di Rino Genovese
[La prima parte di questo articolo, uscita il 1° ottobre, si può leggere qui].
Qualche secolo fa i nostri progenitori illuministi avrebbero detto che si muore, del tutto inutilmente, di fanatismo e d’ignoranza. Oggi potremmo dire che si muore piuttosto di cultura, fatti esperti nostro malgrado delle strane risorse di questa – certo ancora del fanatismo religioso, ma più precisamente di tradizioni culturali che precipitano immediatamente in politica, trasformandola in una faccenda per così dire neotradizionale. Ecco il senso – cui assistiamo dal 1979, anno in cui veramente termina il “secolo breve” con la rivoluzione più inimmaginabile, quella iraniana – degli episodi di violenza diffusa che periodicamente costellano la vita dei paesi musulmani. Masse di diseredati non trovano un’altra strada per far sentire la propria voce, aiutati, in questo, da psicagoghi al di sotto di ogni sospetto. Una vignetta offensiva e stupida, un film sgangherato e provocatorio, i vuoti prodotti di un’industria della cultura e di una comunicazione mediatica caotica e del tutto irrilevante in Occidente, diventano, grazie alla potenza della rete, micce esplosive nel resto del mondo. Il battito d’ali di una farfalla, a un capo, provoca un uragano all’altro capo del mondo. Roba da far ridere se non fosse, invece, da prendere molto sul serio.
Anzitutto c’è un problema di categorie, cioè di lenti attraverso cui leggiamo il mondo. Possiamo ancora fare affidamento sul concetto di secolarizzazione? Non mi pare. La secolarizzazione sarebbe il processo moderno, insieme culturale e politico, in cui la religione viene man mano a perdere le caratteristiche del potere temporale, per diventare sempre di più un fatto privato, che riguarda il rapporto del singolo individuo con Dio e con l’al di là: il che, in forma piuttosto consistente, si è visto solo in alcuni paesi protestanti del Nord Europa. Non negli Stati Uniti, per dire, non in Italia e nei paesi cattolici, e ancora meno nel resto del mondo: solo in una zona molto limitata del pianeta. Alcuni sociologi hanno perciò parlato di una “specifica via” europea, cercando di tener fermo al concetto di secolarizzazione, e magari correggendolo con un “post”, come se fosse quasi ovvio che, dopo la secolarizzazione, si porrebbero nuovi problemi che riguarderebbero ancora la questione del ruolo pubblico delle religioni. Ma come! Maestri come Max Weber ci avevano parlato di un generale disincantamento del mondo e della progressiva perdita di peso delle religioni, e adesso, invece, la postsecolarizzazione si troverebbe a che fare ancora con la stessa questione? Singolare “post” quello che sembra un “pre”.
Il punto è che la secolarizzazione, di cui molto si è favoleggiato (e ancora si favoleggia: si pensi all’ex cardinale Ratzinger, che già da semplice teologo e “difensore della fede” del Sant’Uffizio, è stato in prima fila nel dare addosso alla secolarizzazione all’interno delle file cattoliche), è un concetto sostanzialmente vuoto. Non spiega niente. Né il ritorno dell’islam né l’irrigidirsi dell’Occidente, in cui ci si aspettava tutto un altro “corso del mondo”; e neppure la tipica mescolanza di sacro e profano, di presente e passato, di mito arcaico depotenziato e futuro sterilizzato, di cui si pasce l’iperconsumo estetizzato odierno.
Arrivo così alla seconda categoria che non funziona più, se presa nel suo uso classicamente marxiano, cioè quella d’ideologia. L’ideologia – ripeto – non è affatto sovrastrutturale: non c’è alcuna base economica a sorreggerla. Quindi è la nozione di cultura, sia pure nel senso alquanto indeterminato conferitole dall’antropologia culturale, a vincere la partita in un’ipotetica disputa teorica con il marxismo. La cultura ricomprende in sé strutturalmente la stessa economia: è un insieme di costumi, usanze, abitudini per nulla secondari rispetto ai processi di produzione e consumo. Dal Giappone alla Cina, fino agli Stati Uniti passando per l’Africa e l’America latina, ovunque si può vedere come le diverse tradizioni culturali incidano sulla qualità dello sviluppo e del sottosviluppo. E si vede inoltre come queste differenti culture si ibridino reciprocamente creando forme spurie di vita sociale (che, a questo punto, tanto varrebbe chiamare semplicemente culturale), sottoposte a ciò che appare come un “ritorno” del passato ma è, piuttosto, la sua ineludibile permanenza.
[Questo articolo è uscito sul sito internet di “Il Ponte”]
[Immagine: David LaChapelle, Jesus Is My Homeboy. Loaves and Fishes (gm)].