cropped-viasergioatzeni4di Gigliola Sulis

 

[Dal 25 dicembre al 4 gennaio LPLC sospende la sua programmazione ordinaria. In questi giorni, per non lasciare soli i nostri lettori, ripubblicheremo alcuni post. L’articolo che segue è uscito il 22 novembre 2012. Una versione più breve è già uscita su «La Nuova Sardegna».]

 

Dalla scomparsa nel 1995 a oggi, pur in assenza di pubblicità e spinte editoriali, la fama dello scrittore Sergio Atzeni si è progressivamente consolidata. In Italia mantiene una posizione di nicchia, ma le sue opere sono tradotte in Francia, in Germania, nel mondo ispanofono e anglofono, e nella sua Sardegna è figura di culto che attrae lettori comuni e scrittori, intellettuali e studiosi, soprattutto tra i giovani. Non mancano i lettori che, scoperti per caso i suoi libri , ne subiscano il fascino al punto di imbarcarsi in viaggi alla scoperta dei luoghi e delle atmosfere evocate, come testimonia Nella Sardegna magica in cerca di Sergio Atzeni di Francesco Forlani (“Reportage”, n.10, 2012), e la sua memoria continua a ispirare, più o meno sottotraccia, testi letterari  (un suo doppio è il personaggio di Luca Treu in Acqua, sudore, ghiaccio di Antonio Franchini, che fu suo editor per Mondadori), omaggi in musica (Paolo Fresu, Gavino Murgia, Elena Ledda), adattamenti teatrali e cinematografici (ricordo almeno i film Il figlio di Bakunìn diretto da Gianfranco Cabiddu, 1997 e Bellas mariposas di Salvatore Mereu, 2012).

 

Se non fosse andato incontro a una fine tanto tragica quanto letteraria nell’isola dell’isola, a Carloforte, risucchiato dal mare come Fleba il Fenicio degli amati versi di T.S. Eliot, nel 2012 Atzeni avrebbe compiuto sessant’anni. Invece se n’è andato poco più che quarantenne, entrando nel novero degli eroi che muoiono giovani e belli. Oggi ci mancano il suo sguardo ironico, disincantato e curioso sulla realtà, la coerenza intellettuale e il rigore di uno scrittore che raccontava sì con onestà e serietà, ma al contempo prononeva di applicare “[m]assima penalità per chi si prende troppo sul serio” (E se costruissimo una balentìa senza fucili, 1995, in Scritti giornalistici, Il Maestrale, 2005, p.996). Ci mancano le parole nuove e le storie che avrebbe creato, in tempi tanto difficili, per raccontarci chi siamo, e ancor di più ciò che vogliamo essere, su quali rappresentazioni del passato e del presente vogliamo poggiare le nostre proiezioni identitarie, individuali e collettive.

Scrittore etnico, che secondo Ernesto Ferrero sarebbe piaciuto a Pavese e De Martino (La lunga vita di Atzeni, “Diario”, 3, agosto 2005), fece del racconto della sua isola il centro di un progetto letterario coerente e compatto, sotteso da un senso etico della scrittura ed espresso tramite una costante sperimentazione linguistico-formale. I principi che lo guidano sono indicati con lucidità in Nazione e narrazione (1994), un testo programmatico che, insieme a E se costruissimo…, rappresenta il suo testamento intellettuale:

 

“Chi per propria sventura sappia di non essere all’altezza del mignolo sinistro di Conrad ma voglia con onestà narrare, non ha che da guardare la propria nazione, in diretta o nella memoria. Troverà infiniti spunti per intrecci e vicende di romanzo e nella propria identità nazionale un terreno fertile di immagini, modi di dire e costumi che colano e svelano una visione del mondo. La faccenda è complicata, in quest’epoca. L’appartenenza nazionale è doppia o tripla o quadrupla, quando non arricchita o sostituita da un’appartenenza ideologica (come il comunismo) che con atto volontario l’uomo assume a tribù dello spirito. Molteplici sono le radici di ognuno di noi.” (in Scritti giornalistici, p.992)

 

I passi che seguono mostrano con quale prospettiva Atzeni abbia ricreato sulla pagina quella che riconosceva come la sua nazione, la Sardegna, sulla cui storia verte ossessivamente tutta la sua scrittura; dai “S’Ard” della mitizzata preistoria nuragica, “leggeri” tra paesaggi edenici e violenza fratricida (disamistade) (a), ai loro discendenti, rappresentati ai nostri giorni come l’esito di un’ininterrotta filiera di innesti etnici (b) (c):

 

(a) “Passavamo sulla terra leggeri come acqua, disse Antonio Setzu, come acqua che scorre, salta, giù dalla conca piena della fonte, scivola e serpeggia fra muschi e felci, fino alle radici delle sughere e dei mandorli o scende scivolando sulle pietre, per i monti e i colli fino al piano, dai torrenti al fiume, a farsi lenta verso le paludi e il mare, chiamata in vapore dal sole a diventare nube dominate dai venti e pioggia benedetta. A parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti, eravamo felici.” (Passavamo sulla terra leggeri [1996], Ilisso, 2000, p.8);

 

(b) “[…] scoprendo di essere di stirpe ebrea marrana, oltre che sarda e genovese con sfumature arabe e catalane, ho immaginato che il sangue degli antichi erranti perseguitati vivesse in me facendomi apparire la diversità dagli altri come abituale e perciò non spaventandomi della solitudine che ne veniva, di rado mitigata da amici sempre esclusi dalla comunità perché diversi: scemi, figli di donne non sposate e di bagassa, istrangios e eversori.” (Passavamo, p.46)

 

(c) “La nave bianca si allontana e dietro un dente alto e bianco di calcare sparisce l’antica fortezza vedetta dei Fenici, l’avamposto d’Europa al respiro dell’Africa e d’Oriente alle porte d’Occidente, popolato da una scura genia parente di Annibale, adocchiato da predoni scalzi, battuto da tutti i venti, abitato da tutti i profumi e i fetori e da ogni genere d’ingegno e vizio e da qualche virtù, come ovunque siano uomini. Ruggero conosce i venti, i profumi, i predoni. Si crede principe di antica stirpe, è figlio di un fabbro e di una bruscia, è ignobile e folle come un muflone.” (Il quinto passo è l’addio [1995], Ilisso, 2001, p.73).

 

Sergio Atzeni è stato il cantore di una Sardegna che, alle soglie del terzo millennio, si scopre isola esposta ai venti e agli approdi, luogo di aggregazioni multietniche, quasi a contraddire, oltre alle  l’opposizione posta a suo tempo da Lucien Febvre tra una Sicilia isola-crocevia e una Sardegna isola-fortezza (La terre et l’évolution humaine, 1922), una visione stereotipica ben radicata nel sentire comune, locale e nazionale. La sua Sardegna è invece crocevia di popoli e culture, segnata nell’impossibilità manifesta di rifiutare l’incontro-scontro con gli altri. È il credo di cui si fa portavoce il narratore e custode della memoria locale di Passavamo sulla terra leggeri, Antonio Setzu, nel raccontare l’inizio dei mille anni di dominazione romana sull’isola:

 

“Dimenticavamo le distanze fra le stelle e comprendevamo d’essere al centro di un mare che si faceva di giorno in giorno più popolato. Non potevamo fermare il ciclo dell’uomo, nessuno può fermarlo. Dovevamo incontrare gli altri uomini, per crescere. L’incontro ha un costo, pagarlo è inevitabile”. (Passavamo, p.78).

 

Nelle pagine autobiografiche Atzeni si presentava come un cane sciolto, una pecora nera, elementi che contribuiscono ad accentuare l’aura di fascino ribelle che ancora oggi emana dalla sua figura. Cagliaritano, era nato ‘in trasferta’ nella vicina Capoterra a casa di una zia ostetrica, che aveva garantito l’assistenza al parto in tempi di scarsa sanità pubblica. Suo padre Licio, di Guspini, paese minerario del medio campidano, dopo un passato da minatore, fu sindacalista, per poi divenire figura di rilievo del PCI sardo; la madre, Graziella Marongiu, cagliaritana, era ostetrica, militante comunista, dirigente dell’Unione Donne Italiane. A seguito dei trasferimenti dovuti al lavoro dei genitori, durante l’infanzia Sergio e la sorella vissero in diversi paesi e città sardi. Tra questi spicca l’importante tappa del 1964-65 a Orgosolo, che insieme alla Barbagia diventerà uno dei poli della sua definizione letteraria di una “Sardegna-continente”  (vi tornerà con il PCI, a sostegno della lotta contro l’occupazione militare dei pascoli di Pratobello, nel 1969, e da allora manterrà un legame di amicizia con il sindacalista, poeta e cantante a tenore Peppino Marotto). Ma è principalmente a Cagliari che trascorse gli anni fino alla maturità: studente al liceo classico e alla facoltà di filosofia (senza raggiungere la laurea, distratto da più pressanti interessi), militante e dirigente della FGCI, attivo sin da giovanissimo nel movimento studentesco, giornalista pubblicista, operatore culturale, impiegato dell’Enel e rappresentante sindacale, marito, padre di una bambina, Jenny. In ogni tappa, insieme alla passione per la musica, l’impegno nella scrittura. Dopo la fine del matrimonio, e con l’accumularsi di insoddisfazioni personali e professionali, maturò una profonda crisi esistenziale che sfociò nella conversione al cattolicesimo e nell’abbandono definitivo della città e dell’isola, nel 1987. Per qualche mese vagabondò senza meta in Europa, poi fu accolto da Torino, dove visse fino alla scomparsa, con una pausa tra il 1990 e il 1993 a Sant’Ilario d’Enza, in Emilia. In quest’ultimo periodo realizzò a costo di sacrifici il sogno di una vita: unire lavoro e mestiere e dedicarsi esclusivamente alla scrittura, in proprio, con i romanzi e i racconti, e a servizio di quella altrui, come lettore di manoscritti, correttore di bozze e traduttore dal francese (tra gli altri, di Stendhal, Sartre, Genette, Lévi-Strauss, Chamoiseau).

 

Fu scoperto come narratore da Elvira Sellerio, alla quale aveva inviato alla cieca il manoscritto di un breve romanzo storico sulle lotte di potere nella Cagliari di fine Quattrocento, accolto con il titolo Apologo del giudice bandito nella raffinata collana “La memoria” (1986), e continuò a lavorare con l’editrice palermitana per il secondo romanzo, Il figlio di Bakunìn, che attraversa per scorci la storia del Novecento dal punto di vista dei minatori del Sulcis-Iglesiente (1991). Quando nel 1995 l’amaro romanzo generazionale Il quinto passo è l’addio andò alle stampe nella collana “Scrittori italiani” di Mondadori, il nome di Atzeni circolava ormai tra i lettori più attenti. L’ultima estate, prima di lasciare Torino per le vacanze in Sardegna, aveva inviato a Segrate il dattiloscritto del romanzo epico Passavamo sulla terra leggeri (1996), e aveva scritto alla Sellerio di aver terminato un racconto che le avrebbe spedito al rientro, a settembre: è Bellas mariposas,  il monologo tutto d’un fiato di una dodicenne di periferia, che narra in un personalissimo italiano regionale e gergale una memorabile giornata estiva (1996). Testi giovanili, poesie, scritti giornalistici –  testimonianza di un lungo apprendistato alla scrittura –, insieme a nuove edizioni delle opere maggiori, sono ora fruibili nelle edizioni Sellerio, Il Maestrale, Ilisso, Condaghes.

 

Il decennio della maturità letteraria di Atzeni, 1986-1995, corrisponde in Italia alla fase del postmoderno internazionalizzante di Eco, Tabucchi, Del Giudice, Baricco. In tale contesto ben si inseriscono alcuni aspetti sperimentali della sua scrittura, come la preferenza per l’ellissi e per la focalizzazione interna e multipla,  le strutture narrative sbilenche, la rete intertestuale che pesca dalla Bibbia e dai classici come dai fumetti o dalle canzoni pop. Altri elementi, però, come la dimensione etica ed etnica del fare letterario, il punto di vista geo/etno-centrato ma aperto alla globalità, la presenza di trimpanus e launeddas insieme ai ritmi di samba, di jazz e di rap, lo ponevano ai margini dei fenomeni letterari mainstream. In realtà lo scrittore, con grande consapevolezza storica e sensibilità al contesto ‘glocale’, giocava d’anticipo sui tempi. Lo dimostra l’appena successivo ritorno alle questioni identitarie in chiave postmoderna, nei tardi anni Novanta, segnato dal ciclone Camilleri, dal fenomeno dei noir a base regionale, inclusa la new wave sarda, o dal recente emergere di scritture di migranti o di italiani di seconda e terza generazione, che riscrivono e reinterpretano le categorie di appartenenza, e riportano l’attenzione sui concetti di cittadinanza e nazionalità. Al contempo, l’opera di Atzeni, periferica nel panorama italiano degli anni Ottanta-Novanta, si muove in sincrono con le coeve tendenze delle letterature postcoloniali su scala mondiale, esemplificate dal conflitto tra cultura inglese e origine pakistana nelle periferie londinesi di Hanif Kureishi (The Buddha of Suburbia, 1990), dal sincretismo mediterraneo della Marsiglia di Jean-Claude Izzo (Total Kheops, Chourmo, Solea, 1995-1998) e, caso più emblematico, dall’epopea della creolità degli afroamericani di Martinica e Guadalupa, in primis Patrick Chamoiseau, di cui Atzeni tradusse con maestria il romanzo Texaco (Gallimard 1992; trad. it. Einaudi, 1994, ora Il Maestrale, 2004). Voci lontane tra loro, provenienti dalle periferie culturali del mondo occidentale, che si riconoscono reciprocamente nella riscrittura della storia dalla parte dei vinti così come nell’appropriazione e reinvenzione delle lingue degli ex colonizzatori.

 

Per chi l’ha conosciuto leggendone i libri, il ritratto di Atzeni sfuma in quello dell’alter ego Ruggero Gunale, protagonista de Il quinto passo è l’addio. È l’immagine di un trentacinquenne disilluso, sconfitto nella lotta di amore e odio con la città che infine abbandona, e che ricorda senza ripiegamenti intimistici né nostalgie i “passi” della sua esistenza. Un rappresentante della generazione che ha creduto di cambiare il mondo e ne è stata invece cambiata, la cui storia è quella degli “sbandati, i fuori dal mondo che rifiutavano sia la guerriglia urbana che il ritorno nei ranghi, i figli dei fiori, i poeti, i rimbambiti, i pazzi, gli spaventati dalla velocità della storia e della tecnica e dall’assoluta assenza di guidatore, e quelli […] che non sapevano che fare di se stessi e cercavano motivi per vivere, rimasugli di una generazione che ha tentato di cambiare il mondo perché sapeva che fa schifo, ma non sapeva che lo schifo ha costruito in millenni strutture solidissime di resistenza, le ha costruite con piramidi di sacrificati, le ha costruite anche nelle nostre anime” (Il quinto passo, p.189).

 

La sua figura, zaino in spalla e vecchie Superga ai piedi, ci viene incontro ad apertura di romanzo, dal ponte di una nave Tirrenia: “Bocca aperta alle mosche, Ruggero guarda con occhi umidi e impietriti la città che si allontana: la croce d’oro sulla cupola della cattedrale e attorno a corona digradando i palazzi color catarro dei nobili ispanici decaduti, circondati da bastioni pietrosi invalicabili a piede d’uomo, dove pendono chiome di capperi al vento, di un verde che ride” (Il quinto passo, p.29). Con Atzeni, Cagliari è entrata di diritto nella geografia identitaria sarda e nell’atlante letterario italiano. Mai prima di lui uno scrittore ne aveva esaltato la bellezza con tale slancio lirico, rabbia, passione e forza mitopoietica. È  anche grazie alla sua opera che i sardi hanno iniziato ad ammirare la città dopo una diffidenza plurisecolare, riscoprendone con orgoglio la storia, i  paesaggi, la luce, le atmosfere. Nessuno aveva elevato a poesia l’indolenza del cagliaritano, il gusto cittadino della beffa, l’ironia, la battuta pronta. Né dato dignità letteraria alla città come “alveare di voci” (Passavamo, p.97), in cui, contro le tentazioni puriste, si intrecciano italiano standard, regionale e popolare, parlata locale, gerghi, slang, altre varietà del sardo, dialetti, lingue straniere, lasciando così risuonare la pluralità vitale di quel mondo. Atzeni esalta l’apertura della città sul mare e la sua storia di accoglienza e commistione con i non-isolani come simbolo di un nuovo modello identitario sardo, dinamico e non statico, aperto e non difensivo, inclusivo e non esclusivo. Ambientazione privilegiata ma non unica – le si affiancano il Sulcis, la Barbagia, la Marmilla, Arbarè – Cagliari, porto di mare, luogo di incroci multietnici, “non è che confine fra l’isola e il mondo” (Periferia, quel luogo senza memoria, 1986, in Scritti giornalistici, p.292).

 

Eppure la Kar Ale – Cagliè – Cagliari – Kasteddu atzeniana non è una quinta scenografica di bellezza e armonia. La città è esplorata nella sua topografia sociale tutt’altro che pacificata, e in specie nelle contrapposizioni tra centro e periferie. Come nella Cagliè quattrocentesca il Castello dei nobili spagnoli si oppone ai quartieri popolari, così nel Novecento i palazzi borghesi si chiudono ai gaggi e grezzi di periferia, secondo un processo di esclusione simboleggiato dalle barriere, ben sorvegliate, che fino ai primi anni Ottanta isolano la roccaforte dell’alta borghesia, lo stabilimento balneare del Lido, dal resto della spiaggia cittadina (Il quinto passo, pp.179-193). In più occasioni lo scrittore ribadì la propria appartenenza, ideologica più che effettiva, alla periferia dei quartieri di Is Mirrionis, San Michele, Sant’Arennera. A Is Mirrionis abitò da bambino, in una casa popolare, ci bazzicò da ragazzo, e da quegli ambienti trasse ispirazione per alcune scene de Il quinto passo e per Bellas mariposas, nella consapevolezza che si può essere universali solo a partire da ciò che si conosce e si vive. Quando la mariposa Cate mette in pausa il monologo e si rivolge direttamente a chi trascriverà la storia, qualificandolo come “unu barabba de Santu Mikeli” (p.117), e dunque contiguo al mondo narrato, ciò che risalta non è una mera circostanza biografica, ma la rivendicazione di uno sguardo volontariamente dislocato, perché assume la periferia come punto d’osservazione privilegiato sul mondo (la città, la Sardegna, l’Italia, l’occidente). La stessa lettura epica della storia dei S’Ard presentata in Passavamo sulla terra leggeri, dall’approdo mitico dei primi abitanti nell’isola fino alla sconfitta definitiva del progetto di indipendenza nella prima età moderna (ma poi fino ai nostri giorni in quanto autorappresentazione identitaria), se da un lato ripercorre e reinventa la resistenza millenaria dell’etnia dei sardi, dall’altro racconta, da un punto di vista decentrato, l’Italia tutta, nazione policentrica, la cui identità si costruisce e negozia proprio nella tensione tra istanze centripete e centrifughe.

 

Nonostante Cagliari assurga a luogo-simbolo negli scritti di Atzeni, in città non esiste ancora un luogo significativo intitolato allo scrittore. Qualcuno ha stampigliato da tempo la scritta “Via Sergio Atzeni” su un muro del centro storico, nel Corso Vittorio Emanuele II, presso piazza Yenne: un cambio di toponomastica fai-da-te e dal basso, un invito all’amministrazione comunale a riconsiderare chi siano stati gli uomini illustri per la città. Al passante occasionale, al turista che davanti a questa scritta si domandi chi fosse Sergio Atzeni, basterà immergersi nelle pagine dei suoi romanzi per unirsi all’anonimo estensore, ai suoi concittadini, e a tanti lettori nella domanda: “Che cosa aspetta la città a ricordare degnamente il suo cantore?”. Magari non il Corso: è vero che in una delle case basse di Su Brugu – ‘il borgo’, l’antico toponimo – si spegne ne Il figlio di Bakunìn il protagonista Tullio Saba, ma che senso avrebbe cambiare l’intitolazione e cancellare il re sabaudo, quando lo stesso Atzeni ci ha insegnato a conoscere, capire e accettare le stratificazioni della storia? Meglio sarebbe un lungomare, quell’apertura sul mondo che tanta parte ha nella dimensione poetica dello scrittore. O ancora più adatta sarebbe una strada o una piazza di periferia, con palazzoni simili a quelli di “via Gorbaglius quartiere di Santa Lamenera periferia di Kasteddu” (Bellas mariposas, p.46), che faccia da sfondo alle scorribande, ai racconti e alle risate delle Zazie degli anni a venire. Per Sergio Atzeni sarebbe un ritorno a casa.

 

[Per ragguagli bibliografici si vedano le pagine su Sergio Atzeni del Centro di Studi Filologici Sardi, <http://www.filologiasarda.eu/catalogo/autori/autore.php?sez=36&id=439> e il sito dedicato allo scrittore, <www.sergioatzeni.com>.

Le edizioni Ilisso dei romanzi Il quinto passo è l’addio e Passavamo sulla terra leggeri, e quelle Il Maestrale dei Racconti della città bianca, Racconti con colonna sonora e altri “in giallo”, e dei versi Due colori esistono al mondo. Il verde è il secondo sono disponibili in formato pdf nel sito della Sardegna Digital Library. La memoria digitale della Sardegna. Archivio digitale di testi multimediali di argomento sardo, <www.sardegnadigitallibrary.it>

Gigliola Sulis (University of Leeds) ha curato l’edizione degli Scritti giornalistici (1966-1995) di Sergio Atzeni (Il Maestrale, 2005), e, con Giuseppe Marci, gli atti del convegno di studi atzeniani Trovare racconti mai narrati, dirli con gioia, (Cuec, 2000). Nel 2013 uscirà una sua monografia su Atzeni, per le edizioni Cuec].

 

[Immagine: Via Sergio Atzeni].

5 thoughts on “Chi era Sergio Atzeni?

  1. Adoravo e adoro il lavoro di Sergio Atzeni, come adoro la sua Sardegna: l’impronta del sandalo di Dio.
    Uno dei grandi rimpianti della mia vita è di non averlo mai incontrato di persona, di saperlo scomparso proprio quando l’avrei potuto incontrare (come poi con Ginsberg nella primavera del ’97).
    Chi non conosce Atzeni deve leggerlo.
    Chi lo conosce, lo ripeto anche a me stesso, deve rileggerlo.

  2. Agosto 2024, abbiamo scelto, mio marito ed io, la Sardegna, per una settimana di vacanza. Il sud, Costa Rei. E un solo giorno a Cagliari, un giorno e mezzo. La sera in città, in via Manno, entro in una libreria, “Mieleamaro”, pare, e chiedo un libro di autore sardo, ma non di quelli conosciuti, tipo Deledda, o Michela Murgia che pure ho sempre ascoltato volentieri in televisione, ma un autore locale, anche minore. Avevo già tra le mani un libro, lo avevo scelto io nello spazio dedicato alla letteratura sarda, e il libraio mi suggerì “Passavamo sulla terra leggeri” di Sergio Atzeni. Il titolo mi piace, quella leggerezza sa di passi di danza. L’autore, mai sentito ma mi fido del libraio nonostante la copertina rigida, austera, con una figura tipo antico disegno scolpito o dipinto su di un muro, e lo compro. Stasera, mentre Augiuas su la 7 racconta di Ciano, io volevo sapere chi è questo autore e sono capitata tra queste pagine. Ora spero solo di poter comprendere queste pagine, io non sono una letterata, non ho studi specifici, ma lo leggerò.

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