certamente non si trova più).

  56. @ Gilda
    se la tua non è autopromozione perché “il libro nelle librerie certamente non si trova più”, allora neanche la mia lo era, visto che il mio libro neanche vi è mai entrato! E sì, l’autopromozione è sempre quella degli altri …

    NeGa

  57. Sortino. Ho indagato, incuriosito, il caso. Sulla vetrina Einaudi è disponibile un assaggio delle pagine iniziali, con corredo di interventi critici entusiasti, opportunamente espunti dal contesto e virgolettati. Come si usa, insomma. Ebbene, dato che tra gli autori dei commenti sono alcuni redattori di questo blog – penso, ad esempio, a Walter Siti, assolutamente ammirabile come scrittore e come critico – mi chiedo, del tutto candidamente: com’è stato possibile un simile abbaglio? Capisco che un libro vada letto tutto, che in una lingua ci si debba entrare, che il piano dell’inventio possa avere un suo autonomo valore in fatto di arte – per quanto l’idea stessa di un romanzo simile mi ripugni prima per sprovvedutezza che per cattivo gusto – ma: “ottenuta la sua attenzione, lì, COME UN’IDEA GENIALE, [la madre] la schiaffeggiò. D’istinto Elisabeth portò una mano al viso. Lo sguardo mortificato DIMEZZO’ LA DONNA E RIDUCENDONE LA MISERIA LE FU PIU’ FACILE SOSTENERE L’AFFRONTO. Cominciò il suo viaggio piangendo, COME CHI VIENE AL MONDO.” Quest’autore ha uno stile, d’accordo. La metafora lirico-cervellotica, preferibilmente sgrammaticata ma non troppo, inserita come un cuneo destabilizzante (leggi: dito in culo) nel ritmo dell’azione, quando non nel più improbabile, nel meno empatico, dei flussi di coscienza. Che, mi pare, non apre alcuno spiraglio di senso ulteriore, nessuna sottigliezza intellettuale o epifania. Con la furbizia di chi anticipa nel lettore, che vorrebbe colto e cautamente smaliziato, ogni possibile riserva, mostrando di saperla lunga: “Sopra di lei il cielo era di una serenità patetica.” Per poi darci, mezza pagina più giù, un raro esempio di patetismo in salsa pseudomodernista: “Camminò ancora, sentendosi delusa, presa in giro, violata fino a quel poco di spazio che si era ricavata dietro la sua vita, al di qua del dolore. Suo padre da sempre, e poi sua madre, erano entrati nella stanzetta che si era scavata dietro il cuore con fatica, un chilo per volta sottratti al corpo come terra tolta alla terra.”
    Ma cosa ci fa vedere questo stile? Quali scorci della realtà o della mente ci rende visibili la scrittura di Sortino? O per l’inverso, come ci acceca, come ci costringe a immaginare ciò che non viene alla luce? A me pare una piccola massa che rimane inerte o una pozza d’acqua che ristagna. Con tutto il rispetto per gli stili che sanno essere montagne o paludi.
    Se penso alle celebri caverne della Woolf, tanto più tragiche quanto più profonde e rispettose delle frivole esistenze dietro le quali si spalancavano a forza di stile, mi chiedo che fascino abbia questa caverna di Sortino, un furbo trompe-l’oeil sullo sfondo di cartapesta della più terrificante delle cronache, un’ordinaria storia di disumana umanità che meriterebbe, in assenza di talento, cecità e silenzio.

  58. @Policastro: sono lieto che abbia parlato del suo libro in assoluta onesta intellettuale.
    Non dimentico che proprio in questi giorni l’anno scorso sul suo libro ci fu un battage notevole che prevedeva certo più di duemila copie nelle librerie (interviste televisive, interviste sulle pagine femminili del corsera etc). Lei si è smarcata dal divenire l’Icona del Precariato, scegliendo di restare nel suo “mondo”, leggendo magari con gusto le parole di un Cortellessa, per dire.

  59. No, @Serti, non mi provochi oltre: le copie quelle sono, anzi, forse qualcuna di meno, glielo posso garantire o attestare con apposito rendiconto. Invece dice bene riguardo ai critici amici (perché i critici si conoscono tutti, essendo specie in estinzione), non solo Cortellessa, evidentemente, ma anche altri che variamente stimo, pur nel dissenso delle posizioni, come Onofri, La Porta, Loreto e qualcun altro ancora, i quali anzitutto non si sono espressi sempre in modo osannante, anzi, e che poi peraltro, conoscendo il mio precedente lavoro, avrebbero forse letto e recensito, favorevolmente o con riserve non importa, il mio libro, anche qualora fosse uscito con l’editore Pizza e fichi. E dunque il problema resta comunque come forare quella barriera che divide la nicchia non dirò dalla massa dei lettori (ammesso che esista, una massa indistinta di lettori), ma da un ambito un po’ meno ristretto dei soli addetti ai lavori, per allargare il bacino dei propri interlocutori, al di là della cerchia consolidata. Quanto al lancio, come le ripeto, si trattò di un’operazione in parte garantita dal lavoro meritorio dell’ufficio stampa (figura evidentemente non a me dedicata, e prevista da qualunque editore, anche minuscolo) e in parte favorito dall’uscita vantaggiosa in termini temporali. Ma il lancio dura una settimana-due, il resto bisogna farlo praticamente da soli. E dunque un resto non esiste, se il libro non ha una tiratura superiore alle 10 mila copie e se non è di un autore già affermato. (Spero comunque che le sue allusioni e provocazioni si arrestino qui, anche perché, la avviso, non replicherò ad altro).
    Quanto invece alla riflessione avviata da @dario p. sullo stile di Sortino (il quale, sia detto a margine, credo dissenta dalla definizione di “thriller” che pure invece mi sentirei di confermare in pieno per il suo libro, in ragione della struttura e della tipicità dell’intreccio come dei singoli episodi – vedi horror del bambino bruciato o suspense dell’episodio del ferro da maglia con cui il padre vorrebbe far abortire Elisabeth – e ovviamente dei caratteri e “ruoli”), mi permetto di rinviare alla recensione che ne ho scritto per il Manifesto, e che si può rinvenire facilmente in un post di Nazione Indiana. Posso qui solo aggiungere che effettivamente alla lingua di Sortino si plaudiva, all’indomani dell’uscita del romanzo, da più parti, e però i giudizi più lusinghieri (così come le critiche più dure, ad esempio la riserva morale sull’illiceità dell’operazione, espressa in prima istanza da Raimo) venivano, significativamente, da altri scrittori: Aldo Nove, Pincio, Vasta, Lagioia, mentre nessun critico delle terze pagine sembrava essersi accorto di questo libro. Lingua nuova, lingua sorprendente, qualcuno parlava impropriamente persino di “modernismo”. A eccezione, ecco, proprio di Walter Siti, che nell’ambito di una recensione prevalentemente positiva, esprimeva però qualche fondata riserva sulle “vertigini filosofiche alla Marzullo” del testo, prelevandone inserti analoghi se non coincidenti con quelli oggetto delle perplessità di dario p., che peraltro mi sento di condividere pressoché interamente.

  60. (E’ possibile, per la scrittura, una via etica, ossia: tenersi dentro il fuori? Esponendosi al fuori come al suo limite: alla sua sorgente che, insieme, sia il suo supplizio? Non è, forse, la scrittura non un dentro come contraltare di un’esposizione che sarebbe davanti, ma tale solo in quanto si espone?). Ci sono, oggi ch’è questo oggi qui, da leggere operazioni narrative, che scardinino mistificazioni televisive e semplificazioni giornalistiche non mediante, ma in una lingua che s’incarichi, essa stessa, di dar forma alla sua stessa catastrofe, al suo scadere in serialità & riproducibilità?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *