di Clotilde Bertoni

«Tante pagine […] quante basterebbero in tempi ordinari a costruire tre romanzi ordinari»: è quanto afferma un Ugo Ojetti ironicamente atterrito nella sua recensione a Rome, l’opera di Zola sulla nostra capitale, concepita nel 1894 e nel 1895-96 uscita a puntate parallelamente in Francia sul “Journal” e (in versione accorciata) in Italia sulla “Tribuna”. Certo non è uno scherzo rimettere le mani in tanta mole; nondimeno stupisce che l’edizione appena comparsa, Roma (Bordeaux, pp. IX-725, E 24,00), corredata di un’efficace prefazione di Emanuele Trevi, si limiti a riprodurre, pur rivedendola, la prima e unica traduzione italiana, spesso imprecisa e sempre datata, e senza neppure menzionarne l’autore (si tratta di Emilia Luzzatto, che usa come d’abitudine lo pseudonimo Giorgio Palma). Una scelta in assoluto non condivisibile, tanto più ora che l’eccellente edizione dei principali romanzi di Zola curata da Pierluigi Pellini per i “Meridiani” Mondadori, sta evidenziando l’importanza di riconsiderare l’autore con strumenti aggiornati; e una scelta che non aiuta a inoltrarsi in un’opera anche in patria dimenticata a lungo, commistione di registri ipertrofica e avvincente, a tratti stretta nella morsa dei cliché, più spesso aperta a un’acutissima visione della contemporaneità.

Il volume, secondo della trilogia seguita ai Rougon-Macquart, Trois villes, inizia con l’arrivo a Roma, nella stessa epoca della stesura, del protagonista, il giovane prete Pierre Froment (unico trait d’union di tre libri autosufficienti), determinato a difendere una sua opera ispirata alle tesi del cattolicesimo sociale, La Rome nouvelle, sottoposta all’esame della Congregazione dell’Indice. Da questo spunto prendono le mosse due vicende basate su una doppia sfibrante attesa: quella di Pierre che, ospite dei Boccanera, antica famiglia della nobiltà papalina, aspetta sia il giudizio della Congregazione sia un sospirato incontro, infine concessogli, con Leone XIII, il papa le cui encicliche sembravano aver incoraggiato il rinnovamento della Chiesa; e quella di una dei Boccanera, Benedetta, che spera nell’annullamento di un infelice matrimonio non consumato per poter sposare il cugino Dario, suo amore d’infanzia.

Due vicende diverse, una dominata da tensioni concettuali, l’altra costellata di amori, gelosie, colpi di pugnale e colpi di scena, ma entrambe stagnanti, povere di dinamismo sia effettivo che psicologico. Gli stessi drammi di coscienza di Pierre non hanno sviluppo, il personaggio, che ha maggior consistenza nel resto della trilogia, qui è, più che protagonista, prospettiva dominante: l’esilità della fabula fa spazio a un fitto tessuto di scene, paesaggi e caratterizzazioni, in cui Zola travasa il materiale accumulato, secondo la sua abitudine ai sopralluoghi diretti, in un soggiorno romano avvenuto tra l’ottobre e il dicembre del 1894 (durante il quale, in un tipico gioco di specchi tra realtà e finzione, aveva cercato invano di ottenere udienza dal papa, maldisposto in particolare dal volume precedente di Trois villes, Lourdes, che, insieme a tutte le altre opere dell’autore, era stato appena messo all’Indice); il vero protagonismo è dunque lasciato alla città.

È un protagonismo che si snoda su più livelli, di differente spessore: le rievocazioni della sua storia, ricondotta tutta a un’atavica smania di dominio (in linea con la fede nell’ereditarietà immancabile ossessione dell’autore), sono prolisse e ridondanti; le descrizioni del suo patrimonio monumentale e artistico appaiono soffocate dal confronto con troppi modelli (dalle relazioni di viaggio del Grand Tour a Madame Gervasais dei Goncourt); sono invece le inquadrature della sua travagliata attualità, che amalgamano l’osservazione diretta con fonti disparate (forse anche i nostri primi romanzi parlamentari), a costituire il centro pulsante del racconto.

La raffigurazione dell’ambiente pontificio sottolinea la resistenza inscalfibile di un passato millenario: l’altezzoso tradizionalismo del cardinale Boccanera, la disponibilità ai compromessi del cardinale Sanguinetti, la melliflua astuzia di un monsignore gesuita, l’ambiguità di Leone XIII (abbarbicato, dietro le aperture di facciata, alla rivendicazione di un dispotismo antico), risultano espressioni di una stessa corrucciata autorità conservatrice; in grado di sopravvivere alla perdita del potere temporale, e di influenzare, e ostruire, il nuovo corso dei tempi.

D’altro lato, la parallela raffigurazione dello stato unitario, se inciampa negli stereotipi più biechi (un’immagine stucchevolmente agiografica di Umberto e Margherita di Savoia, un antimeridionalismo culminante nel ritrattino macchiettistico di un deputato napoletano), sa restituire intensamente degenerazioni specifiche e problemi sostanziali della metamorfosi in atto: l’energico scorcio di Prati, neonato quartiere formato da costosi edifici ancora deserti e pullulante di miserabili senzatetto, mette a fuoco le avventure della speculazione edilizia e le collusioni tra imprenditoria e politica; l’affollata galleria delle nuove generazioni evidenzia un infiacchimento dell’iniziativa che travalica gli apparenti contrasti (la soave quanto egoista Benedetta, e il suo ex marito Luigi Prada, affarista spregiudicato ma roso dall’inquietudine, risultano analogamente fragili, incapaci di gestire anche i loro convulsi interessi personali). Lo slancio ideale resiste solo nei propositi distruttori di un ragazzo anarchico (figura classica della produzione dell’epoca) e nella dolente indignazione di un vecchio rivoluzionario (che ricorda il Noirtier del Conte di Montecristo), ridotto alla paralisi fisica ma unica forza vigile contro la diffusa paralisi morale, le cui parole offrono una folgorante sintesi dello scarto tra l’eroismo degli stati d’eccezione, e la riaffermazione dei convincimenti nell’opacità del quotidiano («Si dava ogni cosa […] finché si trattava di fare la patria una e indipendente, ma oggi che la patria è fatta, chi può infervorarsi per riorganizzarne la finanza? Non è un ideale, questo!»).

L’amarezza irredimibile del quadro tracciato è confermata in chiavi opposte dal doppio finale: quello in sordina della storia di Pierre, la cui ardente buonafede finisce annientata da intrighi vaticani di routine, e quello a tinte forti della storia amorosa, casualmente risucchiata in un intrigo vaticano dei più foschi. Un clamoroso ritorno, quest’ultimo, all’immaginario melodrammatico contestato dal naturalismo (ma nell’opera di Zola tentazione ricorrente), la cui inverosimiglianza, abbondantemente derisa dai recensori, è peraltro denunziata già dal testo, che la definisce degna del «quinto atto di un dramma romantico»; intrecciando alla realistica illustrazione del potere ecclesiastico l’evocazione delle sue corrusche leggende, il romanzo mette in risalto parossistico la sua pervicacia, e l’inabilità a fronteggiarla del nuovo stato di cose.

Questa amarezza – che, se contribuisce alla sfortuna del libro, lascia una traccia in varie opere, dal Santo di Fogazzaro ai Sotterranei del Vaticano di Gide a, come suggerisce un bel saggio recente di Claudio Gigante, I vecchi e i giovani pirandelliani – è l’estremo sussulto del pessimismo di Zola. Lo scrittore virerà verso il consolatorio auspicio di un’imminente rigenerazione sociale proprio a partire dall’ultimo volume della trilogia, Paris: altro libro come questo oscillante (in prospettiva diversissima) tra rigide tesi deterministe e straordinaria efficacia rappresentativa, altro libro di cui è auspicabile una prossima riedizione, e stavolta, magari, anche una traduzione nuova.

[Questo articolo è uscito su «Alias-il manifesto»]

[Immagine: Daniele Balicco, Roma].

1 thought on “La Roma di Émile Zola

  1. Senz’altro oltre alle descrizioni di Stendhal Gide e sul versante tedesco Goethe, e inglese Byron e Dickens, la fascinazione di Roma.La difficoltà di espungere da tale ricco humus monumentale e storico, qualcosa che armonicamente sia descrizione e narrazione di una vicenda romanzata. Zola, mi sembra dal commento , non sia sfuggito a una certa ridondanza che è effetto del barocchismo romano.

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