di Raffaele Donnarumma

[Questo articolo è uscito su «Alfabeta2». Una versione più lunga è apparsa su «Allegoria»].

Goodbye, Postmodernism

Sembra che ormai se ne siano convinti tutti: la cultura e la letteratura postmoderniste si sono esaurite. Le parole d’ordine di un trentennio iniziato con la metà degli anni Sessanta e spento alla metà degli anni Novanta sono scadute, e le ha sostituite il loro contrario: non più morte del soggetto e dell’autore, ironia coatta, manierismo, autoreferenzialità, antistoricismo, scetticismo sulla politica, vanificazione della verità, ma riabilitazione dell’io, nuove forme di realismo, volontà di raccontare il presente, partecipazione civile, denuncia, fiducia in una qualche possibile verità della letteratura. Anche se l’impegno è impraticabile per la scomparsa delle strutture che lo sostenevano e per la corrosione cui proprio il postmoderno l’ha sottoposto, il presente è diventato oggetto di investimenti e giudizi. La scrittura rivendica oggi effettualità morale, efficacia pratica: ciò che, al contrario, il postmodernismo metteva in mora o irrideva.

Eppure, il cambiamento di clima non coincide affatto con un’eclissi del mondo della vita postmoderna. I miti della fine della storia e dello sciopero degli eventi sono stati sbugiardati anche prima dell’11 settembre; ma non assistiamo certo né alla fine del tardocapitalismo e del neoliberismo (le loro crisi sono le febbri di crescenza del Leviatano), né all’archiviazione dei cambiamenti con cui l’informatica ha riplasmato il nostro immaginario. Il processo iniziato alla metà degli anni Sessanta si è accelerato ed esteso: il suo secondo nome, infatti, è globalizzazione. Ma non è più il tempo dell’anything goes e del laissez faire postmoderni – spade di plastica, o maschere troppo fragili per potersi difendere dalla furia del Nuovo Ordine Mondiale.      

Ipermodernità

Che nome dare a queste mutazioni, che stanno in un atteggiamento diverso rispetto all’arroganza del tardocapitalismo, anziché in una sua trasformazione radicale? L’assunto da cui partirei è che la liquidazione ironica della modernità proclamata dal postmodernismo si è rivelata illusoria. Sotto il regime della modernità, siamo stati per tutto il Novecento e siamo ancora: ciò cui assistiamo, e ciò che già l’età postmoderna aveva messo in moto, è semmai la sua continuazione unilaterale, parodica, impazzita. Se la modernità conosceva sistemi di autocorrezione e di rivolgimento, oggi la correzione è appalto dell’etica più che della politica, e il sole della rivoluzione non sorge più in nessun cielo. La storia procede, ma senza mete: piuttosto che credere che sia già stato fatto e detto tutto, ci siamo abituati al regime forzoso del nuovo, senza avere fede nelle favole sul progresso. Il futuro è sempre qui, e ci dà stupori di routine: rischia di essere la nostra prigione distopica.

A questa modernità oltranzistica e compulsiva, darei il nome di ipermoderno. Promossa in Francia soprattutto da filosofi e sociologi come Gilles Lipovetsky (e in principio, forse, era Baudrillard), questa categoria non è ancora stata pensata come occorrerebbe. A chiarirla, sarebbero utili quanti già negli anni Ottanta e Novanta, insoddisfatti della nozione di postmoderno, tentavano vie alternative: Beck con la società dei rischi, Augé con la surmodernità, Bauman con la modernità liquida. È tutto lavoro da fare; anche perché, a dirla tutta, in qualche banditore dell’ipermoderno non mancano approssimazione e moralismo. Ma prima di tutto, è bene che il prefisso iper non crei equivoci: esso non ha alcuna sfumatura celebrativa, e si rivela anzi ansiogeno e intimidatorio. L’iper è il dover essere della contemporaneità, la sua ossessione prestazionale, la febbre che la fiacca. L’abbozzo che si compone, allora, non è tanto o solo una rottura con il postmoderno (la cui egemonia, pure, è stata contrastata), ma uno scivolamento e, dunque, la rivelazione che quel post non si era mai compiuto davvero.

In Italia, di ipermoderno si inizia appena a parlare. Il solo, recentissimo tentativo sistematico è appunto di un sociologo: in Ipermondo (Laterza 2012), Vanni Codeluppi propone Dieci chiavi per capire il presente. Ma già prima, Massimo Recalcati è ricorso a questa categoria. L’uomo senza inconscio (Cortina 2010), con la giunta di Cosa resta del padre? (Cortina 2011), è un trattato di antropologia contemporanea. Nelle patologie emergenti e simboliche del presente (anoressia, bulimia, crisi di panico, tossicomanie, disturbi psicosomatici) non emerge alcun rimosso e l’inconscio è fuori gioco. Sembra il ritratto di molti personaggi contemporanei e di quei narratori che descrivono il disagio senza credere al profondo e alla psicoanalisi: sono strumenti fatti apposta per leggere Easton Ellis o Coetzee, Houellebecq o Littell, Nove o Siti.

 Realismi ipermoderni

Ma allora, parlare di ipermoderno può servire a farci capire la cultura, le arti, e in particolare la letteratura che si sono imposte da metà anni Novanta? Se scrittori come Bolaño o Foster Wallace o l’ultimo DeLillo segnano una transizione dal postmoderno a qualcosa che non lo è più, ne sono già fuori, per limitarsi ai nomi più in vista, Saramago, Munro, Richler, Roth, Yehoshua, Coetzee, White, Cunningham, Franzen, Schulze, Houellebecq, Littell. In loro, non si sfugge al confronto con la tradizione modernista; e come il modernismo si opponeva alla modernità sino al rifiuto e alla reazione, così questi scrittori praticano una storiografia critica del presente che ha poco a che fare con l’historiographic metafiction di Pynchon o Doctorow. Tuttavia, quello che identifica la loro scrittura è la conciliazione dell’eredità modernista con le forme storiche del realismo ottocentesco: conciliazione straordinariamente produttiva e paradossale, se si considera che, in tutti i modernisti storici, la polemica contro le fotografie naturalistiche e le marchese che uscivano alle cinque aveva sì la coscienza sporca, ma era frontale e spazientita.

Il nodo della letteratura ipermoderna è proprio il realismo; tanto più, perché con poche cose come con quello il postmoderno ha avuto il dente avvelenato. Oggi, il realismo risponde per statuto a un’angoscia di derealizzazione e si misura con l’irrealtà o la realtà depotenziata prodotta dai media. Come ha detto meglio di tutti Siti, il realismo è diventato un soufflé pronto ad afflosciarsi in una poltiglia di finzione, cioè vive costantemente nel dubbio di riuscire a fare presa sulle cose e di essere credibile. La riduzione del mondo a favola, che il postmoderno dava per avvenuta, fomentava o con cui flirtava, è ciò che l’ipermoderno teme e contro cui resiste. Ipermoderno è dunque quel realismo che sa che la realtà è mediata dalle immagini e dalle costruzioni culturali (cioè, ci si presenta già sempre riprodotta); ma che cerca comunque di opporsi alla falsificazione integrale. La questione (ci ha riflettuto Didi-Huberman) non è la realtà fuori o prima delle immagini: ma la verità delle e nelle immagini. Le forme del realismo ipermoderno – che spesso assume o costeggia i modi del reportage – sono perciò mediate da due istanze complementari: quella documentaria, e quella testimoniale.

 Documento, testimonianza

Una letteratura documentaria sa subito che la realtà non è la cosa da rispecchiare, ma qualcosa che è già stato messo in forma dal discorso sociale. Come ci ha spiegato Maurizio Ferraris, il documento è vero solo se ha una sanzione pubblica, cioè solo se esibisce le marche della propria artificialità: il realismo documentario pretende alla verità proprio perché mette in tavola le carte. Se l’autoreferenzialità postmoderna apriva il cannocchiale infinito delle riscritture che rimandavano solo a se stesse, e al fondo del quale non c’era nulla, il realismo documentario ipermoderno riscrive perché la realtà è già scritta o raccontata o rappresentata, e non per questo è meno vera. Viene così inscenata quella necessità di un di più di lavoro interpretativo cui ci hanno abituato i media audovisivi (P. Montani, L’immaginazione intermediale, Laterza 2010). Proprio perché il documento richiede un’assunzione di responsabilità da parte di chi lo produce, la radice della sua credibilità non è positivistica: al contrario, richiama una responsabilità etica e un impegno soggettivo. Perciò, il documento invoca subito il correttivo della testimonianza (penso all’acutezza con cui Agamben ha articolato questa categoria in Quel che resta di Auschwitz). Non esiste verità senza che qualcuno non ci metta la faccia e la parola. L’espansione e quasi l’istituzionalizzazione delle scritture dell’io lo dimostra in abbondanza, sia che colonizzi forme narrative date, sia che se ne crei nuove (e una delle più vitali, oltre al memoir, è il cosiddetto personal essay, per come l’hanno inventato Foster Wallace o Sebald). Si prenda proprio il genere più sfuggente: quell’autofiction che, anche in Italia, ha conosciuto una diffusione straordinaria. Se la consideriamo come forma simbolica della contemporaneità, il suo intento non è dimostrare che l’identità è fittizia perché impastata di menzogne; ma che ogni identità si costruisce, e trova se stessa, anche nelle menzogne. Cosa dice Operation Shylock se non che alcune verità possono essere enunciate solo nell’invenzione più divertitamente spericolata? Cosa fa Lunar Park, se non sfruttare un immaginario da B-movie per avere accesso al profondo? Cosa racconta Siti, se non che l’io è se stesso nelle sue mistificazioni?

 Panorama italiano

Letta sotto questa luce, anche la narrativa italiana recente inizia a comporsi in un panorama. Senza un ripensamento del modernismo non saprei capire libri pur diversissimi come la trilogia di Siti, Canti del caos di Moresco o Dai cancelli d’acciaio di Frasca: l’opacità della forma, l’autoriflessività del racconto, l’esibizione dell’artificialità della scrittura non sono i segni di uno scetticismo rinunciatario, ma vogliono, ora ironicamente, ora in maniera spasmodica, strappare qualcosa di vero alla proliferazione dei discorsi e delle immagini. Oppure, ripensate in questa chiave il dibattito su Gomorra: chi come Saviano si confronta con una realtà già mangiata dai media? chi come lui vuole produrre, più ancora che documenti, una testimonianza la cui credibilità si fondi sull’‘io c’ero’ e su un’enfasi rappresentativa che restituisca forza alle parole? Già questi titoli suggeriscono una caratteristica distintiva della nostra narrativa rispetto a quella internazionale: mentre altrove l’ipermoderno ha coinciso anzitutto con un rilancio del romanzo fuori del manierismo o del citazionismo postmoderni, da noi il meglio sembra voler sfuggire alla sua ombra, che copre invece, ma appunto come ombra, la medietà o l’inanità dei bestseller stagionali. Gli scrittori italiani hanno un rapporto difficile con il romanzo. Siti ci si è avvicinato dopo aver scritto alcune delle più belle autofiction prodotte in Europa; Moresco se ne è allontanato sempre più visionariamente correndo verso l’opera-mondo, salvo recuperarlo a modo suo negl’Incendiati; Frasca lo ha smontato e rimontato a forza di allegoria e riflessione; Covacich lo costruisce con sapienza, ma è sempre tentato dall’autofiction; Gomorra ha imboccato tutt’altra strada; Pascale ci arriva dopo i racconti e dopo aver trovato nella Città distratta la sua mistione di saggismo e narrativa; Trevi può sognarlo nel Libro della gioia perpetua, ma riesce davvero nei suoi personal essays; Arminio pratica la paesologia in forme strutturalmente analoghe, ma costruisce il libro per montaggio di pannelli… Dovrebbe bastare questo, spero, a sgombrare il campo dagli equivoci su quel neo-neorealismo o neo-naturalismo di cui si è sentito parlare in Italia negli ultimi anni. Certo, non è affatto esclusa una regressione a forme grezze; ma neppure quella regressione, per deludente che sia, è a rigore ingenua. Con l’ipermoderno, nessuno potrebbe vantare di fronte al reale una verginità che c’è da stupirsi qualcuno creda sia mai esistita.

[Immagine: Edward Burtynsky Breezewood, Pennsylvania (2008)].

108 thoughts on “Ipermoderno. Come raccontare la realtà senza farsi divorare dai reality

  1. finalmente siamo arrivati a quell’area estrema della décadence. finalmente siamo arrivati ad affrontare uno dei quattro problemi nietzscheani di coscienza: “sei autentico? o soltanto un commediante? un rappresentante? o il rappresentato stesso? – alla fine sei semplicemente l’imitazione di un commediante … secondo problema di coscienza”. nietzsche ha superato i suoi problemi di coscienza con ecce homo, scrittura di un commediante che entra in contatto con la genealogia del moderno, con quella che enuncia che ogni forma di rappresentazione è una necessaria falsificazione che riduce immensamente il reale ma si presenta in noi come se lo comprendesse nella sua interezza. già con nietzsche, la décadence è l’operare stesso del pensiero. finalmente siamo arrivati a quell’area estrema della décadence.

  2. “Io so e ho le prove. […] Io so. Le prove non sono nascoste in nessuna pen-drive celata in buche sotto terra. Non ho video compromettenti in garage nascosti in inaccessibili paesi di montagna. Né possiedo documenti ciclostilati dei servizi segreti. Le prove sono inconfutabili perché parziali, riprese con le iridi, raccontate con le parole e temprate con le emozioni rimbalzate su ferri e legni. Io vedo, trasento, guardo, parlo, e così testimonio, brutta parola che ancora può valere quando sussurra ‘È falso’ all’orecchio di chi ascolta le cantilene a rima baciata dei meccanismi di potere. La verità è parziale, in fondo se fosse riducibile a formula oggettiva sarebbe chimica. Io so e ho le prove. E quindi racconto. Di queste verità.” ROBERTO SAVIANO

  3. “Non esiste verità senza che qualcuno non ci metta la faccia e la parola” – se la nostra salvezza risiede in un fantomatico ‘ritorno all’io’ (mettendo da parte praticamente tutte le più importanti conquiste non solo artistiche ma culturali del ‘900), che poi nella letteratura industriale/commerciale non se n’era mai andato, allora siamo a posto

  4. Non so, mi rimane difficile capire esattamente dove vuole andare a parare Donnarumma, come si faccia a uscire da un’epoca appena all’inizio; del resto ignorandola del tutto e tornando a fare la coda dell’epoca precedente. Ad ogni modo, anche a me ha molto colpito leggere ” Non esiste verità senza che qualcuno non ci metta la faccia e la parola “. Si ritorna a diffidare del testo, come potesse contenere che so di pericoloso per il genere umano, come se non fossimo più capaci di leggere i testi al di là della gestualità più o meno smargiassa e prapagandistica dei loro proprietari (autori). Insomma, questo vuole l’analisi di Donnarumma, che si torni a mettere sotto il tappeto PERSONA la polvere TESTO? E del resto, la faccia e la parola, che darebbero valore al testo, non vanno incontro (ma all’incontrario…) proprio a quella bisogna di produzione di AUTORITA’ (in questo senso l’autorialità come suo segno sempre più distintivo?) necessaria all’instaurazione del nuovo ordine mondiale che Donnarumma sembra deprecare? Boh, parafrasando la bibbia direi così: un testo tra mille l’ho trovato, un autore tra mille non l’ho trovato.

  5. Non credo che le maggiori riuscite narrative contemporanee costituiscano una conciliazione fra il postmoderno e le forme del realismo ottocentesco; Infinite Jest, Underworld, I detective selvaggi, 2666, Chronic City o Europe Central sono vere e proprie esplosioni della forma-romanzo, meteoriti, qualcosa di nuovo – forse. Del resto si può essere davvero nuovi dopo che il nuovo ha ucciso sé stesso? Dopo l’Ulisse, dopo Finnegan’s Wake, direi addirittura dopo la Lettera di Lord Chandos, pubblicata oramai centodieci anni fa? Quando penso a così potenti manifestazioni d’impotenza (ontologica più che artistica) avverto la sensazione che tutto sia davvero inutile, un miagolio nel vuoto. Tuttavia non penso che il romanzo sia morto, e neppure il contrario. Il romanzo è uno zombie ancora vigoroso, un mutante in attesa di nuove energie, nuove scariche elettriche. Del resto il romanzo segue la storia (la poesia invece la precede); e la storia non s’è ripresa dalla mattanza del ‘900, la storia procede sotto choc, a tentoni nella penombra. Credo infine che autori quali Coetzee, Franzen, Houllebecq, Littell, Saramago o Roth (o il DeLillo che giunge fino a Rumore bianco) si collochino al di qua del nuovo, non al di là; non dico sia un demerito, solo un dato di fatto.

    Il discorso dell’autofiction suona scivoloso e ambiguo. A me sembra che l’autofiction sia sempre esistita; è nuova l’attuale inflazione dell’io. Dunque ecco la mia domanda: abbiamo necessità d’autofiction o non piuttosto di forme trans-egoiche, che delocalizzino, che sappiano mettersi in ascolto piuttosto che parlare di (e a) sé stesse? Nel momento in cui la fisica e la scienza compiono ogni giorno scoperte sempre più stupefacenti e romanzesche (ecco un buon esempio per il significato che Donnarumma attribuisce al prefisso iper) il romanzo non dovrebbe aspirare, almeno un poco, a una dimensione cosmica? A un’alterità? Questa proliferazione d’autofiction non va letta quale sintomo d’un deficit immaginativo, piuttosto che come la coraggiosa battaglia in favore d’una più vera “realtà”? E ancora: che l’io sia una finzione (o finzione di finzioni) non ce l’avevano già mostrato con estrema chiarezza narratori, poeti e filosofi sin dal tardo Ottocento? Dove sarebbe la novità, sotto questo precipuo punto di vista, degli autori citati? Non che io discuta la legittimità o il valore delle loro riuscite letterarie; ne discuto la novità.

    Riguardo al panorama italiano infine non mescolerei – sebbene con la premessa delle reciproche diversità – autori tanto, troppo differenti, idiosincratici. Moresco e Siti, soprattutto, stanno davvero agli antipodi, non cercano per vie opposte la stessa cosa, cercano per vie opposte cose opposte. Laddove Siti certifica la fine d’un mondo – di un’intera modalità antropologica anzi – Moresco vuole un altro mondo. Laddove Siti chiude, Moresco apre (o tenta). Non riesco a vedere fra questi due scrittori nemmeno un passaggio di testimone, una staffetta della disperazione, e credo che neppure loro vorrebbero lo si pensasse. Del resto si provino a leggere di seguito Scuola di nudo o Troppi paradisi e I canti del caos o Gli esordi: sarà come precipitare o come ascendere, a seconda del gusto e della sensibilità del lettore – senza alcuna speranza (né alcun desiderio) d’una medietà, di un piano-terra che oggi, forse, nemmeno più esiste.

  6. Categoria molto dubbia (come del resto quella precedente di postmoderno). Mi sembra infatti che il moderno non tolleri il “post”, il “sur”, lo “iper” per la semplice ragione che l’autotrascendimento è insito nello stesso “adesso” del moderno. Tutt’al più si potrebbe parlare di un “tardomoderno” come stanchezza del moderno nella fuga continua dell’adesso. E anche volendo riferirsi alle poetiche (per es. il modernismo di Baudelaire o il postmodernismo di Carver) bisognerebbe farlo con prudenza perché si rischia la categoria a maglie larghe dentro cui ci stanno troppe cose, e alla fine non si spiega niente. Prendiamo il realismo. Non si potrebbe parlare di un suo ritorno, pur con alcune differenze dal passato? In fondo il revival è compreso nel moderno, la cui radice latina è la stessa del termine moda.

  7. ciao, ho letto con piacere questo pezzo.. .sono convinta anche io che il postmoderno sia una fase da superare e sono certa che lo stesso DFW la pensasse così. Mi piace ricordare come lui spiegasse bene (come sempre, acuto e immediato) questo concetto: paragonava il postmoderno ad una festa che uno facesse a casa propria, da giovane, vivendo con i genitori, ma in una sera in cui non ci fossero. E’ bello all’inizio questo senso di libertà, posare i bicchieri sui mobili, le bottiglie per terra … ma poi dopo un po’ ci si rende conto che in fondo quella è la propria casa, che ci toccherà pulire e che tutto questo “avere messo in discussione le regole” non ci sta portando niente di buono. Beh, per lui il postmoderno era stato questo, un momento in cui trasgredire; la cui ironia e autoreferenzialità, però non portava a niente che fosse essenziale. Il rischio è che per continuare a scherzare e ironizzare con sufficienza sulle cose, si perda di vista il senso delle cose. E il senso della letteratura, della narrazione, del romanzo. Che poi è comunicare, far sentire al lettore che non è solo dall’altra parte della pagina; dipingere il mondo spaventoso in cui si vive ogni giorno e aiutarsi a vicenda a viverci meglio, grazie alla condivisione. Adoro quello che in tanti chiamiamo l’iperrealismo di DFW … e spero che molti comprendano la sua lezione e si muovano in questa direzione, scollandosi da certi manierismi e – in definitiva – giochini. Consiglio a chi non li avesse letti i racconti e saggi di Saunders, giusto per chi avesse esaurito tutto DFW e ben venga chiunque cerchi una nuova via.

  8. Prima di rispondere un po’ di furia, e ringraziandovi, premetto: questo è un tentativo di storiografia del presente, non il manifesto di uno che lancia una corrente, aderisce a un movimento, proclama una poetica. Esprimere giudizi di valore mi interessa, qui, molto meno che capire cosa sta succendendo. E quello che sta succendendo è che i libri che si sono imposti dalla metà degli anni Novanta non sono come quelli di cui si discuteva dalla metà anni Sessanta sino ad allora. Sicché, caro Massino, io non voglio proprio nulla: segnalo però quello che altri vogliono; e, caro dod, non cerco né propongo salvezze ad alcuno (neppure per me, se la può rassicurare).

    @ Erica Gazzoldi
    Grazie per la citazione: è precisamente quello di cui sto parlando.

    @ dod
    sul «fantomatico ‘ritorno all’io’»: fantomatico un piffero: 1. non so che libri legge lei, ma se vuol negare che la narrazione testimoniale è diventata così diffusa da essere quasi un’istituzione, dopo i decenni della morte del’io, del soggetto, dell’autore e requiemaeternam continuando, non so che dirle. 2. di riabilitazione del soggetto si parla da molte parti, anche disparate. Cito alla rinfusa: P. Ricoeur, Soi-même comme un autre, Editions du Seuil, Paris 1990; M. Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni [2001], Bologna, il Mulino 2004; R. Bodei, Destini personali. L’età della colonizzazione delle coscienze, Milano, Feltrinelli 2002; Ch. Larmore, Pratiche dell’io [2004], Meltemi, Roma 2006; V. Descombes – Ch. Larmore, Dernières nouvelles du moi, Presses Universitaires de France, Paris 2009…

    @ Massino
    Sia gentile: rilegga, e vedrà che si capisce dove vado a parare. La retorica del testo, però, no! la prego! gli anni Settanta son finiti da quel dì: i basettoni e i pantaloni a zampa d’elefante mi fanno star male anche nei revival. Quello che segnalo è proprio quello che la scandalizza: che si rivendichi un grado di verità fondato sull’esperienza soggettiva, e che l’io venga posto come il mediatore senza il quale non esiste verità. Detto questo, piuttosto che ristabilire la nozione di intentio auctoris come principio critico mi farei tagliare una mano.

    @ Macioci
    Nonostante il disaccordo, lei ha centrato subito alcuni dei libri o dei fenomeni che mi interessavano. Non tutto mi è chiaro del suo discorso, però: rispondo a quel che ho capito. In particolare:
    – veramente non parlo di conciliazione tra postmoderno e realismo ottocentesco. Riconoscerà comunque che in 2666 o in Infinite Jest i debiti con il postmodernismo (riscrittura, struttura rizomatica, vanificazione della verità…) stanno insieme a una volontà opposta di dire qualcosa di vero, di far presa sulla realtà della cronaca e della storia, di insistere su una pienezza/complessità dei personaggi: il che, a mio giudizio, non avveniva in V o in Libra;
    – scusi, ma la retorica del nuovo e del meteorite no: anche perché i meteoriti si sgretolano appena entrano in contatto con l’atmosfera, e i crateri diventano parti del paesaggio;
    – «Dopo l’Ulisse, dopo Finnegan’s Wake»: è pieno di gente che scrive come se non fossere mai esistiti, e se ne fa un vanto. Siamo fuori da un bel po’ dalla logica del ‘nulla sarà più come prima’;
    – no, la scongiuro, non dica che l’autofiction è sempre esistita! dovrei scriverle un saggio intero per dimostrare che è una sciocchezza (e anzitutto che la nostra nozione di fiction è estranea alla cultura letteraria del passato). Sul deficit immaginativo: mica detto! Ha letto Operazione Shylock o Lunar Park?
    – i romanzieri aspirino a quel che pare loro: alcuni vorranno gli sfondamenti cosmici, altri si richiuderanno narcisisticamente in bagno a limarsi le unghie dei piedi; non c’è alcuna garanzia che i primi siano dei michelangioli e i secondi dei poveracci (può darsi il contrario). Come vede, sono assolutamente non normativo;
    – se vuole dimostrare che non c’è nulla di nuovo, faccia pure. Ma non è la stessa cosa dire «ho fame» a digiuno, o uscendo da una crapula. E così, la riabilitazione del soggetto o la ripresa di forme di realismo dopo il postmoderno sono, rispetto a quello, un’obbiettiva novità;
    – se sotto la categoria di romanticismo riusciamo a tenere Hölderlin e Manzoni, e vengono detti barocchi Caravaggio e Bach, si figuri lei se non possiamo pensare come ipermoderni sia Siti sia Moresco! Poi, sulle differenze, sono d’accordo, anche se lei mi pare troppo attaccato alle loro autorappresentazioni.

    @ Abate
    E chi ha detto che basta? Ho detto che molti scrivono presupponendolo. Le risparmio però l’interminabile dibattito filosofico che liquida l’idea di verità come adaequatio, corrispondenza o rispecchiamento. Leggo il suo link appena posso: grazie.

    @ Genovese
    Ma scusi: lei trova dubbie le categorie di ipermoderno (glielo concedo) e di postmoderno (suvvia!), ci invita alla prudenza, storce il naso di fronte alle storicizzazioni, e poi ci propone di cavarci tutti d’impiccio parlando di realismo? Sarebbe come dichiarare di mettersi a dieta addentando una forma di brie. Le faccio poi presente che, nonostante la sua perplessità, per anni qualcuno ha creduto che la modernità l’avessimo consegnata al robivecchi: io, per me, non posso far finta di nulla e pensare che fossero tutti imbischeriti. Aggiungo che tardomoderno mi starebbe bene, se non fosse che non rende affatto conto di un mutamento di clima culturale che si è registrato (sempreché, ben inteso, lei non creda che in fondo Pynchon e Roth sono la stessa cosa). Del resto, non è che il tardo- si salvi dalle censure che meritano il post- e l’iper-. Verissimo però che la logica della modernità è fatta anche di ritorni e riprese: neo- oltre che -ismi.

    Un giorno mi piacerebbe scrivere un saggio bourdiesiano sull’atteggiamento degli intellettuali di fronte alle storicizzazioni e alle generalizzazioni. Ma un altro giorno.

  9. @ Raffaele Donnarumma (ciao, do you remember?)
    inizio con una autocensura, cioè non ti dico che la mia prima impressione di lettura è stata quella di considerare questo scritto come una sorta di (beninteso cauto, prudente, in punta di piedi) Manifesto Ipermodernista – che, per parafrasare il Freud dell’Io e dell’Es, sottointende: Dove era Postmoderno deve divenire Ipermoderno – perché prendo per buona la tua “premessa” delle 15:37. Ma, per venire al sodo, trovo troppo sommario e frettoloso il quadro storico-sociale, dunque i riferimenti extra-letterari e artistici che segnerebbero l’avvento della tendenza ipermoderna (questo almeno leggendo l’incipit “Goodbye”, perché non so nel nel cartaceo tu abbia sviluppato meglio l’analisi). Il “cambiamento di clima” che tu denunci non è suffragato da alcuna tendenza di mutamento del contesto extratestuale, anzi a questo proposito dici che esso “non coincide affatto con un’eclissi del mondo della vita postmoderna”. Dunque ne desumo che la tendenza ipermodernista sia una “semplice” variante o rettifica del postmodernismo, sprovvista cioè di processualità storica specifica. In altri termini, visto che tale tendenza non cor-risponde a sollecitazioni o configurazioni nuove o originali in ambito del mondo della vita sociale e culturale (postmoderna), e che rimane comunque legata mani e piedi al Nuovo Ordine Mondiale e alla globalizzazione neoliberista, ne concluderei che se la tendenza ipermodernista è innovativa, la è solo a livello di categoria dello spirito letterario, non certo a livello di categoria storico-artistica (e non solo perché difettano esempi di tale ipermodernismo tratti dalle altre espressioni artistiche). A mio personalissimo avviso, per concluere, anche il postmoderno è una categoria dello spirito (artistico) più che storica, anche se in questo caso i suoi teorici hanno lavorato per agganciare questa espressione artistica con i mutamenti storici, sociali e culturali intercorsi nella seconda metà del Novecento, che qui non vedo operanti.

  10. @donnarumma
    Tento di risponderLe punto per punto, tenendo presente che il dibattito è complesso e avrebbe bisogno di tantissimo tempo e tantissimo spazio:

    “Tuttavia, quello che identifica la loro scrittura è la conciliazione dell’eredità modernista con le forme storiche del realismo ottocentesco.” L’ha scritto Lei, e mi sembrava si riferisse (anche) a Bolano e Wallace. Dopo di che, sì, Infinite Jest e 2666 pagano qualche debito con il postmodernismo, così come Dante con gli stilnovisti o Cervantes coi poemi cavallereschi…

    Nessuna retorica, da parte mia, nell’espressione meteorite: proprio perché è ancora presto, a mio avviso, per parlare di crateri, di tracce definitive; potrebbe anche darsi che Bolano (che ammiro molto) fra qualche decennio sarà sparito, anche se lo ritengo improbabile. Ciò che oggi sembra estremamente innovativo può non resistere all’usura del tempo e delle riletture.

    “Dopo l’Ulisse, dopo Finnegan’s Wake: è pieno di gente che scrive come se non fossero mai esistiti, e se ne fa un vanto.” Peggio per questa gente. Per innovare bisogna sapere dove mettere le mani. Un approccio leggero nei confronti della tradizione è quanto di più grave da parte di chi, venendo dopo, intenda lavorare sul serio. Non si spalancano nuove visioni se non dopo avere esaurito le vecchie – almeno così a me pare evidente.

    “No, la scongiuro, non dica che l’autofiction è sempre esistita! dovrei scriverle un saggio intero per dimostrare che è una sciocchezza.” No, un saggio intero non occorre. Potrebbe per esempio spiegarmi in che consista La recherche, o la Saison en enfer, oppure le Confessioni di Sant’Agostino.

    Sul deficit immaginativo: non ho letto Operazione Shylock (ma di Roth ho letto sette o otto libri), ho letto invece Lunar Park e non riscontro testi d’analogo vigore visionario nella nostra narrativa dell’io da Lei citata, cui soprattutto mi riferivo (chiedo venia: non avevo specificato). Ma: Lunar Park dista anni/luce dai grandi testi succitati – opinione personale, giocoforza; e ancora una volta sarà il tempo a giudicare.

    “I romanzieri aspirino a quel che pare loro: alcuni vorranno gli sfondamenti cosmici, altri si richiuderanno narcisisticamente in bagno a limarsi le unghie dei piedi; non c’è alcuna garanzia che i primi siano dei michelangioli e i secondi dei poveracci .” Giusto, infatti non ho mica detto il contrario. Mi sembra però che la direzione più consonante alla contemporaneità – proprio riprendendo la Sua definizione di “iper” – sia quella cosmica. Ma non ne faccio (necessariamente) una questione di qualità.

    “Se sotto la categoria di romanticismo riusciamo a tenere Hölderlin e Manzoni, e vengono detti barocchi Caravaggio e Bach…” Certo, possiamo dire tutto di tutti. Il problema è verificarne l’esattezza. Ora, per quanto mi riguarda, Holderlin e Manzoni sono pressoché incommensurabili. Il fatto che rientrino entrambi nell’alveo d’un movimento tanto vasto da diventare vago non deve far diventare vaghi pure loro. Mettere tutto nel calderone contribuisce ad alimentare il caos più che la libertà ermeneutica e questo caos ha prodotto e continua a produrre danni.

    Riguardo infine a Siti e Moresco: trattandosi qui delle loro opere, a cos’altro dovrei fare riferimento se non alle loro autorappresentazioni?

  11. dicevo ‘fantomatico’ nel senso di ‘fantasmatico’, ovvero uno spettro che ritorna continuamente quando se ne potrebbe/dovrebbe fare a meno; poi, prego, non accusi subito di ignoranza, superficialità e roba simile: so bene che da più parti arrivano tali ansie di ‘riabilitazione’ (anche nell’ottimo reality hunger si ragiona parecchio sul memoir) e anch’io potrei mettermi a citare alla rinfusa saggi e libri: semplicemente, esprimevo il punto di vista contrario, di chi, guardando soprattutto alla tradizione un po’ messa da parte del ‘900, non capisce come nel 3° millennio si vada ancora appresso all’io

  12. Caro Donnarumma, non propongo affatto di parlare di realismo al posto di “postmoderno”, strano questo fraintendimento. Di realismo siete voi che parlate: non solo tu nel tuo saggio, se ne parla in questo sito. Io ho detto soltanto che, volendo parlare di un ritorno al realismo, pur con delle differenze rispetto al passato, non c’è bisogno di tirare in ballo una nuova categoria (molto dubbia), ma che sarebbe sufficiente “caricare” tutto sul moderno e sulla moda con i suoi revival. Mai sentito lo slogan “entia multiplicanda non sunt”? E mi meraviglia un pochino che tu dia per scontato il “postmoderno” come una sorta di evidenza empirica. Lo è, probabilmente, solo nell’architettura, dove il concetto è nato, in opposizione al “movimento moderno”: quindi come un’altra tipica “svolta” nella dialettica della modernità.

  13. Caro Donnarumma,

    nel 2008 Lei curò lo speciale di Allegoria 57: ““Ritorno alla realtà? Narrativa e
    cinema alla fine del Postmoderno”. Sono passati quattro anni e mi sarebbe piaciuto leggere l’evoluzione di quel discorso, la sua continuazione problematica o la sua critica. Mi sembra, invece, di trovare le medesime affermazioni, con un iper- in più davanti.

    Francesco

  14. L’ora è vicina all’indecenza, ma troverei più indecente non rispondere alle vostre obiezioni. Perdonate la spicciatività.

    @ bindolo
    Scusi, ma quando ho scritto la risposta il suo post non era ancora apparso. Se lei adora l’iperrealismo di Wallace, io ho un debole per chi, come lei, tira acqua al mio mulino. Grazie.

    @ Bugliani (sure!)
    In verità, io contesto proprio che un mutamento di clima culturale debba essere espressione di un mutamento strutturale. Più in generale, contesto:
    a) che la storia della cultura debba allinearsi come un soldatino ubbidiente al presentat-arm della Struttura;
    b) che esista una «processualità storica specifica» leggibile linearmente;
    c) che nuovo/vecchio siano criteri di valore (Bach era un parruccone provinciale e fuori moda, eppure…);
    d) che esista una relazione diretta tra il valore e persino il significato di un’opera e il Corso della Storia;
    e) che, per converso, esistano categorie dello spirito letterario che aleggiano sopra la terra e le acque della storia;
    f) che i mutamenti culturali siano semplici sia pure tra virgolette.

    @ Macioci:
    – la conciliazione: veramente, si riferisce agli scrittori elencati a partire da Saramago, dunque non a Wallace, Bolano e De Lillo;
    – con innovazione, lei allude a un principio modernista (ma già romantico) che dopo la metà del Novecento smette di essere vincolante;
    – chiedersi se Agostino o Rimbaud abbiano fatto autofiction è come chiedersi se usassero Office o Windows. La tesi che la Recherche sia autofiction è sostenuta (se non ricordo male) addirittura da Genette; ma non sono affatto d’accordo. Autofiction è quella narrazione che, simulando un patto autobiografico, lo rompe esibendo la menzogna o rendendo pertinente la categoria di menzogna. Lei mi trovi un rigo solo in cui Agostino o Dante o Rousseau si divertano a raccontare bugie e ammicchino al lettore, e può intestare alla mia carta di credito i suoi account su amazon e ibs;
    – no, non possiamo affatto dire tutto di tutti: e le categorie storiografiche non sono questa nebbia che lei figura, salvo nebulizzare l’autofiction su diciassette secoli di letteratura;
    – ma non si fiderà mica della pubblicità e delle foto sulle scatole delle creme dimagranti?

    @ dod
    Mi perdoni: ma secondo lei davvero io ho citato alla rinfusa? cade così facilmente nei tranelli che le tendo? E quanto all’io: lei è così sicuro che la tradizione del ’900 fosse tanto unilaterale nel liquidarlo? Freud, Svevo o Pirandello a me non sembrano Barthes, Sollers o il Calvino del «come scriverei bene se non ci fossi!». Aggiungo, in tutta onestà, che anche se a volte mi piacerebbe un sacco, proprio non vedo come potrei fare a meno del mio io, né tantomeno dei tanti io che mi circondano.

    @ Genovese
    Nella mia testa, lo slogan suona: entia non multiplicanda praeter necessitatem. Ergo: ubi necessitas… Se però lei crede che in fondo stiamo cantando sempre la stessa canzone dal 1848 o dal 1789, liberissimo. Il mio problema, qui, è comunque un altro: e cioè che Saviano non è Manganelli, Roth non è Pynchon, Bolano non è Borges.
    Il postmoderno non è un’evidenza empirica (almeno, non più di quanto lo siano il neorealismo o il romaticismo): ma liquidare come ‘dubbia’ una categoria di cui si è discusso per decenni, e non da parte dei primi venuti, fa dubitare me.
    Se poi lei vuol dire che la logica della modernità non è mai stata superata davvero, sono perfettamente d’accordo: è quello che ho scritto sopra, infatti. Ma questo continua a non dirmi nulla sulle differenze che registro. Ricorda lo slogan: la notte in cui tutte le vacche sono nere?

    @ Migliaccio
    Lei mi lusinga! Vuol dire che avevo mangiato la foglia già allora? Comunque, quando ha del tempo da perdere legga quello che ho scritto dopo quel numero di Allegoria, e poi mi dica. Magari troverà motivi più veri per dirsi deluso.

  15. Non stiamo cantando la stessa canzone, tanto è vero che sarei d’accordo, come ho detto nel primo intervento, nel differenziare la modernità al suo interno, magari parlando di tardomoderno. È l’idea di un “oltre” la modernità che non va, perché la modernità ha già in sé l’inquietudine dell’oltre. Del resto, parliamo di epoche o di stili? Anche il barocco (a cui il postmoderno è stato avvicinato) è stato da taluni considerato un’età. Ciò non toglie che sia forse più opportuno considerarlo uno stile coesistente con altri (nella prima modernità). Idem per il neoclassicismo e il romanticismo, direi. Dunque, se parliamo di stili o di poetiche, bisogna vedere di volta in volta se la categoria tiene. Goethe, prima di essere classicista, è stato preromantico. Manganelli è tarda estenuazione del modernismo letterario, come, in un altro modo, lo è Borges. Ambedue possono essere visti come anticipazioni di quella cosa cosiddetta postmoderna che è “Se una notte d’inverno un viaggiatore”. Stili e poetiche coesistono, s’intrecciano. L’idea di un “post” o di un “iper” sembra rompere con il passato, ma non è affatto detto che rompa. Capito cosa volevo dire, caro Donnarumma? Poi, se vuoi, continua pure a darmi del lei.

  16. @donnarumma
    Replico punto per punto, ringraziandoLa comunque per il dibattito – affatto scontato da queste latitudini:

    “La conciliazione: veramente, si riferisce agli scrittori elencati a partire da Saramago, dunque non a Wallace, Bolano e De Lillo” Gli scrittori elencati a partire da Saramago sono proprio quelli che a me non sembrano interessanti nell’ottica qui in esame; ho dunque frainteso le Sue parole. Ribadisco però che DeLillo, Bolano e Wallace mi sembrano più consonanti con certe spinte della contemporaneità, più connessi col suo spirito (DeLillo, da Underworld in poi; io per esempio trovo Punto Omega grandioso, a differenza di gran parte della critica).

    “Con innovazione, lei allude a un principio modernista (ma già romantico) che dopo la metà del Novecento smette di essere vincolante.” Non alludo ad alcun “ismo”, bensì a un principio elementare; se Lei ritiene che si possa innovare senza conoscere io non potrò smentirLa scientificamente (per fortuna); però ci credo poco, ecco.

    Sull’autofiction , in sintesi: mi pare che questa categoria sia stata estrapolata (cavillando parecchio) da una tendenza letteraria sempre esistita, per attribuire una patente di novità a un orientamento oggi ricorrente. Se ci fa caso, la Sua definizione di autofiction è applicabile a qualunque testo letterario confinante con l’io dello scrittore che non sia una mera autobiografia. Gli esempi sono migliaia. Non è che io nebulizzi su diciassette secoli, è che Lei s’inventa una cosa che c’è già (non si preoccupi per la Sua carta di credito, me la cavo – forse).

    “No, non possiamo affatto dire tutto di tutti.” Veramente l’aveva sostenuto implicitamente Lei legittimando (mi sembrava, forse ho capito male anche qui) chi si diverte a mischiare Holderlin con Manzoni e Bach con Caravaggio e col barocco, oppure chi si fa un vanto d’ignorare Von Hofmannsthal – la cui sottovalutazione non smette mai di sorprendermi – e Joyce. Io, che amo i paragoni arditi e le connessioni irrequiete, non mi sono mai spinto a tanto. Anche se sulla Gazzetta ogni tanto spunta fuori un parallelismo Maradona/Mozart, o Baggio/Raffaello o Messi/Picasso. Devo sbrigliarmi un po’.

    “Ma non si fiderà mica della pubblicità e delle foto sulle scatole delle creme dimagranti?” Confesso: questa non l’ho capita.

  17. Articolo molto interessante e, a mio modo di vedere, condivisibile nel suo disegno generale. Mi permetto qualche osservazione critica, includendo la discussione nata dai commenti.

    1. Mi pare che, in effetti, ci sia un po’ di confusione categoriale, dovuta alla mancata distinzione postmodernità/postmodernismo. Distinzione solo abbozzata nella frase «Eppure, il cambiamento di clima non coincide affatto con un’eclissi del mondo della vita postmoderna». È un aspetto che andrebbe secondo me approfondito, altrimenti, come dice Rino Genovese, non si capisce bene se stiamo parlando della fine di un’epoca, di una teoria legata a quell’epoca o degli stili e correnti che a questa teoria si sono ispirati.
    2. Mi sembra che, così come sono enunciati, i denominatori comuni proposti all’inizio dell’articolo non funzionino del tutto rispetto agli autori di cui si parla. Partecipazione civica per Houellebecq? Riabilitazione dell’Io per Forster Wallace? Mah… Per quanto riguarda poi in particolare Bolaño, mi sembra che nessuno di questi denominatori funzioni per davvero.
    3. A parte l’eccezione di Siti, che già a metà degli anni ’90 definiva Scuola di Nudo come «un’autobiografia di fatti non accaduti», la corrente dell’autofiction, e il dibattito critico su di essa, sono giunti in Italia con vari decenni di ritardo. Com’è noto, il termine autofiction è stato coniato da Serge Doubrovski nel 1977, il famoso saggio di Genette su «Récit factuel/récit fictionnel» è del 1991. Il primo grande convegno internazionale sull’autofiction è del 1992. Indipendentemente da ogni giudizio di valore, l’autofiction è in Italia un fenomeno d’importazione recente, un fenomeno tardivo, se non forse desueto, rispetto alle tendenze della narrativa e della critica di altri paesi. Credo che la conclusione avrebbe dovuto tenere conto di questo aspetto. Penso sia in effetti legittimo chiedersi (non è una domanda retorica) se la diffidenza italiana nei confronti del romanzo e una certa preferenza per le forme spurie non rischino di diventare una forma di marginalità (ancora una volta: senza giudizi aprioristici di valore; ma l’esempio di Bach è un po’ fuorviante, spesso la marginalità si traduce in semplice arretratezza).

    Comunque, ripeto, pezzo molto interessante, e ricco di potenziali sviluppi.

  18. @f. d’angelo
    Lei ha ragione su Bolano (chiedo venia, il mio pc rifiuta l’accento circonflesso). Bolano non risponde a nessuno dei succitati denominatori. Non è nuovo (Cortàzar soprattutto, ma anche Borges, Perèc, qualcosa di Rulfo, tanto altro, vista la sua sterminata cultura); ma al tempo stesso lo è. Serve tempo per valutarne appieno la portata. Tuttavia le sue scorribande fra racconto breve e opera/mondo, la sua ambiguità di romanziere/poeta (la poesia incide moltissimo sulla sua prosa, fatto che non accade in nessun altro narratore del lotto) e soprattutto la frattalità dei suoi scritti – ogni sua opera si può leggere come una parte ma anche come un tutto, quasi che lui riesca a parlarci contemporaneamente da più luoghi e da più tempi restando fedele a sé stesso – ne fanno un fenomeno inedito.
    Forse ha ragione Nicola Lagioia quando ricollega la poetica di Bolano alla nostra era telematica, all’interconnessione della rete, al gioco magico di internet. Forse siamo tutti oramai “detective selvaggi”. Va aggiunta la postura esistenziale, oltre che autoriale, di Bolano: la vecchia maledizione della scrittura trasportata di peso nell’oggi multiculturale, multietnico, globalizzato (o “iper”, per drila ancora con Donnarumma), senza enfasi ma senza sconti. Con Bolano non si scherza più, nemmeno disperatamente.
    ps: se quest’ultimo mio intervento fa deragliare un poco la conversazione me ne scuso, e mi ritiro.

  19. Caro Donnarumma,
    la mia era (solo) una questione metodologica, se così posso dire. L’insorgenza della tendenza ipermodernista colta nel tuo articolo mi pareva più dovuta a una certa enfasi e sicurezza dell’analisi che a una verifica sul campo, ovvero tu hai posto a ragion d’essere dell’ipomodernismo il fatto che “la cultura e la letteratura postmoderniste si sono esaurite”, giustificandolo con l’affermazione che tale esaurimento è noto a tutti. A me sembra invece che occorra una ricognizione analitica più estesa e strutturata, che verifichi cioè l’esistenza e lo stato attuale della crisi dell’oggetto artistico “postmoderno” (per brevità, lo chiamo così anch’io), perché la constatazione dell’esaurimento di una tendenza artistico-letteraria non può prescidendere da una analisi della sua crisi precedente. Visto poi che il pensiero e l’espressione artistica hanno in qualche modo a che fare con la storia sociale, sarebbe interessante vedere se esistono relazioni tra la supposta crisi del postmoderno e quella del pensiero e dell’economia neoliberisti (ad esempio esemplificata nell’attuale crisi del monopolarismo Usa rispetto al mondo multipolare che si sta profilando con l’insorgenza dei Brics). A questo proposito, trovo molto criptico il brano dove dici che le crisi del tardocapitalismo e del neoliberismo (che per me sono una sola cosa) “sono le febbri di crescenza del Leviatano”. A mio avviso, solo dopo aver verificato queste due “situazioni”, è possibile valutare l’insorgenza critica dell’oggetto artistico che tu chiami ipermoderno.
    Ora qualche frattaglia: nell’elenco di scrittori che hanno operato una conciliazione dell’eredità modernista con le forme storiche del realismo ottocentesco, mi ha colpito una mancanza a mio avviso clamorosa, quella cioè di Paul Auster, Poi, se uno dei tratti distintivi dell’ipermodernismo sarebbe la “riablitazione dell’io” con conseguente revival degli scrittori dell’ombelico com’è oggi, be’, allora ho di che rimpiangere la “morte dell’io” tardomoderna, che qualche ragione l’aveva.

  20. Non c’è nulla di cui scusarsi. Ricambio con un’osservazione sulla questione, da lei sollevata, delle frontiere storiche dell’autofiction. Genette, nel saggio in cui tratta dell’autofiction, ne propone una definizione omologa a quella formulata da Siti, e ne propone una visione diacronica. Cita Proust, ma senza includerlo nella categoria, alla quale assimila invece Dante. La scelta di Genette potrebbe sembrare il frutto di un appiattimento strutturalista di forme narrative storicizzabili. E in parte lo è. Ma, vedendo le cose in altra maniera, siamo poi sicuri che l’autofiguralità di Dante non abbia alcun nesso con l’autofiction di Troppi paradisi (ultimo romanzo di una trilogia)? Quando l’autore di Troppi paradisi comincia dicendo «Mi chiamo Walter Siti, come tutti», non sta, in un certo modo, proponendo al lettore un patto di lettura con un io trascendentale, come quello che, secondo Contini, definirebbe Dante personaggio-poeta nella Commedia? Penso che Donnarumma abbia ragione ad attenersi a una lettura storicamente precisa della categoria dell’autofiction, ma di questa categoria è senza dubbio possibile tracciare un’archeologia testuale.

  21. @macioci (ma non solo)

    condivido il fatto che l’autofiction sia stata estrapolata da una corrente letteraria preesistente, in questo caso l’autobiografia. eppure, estrapolare da generi pregressi non squalifica l’identità dell’autofiction come fenomeno dotato di una sua singolarità, di una sua riconoscibilità.
    a mio parere, non aiuta il fatto di considerare l’autof. come una grande nebulosa indistinta, perché, semplicemente, a me non pare che lo sia, per un motivo:

    negli ultimi 20 anni, grosso modo, si è prodotta una costellazione di testi che vedono come personaggio principale l’autore, riconoscibile per vie nominali o incastro di dati biografico-letterari; in tali testi, egli dice più o meno chiaramente “Questa è un’autobiografia/una confessione/una testimonianza che fornisce validi resoconti di parti, o della totalità, della mia esistenza; dico tutta la verità”, e al tempo stesso, o con dichiarazioni esplicite o con l’inserzione di episodi inventati (o a causa di uno smaccato palinsesto letterario, o di un racconto inverosimile/fantastico, o di un incastro contraddittorio di dati esperienziali contravvenenti al principio di realtà), l’autore afferma “Questa è un’autobiografia, ma inventata, non vi dico quanto né come: sono io, ma un io inventato in una certa, ambigua misura”. senza scomodare roth, ellis, houellebecq, si pensi all’italia, con una serie di libri autofittizi ad abbracciare un decennio, da Scarpa di “Kamikaze d’Occidente” a “Il bambino che sognava la fine del mondo” di Scurati, a “Sono l’ultimo a scendere” di Mozzi e a un paio di libri recenti di Covacich. le caratteristiche di postura dell’autore, il suo trattamento di materiali e strumenti autobiografici al fine di una contaminazione TOTALE con la fiction romanzesca, sono alquanto simili in tutti questi autori citati. è chiaro che chiunque s’intenda un po’ di autobiografia riscontra che anche i grandi scrittori dell’io del passato mentivano pur asserendo di dire tutta la verità; ma era una menzogna più subdola, più ipocrita, non dichiarata come intento di poetica, e soprattutto meno instaurata su premesse di teoria della letteratura. chi fa autofiction sceglie, più o meno consapevolmente, di giocare con le categorie di autobiografia e di romanzo: se crea una forma di questo tipo, riflette criticamente sulle due categorie, il che mi pare evidenzi bene la qualità di genere molto “autoreferenziale”, colto, in qualche modo professorale -non è un caso che l’autofiction sia nata con un professore formalista russo, Doubrovsky, che si mise all’opera dopo aver letto e postillato “Le pacte autobiographique” di Lejeune (come Siti dichiara, in un intervento su questo sito, di aver fatto- curioso).

    io credo che sia importante, ma magari mi sbaglio, riconsiderare la costellazione dell’autofiction come dotata di sue specifiche caratteristiche, che la indicano sì come mostro bifronte nato da autobiografia rousseauiana e romanzo postmoderno (quello del secondo ‘900, insomma, che volenti o nolenti è il background della maggior parte dei romanzieri), e in questo senso non originale affatto. ma basta questo per dire che è tutta la stessa grande minestra?
    forzando in maniera un po’ scorretta l’argomentazione di @macioci, Gomorra di Roberto Saviano non conterrebbe grandi elementi di novità. dopotutto, è un racconto fatto da una persona che dice di essere stata presente a certe sanguinose vicende, o di essersele fatte raccontare; non è quello che fa qualsiasi storico da Erodoto di Alicarnasso in poi? ma sarebbe, lo si capisce bene, semplicemente folle ascrivere alla stessa famiglia le due opere. possiamo chiamarle entrambe “opere non romanzesche”, “racconti di fatti non inventati”, ma il raffronto si ferma lì. allo stesso modo, la Saison en enfer di Rimbaud è una scrittura dell’Io (definizione che mi sembra ottima) come lo è Operation Shylock, ma renderle consanguinee strette implicherebbe negare una serie di caratteristiche testuali e storiche che, semplicemente, esistono e sono palesi.

    -segue

  22. -segue

    c’è un’altra questione che mi interesserebbe approfondire, perché sull’autofiction ho notato che, prendendo il dibattito francese e quello italiano, si tenda, anche alcuni critici e scrittori, a fare un discreto minestrone. mi rivolgo soprattutto @d’angelo, scusandomi se mi intrometto nella conversazione.
    Genette, nel suo testo sull’autofiction (Fiction et diction, 1991, giusto?), distingue sulla scia del suo allievo Vincent Colonna due tipi di autofictions:
    -Autofictions réelles; con un certo grado di ossimoro, perché per lui un’autobiografia muta in autofiction solo se è resa palesemente inverosimile come discorso fededegno della propria vita (perciò romanzesco): l’inverosimiglianza, Genette è chiaro su questo, passa attraverso l’inserzione dell’elemento fantastico. Quindi, Dante per lui è autofiction.
    -Autobiographies honteuses; cioè autobiografie romanzate in cui l’autobiografo, secondo Genette, romanza il suo scritto per apparire accattivante, in buona luce, giocare con il lettore, perché si vergogna della sua vita o chissà per quale altra ragione. Ma l’elemento romanzesco, per così dire, non è così immediatamente desumibile come nel precedente caso, e quindi a rigor di logica non muta una qualsiasi scrittura autobiografica (Rimbaud, Agostino, Casanova e altri) in autofiction. Proust appartiene a questa categoria. La sua scrittura è autobiografica, è romanzo, ma non è un’autobiografia DICHIARATAMENTE inventata, quindi non è autofiction. Con questa definizione di Genette, personalmente, concordo, e la segnalo @ Macioci, magari può chiarire i termini della questione.

    certo, anche su Dante autofittizio si può discutere; sono assolutamente d’accordo con D’Angelo sull’esistenza di precisi e profondi nessi, nonché sulla necessità di un’archeologia testuale, purché ciò non significhi mettere nello stesso contenitore contenuti diversi. Dante scrisse di sè, o meglio, di UN Sé, costruendo un suo personaggio ben definito, ma da qui a definirlo autobiografico nel senso che adoperiamo per Rousseau ce ne passa. Nel Medioevo non si aveva nozione né del romanzo otto-novecentesco né dell’autobiografia moderna, ossia il papà e la mamma dell’autofiction; e la stessa nozione di “Scrittura dell’Io” va fortemente precisata, perché troppo distante è quel periodo, quella mentalità letteraria, dalla contemporaneità. Ancora una volta, la necessaria storicizzazione mi sembra irrinunciabile per un discorso sul contemporaneo, onde evitare il rischio di appiattimento e l’orizzontale messa a paragone, potenzialmente infinita, di una ridda di autori vivi e morti, cosa che si rischia spesso di fare in questi casi. Anche perciò il tentativo di Donnarumma mi sembra lodevole.

    (scusate i volumi ^^)

  23. @Lorenzo Marchese

    Nessun problema per l’intromissione, ci mancherebbe. Nel suo saggio, («Recit factuel, récit fictionnel», contenuto, sì, in Fiction et diction), Genette ha esposto una teoria dell’autofiction nei termini che lei ha perfettamente riassunto. Più di recente, nella riedizione del volume e in Bardadrac, il critico francese è tornato sulla questione esprimendo il rammarico che ad essersi imposta sia stata la concezione dell’autofiction da lui considerata come «autobiographie honteuse». Per Genette, l’autofiction quale è abitualmente considerata oggi è poco più di una categoria critica giornalistica. Personalmente non penso che abbia tutti i torti. La mia impressione è infatti che col termine autofiction si tenda ormai a definire qualsiasi forma di autobiografismo narrativo. Quanto alla concezione condivisa da lei e Donnarumma, (un patto autobiografico infranto dall’esibizione della menzogna), la trovo del tutto pertinente, ma mi sembra al tempo stesso molto inclusiva (si può applicare eccome anche a opere di altre epoche, nel Seicento, per esempio, ce ne sono parecchie, ma si pensi anche, in tempi più recenti, a testi come Nadja di Breton o La pelle di Malaparte) e molto restrittiva (oggi sono davvero così numerosi gli scrittori che infrangono esplicitamente un patto autobiografico? Houellebecq, che lei cita, non lo fa: nella Carte et le territoire, l’unico libro in cui lo scrittore si mette esplicitamente in scena, non c’è nessun patto autobiografico, visto che non c’è identità onomastica fra l’autore e il narratore, che fra l’altro è in terza persona). Detto questo, anche a me il tentativo di storicizzare l’autofiction sembra più che lodevole.

  24. p.s.

    @ Lorenzo Marchese
    Come se ne deduce dalla sua sintesi, la posizione di Genette non è omologa all’enunciato di Siti, come avevo erroneamente detto io, in quanto “i fatti non accaduti” dovrebbero essere, per così dire, “inaccadibili”. Grazie per la precisazione. Fra l’altro, rispetto a come l’avevo citato, il titolo del saggio andrebbe rovesciato: Récit fictionnel, récit factuel…

  25. Cari tutti,
    tento qualche risposta ai singoli, e poi provo a rincodurre la questione dell’autofiction a quella dell’ipermoderno.

    @ Macioci
    Considero Wallace o Bolano scrittori più legati al postmodernismo, e perciò di transizione; gli altri, invece, scrittori che in modo più evidente vengono dopo di esso. Spero non ci sia bisogno di aggiungere che questo non implica in alcun modo un giudizio di valore. (A dirla tutta, sono un grandissimo fan di Roth, ma per Bolano ho proprio una passione).

    Credo legittime le categorie di storiografia letteraria quando riescono a tenere insieme le singolarità senza schiacciarle sotto il loro peso. Perciò, è giusto dire che sia Hölderlin sia Manzoni, cioè due scrittori diversissimi, sono entrambi romantici. I paragoni arditi, invece, in genere li faccio solo per ridere: non leggo la Gazzetta e mi possono occasionalmente interessare i calciatori – il calcio, mai.

    @ D’Angelo
    Vero: occorre distinguere postmodernità, postmoderno, postmodernismo – e infatti in un paio di saggi su Allegoria parto proprio da lì. Tuttavia, il parallelismo si interrompe subito: ipermoderno (o al limite, ipermodernità, ma non di certo ipermodernismo) indica un clima culturale, non una poetica esplicita (come è stato il Postmodernism in architettura), né un’epoca. Siamo ancora dentro la modernità, e la cultura ipermoderna, come già la cultura postmoderna, risponde appunto alla storia della modernità (con questo spero di fare pace anche con Rino Genovese).
    «Partecipazione civile/civica»: hai ragione, l’aggettivo è mal scelto, visto che ingenera associazioni edificanti. Il vero discrimine è il gesto di partecipare alla vita pubblica presente ed esprimere giudizi su di essa, il che – e soprattutto in Italia – durante il postmoderno non si portava proprio. In questo Siti e Houellebecq, che fanno mostra d’immoralismo, stanno nello stesso corso delle cose in cui sono Saviano e Roth.

    @ Bugliani
    Dovrei rimandarti a troppe cose che ho scritto in materia, ma mi sembra una cosa talmente cafona, che, come Totò, desisto. La faccio breve:
    1. di esaurimento della lettura postmodernista e della cultura postmoderna parlano ormai in tanti (guarda gli ultimi numeri di Alfabeta, tanto per dirne una): registro davvero qualcosa che sta diventando senso comune. Aggiungo che sono tra quelli che la vedono meno netta perché, già in passato, ho sostenuto che siamo di fronte insieme a «nuove forme di realismo» e a «persistenze postmoderne»;
    2. come la cultura postmoderna non può essere ridotta all’espressione organica del neoliberismo, così quella ipermoderna non può essere solo l’opposizione a quella (anche se, in genere, la posizione pubblica degli scrittori e degli intellettuali è vistosamente cambiata: confronta l’Italia culturale di oggi con quella degli anni Ottanta). Sarebbe come pensare che il neoclassicismo sia per statuto espressione dell’Ancien Régime (e invece, c’erano neoclassici giacobini; e poi son venuti quelli napoleonici);
    3. le febbri di crescenza del Leviatano sono le crisi nelle quali siamo, e che a me non pare annuncino al momento nessuna rivoluzione;
    4. giusto: manca Auster, e chissà quanti altri. Però, per favore, la morte dell’io no; e men che meno il moralismo per cui riabilitare l’io è guardarsi il vituperatissimo ombelico (al limite, speriamo che lo sguardo scivoli più in basso: chissà che lo spettacolo non sia più ripagante).

    AUTOFICTION
    Sono così d’accordo con quello che dice D’Angelo che, se qualcuno leggesse su Allegoria la long version di questo pezzo, vedrebbe che è proprio quello che sostengo. Soprattutto, sono d’accordo sulla specificità della situazione italiana. Non penso però che l’autofiction sia nel nostro paese un genere d’importazione in senso stretto: si è affermata da sé, senza seguire direttamente modelli stranieri. Se esistesse uno spirito del tempo, ne sarebbe la forma simbolica. Così come penso che l’autofiction sia diventata qualcosa di molto diverso da come la intendeva Doubrovsky in Fils (libro giustamente non tradotto in italiano): là, infatti, di fiction, cioè di invenzione narrativa che evade dal vincolo di fedeltà a realtà empiriche accertate, ce n’è davvero pochina. Ringrazio molto Marchese, per le distinzioni che introduce, e soprattutto per la chiarezza con cui ci libera dalla confusione tra autobiografia e autofiction. Ahimè, l’autofiction sta diventando di moda: già sento i begli spiriti che buttano nel mucchio le Confessioni di Rousseau, il Wether, il Canzoniere di Petrarca e, già che ci sono, il Santo Vangelo (tanto si sa: l’ha dettato lo Spirito Santo, ovvero uno dei due alter ego di Nostro Signore Gesù). Ce ne scampi, appunto, l’Autofictionist Supremo.
    Che poi l’autofiction abbia una sua genealogia, è fuor di dubbio: e sta tanto nel romanzo realista (soprattutto in prima persona o di materia autobiografica), quanto, naturalmente, nell’autobiografia. Quello su Dante mi sembra però molto peggio che un appiattimento strutturalista, come scrive con eleganza D’Angelo: è una solenne bischerata. La cultura medioevale, nel momento stesso in cui pone il problema delle «favole de li poeti», scavalca il problema delle «belle menzogne» e pone la verità dell’allegoria. Chi, leggendo Vita nuova, Convivio o Commedia, si mettesse a distinguere verità da menzogna, empiria da invenzione (come bisogna fare nell’autofiction: sennò, di che stiamo a parlare?) non solo commetterebbe un imperdonabile anacronismo, ma non capirebbe assolutamente nulla di Dante. E giusto per non risparmiarci un po’ di Bignami: nella cultura antica, a partire dalla Poetica, misurare la poesia sulla realtà empirica è del tutto impertinente: non a caso, la poesia è philosophoteron (cioè di maggior fondamento teorico, quindi più prossima alla verità) della storiografia. Semmai, sarà il romanzo storico a far saltare questa messa in mora (pensate ai paradossi geniali cui arriva Manzoni in Del romanzo storico e in genere de’ componimenti misti di storia e d’invenzione): ma siamo solo ai prodromi. Ora, è proprio questo che trovo interessante dell’autofiction: che renda pertinente una distinzione che non lo era, e che infatti non farebbe nessun lettore sensato del Don Chisciotte o di Madame Bovary, ma forse neppure della Vita di Alfieri o di My lives di White (perché, come ci ricorda Marchese, certo che nelle autobiografie si mente, ma di nascosto!).
    L’autofiction non è nata con l’ipermoderno, e non è detto sia per forza ipermoderna; ma lo diventa proprio quando inscena l’urto o l’attrito fra invenzione e realtà; quando si chiede come costruire l’io in un regime di menzogne coatte; e quando intende strappare una qualche verità alla falsificazione di cui i reality sono solo l’emblema.

  26. @d’angelo
    ho la strana sensazione che Lei possa essere il Filippo D’Angelo autore di “La fine dell’altro mondo”, peraltro docente di letteratura francese. Nel qual caso, mi sentirei imbarazzato a rispondere, sul terreno della critica e produzione narrativa francese, a un esperto. Come che sia, faccio due notazioni a beneficio, mi auguro, degli altri commentatori. Scrive:

    Più di recente, nella riedizione del volume e in Bardadrac, il critico francese è tornato sulla questione esprimendo il rammarico che ad essersi imposta sia stata la concezione dell’autofiction da lui considerata come «autobiographie honteuse». Per Genette, l’autofiction quale è abitualmente considerata oggi è poco più di una categoria critica giornalistica. Personalmente non penso che abbia tutti i torti. La mia impressione è infatti che col termine autofiction si tenda ormai a definire qualsiasi forma di autobiografismo narrativo.

    Ho anche io quell’edizione sotto mano, eppure non credo di vederla esattamente allo stesso modo, una volta circoscritto il campo in cui Genette si trova a commentare e operare. Genette parlava, nella prima edizione, di “autobiographies honteuses” come lavacri della coscienza sporca degli scrittori che si trovano a fare autobiografie un po’ menzognere, un po’ furbette e un po’ sperimentali. Aveva in mente Proust, certamente, ma soprattutto certi esempi più corrivi. Doubrovsky ne è il campione: mi scuso di spoilerarlo, ma Fils è sostanzialmente uno stream of consciousness autobiografico che sa di confessione sporca e scandalosa, autoanalisi attraverso la lente di un testo letterario (La Phèdre di Racine) e attraverso la psicanalisi. Non c’è alcunché di inventato (trascurando il fatto che è davvero un libro pessimo, illeggibile, come giustamente dice Donnarumma), eppure Doubrovsky la spaccia per autofiction, la inaugura come tale: e in siffatta maniera la recepiranno intellettuali e scrittori francesi.
    Un libro molto interessante, utile come certi bei vecchi manuali del liceo, è Autofiction- Une aventure du langage, di Philippe Gasparrini (2008), che ricostruisce la lunga storia del dibattito francese sull’autofiction. Per sommi capi, l problema è che i francesi intendono, per autofiction, la roba di Doubrovsky, o quando va bene l’opera di Proust. Fanno autobiografia, mentono o sono esibizionisti, citano, ricalcano e sovrappongono alla loro vita migliaia di testi letterari, ma né dicono mai “Sto inventando di sana pianta!” né danno al lettore una qualche spia, testuale e paratestuale, per capire che l’autobiografia è stata deviata irrimediabilmente nel territorio della fiction. Gli esempi francesi citati come campioni di autofiction, di solito provenienti da scrittori cimentatisi prima nel campo della teoria della letteratura, sono autobiografie romanzate, ma ad esse dobbiamo rivolgerci come ad autobiografie, non a romanzi: se insomma, in L’enfant eternel di Philippe Forrest, mi metto nella disposizione d’animo che la figlia dell’autore non è morta, come ci viene raccontato, il piacere della lettura si dimezza, non capisco per bene il testo. Forrest non vuole inventare, non sarebbe “etico” per lui farlo, nonostante il romanzo (molto bello) sia intessuto di riflessioni sulla realtà dell’esperienza, sulla verità di quel trauma.
    Così, mi pare, avviene in molti dei francesi che ho avuto sotto mano, anche quando essi discettano in lungo e in largo di autofiction applicandola anche a se stessi (cosa buffa, perché vuol dire che, rispetto agli italiani o agli americani, parlano di tutt’altro): Chloe Delaume, Patrick Modiano, Colette (!!!), Alain Robbe-Grillet (che ha usato il termine autofiction per indicare tutt’altro, un incastro parallelo di storie smaccatamente romanzate e storie realistiche) Marguerite Duras (quest’ultima, con “L’amant”, è la presenza più inspiegabile). Parlano di se stessi, ma basta confrontarli con Siti o con Roth per capire, a mio parere, che siamo proprio di fronte a diverse sottocategorie del macroinsieme “Scritture dell’Io”. Forse è plausibile ritenere che Genette non abbia mai avuto sottomano i testi di autori non francesi contemporanei: se li avesse avuti, magari il suo giudizio sulla proliferazione di “autobiographies honteuses” molto introspettive e citazioniste, spesso tendenti ad assomigliarsi, sarebbe stato più sfumato.

    Proprio l’uscita dal dibattito francofono è il punto di partenza per il secondo passaggio, Houellebecq. Il fatto che si sia sempre presentato, un po’ per celia e un po’ perché lo è davvero, totalmente al di fuori del dibattito letterario francese di oggi è un indizio del suo atteggiamento, diciamo così, internazionale nei confronti dell’autofiction. Riconosco che in La carte et le territoire non c’è l’enunciazione di un preciso patto autobiografico, ma non è detto che esso debba essere stipulato a chiare lettere in determinati passaggi di una prefissata lunghezza: Lejeune stesso, nel suo famoso saggio, non è così schematico e sfuma molto i modi in cui un patto, magari “implicito” e contenuto solo in noticine microscopiche a pie’ di pagina (metaforicamente^^).
    Credo che in Houellebecq avvenga questo contratto sotterraneo, una sorta di caso limite: Houellebecq si presenta come personaggio inventato, addirittura più romanzesco degli iperrealisti Jed e Olga, noiosetti invero, simili alle persone che incrociamo per strada tutti i giorni, un misantropo, pieno di difetti, quasi un riflesso dell’opinione pubblica più corriva su di lui. Non basta questo a farne un personaggio autofittizio; tuttavia, la sua fine efferata e la narrazione dei funerali testimoniano il carattere tutto inventato del personaggio, lo romanzano fino in fondo. Questo mi pare l’esile discrimine che lo assegna, lateralmente, a un'”autobiografia di fatti non accaduti”, e che condivide con Summertime di J.M. Coetzee, in cui pure lo scrittore immagina se stesso morto, in terza persona.
    Sulla questione della terza persona, però, sarei più cauto: è davvero necessaria la prima persona, la coincidenza fra autore e narratore, per fare una scrittura autofittizia? Coetzee e Houellebecq sono casi limite che non riesco a liquidare, e poi mi scervello a pensare ad autobiografie in terza persona, che però a quest’ora non mi vengono in mente. Su quest’ultimo paragrafo ho le idee leggermente confuse: ad ogni modo, si tratta di una questione laterale.

  27. (ho spoilerato parte di La carte et le territoire di Houellebecq. e vabeh, tanto peggio per chi non l’ha ancora letto XD)

  28. fra l’altro c’è un passaggio, nei capitoli finali del libro di cui sopra, in cui un motociclista di Harley-Davidson presenta a Jed Martin una serie di quadri che vedono raffigurato il motociclista mentre, in sella alla sua moto, vive avventure a sfondo fantasy e possiede tre-quattro donne alla volta; il giudizio del narratore, abbastanza ironico secondo me, è che si tratta di un vero e proprio esempio di AUTOFICTION. Jed rimane abbastanza freddo e non dice nulla; la valutazione del narratore-houellebecq, però, mi sembra interessante per il discorso.

  29. @Donnarumma

    Grazie per le risposte: chiarissime ed esaustive. Alcuni rilievi: non per stare troppo a sottilizzare, ma perché penso che tu abbia sollevato questioni davvero interessanti.

    Su Dante hai ovviamente ragione. Ma sei sicuro che, leggendo la trilogia di Siti, la cosa che abbia più senso sia distinguere fra realtà e menzogna, empiria ed invenzione? Secondo me, se parliamo di autofiction, stiamo a parlare anche dell’indistinzione fra queste categorie, una indistinzione a partire dalla quale è poi forse possibile tentare di costruirsi un io in un regime di menzogne coatte, come dici tu. Ma il presupposto conoscitivo dell’autofiction, se non altro nel caso di Siti, che poi, personalmente, è uno dei pochi che mi appassiona, mi sembra proprio essere l’esperienza di una indistinzione fra realtà e menzogna. Insomma, mi chiedo se, per Siti, l’autofiction non sia il regime di verità di una visione un po’ gnostica del mondo. In altri termini, mi chiedo se l’allegoria non stia a Dante come l’autofiction sta a Siti.

    Per quanto riguarda il resto della tua argomentazione volta a storicizzare l’autofiction. Di nuovo, sono d’accordo. Ma mi sembra che tu ecceda nel senso di una per me contestabile storia delle mentalità, un po’ come quando Lucien Febvre sosteneva che non era possibile che ci fossero dei non credenti all’epoca di Rabelais (cosa che è poi stata puntualmente smentita da decine di studi con forte base documentaria). Per esempio, quando dici: «L’autofiction non è nata con l’ipermoderno, e non è detto sia per forza ipermoderna; ma lo diventa proprio quando inscena l’urto o l’attrito fra invenzione e realtà; quando si chiede come costruire l’io in un regime di menzogne coatte; e quando intende strappare una qualche verità alla falsificazione di cui i reality sono solo l’emblema». Ebbene, non sono sicuro che sia così. Faccio un esempio che conosco, ma immagino non sia il solo possibile. Nel Seicento, in un regime di menzogne coatte instaurato dalla Controriforma, gli autori libertini che scrivevano alla prima persona lo facevano proprio inscenando un attrito fra menzogna e realtà («Je suis le héros véritable de mon roman», «Mon roman véritable» ecc., il tutto con una confusione onomastica fra autore e narratore), e proprio al fine di costruirsi un io che riuscisse a strappare una verità alle falsificazioni che erano loro imposte. Certo, non parliamo della stessa identica cosa, e sono convinto che resti opportuno storicizzare, ma ci andrei più cauto con l’utilizzo di certe delimitazioni storicistiche, a maggior ragione trattandosi di un genere come quello delle narrazioni in prima persona, per il quale, già a partire del Cinquecento, con il romanzo picaresco, la questione della realtà empirica del racconto riveste in realtà un’importanza fondamentale. Ti faccio queste obiezioni perché mi chiedo se l’interpretazione dell’autofiction come forma simbolica della contemporaneità non sia eccessivamente valorizzante, mi chiedo se l’autofiction non vada inserita in una prospettiva storica di più ampio raggio, e ridimensionata a una delle tante declinazioni possibili del racconto in prima persona. Comunque mi procuro il tuo articolo per Allegoria e magari se ne discute anche in un’altra occasione.

  30. P. S.
    @donnarumma

    Solo per precisare, nel caso non fosse chiaro, che i dubbi che ho espresso vanno letti come il frutto di un forte interesse per la tua proposta di ipermoderno, la quale mi sembra un tentativo riuscito di storicizzare la letteratura del presente, con tutte le difficoltà, ovviamente, inerenti a ogni tentativo di storicizzazione del presente.

  31. @ Lorenzo Marchese

    Non ha alcun motivo di essere imbarazzato, perché su Genette ha ragione. La sua visione svalutativa dell’autofiction è sicuramente condizionata dal paesaggio letterario francese, molto diverso da quello italiano. È probabile che anche il mio sguardo un po’ scettico sul fenomeno dell’autofiction sia condizionato dalla consuetudine con la letteratura francese, che mi spinge, forse a torto, a diffidare degli effetti di moda legati alla nascita di una nuova etichetta critica. Per quanto riguarda Houellebecq, penso invece che sia difficilmente compatibile con la categoria dell’autofiction. È vero che in linea di principio è possibile sancire un patto autofictionnel anche utilizzando la terza persona narrativa. Ma non credo sia il suo caso. La scelta di mettersi in scena come personaggio secondario di un romanzo alla terza persona, e ambientato in un futuro prossimo, mi sembra l’esito di un puro processo di autodistanziamento ironico, a detrimento delle problematiche dell’io proprie del genere dell’autofiction. Sull’episodio dei quadri, penso che lei abbia ragione, ma la cosa mi sembra implicare, da parte di Houellebecq, una netta presa di distanze rispetto all’autofiction: come per dire, io non faccio mica sta roba qui, quello che ho cercato di fare si avvicina di più a ciò che ha fatto Jed; a me l’io non interessa, mi interessa così poco che, simbolicamente, lo decapito e lo faccio a pezzi, a me interessano il mondo (le territoire) e la sua rappresentazione (la carte). Ma forse estrapolo troppo. In ogni caso, grazie per le osservazioni.

  32. @lorenzo marchese

    Ti ringrazio per gli spunti numerosi e chiedo scusa: il problema è che non riesco a interessarmi davvero alla categoria autofiction così come Donnarumma (e tanta critica) la definiscono. Mi sembra (è un mio limite senz’altro) un sofisma, un pleonasmo.
    Circa i nomi che hai fatto o rilanciato posso dirti che a me interessa nella letteratura d’immaginazione l’irrompere di ciò che, sulla scorta di Genette, tu chiami “fantastico”. Ragion per cui ad esempio Roth e Rimbaud (al netto delle differenze prosa poetica/romanzo, ‘800/’900, Francia/Stati Uniti eccetera eccetera) sono imparagonabili oltre che antitetici. Una qualsiasi pagina di Roth, avvicinata all’Alchimia del Verbo o ad Addio, brucia come carta che lambisca un fuoco. Questo m’appare inevitabile, ritenendo io che l’irruzione del “fantastico” sia la testimonianza d’una maggiore – e non minore, come l’istinto suggerirebbe – urgenza (auto)biografica, d’una maggiore presa sull’esistenza. Infatti: Roth racconta una storia, Rimbaud crea un mito; la storia per quanto ben narrata finisce, il mito prosegue; si può rileggere Rimbaud all’infinito, non Roth – non se si vuole trarne sempre nuovi spunti.
    Fra gli autori citati da Donnarumma a proposito d’autofiction il mio preferito – benchè non appieno convincente – è l’Ellis di Lunar Park. Più degli altri si è inoltrato nella tenebra dell’io, in quella che Jung chiamava “ombra” e che Stevenson già nel 1887 (!!!), col suo Mister Hyde, aveva mirabilmente scoperchiato. L’urgenza metafisica insomma è il discrimine; e se non sento vibrare quella corda anche lo stile più perfetto suona a vuoto (un problema che avverto anche in DeLillo, uno scrittore secondo me ben più grande di Roth ma anch’egli “chiuso”, mentre Bolano è meno perfetto di DeLillo ma “aperto”). Però qui si scivola troppo sul piano inclinato della mia sensibilità per cui, non volendo fare torto all’oggettività ermeneutica, mi fermo.

  33. @ Marchese.
    Sono d’accordo nel non limitare la nozione di autofiction all’accezione che ha avuto nel dibattito francese – un po’ troppo luteziocentrica, diciamocelo. Poi non so voi, ma io di Genette come critico letterario (non dico come sistematizzatore, tassonomista o grammatico) non è che riesca a fare un gran conto.

    @ D’Angelo
    A proposito del rapporto tra verità e menzogna nell’autofiction e in Siti. Certo, in alcuni punti può essere indecidibile; ma l’importante è che il racconto attivi la distizione e il sospetto che, invece, fuori dell’autofiction sono esclusi per statuto dalla volontaria sospensione dell’incredulità. Inoltre, il piano della distinzione ha a che fare con l’empirico e l’accaduto: mentre si sottrae alla tirannia delle «storie vere», l’autofiction ne presuppone l’esistenza. A me pare che Siti racconti come ci si costruisce nella menzogna; e come, alla fine, nella falsificazione si dia verità (e in questo mi sembra l’erede dello Svevo della Coscienza e, forse ancora di più, delle Continuazioni a Zeno). Del resto, anche altrove l’esibita effrazione del reale (e persino del verisimile) serve a dire verità di ordine diverso da quelle empiriche, ma ritagliandole da quello sfondo: penso a Operazione Shylock, a Lunar Park o, per scivolare in cantina, a Dies irae di Genna. Aggiungo che ci sono testi di statuto dubbio, che giocano sulla confusione deliberata tra sincerità autobiografica e invenzione autofinzionale (ho in mente due esempi italiani: Stanza 411 di Vinci e La vita oscena di Nove).
    L’esempio seicentesco è molto interessante; e non me la voglio cavare con la formula orlandiana delle occorrenze isolate che non fanno ancora sistema come fanno invece sistema i testi autofinzionali prodotti negli ultimi decenni. Del resto, per riprendere la tua citazione da Febvre: esiste davvero un oggetto culturale prima che abbia un nome, cioè prima che se ne sia detto il concetto? È un problema sul quale si accapigliano anche i filosofi: secondo alcuni, il tetano non esisteva prima di essere scoperto e inventariato con questo nome; e quindi la terra non girava intorno al sole ai tempi dell’eliocentrismo. Confesso che questo paradosso mi seduce. Se l’autofiction non è stata pensata e detta prima di oggi, questo dovrà pur significare qualcosa. Il problema è allora: come mai, a un certo punto, la si nomina? cosa dice questo del presente che la produce? quali sono le condizioni che la rendono pensabile, dicibile, concettualizzanile? (E vale pure il contrario: perché prima, ammesso che esistesse, non se ne parlava? o più radicalmente: come mai, prima, non esisteva?). Secondo me, l’autofiction parla di un’ossessione per la realtà (in positivo e in negativo, come cosa da afferrare e feticcio da respingere) e di una centralità attribuita all’io che sono proprie dell’ipermoderno, e che invece il postmoderno aveva coperto di discredito. L’autofiction non va solo messa in relazione alle tante altre scritture dell’io contemporanee, ma anche a quelle nuove forme di realismo che si fanno un vanto di raccontare storie vere (una mania anche cinematografica, e soprattutto televisiva). Di suo, l’autofiction mette in questo campo il sospetto che la realtà possa essere sempre un po’ taroccata (proprio come nei media ed esemplarmente nei reality) ma che, nonostante/per questo, ha una sua verità (cosa che nei media e nei reality, invece, mi pare non si dia).
    Aggiungo una minima considerazione sulla necessità di storicizzare. I nostri concetti sono imperialisti: chiamiamo romanzi le fabulae milesiae (lo si faceva già nel medioevo) o il Sogno della camera rossa; in questo modo, ci appropriamo di oggetti culturali in una buona misura estranei a quelle cose polimorfe che possiamo designare come romanzi in senso proprio (almeno, all’ingrosso), a prezzo però di disconoscerne l’autonomia e di impoverirne l’alterità. Per il modo in cui è articolato il racconto, o sono costituiti i personaggi, o è impostato il sistema di valori, c’è qualcosa in Dafni e Cloe o nel Sogno che parla di un mondo che non è quello del romanzo occidentale né medioevale, né tantomeno moderno: e questo qualcosa di irriducibile a noi va preservato. In una certa misura, il fraintendimento è inevitabile e necessario: senza di esso, tutto si perderebbe in un’estraneità irrelata; ma ad ogni modo bisognerà pur mettergli un argine, se non vogliamo schiacciare tutto sotto la nostra prospettiva. Il mio tentativo è quindi di dare un qualche fondamento alle categorie di genere o modo (autofiction) e di storia della cultura (ipermoderno), ma solo sotto limitata procura. Le categorie che stanno bene un po’ a tutto e scavallano tra i secoli e i continenti sono come quei vestiti che a tutti fanno delle pieghe, e che al secondo lavaggio sono da buttare. Visto che gli abiti sartoriali non ce li possiamo permettere, cerchiamo almeno un bel prêt-à-porter.

  34. @Macioci
    Molto stimolante la prospettiva che propone. Mi interesserebbe capire se l’urgenza metafisica, considerata come discrimine qualitativo (o di gusto, almeno), è nella sua opinione inscindibilmente connessa all’adozione della categoria del fantastico. Questo “metafisico” rientra solo nel dominio del fantastico come si trova, per dire, in Bolano (tilde immaginaria), o anche nel “fantastico religioso”, nel fantastico allucinatorio (quindi più nell’immaginazione sfrenata), nell’improbabile e basta (come in Wallace)?

  35. A Raffaele Donnarumma.

    Non sono riuscito a reggere la mole del dibattito per intero, essendovi per di più giunto con due giorni di ritardo, quindi mi scuso e invito a ignorarmi se indugio su questioni tutt’affatto acclarate. Lei taccia, però, o questo mi s’è pavesato alla lettura, l’aquilano (e aquilino? Certo gaddiano) scrittore che reca il nome di Enrico Macioci di tale – preterintenzionale, sia pure, com’è sul labbro ai giuridici bovi – deprecabilissimo misfatto: “fermarsi all’autorappresentazione che Moresco e Siti danno di se stessi in quanto scrittori”. Tale accidente mi ha fatto dubitoso. Sono incorso nella lodevole opportunità di leggere il suo articolo su Allegoria due mesi or sono già e, nell’averla debitamente soddisfatta e pago, mi ero procurato una moderata dose di sbigottimento vagamente approvativo, scevro però d’adorativo sdilinquimento, sì di un certo qual malcontento imprecisato. Ora lei stesso soccorre il mio zoppissimo discernimento. Non sarà, infatti, che tutto questo pur brillantissimo e documentatissimo discorso si accontenti, tuttavia, un po’ troppo della rappresentazione che una certa parte della cultura letteraria dà di se stessa?
    Ora, io ho in parte seguito un suo corso su “fiction” e “non fiction” l’anno scorso, e mi pareva che lei fosse il primo a delegittimare, in sede metolodologica, queste due grossolane categorie critiche di ascendenza anglosassone. Eppure mi pare anche – se avessi seguito per intero il suo corso la penserei diversamente? – mi pare anche che quella di autofiction sia concepibile e pertinente soltanto qualora si dia per valido, come punto di partenza, un tale schema dicotomico francamente poverissimo. Come se uno va al Baronetto in Via Domenico Cavalca ma stanno per chiudere, allora dice sono rimasti pollo oppure patate, dice sennò?, dice sennò c’è pollo con patate. Lei che fa, prende pollo con patate o cambia trattoria?
    Con tutto il rispetto per il pollo con patate, che però onestamente mi posso pure cucinare da me (per carità, non come quello della simpaticissima signora del Baronetto, che colgo l’occasione per salutare), non sarebbe compito del critico andare oltre la rappresentazione che un’epoca fa di stessa? Io, per esempio, che non sono un critico né sono uso alle trattorie se non per celerissimi panini, ma ho la prodigiosa ventura di studiare Moresco per una tesi di laurea, ho l’impressione che tutto questo gran ragionare che si vien facendo sull’autofiction non tenga in debito conto de le vere cagion che son nascose. O perlomeno, chessò, che non siano popio popio sbandieratissime et rivendicate et mostre ne l’Avvertenza di Walter Siti a Troppi Paradisi.
    In Moresco, p. es., a patto che si possa parlare di autofiction per qualcuna delle sue opere (il questionare lo lascio al merito dei bizantini presenti e futuri), non mi pare criticamente rilevante, p. es., il problema della testimonianza oppure (Dio ce ne scampi!) quello del “realismo”, e la distinzione tra factual e fictual o come caravanserraglio si dice non ha alcuna cittadinanza: in Canti del caos p. es. essa non è oggetto di tensione perché il libro va ben al di là, e questa distinzione o la brucia (letteralmente: cfr. la seconda lettera dell’Interfaccia) o la ridicolizza (cfr. il softwarista che sposta i personaggi e ne cambia i connotati con un click) – non a caso nell’articolo su Allegoria Moresco assume una posizione ben marginale e marginalizzata. Non torna bene, lo so, ma tocca farci i conti! Al massimo c’è, in lui, e credo che di questo più spesso si dovrebbe riflettere, una ben più codificata e nota repulsione per la terza persona onnisciente e per l’aspetto convenzionale e scipitoso e fàlso della voce preconfezionata.
    Poi, al lettore medio, se esiste, non lo so, ma qualcosa conterà e insomma ci siamo capiti, a parte che non leggerà mai l’Avvertenza di Siti perché è scritta in corpo tipo meno cinque ma vabbè, al lettore medio che je fregerà lo spirto di sapere se Walter c’aveva cinquantaquattro anni o quarantratré quando a scopiato a gomma su a Cassia? E’ davvero questa la verità che ci aspettiamo dalla letteratura? Non è più complessa della semplice verità fattuale? E non è vero che gli scrittori lo fanno anche se non lo sanno?
    Propongo in anteprima questo manifesto per un nuovo Arealismo:

    “Popoli di tutto il mondo, lettori miei, giudei e zebedei, TANTO PEGGIO PER I FATTI!
    Firmatari:
    Roberto Gerace”

    Le cui analogie evidentissime con la teoria delle aree laterali del fu Bartoli sono pura fizione.
    Sconcissimo filibustiere e discepolo suo,
    Roberto Gerace

  36. Grazie davvero per gli spunti di elevatissima riflessione.
    “La storia procede, ma senza mete”. Non è cosa di poco conto da poter passare inosservata. È la storia dell’avvitamento ellittico della globalizzazione. Il tutto e l’indefinito. L’onda lunga della letteratura autorefenziale viene nuovamente spinta da questa irrealtà. Il problema è come filtrare la realtà dall’irrealtà.

    Se “l’autoreferenzialità postmoderna apriva il cannocchiale infinito delle riscritture che rimandavano solo a se stesse, e al fondo del quale non c’era nulla”, il realismo documentario ha in sé il rischio di portare in campo il dramma del nulla o la visione di un micro frammento della realtà.
    Dal nulla dell’ego si passa al nulla del reale.

    La letteratura arriva davvero sempre dopo la realtà? Ed il potere immaginifico dell’uomo che si strappa le carni di dosso per liberarsi da false immagini è davvero un sogno, o ribellione cosciente da meccanismi socio-culturali non più alla pari?
    Piuttosto che limitarsi a guardare un dramma, accostati al letto di un fiume, magari anche con un canocchiale bidimensionale, la letteratura non dovrebbe riguadagnarsi il ruolo egemone di traghettatrice?

    Mi trovo d’accordo con Lorenzo Marchese quando afferma che l’autofiction non sempre è squalificante. Perché arriva alla denuncia. E questa denuncia può essere tanto potente quanto specchio del reale. Essa stessa diviene documento, con suggello di autenticità. Forse l’originalità di una nuova letteratura (ipermoderna?) sta nella consapevolezza di un filo condutture de-localizzato, cioè diventare anche di scopo e non solo di genere. Sono gli scopi che fanno gli ideali, i generi sono solo sovrastrutture metaboliche.

  37. @lorenzo marchese

    Potrei dire – inevitabilmente semplificando e mordendomi la coda – che tutto ciò che è non è solo fisico è meta-fisico. I demoni di Dostoevskij per esempio: non accade nulla di trascendente ma il romanzo è trascendente, è un abisso; il suicidio di Kirillov, lo sentiamo bene, non è solo una questione fisica, così come le fantasie di Stavrogin o delle donne che lo amano. Dostoevskij ha scritto una lunga riflessione sull’invisibile, anzi sull’impossibile. Wallace di metafisico non ha quasi nulla; in tutto Infinite Jest l’unica concessione al fantastico mi sembra quella del santone Lyle, lo strano tizio che vive in palestra nutrendosi del sudore dei ragazzi. Bolano invece in 2666 (ma non solo) possiede un’ “aria” o un’ “aura” fantastica, una specie di rumore di fondo che rimanda ad altro – specie ne La parte dei delitti e ne La parte di Arcimboldi. Meridiano di sangue di McCarthy, ecco, è metafisico: il Giudice Holden sposta chiaramente la faccenda su un piano ulteriore; Moby Dick è massimamente metafisico – le balene esistono, Moby Dick no, non in carne e sangue quantomeno. Eccetera.
    ps: curioso, a proposito d’autofiction, che sia I demoni che Moby Dick siano scritti in prima persona. Melville fu baleniere, Melville viaggiò, Melville visse il mare e rischiò e soffrì, Melville s’ispirò a un episodio realmente accaduto (anche se non a lui). Definisce più su Donnarumma: “Autofiction è quella narrazione che, simulando un patto autobiografico, lo rompe esibendo la menzogna o rendendo pertinente la categoria di menzogna.” Se dunque Melville avesse iniziato, anziché con Call me Ismael, con Call me Herman?

  38. @ donnarumma

    Siamo sicuri che, considerate sul piano testuale, le autofictions attivino sempre la distinzione fra menzogna e realtà? Almeno in alcuni casi, non è ciò che già conosciamo dell’autore ad attivare questa distinzione? In altri termini: non credi che l’autofiction come la intendi tu sia una categoria un po’ paratestuale?

    Su Siti. Sono d’accordo con la tua ultima formulazione. Dire che nella falsificazione si può dare verità o che alla falsificazione si strappa una verità non è proprio la stessa cosa.

    Il fatto che la denominazione «autofiction» sia contemporanea alla categoria di testi che designa rafforza la tua proposta di storicizzazione, non c’è dubbio. Ma se applicassimo il criterio della contemporaneità in maniera esclusiva, dovremmo, solo per fare un esempio fra i tanti, rinunciare a chiamare autobiografie le opere che hanno fondato il genere, visto che l’uso del termine è di molto posteriore alle Confessioni di Rousseau. Detto questo, e ammesso che la categoria dell’autofiction abbia un senso, mi hai abbastanza convinto per quanto riguarda la tua delimitazione storica. E sono d’accordo col tuo discorso generale sulla storicizzazione.

    Io forse, più che di autofiction, parlerei di una tendenza autoriale all’autorappresentazione, fenomeno che includerebbe anche Houellebecq, e in un certo senso persino Bolaño/Belano. Questa tendenza autoriale all’autorappresentazione può implicare, come dici tu, il tentativo di trovare una qualche verità nel regime di menzogne in cui viviamo, ma considerata di per sé, indipendentemente dalla riuscita delle singole opere, mi pare abbastanza omogenea a questo stesso regime. In altre parole: temo che la forma simbolica della contemporaneità siano proprio i reality (Busi docet), o facebook (sotto il cui logo, seguito dalla numerazione dei «like», si è svolta la nostra discussione), e che l’autorappresentazione autoriale ne sia il riflesso. Rilfesso critico? D’accordo. Sempre? Non ne sono sicuro. In ogni caso, ammetterai che c’è qualcosa di singolare nel definire una categoria testuale a partire da una funzione etico-cognitiva. Forse sarebbe più pertinente rifarsi a una funzione estetica, una sorta di sospensione della credulità, come del resto da te stesso suggerito.

  39. Caro Donnarumma, ho riletto bene, ma non mi torna lo stesso, nel senso che sono d’accordo coi suoi gusti letterari, ma non sono d’accordo con buona parte delle sue argomentazioni critiche, in particolare proprio con questa: “ Quello che segnalo è proprio quello che la scandalizza: che si rivendichi un grado di verità fondato sull’esperienza soggettiva, e che l’io venga posto come il mediatore senza il quale non esiste verità “. Sarò abbigliato a zampa d’elefante, basettone, finanche capellone, ma la trovo un’argomentazione debole, e forse anche antiscientifica. Peraltro un anno fa, di questi tempi, si dichiarava d’accordo con me, nonostante la vernice nero-lucida sparsa sul mio ragionamento. Che è sempre lo stesso, trovandomi ahimè ad essere altamente limitato, a scarso contenuto di idee. Infatti a tutt’oggi non ritengo che il filtro Io aggiunga valore a un enunciato, menchemeno verità; semmai toglie… E direi che è questa lucida sottrazione di verità, in Svevo, in Siti, in Bolano, in Houellebecq, a far da tappeto a tutta una serie di scaglie di verità che amo pensare scaturiscano da sé, a partire dal corretto utilizzo dello strumento romanzo, e a prescindere dalla volontà dell’artefice, il quale, con ben intuì il capellone Rimbaud scrivendo la più bella lettera a me conosciuta, si limita a essere tromba, senza averne la colpa ( Poiché Io è un altro. Se l’ottone si sveglia tromba, non è affatto colpa sua. Per me è evidente: assisto allo schiudersi del mio pensiero:  lo osservo,  lo ascolto: lancio una nota sull’archetto: la sinfonia fa il  suo sommovimento in profondità, oppure d’un balzo è sulla scena.
    Se i vecchi imbecilli non avessero trovato, del “me stesso”,  soltanto il  significato  falso, non avremmo da spazzar via i milioni di scheletri che, da tempo infinito, hanno accumulato i prodotti della loro orba  intelligenza, e se ne proclamano gli autori! http://www.parodos.it/letters/rimbaund.htm).

    Non mi scandalizzo, Donnarumma, però glielo ripeto: non voglio tornare da nessuna parte, voglio solo cercare di leggere un testo stando fermo come un sasso, ignorandone la provenienza; e ignorandone parimenti le virtù letterarie, analitiche o, ancora peggio, civiche del proprio produttore (me lo feci suggerire tanto tempo fa da un basettone fuorisolco come Foucault). Rileggendo il suo articolo, le cose mi sono un po’ più chiare, ciò che non avevo osato scrivere subito perché mi sembrava un mio abbaglio: lei ritiene che chiamare iperreale ciò che ha sotto gli occhi le permetta di ripristinare la soggettività autoriale, messa in crisi da tanti fattori, in parte elencati nel libretto di Lyotard (crollo delle grandi ideologie, fine delle grandi narrazioni, ridimensionamento della funzione intellettuale e dell’identità borghese, se non la scomparsa dell’io in quanto tale, sapere come merce, e così via); ed è così che recupera l’unità soggettiva dell’autore, vedendolo, mi pare, come una specie di garante di una ritrovata valenza del narrato. Insomma, ribadisce che non si possa leggere il contenuto di un testo senza collegarlo al proprio artefice (anche se, stranamente, a prescindere dalle sue intenzioni…), al contrario di me, che sono abituato ai trucchi, e posso più facilmente di lei pensare che quando uno inizia un romanzo scrivendo ” Mi chiamo Walter Siti, come tutti ” forse vuol’egli dire che chi scrive io non è io (un po’ come mia moglie non è mia moglie del grande romanziere molisano, anche lui, a quanto pare, malinterpretato dalla critica…), che quantomeno è un io frantumato e scassato, giustamente al pari dell’io Zeno Cosini. L’io Houllebecq si fa addirittura letteralmente a pezzi, nel corso di una narrazione… E Bolano (postmoderno?) lo stesso si fa a pezzi, seppur metaforicamente, diminuendosi e sfottendosi in continuazione, a partire dalle prime righe del suo lavoro a mio avviso più compiuto, Detective Selavggi, ma ovunque, e non ci pensa nemmeno a metterci la faccia per garantire la veridicità dei suoi enunciati. Siamo nel campo del tragicomico, Donnarumma, se non in una categoria ancora più problematica, a torto non ancora registrata dalla critica, quella della tragifarsa…

    Appunto, rispetto al ” Non esiste verità senza che qualcuno non ci metta la faccia e la parola “ di nuovo penso che metterci la faccia, in letteratura e in arte, non sia per forza un valore aggiunto, specie se manca la faccia (l’ultima, per i miei gusti e conoscenze, quella del modernissimo Leonardo Sciascia, o forse quella dell’inattuale Thomas Bernhard). E infatti, la simpatica faccia da topone di Walter Siti (o quella da topino di Aldo Busi, altrettanto simpatica) si presta piuttosto a indicare al lettore l’inesistenza della loro autorità-autorialità (e quella di chiunque), e dunque a negare la faccia come valore aggiunto in termini di verità, ma soprattutto di bellezza (sempre di arte si tratta, o no?); proprio per via del fatto che la faccia ce la mettono in quel modo lì, collaborando e partecipando ai programmi tv ritenuti idioti, con Maria de Filippi piuttosto che Simona Ventura, pur di non continuare a far numero in ambito teatrino culturale, dove, che tu ci metta la faccia o meno, è chiaro anche ai sassi che stai difendendo privilegi di classe della minoranza agiata, quella proprietaria della cultura, e, se vogliamo, dei concetti stessi di identità e verità (indicativo, in questo senso, potrebbe essere il metterci la faccia degli scrittori Nesi e Baricco, il loro essere in prima fila nelle recenti convention politiche di Cordero di Montezemolo e Matteo Renzi). Voglio dire che è chiaro a tutti che come scrittore – invece di elaborare nell’invisibile, cercare di interpretare le emergenze e i bisogni delle classi meno abbienti (e meno essenti…), ad ogni modo delle moltitudini le cui pulsioni non vanno necessariamente a finire nell’IO -, difendi la solita classe borghese, anche se tu non ci appartieni, addirittura se ti dài l’apparenza di combatterci contro.

    Boh, mi rendo conto che ragiono sconclusionato, senza pretese critiche. D’altra parte ènno discorsi lunghi da fare in un blògghe: la sede più adatta per ragionare su codeste quistioni gli è sempre i’ vecchio romanzo (e risèmo alle sòlite, perché sempre a l oro appartiene quelle che luccica…)

    Mi concedo di concludere con un facile giochino retorico: cosa ne sarà, Donnarumma, della verità savianesca di fronte alla sempre più profonda perdita di attrazione del suo autore-proprietario, lo scrittore che ci ha messo la faccia più di chiunque altro, in qualunque epoca – non a caso divenuto portabandiera di un borghesissimo gruppo editoriale, portavoce di un potentissimo ex banchiere nonché volto primario di un altro movimento politico che ignora le problematiche del lavoro, dell’oppressione e dello sfruttamento…-, scrittore che non solo a me pare oramai in una fase esistenziale assai somigliante alla fase discendente del marziano a Roma?

  40. @ Donnarumma

    a me pare che si faccia una grossa confusione parlando di realtà e finzione e soprttutto di verità in merito all’autofiction. mi scuso in anticipo per la mia impreparazione ( e per le maiuscole che non metterò ). l’autofiction è il contar balle sotto forma di marketing culturale, è divenuto un genere perché lo scrittore è divenuto personaggio della porta accanto. è un modo sfizioso per lasciare il dubbio al lettore, ma a cosa serve? l’unica cosa che può dirci l’autofiction è che l’io stesso è un concetto, ma questo già lo sapevamo. per cui che uno scrittore menta su se stesso o che dica tutto per filo e per segno non ha alcuna importanza. le storie si equivalgono dal punto di vista del racconto umano. basta che siano credibili. non è che l’artificio dell’autofiction in Siti mostri come nella menzogna ci sia la verità, perché questo è alla base di ogni romanzo, di ogni storia raccontata dalla notte dei tempi. l’autofiction non dice nulla su di noi, perché è irrilevante. visto che sono stati citati, Wallace e Bolagno: Wallace cerca esplicitamente di parlare al cuore del lettore, di come siamo fatti, di cosa ci succede, di come fare a stare meglio. parla di cose reali, di malattie e comportamenti reali. Bolagno punta all’indicibile, al male. il male non esiste, lo sapeva benissimo, però ci crediamo tutti. il post-moderno a quel che ho capito era in principio la messa in ridicolo delle autorità varie; poi è diventato il cazzeggio puro. se l’ipermoderno è il ritorno del realismo, allora per me ha senso che lo scrittore che vuole raccontare la realtà deve non tanto metterci la faccia, ma essere stra documentato. deve produrre un saggio su qualsiasi cosa e che sia godibile come una storia. non mi interessano i discorsi sulla realtà mediata dalle immagini, non me ne frega nulla che il soldato colto mentre viene ucciso è una ricostruzione o meno, mi interessa sapere come stanno le cose, laddove è possibile saperlo. oppure mi interessa essere trasportato in un’altra dimensione come fa Bolagno e tutti quelli che ci riescono.

  41. Non vorrei passasse l’idea che l’ipermoderno sia l’epoca dell’autofiction. Comunque…

    @ Macioci
    Il problema è proprio che a Melville non è venuto in mente (anzi: non sarebbe mai venuto in mente) di iniziare Moby Dick con « Call me Herman». Del resto, se la mi’ nonna avesse le ròte…

    @ D’Angelo
    Sì, è verissimo: in alcuni testi (anche se un minoranza) l’effetto autofinzionale è indotto dal paratesto, o addirittura (e forse: sempre) dall’extratesto. Proprio qui sta il bello. Se nella letteratura postmodernista la (meta)letteratura si mangiava tutto, ora al contrario la letteratura è fatta al cospetto di questa cosa dubbia, ma aggressiva e invadente che è la realtà.

    Certamente, non possiamo limitarci a chiamare le cose con i nomi che danno loro i contemporanei: sarebbe, più che filologia, ottusità. Semmai, dobbiamo sforzarci di pensarle con categorie che sono proprie, e solo dopo riportarle a noi. Perciò, anche se Rousseau non usava il termine autobiografia, ne ha fondato il concetto: «Voici le seul portrait d’homme… Je forme une entreprise…». Al contrario, non trovo che l’autofiction sia stata pensata prima dell’ipermoderno (anzi, come ho detto, credo che persino la prima autodesignazione, cioè quella di Doubrovsky, sia insoddisfacente: molto meglio Siti quando parla di «autobiografia di fatti non accaduti»).

    «La forma simbolica della contemporaneità sono proprio i reality o facebook, e l’autorappresentazione autoriale ne è il riflesso»: è proprio quello che penso; solo che, parlando di letteratura, scelgo l’autofiction, in assenza di romanzi-reality… Altrove, ho parlato di scritture dell’io, poetiche della testimonianza e poetiche del documento: mi sembra di capire che sia quello che intendi tu per autorappresentazione (cioè: autocostruzione, e costruzione della rappresentazione attraverso la mediazione dell’io). L’idea di definire un modo/genere attraverso una «funzione etico-cognitiva» mi sembrava uno modo di fare critica non formalistico; ma certo ci vuole qualcosa di più specifico.

    @ Gerace
    Veramente no, a me non pare proprio di accontentarmi delle dichiarazioni di poetica e delle autodefinizioni: non nego che nella scelta dei corn flakes io mi faccia sedurre anche dalla scatola, ma siccome non la inzuppo nel latte, alla fine giudico dal contenuto.
    Cerchiamo di capirci: certo che trovo le categorie di fiction e non fiction piuttosto barbariche, ma che vuol dire? Trovo molto più interessante che le si usi, e molto più produttivo chiedermi come mai se ne senta il bisogno, piuttosto che fermarmi lì a sottolineare tutto con la matita rossa e blu.
    Il fatto che la categoria di autofiction non c’entri quasi per nulla con Moresco non vuol dire un bel niente: c’entra moltissimo con dozzine di altri scrittori, alcuni mediocrissimi, altri parecchio bravi. C’entra, soprattutto, con lo stato presente delle cose: almeno, per questo interessa a me.
    Il lettore medio che lei cita dev’essere lo stesso che al cinema o a teatro non legge il programma, si addormenta, passa il tempo a controllare l’iphone, esce prima della fine: se vuole chiedergli un giudizio sullo spettacolo, faccia pure.
    Che la letteratura non debba essere schiacciata sul fattuale, o sull’empirico, è quello che sto dicendo da un po’. Ma come mai ha iniziato a misurarcisi con tutta questa ossessione?

    @ Sagna
    «La letteratura arriva davvero sempre dopo la realtà?» Io non parlo affatto del sempre, o del tutto: mica sono matto. Parlo di alcuni fatti che, a mio giudizio, identificano il qui e l’ora – cioè, anzitutto, di quello che rende l’ipermoderno diverso dal postmoderno. Per il resto, sono contento che lei condivida con me non le soluzioni, ma i problemi su cui riflettere.

    @ Massino
    Caro Larry, mi deve perdonare: ci sono molte sue osservazioni puntuali che condivido, ma sulla sostanza del suo discorso proprio non sono d’accordo. In primo luogo, lei fa costantemente quel cortocircuito fra giudizio di valore e descrizione a cui io cerco di sottrarmi in tutti i modi. Fortuna che non studio il nazismo: altrimenti mi infilerebbe prima una camicia bruna, poi mi darebbe una randellata in testa. Quel che mi stupisce è che lei ha un’estetica normativa: sa già cosa è bene e cosa è male (l’io è male, toglie forza e valore alla verità), pensa che esista un «corretto utilizzo dello strumento romanzo» (quindi, ce ne sarà pure uno scorretto). Io, invece, non ho alcuna intenzione normativa: esprimo dei giudizi (ci mancherebbe!), ho le mie idee generali, ma non ho nessun a priori; penso che linee correnti poetiche possano presuppore un’idelogia (come gli autori e le opere, del resto), ma che poi quello che dicono i testi è di più, è di meno, e se funzionano è di meglio.
    Mi perdoni: ma la sua volontà di ignorare la provenienza di quel che legge mi sembra una simpatica boutade. Lei è libero di pensare che l’Iliade sia stata scritta da una cortigiana cinese dell’età Ming, che Beethoven componesse sulla marimba per i night di Cuba, che il Paradiso perduto verrà messo in versi tra una ventina d’anni in un attico di Kuala Lumpur. Io non leggo così: disconoscere il mondo degli altri, per starsene lì impalati come sassi di fronte a questa luminosa pioggia di meteoriti, non è il mio mestiere, e neppure il mio genere.
    Non sono io a recuperare la soggettività degli autori, a cui non sono particolarmente affezionato (capirà: ho scritto due libri su Gadda e qualche saggio su Pirandello mica per caso; e sono anni che voglio fare qualcosa di serio su Svevo). Quello che sostengo è che il librettino di Lyotard ha fatto il suo tempo: e con lui, tante altre cose. Poi, lei può ritenere che siamo fermi lì, e che di lì non dobbiamo schiodarci manco morti: apprezzo la fedeltà, in amore; ma non può chiedermi di condividere i suoi amori.
    Vedo che lei sa già cosa ne sarà di Saviano. Ma allora, sono messo meglio io, che non lo so, e che potrò stupirmi: poiché principio della filosofia è lo stupore.

    @ Dfw vs Jf
    Mi scusi: ma perché tutta l’autofiction dovrebbe essere sepolta sotto il suo verdetto deprecativo? A parte che questa avversione al non familiare, in chi dovrebbe avere la curiosità per prima natura, mi spaventa un po’; ma poi: cosa penserebbe di chi le dicesse che tutti i gialli sono robaccia per vendere, che tutta la tv è spazzatura, che tutte le bionde sono slavate? Se poi le presentano Marilyn che fa? se la cava con la scusa che è tinta?

  42. beh, mi scuso io, non volevo deprecare l’autofiction come insieme di opere prodotte, ma come meccanismo che permetta chissà cosa e che riveli chissà cos’altro. fra un personaggio letterario e il personaggio autore che differenza c’è?

    “Cosa racconta Siti, se non che l’io è se stesso nelle sue mistificazioni?”

    questa frase andrebbe spiegata. io non credo che l’io possa essere o meno se stesso.

  43. A Raffaele Donnarumma.

    Non ho detto che lei si fermi alle dichiarazioni di poetica. Ho fatto l’esempio di Siti ma solo in quanto scrittore particolarmente consapevole del suo lavoro. Il mio sospetto è invece che lei si fermi, e l’ho scritto, alle rappresentazioni che la nostra epoca fa di se stessa.
    Mi rendo conto che storicizzare il presente o il recente vuol dire cercare di capire che cosa bolle in pentola, ma a volte ci si dimentica che quel che oggi ci appare nuovo può non essere tanto diverso, a uno sguardo attento, da quel che lo era ieri o una settimana fa. Non nego che la necessità, da parte di molti scrittori, di ottenere effetti autofinzionali sia una novità. Mi chiedo, però, se sia davvero una novità che sconvolge le strutture stesse del romanzo e della modalità cognitiva con cui esso agisce su di noi o se non sia, invece, una novità tutto sommato superficiale e semplicemente tecnica.
    Quando parlavo del lettore medio, era proprio per dire che non credo che gli effetti autofinzionali modifichino davvero il modo in cui leggiamo romanzi, che smuovano opposizioni diverse o problematizzino questioni che credevamo risolte. Certo, un critico deve rendersi conto che qualche cambiamento c’è, ma poi deve anche saperlo ridimensionare, secondo me. Il lettore medio, per come l’ho voluto intendere, è qualsiasi lettore che non faccia di mestiere il critico letterario o l’editor o lo scrittore etc. Nel caso dei romanzi di Walter Siti, chiunque non conosca lui o la sua biografia non ha che scarsissimo o nullo accesso agli effetti autofinzionali e non è solitamente a conoscenza dei dibattiti teorici e critici che ci sono dietro. Eppure il libro lo legge e sceglie se e quanto amarlo o odiarlo, si lascia investire dall’effetto delle cose che vi sono raccontate, prova emozioni e sviluppa ragionamenti. Le novità vere, a mio avviso, questo lettore medio le riconosce. Poi magari non le sa apprezzare o spiegare, ma non per questo il suo giudizio è meno significativo. Voglio dire, che il René di Chateaubriand fosse una cosa nuova e diversa se n’era reso conto anche il più ottuso fra i lettori di Voltaire. Si può dire lo stesso dei lettori di autofiction? Ancora: a parte casi estremi come Lunar Park, come farà il lettore medio del secolo XXII a distinguere autofiction da autobiografia? Davvero gliene importerà qualcosa? Non è un modo questo per disinnescare uno dei valori fondanti della letteratura, che è quello di attraversare non solo lo spazio, ma anche il tempo?
    Non è forse l’autofiction un prevedibile fenomeno di assestamento del più generale e più importante e ormai avvenuto sorpasso della prima sulla terza persona narrativa?
    Per quanto riguarda Moresco, ho insistito su di lui perché lo conosco meglio e non ho voluto dire che non abbia molto a che fare con l’autofiction, ma che non si possa nemmeno ridurre ai fenomeni che lei ha rintracciato come propri dell’ipermoderno. Il fatto che uno dei maggiori scrittori contemporanei non possa confluire in questo quadro, a mio avviso, indebolisce la pervasività delle sue tesi. Certo, ci sono moltissimi altri scrittori, ma quanti ne ricorderemo fra un secolo e quanti vale davvero la pena leggere anche oggi?
    Io potrei dirle che c’è già tutta una genia di scrittori che hanno subito molto l’influsso di Moresco, e su questa base costruire una storiografia del presente della letteratura italiana. Certo, Walter Siti non vi rientrerebbe, ma è solo uno, ma sono pochi, invece quelli che dico io sono tanti! Solo che non credo sia né interessante né giusto, perché penso che un testo appena esce debba avere l’opportunità di essere letto per quello che è, non per i suoi rapporti con gli altri testi, e non credo che si possa e si debba rintracciare una modalità preferenziale nella letteratura contemporanea, perché lo sguardo è corto e l’ombra è lunga.
    Perché mi attribuisce un ossessione che non ho? Ossessione, tra l’altro, è una brutta parola che non bisognerebbe rivolgere agli altri. Spero d’avere spiegato meglio perché insisto sulla questione della verità fattuale. Del resto, confidavo che lei intendesse il tono voltato allo scherzo e non allo scherno.

  44. @ Gerace
    Rispondo più tardi con calma, ma prima: rilegga la frase in cui compare «ossessione», e vedrà subito che il soggetto non è affatto lei, ma «letteratura»: «come mai [la letteratura ipermoderna] ha iniziato a misurarcisi [con il fattuale e l’empirico] con tutta questa ossessione?». Ha fatto un lapsus mica male: ne converrà. Grazie, intanto.

  45. @donnarumma
    A Dante però, che precede Melville di sei secoli, è venuto in mente. E anche a Proust che lo segue di cinquant’anni. Tutto dunque sembra ridursi – non lo dico per provocazione, ma perché mi sembra che finalmente la montagna abbia partorito il topolino – a un’opzione nominale.

    @larry massino
    Il suo rimando alla Lettera del Veggente è della pertinenza più acuta. Potremmo affermare che la prima persona singolare occidentale, assieme al cogito ergo sum cartesiano, sia andata in pezzi quel 15 maggio del 1871. Potremmo ma preferiamo non farlo, non conviene. Del resto la pericolosità di quell’affondo tutti i poeti successivi (i poeti, ovvero gli scrittori per eccellenza dell’io) l’hanno subito percepita, e con uno sgomento eccedente nella colpevole volontà di rimozione. Tutti – da Palazzeschi a Gatto, da Montale a Ungaretti, da Penna a Bellezza, da Zanzotto a Luzi, da Giudici a Bertolucci a Sereni a Pasolini a molti altri, e solo per rimanere in Italia – tutti hanno percepito la catastrofe. L’io non esisteva più. Il ragazzo sarà pure stato dannato dall’arcobaleno, ma ha dannato i propri successori ad essere semplicemente successivi. L’autofiction dopo di allora non è più l’autobiografia di fatti non accaduti che era sempre stata, ma il ben più inafferrabile (o ineffabile?) racconto di fatti accaduti ad altri, una schizofrenia dovuta e non “giocata” – non è che l’io sia una finzione, l’io è una verità ma aliena, altra. La scrittura non ci apparteneva più, la scrittura non poteva essere più lo specchio bensì ciò che sta dietro, dentro lo specchio. Ma gli specchi sono infranti e i vetri sono ancora sparsi in terra. Noi siamo ancora postumi, ecco il dramma.

  46. @macioci

    Mi pare curioso che ripeta l’obiezione Dante-Proust, implicando che si metterebbero al centro di narrazioni romanzate in prima persona e sarebbero quindi affini all’opzione nominale dell’autofiction.
    Il problema, mi pare, è proprio che non si tratta solo di un’opzione nominale, per due ragioni:

    1)chi sceglie di scrivere un testo autofittizio ha alla base, come condizione NECESSARIA MA NON SUFFICIENTE, di esporsi col proprio nome “vero” e di instaurare una coincidenza almeno esteriore fra autore, narratore e personaggio.
    2)in secondo luogo, e più importante, è il binario sbilenco e paradossale che lo scrittore di autofiction mi sembra prendere. vale a dire la scelta di muoversi consapevolmente fra i domini dell’autobiografia e della fiction-del romanzo ottonovecentesco in prima persona di fatti inventati. che i due domini posseggano elementi in comune, anzi che se li rubino l’uno dall’altro e l’abbiano fatto sin dalle origini, mi sembra lampante. viceversa, quello che riscontro nell’autofiction è la creazione di una terza forma ibrida, distinta dalle precedenti, a cui né Dante né Proust appartengono per le ragioni che ho cercato di spiegare nei due commenti del 20 novembre (h 18:26 e 18:41).

    Giusto per mettere un po’ di legna nel fuoco, e far parlare persone più competenti, mi permetto di segnalarle anche questo articolo, che forse troverà interessante: http://www.minimaetmoralia.it/wp/autofinzioni/

    sul fantastico e metafisico, la ringrazio molto della risposta gentile, che però mi confonde alquanto.
    difatti, se ho ben capito, lei indica il metafisico non come appartenente in senso esclusivo alla sfera del fantastico, ma in senso più ampio come qualcosa che rimanda a un altro dal mero mondo fisico, che fa cozzare il terra-terra con uno spirito più elevato, non necessariamente religioso, visto che può essere Dio (Dostoevskij), il male(Moby Dick), il destino e il caso (2666). dunque, la sensazione “di chi adora il quaggiù e spera e dispera/ di un altro … (chi osa dire un altro mondo?)”, in sé molto vasta, tanto che si potrebbe applicare a tantissimi grandi testi degli ultimi due secoli, seguendo i criteri da lei proposti.
    A margine, noterei che la definizione ampia sul metafisico sembrerebbe non escludere, ma comprendere chi nelle sue opere ha una sfera metafisica molto sviluppata, come Siti (ma questo discorso l’avevamo già fatto qui http://www.leparoleelecose.it/?p=1704, se ricorda); e a glossa del margine, ritengo che proprio il senso del “metafisico” come lei lo intende costituisca uno scarto di obiettivi fra una narrativa postmoderna splendidamente conchiusa nel mondo “fisico” e priva di Dei (Pynchon, Calvino, Manganelli, per dire) e fra una più “”ipermoderna””.

  47. A Raffaele Donnarumma.

    Ammetto che il lapsus è stato notevole :) Me ne scuso.
    Letta la domanda nel suo vero senso, mi chiarisce anche meglio la sua posizione. Ma non è comunque molto rischioso identificare un nodo problematico come caratteristica di un’epoca letteraria? Chi vive e scrive in quell’epoca e non fa proprio quel nodo non rischia di essere ingiustamente ostracizzato o scarsamente considerato? Se mio cugino domani scrive il romanzo più bello degli ultimi trent’anni, ma lo scrive in terza persona onnisciente e non si pone minimamente il problema della testimonianza etc., non rischia di essere considerato troppo poco “ipermoderno” e liquidato come inattuale? Io credo ancora in un libero amore per i padri come fondamento della grande letteratura, invece così mi sembra che tutti risultino fratelli e cugini in un generale schiacciamento sulla contemporaneità che non rispecchia i procedimenti della creazione artistica. A me, p. es., è sembrato di capire molto di più il primo Moresco facendogli fare scintille con Kafka, e non con Tondelli.
    Ricapitolando, non rischiamo di schiacciare troppo la letteratura contemporanea e di soffocare anche le possibilità di apertura e rimessa in gioco che essa continuamente dovrebbe offrire?

  48. @ D’Angelo
    Perdoni l’intrusione, in punta di piedi, e senza tacchi (non potrei per genus).
    “La forma simbolica della contemporaneità sono proprio i reality o facebook (sotto il cui logo, seguito dalla numerazione dei <> si è svolta la nostra discussione), e che l’autorappresentazione autoriale ne sia il riflesso”.
    Credo che l’ipermodernità abbia cambiato il metodo ed il senso dell’ l’autorappresentazione autoriale, e questo proprio partendo dalla premessa: il logo seguito dalla numerazione dei <> rappresenta la nascita di un nuovo registro linguistico.
    Lo strumento tecnologico segna il passo di una diversa estetica del linguaggio. E se da menzogna si è passati a menzogna coatta, da estetica si è arrivati da estetica linguistica coatta. Per dire “mi piace”, in forma semplificata, siamo costretti a rincorrere un pulsante di bacheca virtuale.
    La struttura linguistica si adatta al nuovo sistema cibernetico, organizzando terminologie alternative in rapporto con una nuova visione del parlare per arrivare a semplificare il messaggio comunicativo. Il tempo governa la formula di sintesi di una parola. Perché velocizzare lo scambio di comunicazione è diventato fondamentale, più della correttezza grammaticale, sentita forse, da alcuni, come ridondante. Ansia da prestazione linguistica, incurabile. O quasi. E qualcuno, prima o poi, scoprirà il Viagra per i cybernauti.
    Esiste, dunque, una filiazione diretta tra tempo e parola, quale frutto di una metamorfosi linguistica ricercata, voluta. Il canale fisico della comunicazione, come ho già scritto altrove in tema di mutazione genetica del linguaggio, non è più la terra, l’aria, la luce, ma la rete, inodore, incolore, che può anche non lasciare traccia con l’uso dei nick-name.
    Il social network, allora, è una modalità alternativa a qualsiasi modello dominante, esterno, del parlare, creando un’interrelazione tra mondo off-line e mondo on-line. Nel mondo on-line viene riversato il vissuto esterno. E qui si deve fare attenzione a come ogni notizia o informazione del mondo esteriore viene decodificata in internet, da tutti, ognuno con il proprio linguaggio, i propri tempi, i propri spazi. Un microcosmo di sottocodici linguistici può determinare diversi significati, a seconda dello spazio logistico in cui una parola viene detta. Alla totale assenza di una mimica gestuale nell’esprimersi, la lingua parlata sul web sopperisce con la creatività di forme ritmate, veloci, allo stesso modo di uno schiocco delle dita.

    Mi domando, quindi, se quella autofiction ipermoderna di cui si è parlato abbia portato ad avvicinare in un sol colpo l’estetica, il linguaggio e la falsificazione, triturandoli (minipimer coatto).

    @donnarumma
    Cerco di cogliere l’amo sperando che nell’innesto non ci sia, a quest’ora, il solito lombrico.
    Metterci la faccia. Be’, pensandoci, mi è chiara solo una cosa. L’ego non può presumere di ridurre l’alterità ad una semplice proiezione della propria identità. Quel qualcosa in più, che è mettere la propria faccia, convengo davvero che possa essere un nuovo elemento. E probabilmente sta facendo anche capolino nella letteratura (ipermoderna).
    Nel senso che, come scriveva Emmanuel Lèvinas, la relazione con gli altri deve concepirsi in posizione asimettrica, non Io-Io, ma Io e volto dell’Altro che documenti una verità. E quelle metterci la faccia (posta a confronto con le altre) simboleggia proprio che l’Io non rimane uomo sordo, e non si sottrae alle proprie responsabilità. La radicale esteriorità dell’Altro diviene impegno al quale non si può sfuggire. Il reality narrativo.
    Questo filone, forse, sconterà una pena, perché già ora gronda di quei verdetti scolpiti nelle bocche di tutti, irrevocabili, propri di una deriva giustizialista, anche per una partita di calcio.
    E alla preconizzazione di una realtà documentata e autoresponsabilizzante, sfuggirà, stupendoci ancora una volta, un poscritto, un libello, un’opera narrativa capace di rompere gli schemi. L’Io cogente e l’Io libero valgono l’uno quanto l’altro.

  49. Intanto io firmo il manifesto di Gerace, nel dubbio. Poi, visto che proprio mi pare tirata dentro quasi a forza, allego la serie che segue e che Donnarumma, sventurato (che risponde, giustamente), conosce già:

    PRIME VOCI PER DIZIONARIO QUASI FLAUBERTIANO DELLA CRITICA VIVENTE

    Angoscia (o ansietà) (dell’influenza): sensazione di persistente disagio che attanaglia le mezze calzette ogni qual volta si accorgono che qualun altro ha già scritto qualcosa prima di loro.

    Classico: libro, in versi o in prosa, che in molti hanno già letto al posto tuo quasi esclusivamente per il gusto di poterti dire cosa devi pensarne e, soprattutto, cosa è vietato vederci dentro.

    Critico (letterario): persona, a volte umana, che decide di impegnare quasi tutta la sua vita nella dimostrazione che nessun grande scrittore ha mai fatto niente di nuovo.

    Fonte: spaventosa coincidenza.

    Modello: coincidenza un po’ meno spaventosa.

    Intertestualità: insieme di coincidenze variamente spaventose.

    Moderno: qualsiasi cosa non sia modernista o postmoderna.

    Modernista: quasi postmoderno, ma proprio per un pelo.

    Postmoderno: tutto ciò che sia postmoderno, a patto che non sia postmoderno, purché si confermi, ad un attento vaglio del critico, postmoderno proprio nel momento esatto in cui dimostra di non esserlo. Non classico. Oppure il Don Chisciotte, classico e postmoderno inopportunamente dato alle stampe prima del tempo.

  50. @donnarumma

    Sui primi due punti della tua risposta alle mie osservazioni mi trovi totalmente d’accordo.

    Per quanto riguarda il terzo. Secondo me, fai benissimo a non limitare la tua visione dell’autofiction a una prospettiva formalistica (come l’hanno fatto Genette e altri), ma, trattandosi di un genere narrativo fondato su un patto di lettura, mi chiedo se non sia necessario partire da una definizione rigorosa e neutra dei termini stessi del patto. Nella tua formulazione («Autofiction è quella narrazione che, simulando un patto autobiografico, lo rompe esibendo la menzogna o rendendo pertinente la categoria di menzogna») forse quello che pone un problema è il «rendendo pertinente», che rischia di essere molto discrezionale. Comunque, per quanto mi riguarda, mi sembra che, ormai, più che di divergenze stiamo parlando di sfumature nella formulazione della tua proposta.

  51. p.s. credo che la brevità sia necessaria e feconda e quindi aggiungo ;): nessuna opera ha mai galleggiato bene come I Marmi. E, di notte, effettivamente, le vacche continuano a essere piuttosto nere.

  52. @ marchese

    La ringrazio per il prolungato dibattito, però Lei cerca in me una sistematicità critica che non posseggo e forse nemmeno m’interessa possedere – con ogni evidenza un limite mio e non Suo.

    Ho ben compreso la Sua concezione dell’autofiction fin dai commenti che Lei indica, ma ne tengo in pochissimo conto la componente “colta” o di “gioco” intellettuale o di “riflessione” o “autoreferenzialità”; non mi pare determinante, e quando lo è lo è in senso deteriore. Ma poi scusi, per usare le Sue parole, la Recherce non è forse un “muoversi consapevolmente fra i domini dell’autobiografia e della fiction”, al netto dell’elemento nominale che è comunque presente due o tre volte sotto forma di Marcel? Del resto il vero dramma sta nella crisi terminale dell’io occidentale e la mia concezione, per quel che vale, l’ho espressa nel commento del 23 novembre ore 11,32.

    Sì, ricordo la nostra discussione su Siti. No, io in Siti non sento un assunto “trascendente” benché lui stesso si definisca, mi pare, un “omosessuale metafisico”, e non lo sento neppure in Pynchon o Calvino. Un eccesso d’intellettualismo, cultura e consapevolezza filtrano troppo il contatto bruciante con un “altrove” che non identifico con Dio ma più nebulosamente (e al tempo stesso più concretamente) col mistero – il mistero di essere uomini, e prim’ancora il mistero di esserci. Ricorda la famosa frase: “Non sono schiavo della mia ragione…” Ecco: la ragione è uno strumento magnifico ma NON è il pensiero, è un mezzo per organizzare e incanalare il pensiero, che si rivela più enigmatico profondo e ricco della ragione. Gli scrittori che non sono schiavi della ragione m’interessano di più.

  53. Da turista, butto lì un’ideuzza sull’interessante concetto di autofiction proposto da R. Donnarumma.

    Una volta sparito nel teatro letterario, come nel Theatrum Mundi, il Fuoriscena (Aldilà comunque declinato, da Dio al Comunismo al Tempo Ritrovato, etc.) che definiva i rapporti fra Scena (ove si svolge l’azione) e Platea (ove la si segue con il fiato sospeso), l’Autore cerca di bricolarselo da sè, e messa al posto del Fuoriscena la sua Vita la usa per le triangolazioni balistiche dell’invenzione, della menzogna, etc.

  54. L’autofiction vi ha proprio acchiappato. Non dev’essere una questione così falsa o irrilevante, allora. Prima, all’ingrosso:

    STORIOGRAFIA DEL PRESENTE
    Storiografia e canonizzazione (o giudizio di valore) si implicano a vicenda, si sa; ma la storiografia del presente può avere un intento diverso, che è quello di orientarsi, prima di decidere dove andare. Sono d’accordo con quello che ha scritto Giglioli in Senza trauma sulla critica dei sintomi. Certo, la storiografia del presente anche un valore performativo. Dire: «queste sono le cose interessanti di oggi», vuol anche dire: «questi sono i problemi di cui val la pena di occuparsi». Però, il vero schiacciamento non si ha quando si individua un problema comune a cui gli autori rispondono ciascuno a modo loro, ma quando si decide che Cricche è il centro, Crocche il vertice, Manecancine l’apice. Del resto, i canoni vengono formulati con il tempo e riformulati nel tempo: o avete già deciso che vostro figlio farà l’avvocato e vostro nipote suonerà il sassofono tenore?
    Non prendetevela, ma confesso che certa ostilità contro la storiografia letteraria e gli sforzi di categorizzazione mi fa un po’ goliardia ginnasiale. (A proposito, @ Luca: erano le 15.49 quando hai postato le tue Voci: non ancora l’ora della merenda, ma già quella dei cavoli?).

    AUTOFICTION
    La discrezionalità di cui parla @ Filippo D’Angelo è in effetti un elemento tipico dell’autofiction: il lettore è chiamato direttamente a stabilire se quello che ha di fronte è autobiografia, romanzo o autofiction (anche se, naturalmente, sono testo e paratesto a costruire le domande e a suggerire le risposte, visto che esiste pure un lettore implicito). Alla fine, il criterio decisivo resta la verifica empirica (la coerenza o incoerenza non è probante): ma molto più che la verifica, conta indurre il sospetto e aprire una falla nella credulità. Tra cent’anni potranno ancora capire che Troppi paradisi non è né un romanzo (lo dice il primo rigo), né un’autobiografia (ma dovranno essere capaci di leggere).
    I testi autofinzionali richiamano irritualmente il mondo di fuori dopo che, per decenni di postmoderno, si era creduto in una letteratura che bruciasse tutto in se stessa e rendesse una volgarità trogloditica richiamare l’empiria (che, infatti, aveva ricevuto il bizzarro battesimo di extratesto o mondo-non-scritto: come se uno chiamasse la terra ferma fuor-dall’acqua). Io credo che questa resistenza alla metaletteratura, dopo che se ne è vista tanta, sia salutare. Ma credo pure che ci sia un’effettiva primitività del meccanismo autofinzionale.
    Ci sono casi famosi di errore nel valutare lo statuto di verità di un testo: i primi lettori di Robinson Crusoe credevano che un vero signor Crusoe fosse naufragato su una vera isola, e c’era chi scriveva a Julie o a Saint-Preux attendendone una risposta. Ma l’autofiction gioca deliberatamente sul confine vero/falso, e in un modo che non è né quello di Defoe, né quello di Rousseau. Il nodo sta proprio nel reintrodurre in letteratura una distinzione reale/fittizio, quando il galateo delle lettere prevede che le finzioni non vengano sottoposte a questa verifica. Poiché questa verifica è empirica, e sta al lettore farla, l’autofiction dipende vistosamente dal mondo di qui. Questo è un segno di quello che chiamo ipermoderno.

    Quindi, al dettaglio:

    @ Dfw vs Jf
    «Fra un personaggio letterario e il personaggio autore che differenza c’è?» Per esempio, quella che passa tra un’autobiografia e un romanzo; e che ora non passa solo più da lì.
    «Cosa racconta Siti, se non che l’io è se stesso nelle sue mistificazioni?» significa che l’io ipermoderno non è l’io palo con cui se la pigliava Gadda.

    @ Gerace
    Il suo lettore medio dev’essere uno che assiste all’Amleto credendo di vedere un documentario sulla storia danese o che prende la Traviata per un musical di Broadway: mi dia retta, gli regali una garzantina.
    Quanto a Moresco, non mi pare proprio di ridurlo a nulla: al contrario, mi guardo bene dal convocarlo a forza sotto la categoria di autofiction (e nel caso, chi lo sentirebbe?). Poi, se vuole scrivere una storia della letteratura morescocentrica, io non ho nulla in contrario. Però, sia gentile: non mi chiami al giochino di «cosa resterà di questi anni Zero» o a quello della torre.
    «Ma non è comunque molto rischioso identificare un nodo problematico come caratteristica di un’epoca letteraria? Chi vive e scrive in quell’epoca e non fa proprio quel nodo non rischia di essere ingiustamente ostracizzato o scarsamente considerato?» No. Credo nella categoria di romanticismo, ma questo non mi impedisce minimamente di avere la stanza tappezzata di poster di Giacomo Leopardi e di Giocchino Rossini che, pur essendo vissuti in età romantica, non erano e non si dicevanno romantici per nulla. Tranquillizzi pure suo cugino, e gli dica che leggerò senza alcun pregiudizio il suo poema epico-didascalico in versi barbari.

    @ Macioci
    Le ha risposto Marchese. Quanto alle «opzioni nominali»: ma secondo lei il microracconto «Allora egli uccise suo padre» e «Allora io uccisi mio padre» sono costruiti allo stesso modo, vanno nella stessa direzione, hanno lo stesso statuto di verità, producono lo stesso effetto? Se mi risponde di sì, dev’essere un amico del lettore medio di Gerace.

    @ Buffagni
    La Realtà (altro che Babàu!) resta sempre il miglior fuoriscena. Non le pare?

  55. @ Donnarumma ( a parte il ringraziamento per l’attenzione )

    il lettore non può stabilire, non ha armi, rimane sospeso. ma pure prima bisognava fidarsi. quello che chiedo io è cosa permette in più l’autofiction rispetto al romanzo classico, dato che in sostanza sono uguali. nel caso di Mozzi, serve, se non sbaglio, a rendere più familiari le scenette, o la vicenda. per quanto manca la controprova. però il valore aggiunto, ammesso che ci sia, vale per le situazioni comiche. perché ad esempio nei toni più tristi, il fatto di non avere la certezza che certe cose sono successe a lui personalmente non mi lascia del tutto a posto. perché un conto è che mi si presenta un personaggio e un conto è dover empatizzare con uno che gioca con me. nel romanzo si parla di uno per parlare di tutti, ma se lo scrittore entra in gioco personalmente è lui che ascolto.

    per quanto riguarda l’io ipermoderno, io ho delle resistenze a seguirla. non so quale sia l’io palo di gadda, per caso l’io egocentrico? però stiamo sulle opinioni, quindi non ha senso discuterne. però se il succo è che quando mentiamo deliberatamente stiamo svelando la nostra parte che ha voglia di mentire o peggio che in fondo ce la raccontiamo anzitutto a noi stessi, non c’era bisogno di un nuovo genere. se invece è un meccanismo che serve allo scrittore per raccontarsi meglio, è un altro conto. ma io il valore aggiunto ancora non lo vedo. o sono pazzo io oppure Lei sta facendo dell’autofiction su se stesso ( scherzo eh )

  56. a R. Donnarumma.
    Anzitutto, complimenti per la verve. Lei mi replica:

    “La Realtà (altro che Babàu!) resta sempre il miglior fuoriscena. Non le pare?”

    Sì. Ma la Realtà con la maiuscola non è (era) il Mondo Vero (cioè “l’Aldilà comunque declinato”, etc.) grazie ai lontani bagliori del quale anche la realtà con la minuscola (biografia personale compresa) trova(va) il suo perchè?

  57. @ Donnarumma: proviamo, allora, a cominciare dai principi. Sono le nove del mattino, ora di colazione.

    La questione categoriale basata su tassonomie novecentesche è tanto più dannosa quanto più si innesta in intelletti agili, per la buona ragione che quanto più il critico è acuto e capace di schematizzazione efficace, tanto più l’andamento del suo pensiero ribadisce la stratificazione illusioria intorno al Modernismo come possibilità produttiva di pensiero. Ma il Modernismo è una griglia inefficace perché cristallizza la cronologia: meglio viene, più danni fa.
    Prendere sul serio la distinzione tra ciò che precede la cosiddetta “area di famiglia” primo-novecentesca e ciò che segue comporta per forza di cose che si consideri seriamente l’esistenza di un fatto privo di riscontri e indimostrabile: la stabilizzazione del correre avanti nel tempo. Non si può fare, sono duecento anni che ci provate, basta!
    Mi spiego: ogni idea costruita a partire dal fatto che l’aggettivo “moderno” si attagli meglio a un’epoca trascorsa da un secolo che a quella attuale non potrà che produrre discorsi pestiferi. Ciò non vale per altre categorie come Romanticismo, Barocco, Rinascimento, Illuminismo, perché queste indicano, al netto della loro vaghezza e opinabilità, fatti psichici e sociali di un qualche interesse e segnalano distinzioni qualitative tra epoca ed epoca. Inoltre, anche se sono detestabili, questi ultimi termini mettono insieme i fenomeni (i prodotti, anche) sulla base di nodi culturali. Invece Modernismo non funzionerà mai e non ha mai funzionato, proprio perché conduce il discorso a un’inevitabile collasso storicista nel senso deteriore: se si concede che il divenire nel tempo mobilitato dalla semantica del termine “moderno” sia attivato, ogni discorso successivo sarà in qualche misura costretto all’equivoco. Nessuno sforzo potrà essere sufficiente a bonificare il pensiero dall’evocazione fantasmatica di una finalità della storia o dalla follia che un secolo sia più moderno di un altro. Il Novecento, sarà banale, non può che stare al Novecento come l’Ottocento sta all’Ottocento e il Cinquecento al Cinquecento eccetera. Sono numeri, argini contro l’indistinto, Ne deve, altra banalità, conseguire che i nostri anni stanno ai nostri anni oltre che venire fuori dai precedenti ed è forse venuto il tempo di smetterla di “controintuirci”, postvederci, antidefinirci, iperapplicarci.
    Detta in soldoni: comunque la metta chiunque, è da un pezzo che i moderni siamo noi. Da adesso, da adesso, da adesso, da adesso. E domani? pure!
    Bisogna trovare un’altra parola con cui fare giochetti intorno al secolo scorso e questa parola deve essere buona per i manuali di scuola: vale a dire passibile di essere fraintesa e non basata sull’equivoco volontario.

    Chi aveva detto marmellata e chi nutella? Vabbé, io prendo dieci cornetti per tutti e poi non voglio più sentire lamentele, la prossima volta state più attenti quando ordinate.

  58. Alla fine, questo mi sembra essere uno dei migliori dibattiti che si siano potuti leggere qua sopra (nonostante i miei interventi). Mi ha interessato soprattutto la definizione di “autofiction”: esibizione della menzogna, tenersi sulla barra vero/falso, funzione del “paratesto” genettiano, etc. Se però dovessi riprendere quello che dicevo all’inizio, pur con la maggiore consapevolezza acquisita in conclusione del dibattito, a me sembra che – con l’autofinzione, ma non solo – si stia invertendo la tendenza a produrre (anche su commissione dell’industria culturale?) testi pseudogiocosi, citazionisti, letteratura puramente di genere e così via: qualcosa che ci riconduce alla drammaticità del moderno con i suoi spostamenti interni e le sue complicazioni. È “iper” tutto questo? O non è un ritorno alla “cosa stessa” del moderno?

  59. Chiedo ammenda a @ D’Angelo,
    per l’intrusione, in punta di piedi, e senza tacchi a spillo (non potrei per genus):
    “La forma simbolica della contemporaneità sono proprio i reality o facebook (sotto il cui logo, seguito dalla numerazione dei <> si è svolta la nostra discussione), e che l’autorappresentazione autoriale ne sia il riflesso”.
    Credo che l’ipermodernità abbia cambiato il metodo ed il senso dell’ l’autorappresentazione autoriale, e questo proprio partendo dalla premessa: il logo seguito dalla numerazione dei <> rappresenta la nascita di un nuovo registro linguistico.
    Lo strumento tecnologico segna il passo di una diversa estetica del linguaggio. E se da menzogna si è passati a menzogna coatta, da estetica si è arrivati da estetica linguistica coatta. Per dire “mi piace”, in forma semplificata, siamo costretti a rincorrere un pulsante di bacheca virtuale.
    La struttura linguistica si adatta al nuovo sistema cibernetico, organizzando terminologie alternative in rapporto con una nuova visione del parlare per arrivare a semplificare il messaggio comunicativo. Il tempo governa la formula di sintesi di una parola. Perché velocizzare lo scambio di comunicazione è diventato fondamentale, più della correttezza grammaticale, sentita forse, da alcuni, come ridondante. Ansia da prestazione linguistica, incurabile. O quasi. E qualcuno, prima o poi, scoprirà il Viagra per i cybernauti.
    Esiste, dunque, come ho già scritto altrove a proposito della mutazione genetica del linguaggio, una filiazione diretta tra tempo e parola, quale frutto di una metamorfosi linguistica ricercata, voluta. Il canale fisico della comunicazione non è più la terra, l’aria, la luce, ma la rete, inodore, incolore, che può anche non lasciare traccia con l’uso dei nick-name.
    Il social network, allora, è una modalità alternativa a qualsiasi modello dominante, esterno, del parlare, creando un’interrelazione tra mondo off-line e mondo on-line. Nel mondo on-line viene riversato il vissuto esterno. E qui si deve fare attenzione a come ogni notizia o informazione del mondo esteriore viene decodificata in internet, da tutti, ognuno con il proprio linguaggio, i propri tempi, i propri spazi. Un microcosmo di sottocodici linguistici può determinare diversi significati, a seconda dello spazio logistico in cui una parola viene detta. Alla totale assenza di una mimica gestuale nell’esprimersi, la lingua parlata sul web sopperisce con la creatività di forme ritmate, veloci, allo stesso modo di uno schiocco delle dita.

    Mi domando, quindi, se quella autofiction iperomoderna di cui si è parlato abbia portato ad avvicinare in un sol colpo l’estetica, il linguaggio e la falsificazione, triturandoli (minipimer coatto).

    @donnarumma
    Cerco di cogliere l’amo sperando che nell’innesto ci sia, almeno a quest’ora, pan chocolat.
    “Metterci la faccia”. Be’, pensandoci, mi è chiara solo una cosa. L’ego non può presumere di ridurre l’alterità ad una semplice proiezione della propria identità. Quel qualcosa in più, che è mettere la propria faccia, convengo davvero che possa essere un nuovo elemento. E probabilmente sta facendo anche capolino nella letteratura (ipermoderna) degli ultimi tempi.
    Nel senso che, come scriveva Emmanuel Lèvinas, la relazione con gli altri deve concepirsi in posizione asimettrica, non io-io, ma io e volto dell’altro che documenti una verità. E quelle metterci la faccia (posta a confronto con le altre) simboleggia proprio che l’Io non rimane uomo sordo, e non si sottrae alle proprie responsabilità. La radicale esteriorità dell’Altro diviene impegno al quale non si può sfuggire. Il reality narrativo.
    Questo filone, sarà anche nuovo, in quanto intriso di fatti storici dell’Io narrante nuovi, ma, forse, sconterà una pena, perché già ora gronda di quei verdetti scolpiti nelle bocche di tutti, irrevocabili, propri di una deriva giustizialista, anche per una partita di calcio. In Italia il lettore diviene arbitro, giudice, giornalista e conduttore televisivo allo stesso momento. E non è questione di immedesimazione, ma sovrapposizione. Quella che io chiamo davvero auto fiction (cioè: bello mio (lettore), ti sei fatto un film!). Per non confonderla, si noti che l’ho staccata..

    Alla preconizzazione di una realtà documentata e autoresponsabilizzante, sfuggirà, per forza di cose, stupendoci ancora una volta, un poscritto, un libello, un’opera narrativa capace di rompere gli schemi.
    L’Io cogente e l’Io libero valgono l’uno quanto l’altro.

  60. @ Dfw vs Jf
    Ma come sarebbe a dire che autofiction e «romanzo classico» «in sostanza sono uguali»? Guardi, non può mica farmi chiudere la settimana così: ci resto davvero male. Lo vedo bene che ha resistenze a seguirmi: ma si rassicuri, questo fa parte del transfert.

    @ Buffagni
    Grazie: la verve è autodifesa, comunque. Poi spero di non ammorbarvi.
    La promozione della realtà a Realtà è il mestiere di chi scrive, direi. Del resto, non è che sia sempre così semplice distinguerle.

    @ Luca Cristiano
    [Avvertenza ai lettori. Cristiano ed io abbiamo rapporti diretti cordialissimi e di stima: è una discussione tra amici].
    Ti confesso che faccio molta fatica a seguire il tuo discorso. Ne ho tratto un certo sgomento, occasionato da:
    – una serie di partiti presi stupefacentemente dogmatici. Tutta questa rivendicazione di libertà e mobilità è sostenuta a suon di «non si può!», «non è giusto!», «non si fa!»: un tantinello castrante, non ti pare?
    – essenzializzazione delle categorie: tutte quelle maiuscole! sembra di essere al museo delle cere dell’inconscio che, si sa, ragiona per classi;
    – buffo come, in tanta furia ribellistica, si finisca per dar ragione a chi se l’è presa da più tempo: Romanticismo, Barocco, Rinascimento, Illuminismo fanno storcere il naso, ma alla fine, via, ci si può stare, visto che se ne parla da tanto e c’è su tutti i libri. Modernismo no, è una roba che avete tirata fuori voialtri (ma qui mi son proprio perso, per quella storia dei duecento anni…);
    – drammatica confusione modernità/modernismo. Su questo ho scritto altrove: non mi ripeto. Giusto per capirsi, sarò pedestre: la modernità è l’ondata della storia e della cultura dalla Rivoluzione francese; il modernismo una corrente letteraria anglosassone; il modernismo europeo l’estensione di quella categoria; il modernismo italiano un’invenzione più recente, dovuta ad alcuni (non si capisce se bizzarroni o banaloni) tra i quali lo scrivente. Baudelaire, o Eliot, o Pound, o Joyce, o Benjamin (per limitarsi a qualcuno che esplicitamente usava quelle parole) son gente un po’ strana, ma fanno una bellissima compagnia: io mi ci trovo proprio bene, alla fine. È con loro che sto, mica con Ford, con Stalin o con i burocrati weberiani;
    – confusione (diffusa, per altro, e che non riguarda solo te) fra descrizione e prescrizione: se parlo di modernità, sembra che ne sia il banditore e propaghi una filosofia della storia folle e che, si sa, porta dritta ad Auschwitz: ma si può? come si fa a ignorare che i modernisti sono stati praticamente tutti, salvo pochissime eccezioni, i critici più feroci della modernità e della modernizzazione?
    – rinuncia a categorie argomentate, e abbraccio acritico di fantocci pieni di paglia e opportunistici (modernità e modernismo proprio no; però Novecento, Ottocento, Cinquecento in fondo sì);
    – spaccio di dubbi per il gusto di spacciare dubbi: es., «opinabilità» di «Romanticismo». Visto che tra gli opinanti c’era, tanto per dire, G. W. F. Hegel, è un bell’opinare, e forse poco opinabile;
    – parzialità degli argomenti: «il Modernismo [ammesso che qui tu non voglia dire: la modernità] è una griglia inefficace perché cristallizza la cronologia». E perché: illuminismo o romanticismo non cristallizzano cronologie? oppure sei di quelli che pensano che Apuleio è barocco, e che con Ariosto siamo al postmodernismo?
    – oracolarità sdegnata e lancio di fumogeni dai terzi piani dei mi(ni)steri. Il tuo «mi spiego» è audacemente umoristico: cerchiamo di combattere ad armi pari;
    – tendenziale scivolamento nella mistica del vitalismo e dell’indistinto (grazie, a volte ne sono sedotto, ma i funghi allucinogeni no: la mattina dopo, rialzarsi, è un vero problema);
    – evasività e lateralità del discorso: hai spostato l’argomentazione rispetto al post. Per carità, questa è quasi la norma in rete. Ma qui mi sembra di riconoscere l’atteggiamento di quei critici che, di qualunque cosa si parli, hanno bisogno di distinguersi, e il cui inno suona: http://www.youtube.com/watch?v=WYvJ95FY6OM.

    Signore! Ma che ci mettono in quei cornetti? Io Special K e Zymil scremato, in ogni caso: più sano, e più leggero. E poi via, scattanti, verso nuove storicizzazioni:

  61. Domanda (proprio domanda, non obiezione): se la modernità è l’epoca che inizia nel 1789 (secondo i vecchi manuali anche nel 1492), se il postmodernismo indica una poetica o un insieme di poetiche, che cosa sarebbe il moderno? Un aggettivo o un’etichetta che il lettore o il critico possono affibbiare in certe circostanze piuttosto che in altre? Per esempio, una volta sentii dire, riguardo a una scena di sesso molto esplicita in un testo, che era “moderna”. È un uso riprovevole o accettabile? Che ne pensa il “magister” Donnarumma?

  62. a R. Donnarumma.

    Prego. A me la sua verve piace. Comunque i suoi argomenti mi pare si difendano da sè.

    Mi chiarisco rapidissimamente, per non gravarla di un altro fardello. Non c’è bisogno che risponda.

    Quando parlo di Realtà e realtà, parlo della situazione di partenza in cui ci troviamo tutti, scrittori o no. Della realtà minuscola disponiamo tutti. Siamo in grado di tollerarne dosi assai ridotte. Un tempo, per riscire a tollerarne dosi maggiori si ricorreva alla medicina omeopatica “Realtà”, attualmente espunta dai prontuari. Certo, ce la si può sempre fabbricare in casa. Ecco, a parer mio la biografia personale viene usata dagli Autori di autofiction come un Ersatz dell’antica medicina “Realtà”.

  63. ci mancherebbe che le rovino il fine settimana. dato che non sono del settore mi appoggio alle sue parole. nel romanzo ci sono dei personaggi inventati, poi lo scrittore può fargli fare cose mai successe oppure cose successe, magari a lui stesso. può fargli pensare cose che lui pensa oppure no. nell’autofiction il personaggio è lo scrittore stesso, che può dire la verità oppure no. ma a parte la differenza formale, cosa permette a Siti di dire cose che con un personaggio non poteva dire? non poteva mistificare il suo io con un personaggio qualsiasi? il valore aggiunto è l’ammiccamento dell’ “io sto mentendo”? la differenza sostanziale tra romanzo e autobiografia è tra fatti accaduti e fatti non accaduti. l’autofiction o è sostanzialmente un romanzo oppure un’autobiografia. oppure un po’ l’una e un po’ l’altra. ma pure il romanzo può contenere tratti biografici e viceversa. e tutti possono essere scritti giocando sul vero/falso e tutti richiedono al lettore fiducia.

  64. @ Genovese
    Sì, in effetti c’è proprio un ritorno alla cosa stessa del moderno, ma parziale: in primo luogo, la logica del moderno ci si ripresenta impazzita; in secondo luogo, comunque con il postmoderno bisogna fare i conti. Perciò, non assistiamo affatto a un revival nostalgico o naïf della modernità.
    Quanto ai termini, io la vedo così:
    1. c’è un’effettiva difformità tra l’uso degli storici-storici (1492) e l’uso degli storici della cultura e delle arti (1789; infatti, sui manuali di storia lì inizia la storia contemporanea; e aggiungo che di postomoderno gli storici in genere non parlano per dividere le epoche);
    2. considero moderno e modernità sinonimi (Baudelaire, per esempio, parlava di «vie moderne» o «modernité»; in Germania si dice Moderne), e li uso per designare un’epoca della civiltà. Dentro, poi ce ne sono interpretazioni e immagini diverse: che so? il romanticismo o il naturalismo, l’idealismo o il positivismo, il simbolismo o le avaguardie. Il modernismo non che una di queste possibilità di mettere in forma (e concettualizzare) quella storia, anche se in modo particolarmente consapevole ed esplicito. In effetti credo che una storiografia sensata funzioni quando sa vedere insieme l’unità e le differenze, la lunga durata e la durata corta, la generalità dei problemi comuni e la singolarità delle risposte individuali, senza far prevalere nessuno dei due poli;
    3. il postmoderno è stato, come età culturale, l’illusione dell’uscita dalla modernità: e non sono il solo a pensarlo;
    4. c’è anche l’uso esteso del termine: come ci sono i tramonti romantici (etimologicamente giustificati, ma ignari di Schiller o Hugo), così ci sono le coppie moderne (etimologicamente giustificate, anche se qui moderno è sinonimo di sporcaccione; del resto, queste possono benissimo trovare eccipienti alla loro modernità leggendosi a Baudelaire o Musil);
    5. ho avuto difficoltà a fare l’allievo: figurati tu il maestro…

    @ Buffagni
    Sì: possibilissimo. Il vissuto può essere l’appiglio contro un’angoscia di derealizzazione mai sedata sino in fondo e anzi spesso rappresentata; ed è questo che rende l’autofiction ipermoderna.
    Del resto, si sa: in mancanza di caffè, uno si fa un orzo se va bene, se siamo sotto le bombe il surrogato al cicorione.

  65. @donnarumma

    “Le ha risposto Marchese.” Anch’io ho risposto a Marchese.

    Sul resto: il Suo mi sembra un approccio matematico alla letteratura; si frammenta qualcosa che già esiste per poter affermare: l’abbiamo inventato noi! Noi siamo ipermoderni! Mentre siamo solo postumi. Veniamo dopo troppe catastrofi, e non sappiamo se saremo all’altezza dell’abisso (l’abisso è alto!). Ricorda quando nel primo commento citavo Joyce o Von Hofmannsthal? Ricorda che Lei mi rispose che li si può tranquillamente ignorare? Ecco, io credo proprio il contrario. Siccome le parole – le parole pensate e scritte sul serio – non sono mai innocenti, noi che veniamo dopo (dopo quei due e dopo tante altre catastrofi, dopo Kafka, dopo Celan, dopo Nietzsche, dopo Freud) non siamo innocenti; noi siamo colpevoli del nostro ritardo, noi siamo stati “maledetti” da chi, prima di noi, ha frantumato lo strumento (un po’ il discorso che facevo riprendendo alcune osservazioni di larry massino sulla Lettera del Veggente, autentico buco nero di ciò che chiamiamo “modernità”).
    E’ chiaro che Lei può non condividere questa visione “apocalittica” della scrittura; spesso non la condivido fino in fondo nemmeno io – altrimenti non scriverei, e invece scrivo. Sappia però che io ho capito ciò che Lei intende per autofiction; è solo che mi pare irrilevante. Mi pare che esistano temi più urgenti, più vitali (ed è questo il motivo per cui sono intervenuto così tante volte); ma del resto posso benissimo sbagliarmi. Da un’altra parte Lei afferma: “Il nodo sta proprio nel reintrodurre in letteratura una distinzione reale/fittizio…” Vale a dire che il nodo sta nel reintrodurre in letteratura la letteratura. Un nodo con cui ci siamo già impiccati da un pezzo.

  66. @dfw
    lei scrive:

    nel romanzo ci sono dei personaggi inventati, poi lo scrittore può fargli fare cose mai successe oppure cose successe, magari a lui stesso. può fargli pensare cose che lui pensa oppure no. nell’autofiction il personaggio è lo scrittore stesso, che può dire la verità oppure no. ma a parte la differenza formale, cosa permette a Siti di dire cose che con un personaggio non poteva dire? non poteva mistificare il suo io con un personaggio qualsiasi?

    mi pare che abbia frainteso quello che è il nodo della categoria autofittizia, perché non è questione di “lo scrittore può dire la verità oppure no”. lo scrittore fa una cosa di grado diverso: prende una potenziale “scrittura autobiografica canonica” della propria vita e la riscrive come se stesse scrivendo un romanzo (anzi, ne accentua gli elementi “romanzeschi” nell’accezione classica del romance, da contrapporre al borghese e troppo realistico novel). non è questione di verità o non verità; sul piano del resoconto dell’esperienza, lo scrittore magari non dirà la verità, sul piano dei contenuti, del significato di un’esistenza e della sua comprensione profonda, magari potrà arrivare a una “verità” cui non riusciva ad arrivare con il resoconto “piano” dei fatti suoi o con una disamina filosofica. distinguerà magari reale e fittizio con un processo abbastanza schizofrenico, ma attenzione; per usare una similitudine, reale e fittizio nell’autofiction si presentano come i due bracci di una forcella, della quale noi, vedendola, non sappiamo definire da che parte sia la testa (la parte indivisa, unica) e da quale parte i bracci (le due parti distinguibili). o almeno così mi sembra.
    sul resto. sono d’accordo quando dice che il sale del romanzo sta anche, da parte di chi scrive, nel prendere personaggi e vicende inventate e instillare in esse elementi desunti dalla propria esperienza; se nota, chi scrive un autofiction fa lo stesso ma EVIDENZIA questo meccanismo schiettamente romanzesco attribuendo a un se stesso inventato vicende vere e vicende false. si tratta, credo, di un processo molto “da critica letteraria”, dietro cui c’è molta teoresi, e che vuole riflettere proprio, attraverso il paradosso dell'”attribuire a se personaggio vicende romanzesche” (vere e false, poco importa) sulle categorie del romanzo e dell’autobiografia. ma soprattutto, direi, sulla prima.
    se si fa questo, cioè se delle persone si mettono a scrivere autofiction e altre a rifletterci sopra senza liquidarle alla svelta -ci sono problemi più importanti, sono d’accordo, cionondimeno dire a chi spende il proprio tempo su qualcosa che c’è sempre dell’altro non è molto proficuo…-, come noto con piacere si sta facendo qui, è perchéoggi, nel panorama letterario attuale, c’è un forte bisogno di riflettere sulle categorie di romanzo e autobiografia, che già RIFLETTONO CRITICAMENTE sulla distinzione/commistione fra reale e fittizio. categorie quanto mai importanti, prolifiche e feconde nei loro sviluppi attuali, e di cui è non meno importante parlare, e difatti lo hanno fatto macioci, d’angelo e altri intelligenti commentatori.

  67. a L. Marchese:
    “nell’autofiction il personaggio è lo scrittore stesso, che può dire la verità oppure no. ma a parte la differenza formale, cosa permette a Siti di dire cose che con un personaggio non poteva dire? non poteva mistificare il suo io con un personaggio qualsiasi?”

    E’ un po’ il paradosso del mentitore. Appena si firma col suo nome vero in un contesto che non è autobiografico o saggistico o notarile, lo scrittore mente, cioè fa leva sul vero anagrafico per fingere alla n potenza, e si mitologizza con il semplice trucco dei firmarsi.
    Se Pirandello, nei Sei personaggi, invece di mettere in scena il capocomico avesse messo in scena L. Pirandello, avrebbe fatto saltare la convenzione teatrale nella direzione poi imboccata, per es., dal Living Theatre.
    A mio avviso è un vicolo cieco (anche se prima di sbattere contro il muro c’è tanta strada da fare) perchè prima o poi, ci si accorge che lo statuto formale della narrazione la vince sempre, alla fine, come la vincono sempre l’armonia e la morte sulla melodia e la fanciulla. Però, intanto, si lavora, grazie all’iniezione di fiducia che dà sempre un minimo fulcro su cui poggiare la leva. in sintesi: l’autofiction è una droga, tipo la mela nel cassetto di Schiller o i prodotti più pesanti di altri e meno sobri moderni. Probabilmente avrà la dinamica di dosi crescenti ed effetti descrescenti di tutte le droghe, però finchè la barca va, lasciamola andare.

  68. @buffagni
    non ho ben capito se lei cita il passaggio “nell’autofiction (…) personaggio qualsiasi?” attribuendolo a me oppure, in maniera corretta, a dfw. minuzie, perché la validità del suo intervento rimane intatta.
    infatti trovo molto pertinenti le sue affermazioni e le condivido, come “turista” dell’autofiction se la cava molto bene. in particolare, condivido la sua sottolineatura del carattere paradossale dell’autofiction, l’illustrazione del vicolo cieco. soprattutto questo:

    prima o poi, ci si accorge che lo statuto formale della narrazione la vince sempre, alla fine, come la vincono sempre l’armonia e la morte sulla melodia e la fanciulla.

    è giustissimo; difatti è un leitmotif autofittizio la constatazione lamentosa/disperata/mortalmente ilare della distruzione della vita ad opera della scrittura, quasi un maleficio irrinunciabile che promette sì una dimensione ALTRA (e anche su questo appoggio le sue argomentazioni, almeno nei termini generalissimi in cui le pone) ma nel frattempo distrugge la dimensione della vita concreta, tenuta sempre presente e a cui la pagina scritta tende e mira. parlare di una droga è possibile, sull’andamento della barca d’altronde è lecito porsi interrogativi. io stesso, nelle mie ricerche, ho tratto la conclusione provvisoria che l’autofiction sia, come in genere i paradossi ben riusciti, tanto forte nell’intensità quanto esiguo nell’estensione diacronica; in sostanza, che sia un genere a scadenza, che gli autori possano “reggerne” il peso teorico e gli strumenti per un numero limitato di libri. se ci fa caso, difatti, è da un paio d’anni che non si vedono tante autofiction in giro, o almeno a quanto ne so io. sarei molto lieto di ragguagli o correzioni in tal senso =)

  69. a L. Marchese.

    La prego di scusare se ho confuso una sua citazione con il suo intervento, e la ringrazio del consenso.
    Sono appunto un turista della teoria letteraria, e leggo pochi romanzi contemporanei. Però i problemi formali hanno una loro tendenza ostinata a presentare le stesse dinamiche, specialmente quando si tenta di sfondare la forma, di uscirne perchè non ci si crede più, o sta stretta, o si aspira a un salto di paradigma che non viene.
    (Questa è la lettura classica e non romantica del problema, secondo il detto goethiano “preferisco l’ingiustizia al disordine”).

  70. Per Donnarumma.

    Se dico di un tramonto che è “romantico”, questo è un uso traslato (e anche banalizzante) del termine; stessa cosa se, aggirandomi in un ministero, dico di trovarmi in una situazione “kafkiana”. Se invece dico di una coppia, o di una qualunque altra cosa, che è “moderna”, questo non è affatto un uso traslato del termine, perché con moderno s’intende semplicemente qualcosa che è diverso da prima, più attuale: quindi, nel caso, una coppia non più “casa e chiesa” come un tempo. Ciò dipende dal fatto che “moderno” è un concetto temporale applicabile a trecentosessanta gradi, non soltanto una categoria letteraria o artistica. Il precetto “bisogna essere assolutamente moderni” doveva valere sia nell’arte e nella letteratura sia nella vita. Questo il suo significato “forte”. A un certo punto – a partire dalla fine dei settanta (ci fu anche un libro di Lyotard, peraltro non memorabile) – si diffonde nella cultura occidentale un sentimento del “post”, che in fondo non è nient’altro che la stanchezza, la rinuncia, a tenere tesa la corda della innovazione – quindi del moderno – in tutti i campi. Mentre un termine come “postindustriale” si riferisce a qualcosa di preciso (e oggi ne vediamo tutte le conseguenze, per esempio con la finanziarizzazione dell’economia), “postmoderno” è sostanzialmente un termine vuoto, perché il moderno ha in sé il suo “post”; e il clima postmoderno non fu altro che una spia, un sintomo culturale di una stanchezza del moderno. Ora, se nell’arte e nella letteratura c’è un cambiamento di clima, non è altro che il moderno a ritornare… Spero di avere chiarito. Ciao.

  71. A mio modesto avviso.
    Quando si parla tanto di una cosa, la si invoca, la si ribadisce, etc., vuole dire che quella cosa non c’è più. Vedi l’amore quando due amanti si rimpallano i “ti amo” con un ritmo da ping pong, vedi la morale al tempo dell’Imperatore Augusto che la invocava e la imponeva con leggi di severità draconiana, etc.
    Così per il realismo, il moderno, il postmoderno (continua).
    La vera novità di questi anni è che non c’è più novità, vale a dire che per la prima volta nella storia dell’umanità una civiltà (la nostra) non solo non ha la più pallida idea di che cosa ci sta a fare al mondo, ma non se ne vergogna neanche, e non si dà la pena di inventarsi qualche mito, qualche scusa, qualche balla per giustificarsi.
    “Ci sono perchè ci sono” (chi mi ricorda questa frase?) “Funziono perchè funziono” “Esisto perchè nient’altro esiste”.
    Effettivamente, è grossa.
    E con questa mossa spiazzante – altro che cavallo – la detta civiltà ti frega anche i poveri romanzieri, che per tanto tempo sono campati, modesti rentiers, sul temino individuo/mondo, universale/particolare, e altre anticaglie. Via, tutti esodati. Nel frattempo, si arrangiano coi lavoretti, rovistano nei cassonetti, costruiscono cattedrali di fiammiferi, fanno i casalinghi…

  72. Il commento di Roberto Buffagni del 25 novembre, ore 11,49, e quello del sottoscritto, del 23 novembre, ore 11,32, dicono esattamente la medesima cosa, benchè in termini diversi – più apocalittico io, più sarcastico (e forse anche più distruttivo) lui.
    Questo mi consola e mi abbatte. Consola perchè è bello trovare interlocutori che parlino la stessa lingua; abbatte perchè la lingua in questione non è latrice di buone novelle…

  73. a E. Macioci.

    In effetti, diciamo la stessa cosa. Non me n’ero accorto perchè, impegnato di là (Letteratura e Giustizia 4) in una battaglia all’ultimo sangue su matrimoni e adozioni omosessuali in cui solo contro tutti come Tex Willer sostenevo posizioni reazionarie, non ho avuto il tempo di leggere per intero questo thread che pure mi interessava, e ho solo buttato un occhio qua e là. Me ne scuso.

    Da reazionario, io ho fiducia nella forma, che dai e dai, alla lunga vince sempre lei; e insieme a lei, senza bisogno di aggiornamenti all’hardware o al software, il vecchio uomo.
    Anche l’io, un bel dì, rimetterà fuori la testa dopo il lungo letargo, forse quando ci accorgeremo che vivere così è anche più impossibile del necessario; e questo Coso Invincibile che ha “spezzato il cuore del mondo”, come diceva Hegel dell’impero romano (lamentandosi del brodo grasso) ci apparirà per quel che è, un himalaya di chiacchiere a vuoto.

  74. @Donnarumma: “castrante”, adesso… Non c’è il rischio, si vede a occhio.

    Per quanto riguarda le altre obiezioni, anche se fossero tutte azzeccate, resto il nocciolo su cui sono d’accordo con Genovese. Non si può parlare di un fronte d’onda che procede su un oceano congelato. (questo lo dico solo per prendermi anche dell’orfico e dell’oracolare, sia chiaro ;)).

  75. e comunque illuminismo e barocco non cristallizzano cronologie, ma caratteristiche collocate NELLA cronologia dei fatti culturali. Precisazioni simili potrebbero seguire su tutto, però, vedi, non si finirebbe più. Grazie dell’articolo e anche della risposta.

  76. A Raffaele Donnarumma, Enrico Macioci, Roberto Buffagni.

    Mi trova molto d’accordo con le considerazioni di valore generale sull’importanza di quello che lei chiama ipermoderno in contrapposizione al “galateo delle lettere” del postmoderno. Ciò non toglie che sia, se non più preciso, certamente più economico chiamare tutto questo un “ritorno al moderno”, come vuole Genovese; oppure e ancora meglio, come vuole Luca Cristiano – che in questo, mi sembra, lei ha frainteso completamente -, trovare una categoria che finalmente descriva i fenomeni con una semantica “piena”, com’è quella, per quanto inevitabilmente vaga, di Illuminismo e Romanticismo. Mi trovo molto d’accordo anche sulla primitività del meccanismo autofinzionale.
    Per quanto riguarda il lettore medio, è certamente un fantoccio su cui ha gioco buono p. es. l’anima mercenaria dell’editoria e della comunicazione (“il pubblico vuole i reality”), ma questo non vuol dire che l’accademia debba rispondere con un gioco al rialzo. Se mio papà, che è laureato in Giurisprudenza e fa il cancelliere, mi venisse un giorno a raccontare d’aver letto un’autofiction in cui viene trattata in maniera interessante l’opposizione reale/fittizio, credo che mi preoccuperei anziché consolarmi. Forse ho un’idea troppo grossolana e ruspante, ma mi pare che abbia ragione Macioci quando sostiene che i problemi che la letteratura deve affrontare sono altri che non il gioco intellettualistico sul tema del fittizio.
    Poi però Macioci insieme con Buffagni ricominciano con la filastrocca che siamo postumi. Ma come, scusate? Ma allora di che stiamo parlando? Io sono nato nel 1991, vi pare il modo? Basta leggerla la lettera del Veggente per rendersi conto che è tutto fuorché una sentenza di morte, ma tant’è! Mi permetto di segnalarvi uno scritto di Moresco che è purtroppo di difficile reperibilità, ma che andrebbe letto prima di fare qualunque discussione sull’Io, secondo me. Si chiama “La freccia”, sono una decina di pagine, è contenuto nel libro “L’almanacco 2003. Il romanzo dell’io”, Ed. Portofranco, Torino, 2004. Tutti quelli che dicono che l’io non esiste non si rendono conto che ogni pappa scende nell’esofago imbevuta della nostra saliva, che è impossibile il contrario e che è altrettanto impossibile fare a meno dell’io, per lo stesso ordine di motivi.
    Tornando a Donnarumma, riguardo al nodo problematico. Io lo so benissimo che Raffaele Donnarumma il poema epico-didascalico in versi barbari di mio cugino lo legge senza pregiudizi. Il problema è che Raffaele Donnarumma non è l’unico critico né l’unico lettore italiano e che invece le idee sull’ipermoderno di Raffaele Donnarumma sono pubblicate su riviste che sono lette anche da tanti mediocri che se ne lasciano investire come da un’autorità. Il problema è che le idee di Raffaele Donnarumma vengono a poco a poco pastorizzate per il dibattito giornalistico, diventano da idee formule e da formule dogmi, ed ecco perché Moresco c’ha messo quindici anni a pubblicare un libriccino e perché il poema epico-didascalico in versi barbari di mio cugino lo leggerà se va bene Raffaele Donnarumma. Ma non ci possiamo affidare all’acume e al buon cuore di Raffaele Donnarumma perché trovi il tempo di scriverci un articolo sopra!

  77. Un po’ di fretta, e senza rileggere:

    @ Dfw vs Jf
    Le ha di nuovo risposto Marchese. Che ci devo fare se mi batte sul tempo. Poi scusi: ma quello che lei dice con l’autofiction non ha molto a che fare con quello che ne ho scritto io.

    @ Macioci, Buffagni
    Trovo del tutto coerente che a un saggio sull’ipermoderno si oppongano i topoi più consolidati della cultura postmoderna, tipo: siamo postumi, o non c’è più nessuna novità. In questo, la cultura postmoderna rappresenta per me una salutare ventata di aria fresca. Mi pare sia stato detto abbastanza, già in passato, sul carattere ideologico di quegli assiomi. Non voglio insinuare che il loro significato è, in larga misura, consentire a chi li pronuncia di accreditarsi in una postura intellettuale (anima bella, coscienza infelice, vate, oracolo di Arimane, Geremia che geme su inesistite Gerusalemmi). Ma sono stupefatto di una così decisa apostasia dal buon senso: se va bene, le profezie o i verdetti da Domesdaybook hanno l’inutile splendore della metafisica; ma se sono mantra portasfiga…

    @ Macioci
    Se dandomi del matematico vuol dire che le sembro cartesiano, cioè che cerco di trarre idee chiare e distinte dal bailamme, sì, mi ci riconosco abbastanza (anche se ai due assi planari preferisco quelli in 3D). Quella storia del frammentare e del «l’abbiamo inventato noi!», invece, non ha nulla a che fare con le mie intenzioni.
    Veramente, non ho detto che si può [= è lecito, fate pure!] ignorare tranquillamente Joyce: ho detto che lo fanno, e che questo, aggiungo, non implica nulla sul risultato che ne consegue. Immagino che la cosa più dura da digerire (non solo per lei, ci mancherebbe: e non se la prenda) è che uno si sforzi di farsi delle idee chiare, ma che non sacrifichi a quelle tutto e non le trasformi in misura irrevocabile del mondo. Le fa così specie che uno cerchi di conservarsi libero persino da sé, e curioso di fronte a quello che accade e può accadere? Ah, già, dimenticavo: non può più succedere nulla. Tutto tutto già si sa (L. Da Ponte). R.I.P.
    Non ho capito, invece, cosa ritiene sia più importante dell’autofiction (e non dico affatto che riporti la letteratura nella letteratura). Chissà, magari sono pure del tutto d’accordo: in un saggio di 36 pagine sull’ipermoderno ne ho dedicate all’autofiction 10: non 36.
    Gli abissi, le catastrofi, l’apocalisse, le maledizioni, le autoimpiccagioni… Fortuna che anche lei, ogni tanto, non ci crede.

    @ Genovese
    Se moderno è un concetto temporale, allora si può anche dire che gli alessandrini sono più moderni di Fidia, i gotici più dei romanici (e infatti, il termine è già attestato in Dante e Petrarca), Lady Gaga più di me. Ma forse non è particolarmente produttivo, e comunque non è il senso che mi interessa. L’essenzializzazione delle categorie rivela la loro forza egemonica: ma io preferisco concedere ai concetti (quindi, alle parole) credito il più possibile fondato, e limitata procura. Più che un concetto temporale, per come lo usi, moderno è del resto un criterio valutativo e un imperativo categorico: onestamente, ne faccio volentieri a meno. In arte, sono un ultrà del modernismo; ma la filosofia della storia che la modernità ha espresso non è la mia.
    Quanto a postmoderno, sono d’accordo sulla sostanza (si è trattato di un’ideologia), ma non sul fatto che si tratti di un termine vuoto (come vuoto? è pieno di un sacco di cose spesso incondivisibili, ma interessantissime!) e neppure sull’argomentazione: è come se si volesse combattere il nazismo dicendo che i nazionalsocialisti non erano socialisti proprio per nulla. Certo certo, però…

  78. A tutti quanti, ma soprattutto Donnarumma
    (ci siamo incrociati al convegno trentino sull’editoria giusto un anno e qualche giorno fa, dov’ero conferenziere “junior”)
    intanto grazie per il testo che mi sembra, nella sua direzione teorica, ampiamente condivisibile e stimolante.
    Condividendo appunto tanto il punto di partenza quanto l’approdo provvisorio, proporrei qualche suggestione ulteriore, siccome questo tuo (direi quasi eroico) lavoro di cartografia del contemporaneo non può che acquistare valore da un allargamento del “canone”, voire del corpus oggetto di analisi.

    Mi sembra che, per sintetizzare in altri termini, in ciascuno dei casi citati l'”ipermodernismo” sia il risultato di un’ibridazione massiccia di forme narrative o tardo postmoderne (Bolano e Wallace) o tendenzialmente tradizionali (diciamo pre-postmoderne) (Littell, DeLillo, Houellebecq) con uno o più dispositivi narrativi la cui apparizione o larga affermazione è perlopiù recente (venti/quindici anni): autofiction, reportage e – aggiungerei in termini che suoneranno clamorosamente fraschiani ma tant’è – despecializzazione del sapere.
    Premetto che non sono sufficientemente competente per dare un’analisi sistematica (non posso dire di aver letto ampiamente tutti gli autori citati), ma si fa quel che si può.

    (uno) il caso di Littell mi sembra particolarmente interessante, soprattutto per quanto riguarda il post-Bienveillantes. Le due tracce di poetica (almeno due) che – fuse meravigliosamente, diciamolo – hanno permesso l’exploit dell’opera prima sono molto più evidenti nella miriade di operine pubblicate poi. Una è il reportage (Tchétchénie, an II, Un enfer très ordinaire, The invisible enemy, Carnets de Homs e, per certi versi Tryptique), l’altra deriva dalla fortissima influenza (teorica) di gente come Bataille e Blanchot, che porta ai vari Etudes, Pièce sur rien, En pièces, Une vieille histoire e, per certi versi, ancora Tryptique. Vengo al punto: da una parte c’è una letterarietà purissima e un grosso valigione di teoria letteraria considerata tra le più astratte e meno utilizzabili che siano, dall’altra reportage abbastanza classico ma sconfinante nell’autofiction (perché in Francia ci vuol poco). Volendo si possono aggiungere Le sec et l’humide e l’inchiesta sui servizi segreti russi (The Security Organs of the Russian Federation) e abbiamo anche la despecializzazione. Tutte cose che c’erano già nelle Benevole, ma assai ben nascoste dall’elaboratissima costruzione romanzesca, quindi finzionale, dall’allusivo bilinguismo autofinzionalizzante di Max Aue (sarebbe interessante leggere le Benevole sostituendo la germanicità di MA all’americanità semirinnegata di JL, non credo sia stato fatto), alle pagine di teoria linguistica dell’Europa nazista a venire delle conversazioni von Voss, ai numerosissimi passaggi in cui, fondamentalmente, Max Aue non ci ha proprio niente da fare lì dov’è, però, quasi giornalisticamente, guarda s’informa (tutti gli rispondono) e rendiconta al lettore. Ancora, tra libri rimossi che riemergono dalla biblioteca delle Benevole, Männerphantasien di Theweleit funzione come trattato di poetica del romanzo stesso: Littell lo fa sempre, mancando ai nostri giorni critici prescrittivi o normativi (!), prende opere appartenenti a altre discipline (o a nessuna) e li capovolge trasformandoli in trattati di poetica.

    (due) nel campo autofiction/reportage non potrebbe forse rientrare anche Emmanuel Carrère? C’è più o meno tutto, con in più il tentativo (spesso piuttosto riuscito) di rendere tramite lo strumento del reportage (quindi con documenti “esposti” al lettore, etc.) non tanto la pura testimonianza (interessante anche nei suoi risvolti agambeniani ma come abbiamo visto, per esempio, nel Saviano post Gomorra, abbastanza destinata all’esaurimento) ma piuttosto le esistenze private e intime di individui più o meno noti, di comunità bizarre, i. e. Adversaire, Un roman russe, D’autres vies que la mienne e Limonov.

    (tre) Scusate, sarà anche per colpa delle strenne editoriali, ma rispetto all’autofiction peninsulare, che ce ne facciamo di Busi? Non si potrà mica dire che Seminario sulla gioventù era (o è) un romanzo postmoderno. E nemmeno El especialista de Barcelona. Non c’è mica bisogno di citare i titoli nel mezzo vero?
    Grazie

  79. Caro Gerace,
    personalmente non credo che siamo postumi. I problemini dell’io non dipendono dall’io, che non sparirà mai, nè dal mondo, che continuerà ad esistere.
    I problemini o problemoni nascono nel rapporto tra io e mondo, il quale non è sparito perchè non può sparire; ma viene oggi pensato e proposto/imposto, dalle nostre parti, in forma contrattuale, come se prima di nascere e morire firmassimo il consenso informato.
    A me sembra un po’ poco.
    Mi sembra anche che, generalissimamente parlando, di qui vengano i danni e dubbi collaterali dei quali si lamentano letteratura e letterati.
    Il che non vieta di scrivere romanzi anche belli. Il suo Moresco, per esempio, che apprezzo anche io, mi pare cerchi di scrivere senza fingere che il problema suddetto non esista, e anzi prendendolo di petto. No?

  80. Purtroppo ogni tanto il nostro filtro antispam, necessario per bloccare centinaia di commenti-spazzatura, cattura anche per errore qualche commento che spam non è. E’ il caso di quelli di Tommaso Melilli e Raffaele Donnarumma (l’ultimo). Sono stati sbloccati e pubblicati stamattina. Ci scusiamo per l’inconveniente.

  81. Caro Donnarumma,
    andiamo tutti di fretta, ma guardi che io non dico che moderno, ipermoderno, postmoderno non vogliono dir nulla e sono etichette vuote.
    Va benissimo, è indispensabile classificare sennò non si capisce più niente.
    Dico solo che mentre Illuminismo/Romanticismo etichettano un’opposizione dialettica reale, alla quale corrispondono anche filosofie, politiche, ceti sociali, prospettive, scontri sul campo di battaglia, etc., Moderno/Postmoderno/Ipermoderno, no. Non è mica colpa sua.

  82. @ Marchese

    grazie per la risposta. io sono decisamente scettico. se lo scrittore scrive un’autobiografia come se stesse scrivendo un romanzo, sta scrivendo un romanzo. che il protagonista sia lui stesso e che ciò lo induce a credere di poter raggiungere una verità che prima non poteva è un convincimento personale dello scrittore, un effetto placebo autoindotto. va benissimo, non è che non mi piaccia l’autofiction, ma noi che la giudichiamo dobbiamo decidere se permette cose che il romanzo non permette. e io ancora non vedo dove stia la differenza sostanziale.

    dice Donnarumma, il nodo sta nel reintrodurre in letteratura la distinzione reale/fittizio, o che l’autofiction gioca deliberatamente. ma questo dannazione è prendersi in giro da soli. significa credere che la forma sia sostanza, il che può avvenire in musica, ma in letteratura com’è possibile?

  83. @ roberto gerace

    La Lettera del Veggente non la interpreto affatto come una sentenza di morte, anzi! Per me è il testo più importante della critica moderna. Vi s’inaugura un modo nuovo di scrivere, partendo dall’ascolto, e vi si dice che l’ascolto è un dialogo non “egoista”. Il problema sta nell’essere all’altezza di quelle intuizioni; e invece ancora parliamo dell’ego che parla dell’ego che finge di non essere quell’ego che parla dell’ego che però non sarebbe proprio lui ma un altro ego un po’ diverso da lui però non troppo, eccetera eccetera.
    Su Moresco concordo con Lei: è un autore che osa.

    @ donnarumma

    “ho detto che lo fanno [ignorano Joyce o chiunque altro], e che questo, aggiungo, non implica nulla sul risultato che ne consegue.”

    A me questa sembra, detta per giunta da un critico, un’affermazione sconcertante. Le pongo una domanda: se qualcuno oggi scrivesse un libro a proposito di un’entità naturale (marina o meno) crudele e invincibile si potrebbe prescindere, nella valutazione del libro, dall’esistenza, dalla pre-esistenza di Moby Dick? E seppure l’autore del libro giungesse a risultati eccelsi ignorando l’esistenza di Moby Dick (non senza averlo letto, bensì ignorandone proprio l’esistenza), il ritardo di quasi due secoli rispetto a Melville non conterebbe nulla? Intendo il ritardo in termini essenzialmente cognitivi – e cioè l’angolazione da cui Melville esplora l’enigma del mondo e il Male, un’angolazione che ha contribuito a forgiare l’immaginario in cui pure il fantomatico scrittore di oggi si muoverebbe; angolazione che si traduce giocoforza in cifra estetica. Vale a dire (e con questo estendo il discorso pure all’autofiction): ce ne possiamo davvero fregare dei secoli e dei millenni anteriori? Qui forse possiamo iniziare a capirci. Perché se è tutto un gioco più o meno cieco, se io oggi posso scrivere un romanzo ignorando Kafka o Proust, una poesia ignorando Celan, un trattato di filosofia ignorando Nietzsche, o dipingere un quadro ignorando Van Gogh o Max Ernst, allora è un conto; ma se la storia ha un senso, se la dissoluzione dell’io iniziata a fine ottocento e maturata durante l’intero novecento ha un senso, se queste catastrofi artistiche (Lei mi prende in giro, ma a me sembrano davvero catastrofi che coinvolgono non solo i singoli individui bensì proprio le categorie del pensiero), dicevo se queste catastrofi artistiche hanno un senso, allora è un altro conto. Capire di essere postumi è il primo passo per non esserlo più. La postura postuma può benissimo mascherarsi da quella libertà che Lei gioiosamente rivendica; ma perfino la psiconanalisi ci ha insegnato che ci si libera davvero solo da ciò che si è risolto, non da ciò che si è rimosso. “Non può succedere nulla”, mi fa dire Lei. Può succedere tutto, e in gran parte è già successo, dico io. Basta aprire gli occhi.

    “Non ho capito, invece, cosa ritiene sia più importante dell’autofiction.” Veramente pensavo d’averlo detto e ridetto… Comunque il problema non è l’autofiction; è legittimo studiarla e ci mancherebbe altro. Il problema sta nel farne una nuova branca, qualcosa che ci stupisce o che dovrebbe farci aguzzare lo sguardo, mentre è l’estremo prolungamento (che può certo raggiungere risultati notevolissimi) di qualcosa che mi sembra abbia esaurito forza vitale, una smorfia elegante e iperconsapevole insomma, però pur sempre smorfia.

    Ps: 10 pagine su 36 non sono comunque poche; dovrò procurarmi il Suo saggio e leggere il resto.

  84. leggendo l’ultima piega presa dalla discussione, mi convinco sempre più che ci stiamo avvicinando a un nodo importante. Si è passato dal discutere di opere singole a riflettere, più ampiamente, sul senso e la direzione di letteratura e società, sul valore del creare una specifica forma espressiva, insomma, sull’arte più in generale. Credo che rispondere nel merito alle ultime obiezioni di dfw, macioci e altri presupponga una diversa prospettiva su cos’è l’arte, su quale sia la sua fisionomia e il suo rapporto con l’esistente; non è possibile affrontare la questione senza una filosofia dell’arte, un’ESTETICA, che vedo concepita in maniera abbastanza diversa, per dire, in me e in altri commentatori. per esempio, noncondivido l’idea di “catastrofi artistiche” che macioci propone; cioè, capisco cosa intende, perché è una prospettiva interessante e già proposta a suo tempo, per dirne uno, da ferroni (nel libro Dopo la fine, del 1996). ma mi pare una visione utile per dire “Après moi, le déluge”, o al suo meglio (come, credo, in Macioci) per darsi una spinta poetica, percrearsi un fondo immaginario volto a darsi lo stimolo per risalire e fare arte, per giustificare una propria visione della letteratura.
    perciò, indubbiamente, è una “postura”, che si può assumere o meno; non qualcosa che implichi l’esistenza oggettiva di catastrofi. in arte, le catastrofi non esistono, perché non esiste una fine, un’apocalisse; l’arte finirà con l’uomo. è chiaro che parlo avendo in mente la filosofia dell’arte di Adorno, e più in generale la storia della letteratura. quante volte si è parlato di catastrofi, e quante volte, in proporzione, si è smesso di creare, di pensare?
    discutere di presupposti di estetica è arduo, e una discussione su di essi non si può risolvere nel breve giro di una conversazione su blog. sono dubbioso che si possa fare, ancor di più se si mira, fra dialoganti, ad arrivare a una risoluzione, a una definizione univoca. tuttavia trovo molto bello che si cerchi di farlo.
    fatto il noioso preambolo, rispondo ai singoli:

    @dfw:
    è curioso che, nei suoi tanti interventi, lei manifesti un atteggiamento abbastanza “inclusivo”, poco incline ad eccessive distinzioni, separazioni, recintazioni nell’esercitare la critica letteraria, e nel contempo scriva:

    -io sono decisamente scettico. se lo scrittore scrive un’autobiografia come se stesse scrivendo un romanzo, sta scrivendo un romanzo. che il protagonista sia lui stesso e che ciò lo induce a credere di poter raggiungere una verità che prima non poteva è un convincimento personale dello scrittore, un effetto placebo autoindotto. va benissimo, non è che non mi piaccia l’autofiction, ma noi che la giudichiamo dobbiamo decidere se permette cose che il romanzo non permette. e io ancora non vedo dove stia la differenza sostanziale. –

    Così facendo, presuppone di fatto che il romanzo sia una categoria fissa e abbastanza ristretta, ma la storia letteraria ci dice che non è così. il romanzo è la forma più estesa nel tempo (dai greci ad oggi, se la prendiamo alla larga!) e più onnivora che esista. con la forma romanzo si è fatto di tutto, e soprattutto si è assimilata quasi ogni altra forma di scrittura; l’epistola (romanzo epistolare), le scritture dell’Io come diario, memoirs, autobiografia (romanzo autobiografico; genere in cui un autore presenta un personaggio inventato racconta la sua vita). insomma, quello che le voglio dire è che, se c’è una cosa che la categoria dell’autofiction potrebbe insegnarci, è che il romanzo può “permettere” ben più di quello che credevamo finora- ne riafferma cioè la capacità onnivora e mimetica. da questo punto di vista, non vedo neanche io differenze enormi. Se lo preferisce, può chiamare l’autofiction “romanzo autofinzionale”: non credo sia un problema insormontabile, anche io penso l’autofiction sia molto più romanzo che autobiografia- a condizione di non intendere due categorie come due blocchi di granito.

    ancora, lei scrive:

    -dice Donnarumma, il nodo sta nel reintrodurre in letteratura la distinzione reale/fittizio, o che l’autofiction gioca deliberatamente. ma questo dannazione è prendersi in giro da soli. significa credere che la forma sia sostanza, il che può avvenire in musica, ma in letteratura com’è possibile?-

    sì, si tratta di un convincimento personale dello scrittore, un prendersi in giro da soli; o, per usare un’altra espressione analoga e più tecnica, una scelta di poetica. non ci vedo nulla di male, nella fiction, che deriva pur sempre dal latino “fingo”=costruire, edificare, immaginare, mentire, e via dicendo…
    inoltre, per me la forma è sostanza. almeno credo. mi spiega meglio la cosa della musica?

  85. @tommaso melilli

    (tre) Scusate, sarà anche per colpa delle strenne editoriali, ma rispetto all’autofiction peninsulare, che ce ne facciamo di Busi? Non si potrà mica dire che Seminario sulla gioventù era (o è) un romanzo postmoderno. E nemmeno El especialista de Barcelona. Non c’è mica bisogno di citare i titoli nel mezzo vero?

    su Busi ho lavorato, esaminandolo alla luce anche di certe prospettive narratologiche di cui stiamo parlando. se la cosa le interessa, le posso mandare un mio scritto via mail: non vorrei appesantire il discorso, che è già molto, molto vasto e impegnativo, come rimarcato qui sopra.

  86. @ lorenzo marchese

    RingraziandoLa per i toni sempre cortesi e la pregnanza delle Sue argomentazioni, replico.
    Lei afferma che la mia “è una postura, che si può assumere o meno; non qualcosa che implichi l’esistenza oggettiva di catastrofi. in arte, le catastrofi non esistono, perché non esiste una fine, un’apocalisse.”

    Ho molti dubbi. Viviamo un periodo storico drammatico, composto di vuoto, in cui al centro di tutto s’è installata l’economia, che ci succhia il sangue da mane a sera: questo mi sembra esattamente il risultato (e assieme il fraintendimento) di quelle catastrofi. Se Nietzsche ha messo radicalmente in discussione – dall’interno cioè – la filosofia, se Rimbaud ha messo radicalmente in discussione l’io lirico occidentale, se Einstein ha messo radicalmente in discussione la fisica, se Freud ha messo radicalmente in discussione la religione, se insomma costoro (e parecchi altri) hanno polverizzato le categorie con cui usiamo rapportarci alla realtà, a Lei sembra che tutto ciò non abbia avuto, e non abbia tuttora, enormi conseguenze pratiche, un’esistenza oggettiva? A Lei non sembra che il drammatico spaesamento psicologico/culturale che viviamo sia proprio il risultato di quegli “attentati”? Meglio ancora: del fatto che quegli attentati non abbiano trovato interpreti adeguati alla sfida? Io mi spingerei a dichiararmene certo, e dunque a dichiarare l’esistenza reale e oggettiva delle catastrofi – possiamo chiamarle diversamente: fratture, scarti, cosa cambia? Da cosa dobbiamo rassicurarci?
    Se non fossi certo di quel che dico assumerei di considerare la filosofia, il romanzo, la poesia e il pensare in generale alla stregua d’entità astratte, di “giochi” cioè; mentre li sento aguzzi, acuminati. In ogni caso non penso a una fine assoluta, solo alla fine di certe modalità d’interpretazione, di linguaggio e decifrazione del mondo. Soprattutto di linguaggio, credo.

  87. @ Cristiano
    Dipende dall’occhio.
    Grazie a te per la pazienza (ma all’obiezione di Genovese ho risposto sopra, e qualcosa aggiungo sotto).

    @ Gerace
    Ma io NON voglio affatto parlare di un semplice «ritorno al moderno». Moderno, poi, ha una semantica anche troppo piena. Non mi pare che qui siano emerse idee non dico migliori, ma altre rispetto a ipermoderno.
    Quanto ai giochi intellettualistici: e da quando in qua è una superfetazione da snobboni capire se uno dice la verità o conta balle?
    Al momento, non sono stato pastorizzato da alcuno: preferirei, in ogni caso, essere parzialmente scremato. Il fatto che qualche bischero possa iniziare a usare ipermoderno come un’etichetta da bignami, non implica che la categoria sia in sé bischera. Così come il fatto che i Maestri cantori fossero l’opera preferita di Hitler mi fa venire i crampi allo stomaco, ma alla fine non mi impedisce di cantare con trasporto Morgenlich leuchtend im rosigen Schein.

    @ Melilli
    Grazie. Mi rendo conto che quando sono d’accordo ho poco da aggiungere. Meglio per chi ci legge. In breve:
    a. Littell è uno degli autori ipermoderni più interessanti, precisamente per i motivi che metti in luce così bene. Le Benevole sono uno dei casi più straordinari di romanzo che, spezzato il legame con la historical metafiction postmoderna, ereditano sia la tradizione modernista, sia quella realistica (con in più vari tratti del panorama che traccio sopra, come l’Icherzählung, la poetica testimoniale – fittizia -, o lo spazio concesso al documento);
    b. certo che sì: io ho letto solo l’Adversaire, e se non lo cito è per pura distrazione;
    c. su Busi sono in difficoltà, anche perché ho l’impressione che sia un po’ cambiato dagli esordi. Però non mi azzardo a dire nulla di più: non l’ho studiato con la dovuta attenzione.

    @ Buffagni
    Meno male. Però:
    a) non credo sia esattamente vero che «Moderno/Postmoderno/Ipermoderno» non corrispondano a «opposizioni dialettiche reali» e a distinti «filosofie, politiche, ceti sociali, prospettive, scontri sul campo di battaglia». Per esempio, il postmoderno ha coinciso con lo strutturalismo, la decostruzione o (in Italia) il rifiuto dell’impegno: cose che oggi non si portano più (ha visto tutto il dibattito filosofico sul «nuovo realismo» di cui è promotore Ferraris? o quanto vada di moda, per gli intellettuali e gli scrittori, schierarsi su temi della vita pubblica?);
    b) non è detto che ci sia per forza un allineamento, e che i mutamenti culturali siano prodotti da mutamenti strutturali. Che cosa ci impedisce di pensare che l’ipermoderno e il postmoderno siano le risposte diverse a uno stato del mondo che è, in sostanza, lo stesso?
    La furia è una delle piaghe di internet: a caldo mi piacciono solo il caffè o gli spaghetti. Per pensare ho bisogno di intiepidirmi e di prendere tempo.

    @ Macioci
    Capisco di sconcertarla. Lei ha infatti un’estetica rigorosamente normativa, visto che ha introietatto il diktat neppure modernista, ma moderno del progresso (e, per converso, l’angoscia del «ritardo»): il risultato può essere, in maniera del tutto consequenziale, disforico, epigonale o paralizzante. Io sono privo di norme, non difendo poetiche, e guardo quel che succede: sarei un critico e soprattutto uno storico della letteratura non sconcertante, ma davvero disastroso se stessi lì con la matita rossa e blu a castigare chi non ha aggiornato le sue brave bibliografie. Ergo: continuo a pensare che uno possa ignorare o rimuovere Joyce, e scrivere cose degnissime. E poi, mica mancano i casi storici: Dante ha avuto la sfrontatezza di architettare un poema narrativo ignorando Omero (che per di più ha la faccia tosta di far apparire nel Limbo); Chaucer ha ideato i Canterbury Tales senza andarsi a veder prima il Decameron; Racine ha scritto tragedie facendo come se Shakespeare non fosse mai nato; Mozart pare prendesse sottogamba Bach (Beethoven, invece, si dice lo considerasse esplicitamente un tedioso parruccone); eccetera. Voglio spingermi più in là: non escludo nemmeno che oggi un filosofo (cioè un professore di filosofia tenuto per contratto a conoscere la storia della filosofia) possa pensare grandi cose ignorando deliberatamente Nietzsche. Il quale, del resto, non è che citi poi così spesso Hegel.
    Le vie della storia sono piuttosto tortuose: esistono, certo, ma a differenza di lei io non ho le idee così chiare su qual sia la loro direzione e il loro senso. Quanto alle catastrofi artistiche: scusi, non capisco perché catastrofi. Per me Schönberg o Picasso o Joyce han fatto dei patapùmfete meravigliosi.
    È già successo gran parte del tutto? Diamoci appuntamento qui il 26 novembre 2112, e riparliamone. Spero che, almeno allora, non mi darà del lei usando la maiuscola.

    @ Dfw vs Jf
    Mi deve proprio scusare, ma non saprei cosa risponderle: lei si tiene troppo sul vago.

    @ Marchese
    Onestamente, credo che non ci sia nulla di più calamitoso che discutere a suon di commenti a un post «sul senso e la direzione di letteratura e società, sul valore del creare una specifica forma espressiva, insomma, sull’arte più in generale». Io non sono in grado: passo.

  88. Risponderle adeguatamente, caro Macioci, richiederebbe delle competenze che non ho la presunzione di ritenere mie. Posso soltanto replicare con qualche notazione epidermica, perché non ho ancora ben studiato la teoria della letteratura, né gli autori che lei cita (Einstein mi è praticamente ignoto). Premetto che, per me, cambia molto fra dire “scarto” e dire “catastrofe”; il secondo termine presuppone un’idea, a mio avviso, dogmatica del modo di analizzare la storia letteraria- e in senso più ampio la storia culturale, che non mi appartiene. Ma andiamo più nei dettagli.
    Per esempio, non riesco a trovare il nesso causale forte, che lei nel suo discorso sembra porre, fra “vuoto” del periodo storico drammatico e onnipotenza dell’economia (intende la finanza/ il mondo delle banche, per caso?) ed esponenti di un pensiero critico negativo. Insomma, non ho capito se lei mi vuole dire che sono stati i maestri del sospetto (Nietzsche, Freud) a determinare la catastrofe oggettiva, evidente e ricadente negli effetti della vita di noi tutti, di cui stiamo scontando gli effetti. E Rimbaud (autore che pure amo molto) sarebbe da solo riuscito a scuotere alle fondamenta l’io lirico occidentale da solo, sì da impedire a qualsiasi poeta dopo di lui di usare un io lirico non intaccato da un processo di distruzione? A me sembra un po’ troppo per una persona sola,creare una critica del sistema talmente radicale da non aver trovato ancora persone in grado di raccogliere la sfida, tanto più che dopo i nomi che lei cita le diverse discipline NON si sono esaurite. e in un ipotetico gioco dei nomi, al Rimbaud distruttivo potrei contrapporre tanti altri nomi che all’io lirico ci credevano assai (gli ermetici in italia? i primi che mi vengono); a Nietzsche tanti filosofi credenti e non, a Freud Jung.
    Tenderei piuttosto a ribaltare i termini della questione: certi autori hanno reagito agli eventi del loro tempo (densi di fratture, scarti, eventi visti come catastrofi, ecc.) effettuando una radicale messa in discussione delle categorie della loro disciplina di studio, da loro sentite come inadatte e in certi casi inadatte per davvero -ma non sempre, alla prova della posterità-.
    terminata la parte distruttiva =), è buffo pensare che invece sulle considerazioni finali, più incentrate sul mutamento in atto e sul ruolo giocato da letteratura e filosofia, mi trovo assolutamente d’accordo. in particolare con questo:

    Se non fossi certo di quel che dico assumerei di considerare la filosofia, il romanzo, la poesia e il pensare in generale alla stregua d’entità astratte, di “giochi” cioè; mentre li sento aguzzi, acuminati. In ogni caso non penso a una fine assoluta, solo alla fine di certe modalità d’interpretazione, di linguaggio e decifrazione del mondo. Soprattutto di linguaggio, credo.

    è anche la mia posizione.

  89. @lorenzo marchese

    Provo a risponderle (è chiaro che si parla oramai di questioni potenzialmente infinite).

    Sulla faccenda dell’economia cito alcune parole d’un acuto pensatore, Maurice Bellet, teologo, filosofo e psicanalista: “Forse ci troviamo in un’epoca originale, in cui non compaiono un’ideologia o una religione che si impongono a tutti, con il loro apparato di potere, il loro linguaggio, la loro autorità in materia di pensiero e di costumi. E tuttavia, nulla dimostra che la funzione maggiore [ovvero un punto d’equilibrio che permetta alla collettività di vivere in un certo ordine che la risparmi al contempo dal caos e dall’oppressione] sia sparita: mi sembra che sia stata ripresa da quella che con un termine perfettamente equivoco chiamiamo economia. […] La si può intendere nel senso stretto del termine, come ciò che riguarda la produzione e la distribuzione di ricchezze. Ma in senso lato, secondo me, essa interpreta il ruolo di funzione maggiore per il fatto che sono sparite quelle che vengono definite le ideologie.”
    Mi sembrano parole condivisibili; e la dissoluzione delle ideologie è stata giustappunto provocata da tutta una serie d’eventi moderni decisivi, accaduti in ogni ambito, dalla poesia alla filosofia, dalla medicina alla scienza, dalla pittura al romanzo. Se dimentichiamo certi ospiti scomodi prima d’averli davvero congedati, il risultato è un mondo vuoto ovvero solo economico – del resto il mondo potrebbe passarsela benissimo, e io potrei viceversa essere affetto da una delle numerose malattie che mi appioppa Donnarumma, paralisi, epigonismo, angoscia da ritardo, disforia, spietati diktat ecc., il che spiegherebbe la mia “estetica rigorosamente normativa”.

    Su Rimbaud il discorso sarebbe troppo lungo. Però i nostri ermetici non gli fanno neppure il solletico. Io credo che Rimbaud sia ancora oggi un problema non risolto, non solo per l’inedita novità del suo linguaggio ma anche per il suo silenzio che, se preso alla lettera, finisce dritto nel baratro del più atroce nichilismo. Del resto sembra che l’unica modalità d’avvicinamento a Rimbaud da parte dei poeti consista in una sorta d’angoscioso sgomento (pressoché identico sia in Luzi che in Zanzotto, tanto per citare solo due dei nostri più recenti); è significativo. Lei mi sa indicare un solo poeta successivo a Rimbaud che abbia “risolto” Rimbaud? Bastino qui due sentenze – opinabili, certo, ma imperiose. Renè Char: “Con Rimbaud la poesia cessa di essere un genere letterario.” Paul Valèry (autore agli antipodi di Char): “Tutta la letteratura conosciuta è scritta nel linguaggio del senso comune, tranne che nel caso di Rimbaud.” Mi sembrano affermazioni addirittura gigantesche, latrici di conseguenze inimmaginabili. Se ciò fosse vero anche solo in parte, i 140 anni che ci separano dalle Illuminazioni e dalla Saison sono ancora pochi. Intanto moltissime domande restano inevase.

    Quando infine Lei ribalta i termini della questione non La seguo molto; mi pare che dica le stesse cose che avevo detto io…E in fondo, dato che sfociamo più o meno dalle stesse parti, non è poi così strano.

  90. @ Marchese

    parlando di musica ho detto una cosa senza ragionarci, ma quello che intendevo è che la letteratura ha un significato extra-testuale, quindi la sua sostanza diventa anche, se non solo, ciò che dice. in forma di sonetto o di verso libero se racconto la mia vita, quella è.

    se parlo di me in prima persona o con un personaggio fittizio in mia vece, solo in teoria ho forme diverse, in pratica ho la stessa cosa, la mia vita. a questo punto abolirei anche le distinzioni tra autobiografia e romanzo, l’unica distinzione che faccio è tra cose avvenute e cose non avvenute, dunque fitcion o non-fiction, prese come due categorie ideali. una distinzione extra-letteraria tra l’altro.

    mi rendo conto che oltre al fatto che potrei dire cose campate in aria, faccio anche dei rilievi impertinenti in un discorso di critica letteraria, ma anche restando sul piano formale, l’assunzione di una poetica in letteratura comunque rimanda al significato del testo, e se per un autore può essere d’aiuto per il suo intento, l’autofiction non mi pare necessaria a priori per ogni intento che già il romanzo non possa esaurire come forma complessiva che racchiude il raccontare una storia.

    mmm, mi ci sono scervellato.

    @ Donnarumma

    fa niente, grazie ancora per le risposte

  91. A Roberto Buffagni.

    Adesso capisco meglio che cosa lei intendesse dire nel commento del 25 novembre ore 11.49 e mi scuso di averla fraintesa. Ha ragione, viviamo in tempi nichilisti e l’unica soluzione, a mio avviso, è leopardiana.
    Anche su Moresco ha ragione. Non c’è l’illusione del nuovo. Fra gli scrittori contemporanei, mi piacerebbe dire, è il più antico. Ma non c’è – non sto manco a dirlo a lei – la nostalgia sentimentale dell’età dell’oro.

    A Enrico Macioci.

    Anche con lei mi devo scusare per non aver colto appieno in precedenza. Certo, è vero, Rimbaud auspica proprio un dialogo non “egoista”. Moresco, nello scritto che mi permettevo di segnalarle, usa l’immagine dei vasi comunicanti: “io ho bisogno di abbassare il livello di questo io artificiale perché si possa allagare tutto.”
    Guardi, proprio non resisto a rileggerlo, gliene devo dare un brano che mi pare si accordi molto col suo discorso sull’ego, e che mi pare getti anche una luce potente e denudi questo fenomeno dell’autofiction:

    “Cos’è tutta questa pruderie culturale verso l’io, o la sua complementare smaterializzazione nel gioco orizzontale esibito di questi anni? I genitali, come qualsiasi altra parte separata del corpo o della mente, si possono pubblicamente esibire. Il tutto no, non si può! E’ imbarazzante, indecente. E poi fa soffrire! Questa disperata cabina di regia di miliardi e miliardi di cellule che vivono e muoiono mentre hanno l’insostenibile percezione di allontanarsi irresistibilmente le une dalle altre nel generale movimento di espansione del cosmo è come una piaga sempre aperta. Meglio allora il travestimento, anche se il povero corpo, la povera unità corporale-mentale che si dovrebbe continuamente travestire a seconda di esigenze poste dall’esterno e poi introiettate, continua a soffrire, come sempre, a invecchiare, a sognare, a impazzire, a morire. Niente da fare. Bisogna arrendersi all’evidenza, ci viene detto.
    Ma a me pare che l’evidenza non sia affatto evidente!”

    Poi volevo dirle un’altra cosa. Io solitamente apprezzo moltissimo i suoi interventi (p. es. mi ricordo che, in una discussione su Resistere non serve a niente di Walter Siti, il suo fu l’unico commento fra tutti che sarei stato pronto a sottoscrivere in pieno, virgole e a capo compresi), però ho anche io a volte l’impressione che lei adotti posture mistificanti. Non se la prenda se le dico così, ma non crede che il suo chiamare in causa catastrofi e condizioni postume sia come offrire il gancio a tutti coloro che, traumatizzati da una situazione simile, finiscono per autoparodiare la parodia del proprio ego? Secondo me non è vero che siamo postumi. Ogni volta che un grande scrittore prende la penna, tutto ricomincia necessariamente da capo. Su questo ha ragione Donnarumma. Ho detto ricomincia, non ho detto “riprende”, proprio perché penso che avesse ragione Carmelo Bene quando, facendo un discorso estetico, relativo alla creazione artistica e non storico-letterario (ammesso che le due cose possano separarsi. Ah, Nietzsche! Ah, Seconda inattuale!), diceva che fra classici si è tutti contemporanei. Questa della condizione postuma la vedo come una costruzione culturale che ostacola il dialogo non egoista di cui lei parla citando Rimbaud. Non era “sregolamento di tutti i sensi”?

    A Raffaele Donnarumma.

    Le alternative all’ipermoderno, come le ho detto e spiegato, mi guardo bene dal proporgliele. Se anche volessi e mi sembrasse giusto farlo, non ne sarei affatto capace. Mi limitavo a suggerirle, con Luca Cristiano, una semantica meno equivoca. Che “postmodernismo” p. es. abbia assunto storicamente un significato in certa misura determinato non vuol dire che dobbiamo prenderlo per buono come definizione, scordandoci completamente la sua semantica immediata (che sostanzialmente non vuol dir nulla). Altrimenti chiamiamo la guerra in Abissinia “rinascita dell’Impero Romano”, l’Olocausto “Soluzione finale della questione ebraica” e cominciamo a datare tutto quel che viene dopo il 1994 come “dopo la discesa in campo dell’Unto dal Signore”. Mi scusi per gli esempi grevi, però il problema è sempre quello del coraggio della presa di posizione, altrimenti lasciamo che ogni epoca si descriva con le proprie parole e aboliamo il Medioevo! Se fossi un filologo le direi che la sua edizione della letteratura contemporanea è troppo diplomatica e poco interpretativa. Questa pretesa imparzialità del sottrarsi alla critica delle parole (“non uso le matite rosse e blu”) ho paura che mistifichi un fatto che non bisogna dimenticare: che la comprensione, se esiste, avviene come comprensione di un oggetto da parte di un soggetto; non si può far finta che il soggetto non esista e accontentarsi dei nomi che l’oggetto si dà da sé; ogni rapporto è rapporto fra enti e non fra nulli; le parole del soggetto e quelle dell’oggetto devono scontrarsi perché avvenga una vera comprensione; il resto è parodia di comprensione o rispecchiamento.
    Quanto al gioco intellettualistico: non è una superfetazione da snobboni, è che non sfrutta architettonicamente le potenzialità estetiche del romanzo. Il materiale concettuale (opposizione vero/falso) resta spurio (cioè se si vuole saggistica, filosofia), se non è sottoposto a un “superamento immanente” (Bachtin, “Il problema del contenuto, del materiale e della forma nella creazione letteraria”) operato attraverso le parole, se non ha il coraggio di darsi contemporaneamente la propria forma e la propria morte.
    Quanto ai bignami, non voglio dire che la categoria sia bischera “in sé” (anche se non credo nelle categorie in sé, mi pare che esistano solo categorie a scopo didattico), voglio dire, come ho detto, che è rischioso, che forse ci si dovrebbe porre di più il problema, anche perché forgiare concetti/interpretare/comprendere non è l’unico scopo del critico, anche se l’istituzione così vorrebbe, ma qui non si finirebbe mai e ho già detto troppe cose.
    Spero e dispero di non averla stancata, ma mi pare che lei a volte mi banalizzi e mi sento costretto a spiegare. Lei non si senta costretto a rispondere, però, anche perché il suo punto di vista mi pare chiaro (se non a me almeno a chi legge).
    La saluto distintamente.
    Roberto Gerace

  92. A Raffaele Donnarumma.

    Mi scusi, le scrivo ancora qualche riga perché mi sono accorto che la mia risposta sul gioco intellettualistico è piuttosto bislacca e non centra la questione. Mi giustifico, per quel che vale, con l’ora tarda.
    Ho chiamato “gioco intellettualistico” la questione del fittizio perché preso in sé, come tema, è parecchio povero a confronto con quel che ci sta accadendo a livello planetario. Poi per fortuna difficilmente appare “preso in sé”. Ma quel che le volevo dire non era che non valga la pena affrontare questo problema, era che secondo me rischia di essere fuorviante impostarlo criticamente come nodo problematico dominante della nostra epoca. Ma questo sempre in vista dell’epitomatore bischero che io tengo in conto e che lei ignora.
    Ancora distinti saluti,
    Roberto Gerace

  93. @ roberto gerace

    La ringrazio per il contributo e per le sue parole. Moresco, che ho avuto la fortuna di conoscere personalmente la scorsa estate, è un uomo che va dritto al cuore delle cose; e la sua sensibilità è forza.

    Circa la questione del postumo, forse mi sono spiegato male. Io ritengo postumi molti discorsi che provo a contestare, e credo che siamo postumi finchè restiamo dentro quel recinto lì. Ma essere postumi è una scelta; qui, adesso possiamo decidere di non esserlo più; le chiavi di lettura ci sono, tanti “orribili lavoratori” prima di noi ce le hanno fornite – le catastrofi sono spesso salutari, ma ancora più spesso vengono fraintese. Io resto in fondo un ottimista; il pessimismo mi sembra poco intelligente.
    Quando dicevo a Donnarumma che quasi tutto è già accaduto, mi riferivo a un certo ambito che a lui sembra (credo) nuovo; ma non intendevo che davvero tutto è già accaduto, anzi! Del resto che tutto sia già accaduto non è possibile, almeno finchè il tempo resta una dimensione lineare… Proprio perciò tentavo di spostare il discorso, sempre senza mancare di rispetto al tema dell’articolo, che merita comunque attenzione e non a caso s’è sviluppato lungo un centinaio di commenti.

  94. Questo articolo e la conversazione sviluppatasi nei commenti sono STREPITOSI!

    Lo dico: salvo tutto sul mio computer e spero di leggermi tutto per bene, perché è una piccolo tesoretto.

    E una richiesta a

    @Lorenzo Marchese:

    in una risposta a Melilli lei fa riferimento a un testo di studio scritto su Aldo Busi. Siccome io sono un lettore e un estimatore della sua letteratura, le sarei veramente grato se volesse permettermi di leggerlo.

    Un saluto!,
    Antonio Coda

  95. @antonio coda
    per la precisione, è un testo che tratta, fra le altre cose, del soggetto autoriale e della questione autobiografica in aldo busi. glielo passo volentieri: mi faccia sapere se mi dà un suo contatto o se posso spedirlo qui: info@altriabusi.it
    per anticipare grezzamente, a beneficio di altri, voglio mettere in chiaro che Busi non ha molto a che fare con l’autofiction, non rientra nell’orbita del “genere”, se non di sfuggita. la sua scrittura più recente, Especialista compreso, mi sembra un’ottima scrittura autobiografica romanzata.
    @macioci e dfw

    vi ringrazio delle vostre notazioni, che mi aiutano molto ad affinare il mio pensiero intorno all’argomento dell’autofiction, e contestualmente, dell’autobiografia, del romanzo contemporaneo, dell’esposizione di sé/costruzione di sé. ho bisogno di rifletterci sopra, quindi per un certo periodo di tempo non risponderò più ai commenti; come donnarumma, ma per motivi credo ben diversi dai suoi, passo il turno.

  96. @Lorenzo Marchese

    Salve Lorenzo,

    per quanto io sia un assiduo – e insistente… – lettore e frequentatore del sito Altriabusi.it, non ho rapporto alcuno con la Redazione: in ogni caso, le consiglio comunque di provare a inviarlo al sito, se il suo è un contributo di critica letteria all’opera di Aldo Busi non è detto che non lo prendano in considerazione.

    Da parte mia, oltre al lavoro monografico di Cavalli, non sono a conoscenza di studi sulla letteratura di Busi, per questo mi sono “permesso” di chiederle di poter leggere il suo testo.

    Il mio indirizzo mail è: codaindirizzo@libero.it

    La ringrazio per la sua cortesia.
    I miei saluti!,
    Antonio Coda

  97. @ Raffaele Donnarumma

    Ho appena letto la seguente affermazione di DeLillo, contenuta qui http://www.giugenna.com/2009/04/16/don-delillo-la-scrittura-come-forma-di-concentrazione-profonda/:

    “Rispetto a Roth, sebbene io utilizzi situazioni della mia esistenza, non posso definirmi un autore autobiografico e non sono convinto del fatto che esistano autori autobiografici. Il problema della finzione non è mutare i nomi propri”.

    L’ultima frase mi sembra abbia parecchio a che fare col nostro dibattito – ricorda? – sull’autofiction, che mi è subito tornato in mente; io gettai là quella provocazione, e cioè se Melville avesse inziato Moby Dick con Call me Herman anziché con Call me Isamel, eccetera eccetera; Lei mi rispose che sarebbe cambiato tutto.
    Mi par di capire che DeLillo, come me, non attribuisca alla formalità in questione (che pure non è innocente, non sono così ingenuo) la sostanza che le attribuisce Lei; e DeLillo è (giustamente) fra gli autori di riferimento da Lei citati.
    Cortesi saluti.
    Macioci

  98. Mi sono soffermata su questo articolo(ma sull’intera pagina web in generale nonostante la mia giovane età e nonostante sia solo una studentessa e dunque molto distante dai vostri “alti” punti di vista) perchè l’ho trovato molto interessante; un modo particolare e tutto personale di raccontare la realtà. Tuttavia dissento – dal basso della mia condizione di semplice studentessa ventenne appassionata e curiosa – sull’eccessiva importanza che si presta in queste righe alla realtà. Parafrasando Saint-Exupery per il quale, com’è noto, l’essenziale è invisibile agli occhi vi esprimo il mio parere. Essendo a mio avviso la realtà una mera percezione visiva, essa costituisce solo una piccola porzione della nostra esistenza, la porzione più superficiale e più materiale; mentre la nostra essenza è tutt’altro che reale,concreta e visibile. Piuttosto ciò che inspiegabilmente la nostra anima produce, è definibile surreale. Dunque siamo sincronicamente protagonisti e spettatori di questa dicotomia antitetica. Ora, il problema della nostra “epoca” è che con la “dittatura” dei reality e dei vari salottini tv, al contrario di quanto ingannevolmente vogliano farci pensare, non c’è nemmeno una traccia di “realismo” per questo sarebbe forse meglio parlare di “Surreality” più che di reality. Questo perchè ciò che ci viene proposto come riproduzione fedele della realtà (delle “moeurs Humaine” come direbbe Balzac) altro non è che il frutto della fantasia di “pochi” che mediante ambigui meccanismi riesce a condizionarci subordinando talvolta la nostra lucidità alla loro logica perversa che ci induce anzi ci obbliga(in maniera velata) a confondere l’invenzione con la realtà…leggittimando comportamenti amorali come conformi al nostro abituale modo di vivere. Dunque la mia conclusione è che il realismo ipermoderno come lei lo definisce non è altro che un’illusione un non-realismo, un costrutto sociale dilagante negli ultimi anni. Scusate per le chicchiere e per aver divagato troppo. Simona Vanni

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