di Clotilde Bertoni
Dalla palla dorata delle Argonautiche alla pallina da baseball di Underworld, dagli orecchini della Locandiera a quelli dei Gioielli di Madame de…, dai piatti dipinti della Recherche ai cocci di un racconto di Virginia Woolf, dalle fruste di Sacher-Masoch alla pistola di Dillinger è morto, dai materiali dell’arte povera alle icone della pop art: l’ultimo libro di Massimo Fusillo, Feticci (Il Mulino, pp. 206, E 20,00), mostra i tanti ruoli di cui vengono investiti gli oggetti (strumenti di seduzione, sacrario della memoria, tesori reinventati dalla fantasia, trouvailles maniacalmente accatastate), attraverso un arco vastissimo di epoche e culture, grandi classici e spigolature peregrine; rivela le sterminate competenze dell’autore quanto la sua spregiudicata apertura (argomentata nel suo lavoro precedente, Estetica della letteratura) alle sfide della contemporaneità, alle ibridazioni dei linguaggi. L’eterogeneo, vertiginoso avvicendamento degli oggetti si traduce in un avvicendamento di testi eterogeneo e vertiginoso a sua volta, che però non ha nulla dell’accumulo collezionistico fine a se stesso, perché denso di riflessione, saldato da robusti fili conduttori.
Innanzitutto, numerose teorie agilmente ripercorse: il discorso di Marx sul valore di feticci attribuito alle merci,; l’interpretazione freudiana del feticismo (interessante per lo scavo nelle dinamiche della negazione, più che per la concezione determinista del feticcio come sostituto del fallo materno); la fine della separazione netta tra coscienza e cosa sostenuta dalla fenomenologia; le osservazioni di Benjamin sull’approccio metropolitano ai beni di consumo; la convertibilità tra esseri animati e inanimati proposta dall’estetica camp; lo studio di Orlando sugli oggetti non funzionali. Teorie su cui si innestano vivide intuizioni d’insieme: alcune subito enunciate, quali l’attacco alla visione riduttiva del feticcio come surrogato di un’autenticità perduta, la connessione del suo potere, in grado di schiudere nuove dimensioni, con quello della creazione artistica, la distinzione tra la spinta a dare peso agli oggetti in se stessi e quella a insignirli di valenze simboliche; altre più implicite ma non meno significative.
In particolare, Fusillo mostra che sono spesso i feticci a mettere in luce i sensi più ambigui o repressi delle opere: intorno agli abiti e accessori del teatro di Goldoni converge una carica di desiderio enigmatica, in contrasto con l’armonico razionalismo di facciata; nelle Grandi speranze dickensiane il culto di un corredo intonso sprigiona nostalgie regressive opposte alle mitologie progressiste allora imperversanti; nell’Imperatrice Caterina di Sternberg lo sfarzo folle dell’apparato decorativo allude all’opprimente insensatezza del potere; nel Museo dell’innocenza di Pamuk l’allestimento museale è fulcro, più che di una storia d’amore, di una pervicace negazione del tempo; in Melük di Achim von Arnim e nel Dorian Gray wildiano il fascino degli oggetti determina una scomposizione dell’identità che è insieme lacerazione perturbante e liberazione di potenzialità alternative (ambivalenza già indagata da Fusillo in uno studio appunto sul tema del doppio, L’altro e lo stesso, ora riproposto in un’edizione ampliata – Mucchi, pp. 392, E 23,00).
Inoltre, il libro intreccia costantemente il piano tematico e quello stilistico: indicando via via che le divagazioni delle Argonautiche su oggetti frivoli minano surrettiziamente la forma epica, che l’indugio sui dettagli della «scrittura intrinsecamente feticista» di Flaubert sconvolge la classica dialettica tra descrizione e vicenda, che nella Recherche la resistenza delle cose alla comprensione trasmette quella del racconto a un’interpretazione coerente, che le narrazioni postmoderne ruotano sovente intorno allo spessore mitico acquisito dagli oggetti; che dunque il protagonismo dei feticci può, oltre a destabilizzare la realtà, sovvertire i generi, riconfigurare i testi.
Oltre ad aprire una profusione di percorsi, il libro sa sollecitarne ancora altri (varrebbe la pena, ad esempio, di analizzare il ruolo dei feticci nella produzione umoristica, dai dada centro propulsore delle digressioni di Sterne, a certi paradossali innamoramenti per gli oggetti in Wilde o in Rodari): grazie tanto al suo raffinato eclettismo quanto alla sua straordinaria ricchezza di senso. Distante dalle consacrazioni ossessive di specifici autori o metodi, come dagli assemblaggi caotici di materiali, questo saggio sui feticci trae la sua riuscita, e la sua forza, proprio dalla capacità di evitare ogni tentazione di feticismo critico.
[Immagine: Palle da baseball (gm)].
Ho letto il libro ma mi è sembrato molto deludente sia dal punto di vista teorico sia dal punto di vista dell’analisi dei testi. L’autore si limita a raccogliere luoghi comuni triti e ritriti e non conosce la letteratura più recente sulla questione. Tanto per fare un esempio non cita nemmeno gli studi di William Pietz sul feticismo. Sconsiglio assolutamente sia l’acquisto sia la lettura del libro
Io invece ho trovato il libro molto interessante, pur non condividendone l’assunto di base, che consegue a un’estetica camp e postmodernista. L’ho infatti adottato e i miei studenti del corso di comparate lo leggeranno tra poco. L’ho però posto in contrappunto con il grande libro di Orlando sull’oggetto desueto. E sto tentando di leggerlo anche come tassello di un più ampio discorso interdisciplinare, fra letteratura e anropologia, intorno alla rappresentazione delle “cose”. L’antropologia ci insegna che, da sempre, le cose “parlano”. Attraverso le cose, il mondo si offre al nostro sguardo e al nostro operare. L’uomo intrattiene dalle origini con le cose un doppio rapporto, concreto e figurale, funzionale e metaforico. Le cose materializzano e incarnano la relazione uomo-mondo e interessano sia la mente che il corpo, mediano il nostro rapporto con lo spazio, permettendoci di fare operazioni concettuali, pratiche e strumentali.
-In origine le cose per gli uomini possedevano personalità e virtù proprie: non viste come inerti “oggetti” rispetto a un “soggetto” ma avevano un nome e una propria anima. Nel suo classico saggio antropologico, Saggio sul dono (1923) Marcel Mauss ricostruisce presso gli Aborigeni australiani il mondo arcaico, popolato di oggetti-potenze. E’ la scena in cui si danno i feticci che non parlano solo del potere delle cose ma del nostro rapporto con loro: ci incantano, si animano al nostro posto.
-Il mondo moderno è popolato di cose la cui esistenza è data: esistono e stanno lì come fanno le cose, oppure sono utensili investiti d’una funzione, o sono come le opere d’arte, fine a se stessi, da contemplare. Nella modernità, con la rivoluzione scientifica, la cosa è ciò che sussiste indipendentemente da noi, semplice materialità fenomenica muta. Ma è proprio così? La modernità presenta più volti, anche se in essa vi è un filone portante razionale che comincia nel Seicento, con il meccanicismo. E’ in questo orizzonte cartesiano, basato sulla separazione fra oggetto e soggetto, legislatore del mondo, che il soggetto conosce la natura come puro dato calcolabile e manipolabile dalla tecnica. Tuttavia, nel Rinascimento inquieto operano altri filoni non platonici e non meccanicisti: la terrestricità e la carnalità degli esseri è centrale, a esempio, in Leonardo e in Michelangelo, in Telesio, in Campanella e in Bruno.
-Si è dovuto attendere il Novecento perché venisse messa in discussione radicalmente l’oggettività del mondo e delle cose, la loro fatticità di dato naturale. Le epistemologie novecentesche hanno criticato come ingenua la separatezza tra soggetto e oggetto: non vi è più un mondo oggettivo e predefinito, oggetto di osservazioni, e fonte di rappresentazioni. Non vi sono più, dunque, le cose nella loro pura datità: esse emergono in pratiche sociali di contrattazione e in processi di testualizzazione. E ciò è avvenuto non solo in sede linguistica e semiotica ma anche nelle nuove correnti di epistemologia della scienza e della tecnica. Possiamo far iniziare questo processo dalla fenomenologia che, assumendo l’intenzionalità della coscienza, mette in discussione il carattere non problematico delle cose. Ciò che la fenomenologia mette “tra parentesi” è appunto l’atteggiamento naturalistico o ingenuo. E’ soprattutto Maurice Merleau-Ponty che riflette sull’oggetto come risultante di pratiche, temporalità, perché si volge al carattere incarnato e sensibile della percezione e al ruolo del corpo nel campo intersoggettivo. Merleau-Ponty pensa la percezione come un “fare”, un’attività strutturante e configurante, in cui soggetto e oggetto si danno insieme. Analogamente, il biologo cileno Humberto Romesín Maturana ha studiato l’autopoiesi giungendo all’idea secondo cui la realtà è una costruzione consensuale.
A me interessa, più che l’erotizzazione delle cose, la loro messa a valore in un universo “simmetrico” e figurale: anche gli oggetti della tecnica “ci parlano”. L’uomo non solo utilizza le cose che trova in natura e dà loro un senso, ma costruisce oggetti e di essi dissemina il mondo. L’etnologo francese André Leroi-Gourhan ha messo in luce la connessione che si istituisce tra attività tecnica (scelta di materiali e messa informa di oggetti) e linguaggio/simbolizzazione. Tecnica e linguaggio strutturano le diverse e complesse modalità con cui l’uomo si interfaccia con la realtà e la costruisce. L’utensile è un intermediario tra il soggetto che agisce e l’oggetto su cui agisce. L’utensile prolunga e amplifica il nostro corpo e i nostri sensi. In un approccio culturale alla tecnologia, c’è la centralità del corpo e del gesto. Gli oggetti dunque “parlano” fin dal paleolitico: raccontano storie e possiamo leggerli come un vocabolario di parole congelate nella materia concreta.
I
A questo proposito, rinvio anche a E. Fiorani, “Il mondo degli oggetti” (Lupetti ed.)
Con una brevità di cui mi scuso ringrazio Zinato delle sue interessantissime osservazioni, che meriterebbero ampio approfondimento e si legano in più modi al libro (che tra l’altro dà rilievo alla svolta fenomenologica, e a mio avviso non segue univocamente un’estetica postmodernista).
Con una brevità di cui non mi scuso ricordo a Francesca che un blog è fatto per dire liberamente quello che si pensa, certo; magari però pure pensando a quello che si dice, per rispetto, oltre che degli autori su cui si interviene e dei responsabili del blog, soprattutto di se stessi. Lei liquida il libro in due parole, oltretutto sbagliando (a parte che nessun lavoro su un argomento di enorme respiro può o deve essere totalmente esaustivo, Pietz è citato); ne sconsiglia la lettura con una categoricità che sarebbe parsa eccessiva a Torquemada, senza fornire uno straccio di argomento né beninteso uno straccio di firma; ma come può pensare che qualcuno possa darle retta?