a cura di Giulia Romanin Jacur
[Riccardo Duranti è traduttore dell’opera omnia di Raymond Carver. Più di ogni altro conosce le questioni editoriali che hanno accompagnato la pubblicazione dei libri di Carver in Italia].
Ma in quell’istante al giovanotto venne in mente che il tappo era ancora in terra vicino alla punta della sua scarpa. Per raccoglierlo avrebbe dovuto abbassarsi, sempre tenendo in mano il vaso. Avrebbe fatto proprio così. Senza guardare in terra, allungò il braccio e lo serrò nel pugno.
R. Carver, L’incarico, Mondadori, Milano 1998
Entriamo subito nel vivo della questione: com’è stato il tuo incontro con i racconti di Raymond Carver?
Ho dovuto leggerli in fretta e furia. Avevo letto due racconti in precedenza, in fotocopia tra l’altro, tramite una scrittrice americana che ha studiato con lui a Iowa, che adesso abita in Italia. Siccome lei traduceva dall’italiano, ci davamo consigli: io su chi tradurre dall’italiano, lei su chi tradurre dall’americano. Ti parlo del 1979. Poi, però, siccome non c’era Amazon, avevo difficoltà a procurarmi i testi e lasciai perdere.
Quando conobbi Raymond Carver a sorpresa nel 1985, a parte la figuraccia che ho fatto, avevamo trovato un terreno di intesa, di simpatia, sul fatto che eravamo tutti e tre, io, lui e Tess Gallagher, prestati alla letteratura, venivamo da una classe sociale che non doveva stare in quello schema normale con le “mani in pasta” nella letteratura, invece tutti e tre per passione di lettura e scrittura ci eravamo entrati in qualche modo. E questo ha costruito un legame forte, talmente forte che ancora ora con Tess siamo in contatto e siamo amici.
Poi per alcuni anni sembrava che i giochi fossero fatti, editorialmente parlando. Il primo libro, Cattedrale, che è stato tradotto in Italia da Mondadori, passò sotto silenzio. Fu soltanto quando due anni dopo Garzanti rilevò i diritti e tradusse altri due libri, che cominciò il fenomeno Carver in Italia. Ma era ancora pilotato di rimbalzo, come succede spesso in Italia, dal successo americano e dalla spinta che Gordon Lish aveva dato per lanciare il movimento dei minimalisti, che era basato tutto su un equivoco, perché Carver quando lo seppe si arrabbiò pure parecchio, e diceva: «Minimalista io? Maddeché!», come diciamo a Roma, perché a lui sembrava fosse un’offesa. E in effetti lui era estraneo a quella operazione, o meglio ne era più che altro vittima. Ne ha avuto anche i suoi bei vantaggi, in termini di popolarità, ma faceva ancora parte di quella ferita che bruciava ancora per i tagli fatti a What We Talk About When We Talk About Love.
Però con Garzanti era già diventato un po’ più famoso. Quando organizzammo la visita successe una cosa stranissima, perché originariamente il piano prevedeva che loro dalla Germania, dove erano andati a trovare il figlio di Ray, sarebbero dovuti arrivare a Milano e avrebbero dovuto fare il debutto allo spazio Krizia. Loro invece, che in queste cose erano un po’ perversi, quando capirono come andavano le cose, decisero di cambiare programma, anticiparono la loro partenza dalla Germania e vennero prima a Roma, dove c’ero io e c’erano Gianfranco Palmery e sua moglie Nancy Watkins, che abitano tuttora a Roma. Avevano una rivista, «Arsenale», in cui è stata pubblicata la mia prima traduzione di Carver. Quando venne a Roma, stava sempre con noi: pranzo da loro, cena da me e varie altre cose. Proprio quando stavamo a pranzo da Gianfranco e Nancy, diede il manoscritto di quello che poi si è rivelato essere l’ultimo racconto che ha scritto, Errand. Ce lo diede, dicendo: «Tu lo traduci e Gianfranco lo pubblica nella rivista “Arsenale”». E quella è stata la prima traduzione sua che ho fatto; prima, c’erano altri traduttori, come Francesco Franconeri.
Quindi hai iniziato a tradurre a partire dal suo ultimo racconto?
In Italia le pubblicazioni sono andate un po’ tutte al contrario, perché il primo libro è stato Cattedrale, il secondo Di cosa parliamo, e il terzo Vuoi star zitta per favore. Ho cominciato dall’ultimo racconto, Errand, quello in cui per la prima volta Ray esce dal suo ambiente, parla di Čhecov, che era il suo grande mentore letterario. Purtroppo questo racconto è stato anche tragicamente profetico: comincia con questa emorragia di sangue dalla bocca, che Čhecov essendo medico diagnosticò subito come tubercolosi. Qualche mese dopo, nel giugno 1987, il racconto uscì su «The New Yorker», e lui mi disse: «Ti mando la rivista che forse faccio qualche cambiamento, forse lo fanno loro, controlla che il testo sia lo stesso». In ottobre uscì «Arsenale» col racconto, gli abbiamo mandato la rivista, ma non abbiamo ricevuto risposta.
Poi capitò a Roma Gregory Orr, poeta che ho tradotto, e venne fuori che conosceva Tess e Ray e mi raccontò della malattia di Ray, per cui capii il motivo del silenzio. Da lì in poi fu un calvario con speranze e ricadute. Verso giugno, inaspettatamente, mi arriva una telefonata di Tess: «Siamo andati a Reno, ci siamo sposati». All’inizio mi sembrava un buon segno, ma poi ho sentito che nella voce di Tess c’era qualcosa che non andava, ho capito che si erano sposati per semplificare le pratiche testamentarie sui diritti, perché non c’erano più tante speranze. Mi passò Ray e fu una sensazione stranissima: lui che aveva una voce bassa e che di solito bisbigliava più che parlare, quella volta al telefono parlava in falsetto, come un controtenore. Tess mi spiegò in seguito che era una conseguenza della chemioterapia o della radioterapia cui si era sottoposto. Lui era tutto contento, perché era uscita la sua auto-antologia Where I’m Calling From. Al telefono mi ha detto: «Te ne spedisco subito una copia»; io l’ho ringraziato e aspettavo questa copia. Mi arrivò il 2 agosto 1988, che ero andato all’università per prendere la posta. Tutto contento la trovai e guardai subito tutte le scelte che aveva fatto. Appena arrivato a casa mi arrivò una strana telefonata dalla Svizzera, dal «Corriere del Ticino». Volevano chiedere se potevo scrivere un necrologio per Carver. E così seppi che era morto. Devo dire che questa idea del necrologio mi salvò un po’ dalla disperazione. Poi, siccome non avevo il fax in casa, la sera mi telefonarono e dovetti dettare l’intero articolo ad una segretaria che alla fine s’era commossa.
Subito, appena morì, mi arrivarono le prime commissioni. Prima fu un editore di Napoli, Pironti, che mi chiedeva di pubblicare Fires, tradotto in Italia come Voi non sapete cos’è l’amore. E lo voleva talmente subito, che io stavo per partire in vacanza per la Grecia, e allora mi comprai il mio primo portatile, che non era per niente portatile, e feci tutto il viaggio lavorando a quella raccolta. Poi per far prima decidemmo che io avrei tradotto due saggi e tutti i racconti, mentre Francesco Durante, a cui l’avevo presentato quando era venuto a Roma l’anno prima, avrebbe tradotto le poesie. Per cui lavorando in due per l’autunno il libro era pronto e uscì. Poi Garzanti mi fece tradurre gli ultimi cinque racconti, visto che uno già l’avevo tradotto, racconti che sono usciti nella raccolta Chi ha usato questo letto. E poi la cosa sembrava finita lì.
In seguito si sono presentati quelli di Minimum fax, che erano molto appassionati di Carver e che venivano a casa mia ad aiutare con la vendemmia, e nel frattempo cercavano di “sfilarmi” qualche poesia, qualche racconto. Siccome sapevano che conoscevo Tess, con questo sistema aggiravano pure i diritti. Io scrivevo a Tess dicendole che c’era questa rivistina, e se lei faceva il favore per un racconto di non far pagare loro i diritti, visto che era in via amichevole. Poi fecero un passo da gigante mettendosi in competizione con Einaudi per i diritti di Carver. Conosco tutti i retroscena, perché seguivo la trattativa su due canali: uno era dalla parte di quelli di Minimum fax, in quanto mi dicevano: «Sai che c’è questa situazione, Einaudi vuole comprare i diritti… Casomai se puoi magari mettere una buona parola con Tess a nostro favore…», e poi dall’altra parte sentivo Tess che mi diceva che era una situazione strana, questi di Minimum fax sapeva chi erano, ma non aveva un’idea di questa casa editrice Einaudi. Io le rispondevo: «Ce l’hai presente Mondadori?», insomma per farle capire le proporzioni. Quando vide questa cosa, Tess disse: «Chiunque vinca questa gara, io voglio che i racconti li traduca tu». Io le ho detto che ero disposto. «Ma tu chi preferiresti?» mi ha chiesto. Io gli ho detto: «A me basta che mi paghino». Mi ha risposto: «Vedi chi ti sembra più interessato». Io mi concentrai su questo e fu la chiave di volta. Bisogna dire però che il vero ago della bilancia fu un altro. Vinse Minimum fax perché il suo progetto editoriale includeva la pubblicazione anche delle poesie, al contrario di Einaudi che avrebbe pubblicato solo i racconti. E con le poesie Minimum fax non ci perse per niente, sono stati molto abili nel gestirne la pubblicazione.
Successivamente però i diritti sono passati a Einaudi?
Il vecchio agente, Amanda Urban, non voleva pestare i piedi alle grandi case editrici americane pubblicando quello che a Tess interessava molto, che era Beginners: la versione completa prima dei tagli di What We Talk About. Quindi Tess ha cambiato agente, e quello nuovo, Andrew Wyley, che è una persona molto seria che tiene più agli scrittori che agli editori, l’ha aiutata a vendere i diritti di Beginners in Italia. Accadde dunque che quando Tess voleva rinnovare i diritti di Carver in Italia, Minimum fax non si era fatta sentire, mentre Einaudi era tornata alla carica. Solo a quel punto quelli di Minimum fax si sono svegliati, ma ormai era troppo tardi.
Hai tradotto tu le raccolte uscite per Einaudi?
Quando ci fu il cambio da Minimum fax a Einaudi, Tess si assicurò che fossi io il traduttore. Quindi i racconti di Beginners, tranne due o tre che avevo già tradotto, non li avevo mai visti. Quelli a cui lui teneva di più, li aveva ripubblicati interi su rivista, e poi in altre raccolte. Per esempio The Bath / A Small Good Thing e So Much Water So Close to Home li ha ripubblicati in Cattedrale, e quindi li avevo già tradotti, ma gli altri tutti interi non li avevo mai visti. Per gli altri racconti hanno comprato le mie traduzioni dalla Minimum fax. Quelli di Minimum fax hanno venduto care le mie traduzioni, perché a Einaudi non conveniva prendere un altro traduttore o richiedere a me. Se fossi stato furbo, al momento del primo contratto con Minimum fax, avrei dovuto chiedere una percentuale sulle vendite. Ora quelli di Minimum fax sono rimasti scottati e non vogliono più parlare di questo argomento.
Secondo te quali sono i fattori che hanno compartecipato al successo di Carver in Italia?
L’Italia, lo dice anche Tess, è il paese straniero dove Carver ha venduto di più. Lei sostiene che ho fatto qualcosa di giusto nel tradurre Ray. E poi la combinazione con la casa editrice giovane che ha saputo lanciare la produzione carveriana sul mercato giovanile è stata senza ogni dubbio un’operazione azzeccata.
Che tipo di contributo ha dato Fernanda Pivano alla diffusione dei libri di Carver in Italia?
Fernanda Pivano, che aveva una specie di complesso di maternità frustrata per cui doveva adottare intere generazioni di scrittori, ha giocato un certo ruolo. E lo stesso procedimento l’ha fatto prima con i Beats, poi con i minimalisti, come McInerney, Easton Ellis. Quando Ray venne qui a Roma la Pivano mi tempestò di telefonate, finché non siamo andati a casa sua. Carver era affascinato dal fatto che lei avesse conosciuto Hemingway, e lei voleva un altro scalpo da appendere alla sua collezione di scrittori. La Pivano non dipendeva però da una casa editrice. Certo, scrisse la postfazione a Di cosa parliamo quando parliamo d’amore per Garzanti, ma secondo me era una cosa più che altro sua.
Dunque ci sono una serie di fattori che hanno fatto e ancora fanno sì che in Italia gli scritti di Carver abbiano avuto successo?
Sì, sono d’accordo. Uno di questi, di cui non abbiamo ancora parlato, è il fattore delle scuole di scrittura. Insieme a Stull per Einaudi ho curato Il mestiere di scrivere, uscito nel 1997. Questo libro è andato sicuramente ad incidere sul fenomeno nascente delle scuole di scrittura. Abbiamo appunto curato il libro io e William Stull. Lui è il biografo ufficiale, di cui stiamo aspettando la biografia di Raymond Carver. Quella di Sklenicka, uscita recentemente in Italia, è invece il punto di vista della prima moglie, Maryann Burke, una sorta di sua vendetta postuma. Mi avevano chiesto di scriverne la postfazione ma mi sono rifiutato, perché la trovavo troppo di parte, poi ho partecipato a una presentazione in cui era presente anche la biografa, in cui le ho detto chiaramente che non mi pareva giusto che si usasse una fonte soltanto, che è quella di Maryann Burke.
Nel documentario di Tommaso Avati dedicato a Carver, Ultimo Frammento, viene detto: «la novità di Carver era che parlasse di persone normali». Secondo te Raymond Carver ha portato delle caratteristiche nuove nella letteratura italiana ?
In Italia c’è sempre stata un ambiente letterario asfittico e tradizionale, per cui una cosa che esce fuori dagli schemi suscita perplessità oppure entusiasmi, a seconda di chi si adegua o si ribella. Poi la scrittura di Carver è ingannevolmente facile.
Due redattrici di Radio Popolare mi fecero un’intervista, forse in occasione dell’uscita di uno degli ultimi libri di Minimum fax. Erano delle persone in gamba, che mi hanno fatto delle domande intelligenti. Alla fine, mi hanno fatto notare un aspetto che non avevo mai preso in considerazione. In quell’occasione mi hanno detto: «Lei si rende conto che molti scrittori italiani giovani imitano Carver?». Dico: «Sì, mi è giunta voce, però non ho tempo di seguire questi scrittori, sto già seguendo troppe letterature, trascuro un po’ quella nazionale». Sapevo infatti che c’era un grande interesse tra gli anni Novanta e i primi anni del Duemila: per esempio un ragazzo, Francesco Locane, che sta a Bologna e lavora per una radio militante, mi intervistava e voleva sapere di tutto; e poi c’erano giovani attori che hanno ricavato spettacoli dai racconti di Carver. Alla fine le redattrici di Radio Popolare mi hanno detto: «Si rende conto che loro non imitano Carver, imitano lei, perché lo leggono in italiano». La cosa mi ha dato da pensare: è una grossa responsabilità.
Cosa dici della presunta religiosità di Raymond Carver, di cui in Italia si fa portavoce Antonio Spadaro?
Con Antonio Spadaro siamo amici. Senz’altro è un critico intelligente, però, necessariamente, tira acqua al suo mulino. E lui sa benissimo che io resisto a qualsiasi cristianizzazione forzata di Carver. Uno scrittore americano come Carver chiaramente non può ignorare alcuni aspetti culturali americani, ma Ray era assolutamente laico. Ognuno può leggere l’opera carveriana come vuole, il racconto Una cosa piccola ma buona, per esempio, può essere letto semplicemente come un conflitto tra umanità e disumanità, e non come una redenzione in senso cristiano. Tra l’altro, guarda caso, questo è il racconto che Gordon Lish ha massacrato più di tutti, perché quando vedeva un po’ di sentimento di umanità, tirava fuori l’accetta.
A proposito della parabola di Carver, e di un ritrovamento di una certa generosità della scrittura con Cattedrale, cosa ne pensi?
Penso che uno matura e, soprattutto, si tranquillizza. Lui fino al ’79 viveva in un marasma. Quando ha incontrato Tess è riuscito a smettere di bere (non di fumare, purtroppo), e ha trovato una persona che lo spronava, lo sosteneva. Tess l’ha tranquilizzato, non l’ha addomesticato, l’ha focalizzato verso cose più puntuali.
È significativo l’episodio di «da Coleman’s», che racconta in Io e Carver. Ray era impaziente di sfamarsi in un fast food qualsiasi, ma Tess riusciva a portarlo fino a un buon ristorante. Da quel momento in poi, quell’episodio era diventato una metafora per dire che il racconto andava bene, ma non si era arrivati fino a Coleman’s, si poteva fare di meglio.
[Immagine: Raymond Carver (gm)].
Riempie i buchi tra un racconto e l’altro, tra un libro e l’altro. Grazie.
L’intervista è interessante ma credo un tantino ondivaga, per esempio alla domanda sui fattori di successo di Carver in Italia penso siano rimasti un po’ sul vago, ovvero non si è approfondito l’altro versante della risposta di Duranti: perché Carver è azzeccato per il mercato giovanile?
Dopo qualche domanda la questione rientra in qualche maniera dalla finestra quando si parla delle scuole di scrittura e del fatto che in Italia molti giovani scrittori imitino Carver/Duranti…
Mi dispiace dirlo ma essere uno scrittore che funziona sul mercato giovanile a me non sembra un gran complimento all’opera di Carver… ma coglie nel giusto sul suo valore letterario che è molto distante dai grandi di sempre ma anche dai grandi contemporanei a lui coetanei.
Credo anche che la critica abbia tentato di complicare il semplice Carver. A me non sembra che Carver sia uno scrittore molto difficile, né uno scrittore semplice solo all’apparenza. Uno scrittore semplice solo all’apparenza è Bolano. Ma Carver no, Carver è semplice e basta, è uno monocorde, spesso noioso ed eccessivamente controllato, che sotto le bende dell’autore freddo e dimesso tenta continuamente l’effetto (facile) sul lettore, sia per l’aspetto metaforico sia per quello dell’intreccio (e il racconto originale Una cosa piccola ma buona è in questa temperie qui)… Ha raccontato delle storie che non vanno quasi mai oltre ciò che rappresentano, e se Lish ha tratto da lui una formula di minimalismo moderno non si può nemmeno negare che la scrittura e le cose scritte da Carver (la sua lingua soprattutto, la sua lingua) questa misura la contenevano (per quanto Carver se ne schifi), infatti il lavoro di Lish da quanto ne so è stato un lavoro di sottrazione…
Dice: è un atteggiamento critico scorretto leggere Carver sulla lente di Lish. Ma è Carver che mi autorizza a fare questa deduzione dopo aver firmato l’atto di riconoscimento del cadavere dei suoi racconti squartati da Lish. O perlomeno mi reputo legittimato a credere che l’atto di forza editoriale che il suo editor gli usò non fu una bella cosa, vero (anche se poteva opporsi), ma che davanti ad un testo di Manganelli o di Bukowski (per rimanere in America) l’unico modo che hai per renderlo minimalista è bruciarlo da cima a fondo (hai voglia a tagliare)… il minimalismo di Carver è già in atto prima di Lish che l’ha sgusciato e reso solo ancora più commestibile e più facilmente fruibile al grande pubblico.
Ho trovato molto utile il commento di Dinamo Seligneri, perché in effetti aiuta a riflettere meglio su una questione importante sollevata anche nell’intervista («Minimalista io? Maddeché!»).
Carver non è, a mio parere, un autore minimalista – come non lo è Čechov. E la ragione emerge molto chiaramente da un passaggio, tante volte citato, forse pure troppo, ma che rimane utile a capire bene cosa distingua lo stile di Carver dal minimalismo. Lo riprendo da un’intervista del 1987:
«E’ difficile essere semplici. La lingua dei miei racconti è quella di cui la gente fa comunemente uso, ma al tempo stesso è una prosa che va sottoposta a un duro lavoro prima che risulti trasparente, cristallina. Questa non è una contraddizione in termini. Arrivo a sottoporre un racconto persino a quindici revisioni. A ogni revisione il racconto cambia. Ma non c’è nulla di automatico; si tratta piuttosto di un processo. Scrivere è un processo di rivelazione».
Daniela Brogi, te lo chiedo senza alcuna polemica, ma non ho capito perché il passo che riporti dovrebbe scongiurare il minimalismo in Carver. A mio parere, al di là della tua citazione che non credo abbia molto a che spartire col minimalismo carveriano (che non è ad ogni modo una parolaccia), io sono abituato a valutare primariamente i testi e poi, ma colle pinze, le interviste ecc…
Sì è vero, le interviste non bastano; ma possono aiutare. in questo caso, mi sono servita di quel passaggio per replicare all’aggettivazione da lei usata (noioso, monocorde, eccessivamente controllato). Ecco, forse, e molto semplicisticamente, ma in questo momento non posso fare altro, ne farei una questione di tessitura del racconto: mentre, tranciando rozzamente, i racconti minimalisti scelgono di mettere in prospettiva, della vita da loro inventata, l’effetto di effimero passaggio (e ce ne sono molto belli), quando leggo i racconti di Carver io colgo le cicatrici: come se mi si volesse far capire, anche, che è stato tolto qualcosa, che quella superficie è rivelazione appunto, mai apparenza immediata. Non so se mi sono spiegata meglio; ci ho provato.
Io Carver non l’ho mai capito ma l’intervista è bella.
Ritengo Carver uno dei grandi della letteratura del secondo novecento. Quando lo leggo, penso stia dicendo cose banali, e poi mi accorgo che sta parlando di me. A volte, quella stessa sensazione, l’ho provata leggendo Mario Benedetti (Umana Gloria) e Mazzoni (I Mondi). Libri raffinatissimi (come la scrittura di Carver) che parlano di noi.
Certi finali di Carver mi hanno lasciato inebetito prima e hanno generato immagini e riflessioni che talvolta sono entrate anche nella mia scrittura. Una sospensione epifanica che, a mio parere, è esattamente il contrario di quello che afferma Seligneri (“Ha raccontato delle storie che non vanno quasi mai oltre ciò che rappresentano”). Oppure, se Seligneri ha ragione, vuol dire che le verità carveriane che ci parlano, stanno in quello che quelle storie rappresentano.
La semplicità è una delle qualità del genio.