di Massimo Raffaeli
[Questo articolo è uscito su «Alias-il manifesto»].
Non è consueto che un poeta oggi si misuri con un autore classico come non è consueto si dedichi a un poema che esige il corpo a corpo assoluto e il pieno possesso del repertorio tecnico . Lo è ancor meno se si pensa a Virgilio e ad una Stimmung così imprendibile, nella sua ricchezza come nella sua sensibile delicatezza, da riuscire disarmante nell’epoca che predilige gli estremi, o la nettezza oltranzista del segno o la sua trasecolata evanescenza. E’ un fatto che il poeta (ed eccellente latinista, beninteso) Alessandro Fo ci dia ora la sua Eneide (note di Filomena Giannotti, Einaudi “Nuova Universale”, pp. XLVIII+920, € 38.00), un’impresa non solo encomiabile per la sua compiutezza, e si dica pure la coerenza del risultato, ma che tutto lascia presagire corrisponda a un vero e proprio testo generazionale e cioè a un’effettiva mutazione del senso comune.
Non che mancassero alcuni immediati precedenti di pregio e d’autore (come la versione in versi liberi di Luca Canali, uscita per la Mondadori -“Lorenzo Valla” fra il ’78 e il 1983, e quella fornita purtroppo solo per excerpta, in endecasillabi esclusivi, a firma di Giovanna Bemporad da Rusconi nel 1983), ma il doppiaggio di riferimento, l’ultimo capace di produrre un senso comune e persino un proprio gergo, risaliva a Rosa Calzecchi Onesti, la cui Eneide, edita dall’Istituto Editoriale Italiano nel ’62, si trasferisce al catalogo Einaudi nel 67 e, a beneficio di almeno due generazioni di lettori e studenti, approda agli “Oscar Mondadori” nel novembre del 1971. Qui va aperto un inciso nei riguardi di una studiosa benemerita (mancata novantacinquenne a Milano nel 2011 e Fo ne fa cenno commosso nella sua introduzione) il cui lavoro di traduttrice dai classici (solo per Einaudi una Iliade nel ’50 e un’Odissea nel ’63) corrisponde in Italia all’avvento di un codice deliberatamente modernista. Allieva di Mario Untersteiner che la mette in contatto con Cesare Pavese, lettrice di Lavorare stanca e dei Dialoghi con Leucò, il suo lavoro viene presto allineandosi a quello condotto dalla quasi coetanea Fernanda Pivano su Spoon River. Che si tratti delle pentapodie giambiche degli angloamericani o di esametri dattilici, la resa sarà sempre il verso lungo e prosastico, vagamente esametrico solo nell’andatura, su cui poggiare quei tre o quattro accenti forti che non lo distanzino troppo dagli endecasillabi sciolti che si legano agli automatismi del lettore. (Tant’è che da Einaudi, già agli esordi su Omero, più d’uno è perplesso se Pavese, il 7 giugno del ’48, è costretto a rispondere stizzito alle cautele classiciste del collega Carlo Muscetta – in Officina Einaudi: Lettere editoriali 1940-1950, a cura di Silvia Savioli, introduzione di Franco Contorbia, Einaudi 2008-: “Che il verso resti almeno come struttura mentale se non come cadenza . […] Non credo alla tua teoria dell’endecasillabo. Non credo nemmeno all’esametro. Non credo in genere a nessuna metrica”.) Vale a dire a nessuna metrica che non sia dissimulata in prosa o che in prosa riscriva un suo ritmo.
Ecco per esempio come Rosa Calzecchi Onesti traduce l’attacco del II libro dell’Eneide, il racconto delle vicissitudini di Enea che innamora Didone, luogo proverbiale che la tradizione vuole fra quelli redazionalmente più arcaici e addirittura letti al cospetto di Augusto da Virgilio in persona, in una specie di anteprima, nel 21 a. C.: “Tacquero tutti e intenti il viso tendevano./ Dall’alta sponda il padre Enea cominciò:/ ‘Dolore indicibile tu vuoi ch’io rinnovi, o regina’”. La traccia in prosa tende alla atonalità, il verso si asciuga in un disegno ellittico. D’altro lato, l’incipit nella soluzione di Alessandro Fo: “Tacquero tutti, e tenevano intenti su lui i loro sguardi/ Quindi dall’alto giaciglio così incominciò il padre Enea:/ ‘Chiedi, regina, che io ripercorra un dolore indicibile’”. Stavolta, non solo c’è un metro più riconoscibile (qualcosa che duplica, alla maniera della metrica “barbara”, il tempo lungo o la dilatazione un poco sonnambolica dell’esametro originale) ma c’è anche e soprattutto un’onda fonica che insieme scandisce e unisce (si potrebbe dire in un continuo fonosintattico) ciò che nell’originale presenta una tessitura tanto intramata da apparire cangiante e, alla lettera, versicolore. Fo intuisce che la intimità dei colori emotivi, in Virgilio, così come il perpetuo décalage dei toni poetici (una grandiosa partitura dove confluiscono e infine si identificano lirica e drammaturgia, ci ha insegnato un maestro quale Antonio La Penna) non sono entità duplicabili a specchio. Pertanto Fo rigetta sia l’ambigua modestia del mimetismo sia la l’esibita superbia, o la comoda scorciatoia, dell’inventiva. Semmai opta per un gesto ambivalente che, rispetto all’originale, è tanto di distanza quanto di convergenza: da un alto decide infatti di chiudersi in una gabbia metrica che non gli lascia scampo e anzi gli impone durissimi vincoli (tutti ricordati nella sua nota introduttiva, specie l’esatto corrispettivo delle unità frastiche e lessicali) dall’altro invece si concede la massima libertà, sia per omologia sia per analogia, nella riconversione della trama fonica. Poeta di fisionomia da tempo definita (e di limpido segno, come sanno i lettori di Corpuscolo, Einaudi 2004, o di Vecchi filmati, Manni 2006), firmatario di un’altra versione a suo tempo memorabile, il De Reditu di Rutilio Namaziano (Il Ritorno, Einaudi 1992), l’attuale impresa di Fo è nell’avere restituito a Virgilio una musica, dentro una partitura che non richiamasse più l’acustica sospettosa, trattenuta in sordina, dei modernisti, ma neanche, o tanto meno, il fragore stereofonico dei postmodernisti. Una petite musique, questo è ovvio data la grandezza schiacciante dell’originale, ma pur sempre una musica. Lì del resto si è sempre giocata la grandezza dei traduttori virgiliani a partire da colui che per secoli ha tenuto banco, esattamente dal 1581 fino agli anni della nostra scuola media, quando l’Eneide di Annibal Caro ancora resisteva come terza corona fra l’Iliade del Monti e l’Odissea di Pindemonte. E coi ritmi mossi di un “moderno tramato sull’antico” (nota Giulio Ferroni in ‘Per fuggir la mattana’. Annibal Caro e la scrittura, Andrea Livi Editore 2009), così comincia il suo II libro dell’Eneide, lo stesso, sia qui detto soltanto di volata, su cui il giovane filologo Giacomo Leopardi darà una prima prova di scrittore: “Stavan taciti, attenti e disiosi/ d’udir già tutti, quando il padre Enea/ in sé raccolto, a così dir da l’alta/ sua sponda, incominciò: ‘Dogliosa istoria/ e d’amara e d’orribil rimembranza,/ regina eccelsa, a raccontar m’inviti’”. E’ una musica di endecasillabi, gli eterni endecasillabi italiani, tuttavia così esatti e scanditi che li sentiamo giustamente datatissimi. Ma Annibal Caro, mentre traduce l’Eneide, può sentire Virgilio alla stregua di un suo contemporaneo, mentre per i moderni, appena due secoli dopo, è già questione di un autore antico tout court (tanto che Leopardi nello Zibaldone, circa l’impresa del Caro, ne rileva la “scioltezza che la fa apparire un originale non una versione”). Oggi, nell’età cosiddetta postmoderna, la presenza dei classici può soltanto essere paradossale, perché remotissimi ma sempre incombenti come possono essere soltanto gli spettri. Sia lode dunque ai temerari che sanno captarne l’abbrivo musicale con cui, di volta in volta, costoro si annunciano.
[Immagine: Sasha Waltz, Dido and Aeneas (gm)].
… Una domanda su un’opera curata da Alessandro Fo: la traduzione delle Metamorfosi di Apuleio, pubblicate da Frassinelli nel 2003, è la medesima pubblicata nel 2010 per Einaudi o ci sono differenze sostanziali tra le due edizioni?
Ringrazio anticipatamente chi mi saprà aiutare!
Un saluto,
Coda
Gentile Coda, mi è stata segnalata la Sua gentile domanda sull’Apuleio. La traduzione ripubblicata da Einaudi è – come ipotizza Lei – “sostanzialmente” la stessa di Feltrinelli: l’ho ritoccata in pochissimi punti. Qualche minimo ritocco è stato fatto anche nel saggio introduttivo. Nell’Edizione Einaudi c’è in più un aggiornamento bibliografico a cura di Luca Graverini. Grazie a Lei, come anche ai curatori di questo blog, per l’attenzione. Ogni cordialità, Alessandro Fo
Grazie mille per la risposta!
Mi affretto a procurarmene una copia: visto che l’edizione Einaudi sta per diventare introvabile come l’edizione Frassinelli.
I miei saluti,
Antonio Coda
articolo sulla presentazione del libro (da econewsonline.it/speciali):
“L’Eneide in una nuova edizione per Einaudi alla Laterza di Bari”
L’Eneide di Publio Virgilio Marone per i tipi di Einaudi è destinato ad un pubblico non solo accademico. Formato e grafica del volume ne sono un segno. Così come la presentazione alla libreria barese di via Dante per un ciclo di incontri che si concluderà a maggio. Ne hanno discusso (insieme all’autore della traduzione, il latinista Alessandro Fo, nipote di Dario) il professor Francesco Tateo (già preside della facoltà barese di Lettere e Filosofia) e l’editore (nonché presidente di Confindustria del mezzogiorno) Alessandro Laterza.
“La necessità del “classico” è testimoniata da diverse nostre pubblicazioni di autori latini e greci – ha detto Laterza in riferimento all’importanza dei classici nella cultura odierna – anche se – ha continuato facendo eco a considerazioni di Tateo – bisogna essere consapevoli della delicatezza dell’attività di traduzione, di qualsiasi traduzione”. Il riferimento è al necessario “tradimento” dell’opera originale da parte dell’interprete, “tanto che – come ha sottolineato Tateo – in realtà ogni operazione di interpretazione è artificio; lo è anche l’interpretazione artistica, riproducendo “soltanto” una realtà che di per sé è autentica”.
Già partendo da questo presupposto può immaginarsi l’enormità della questione che i relatori hanno posto a se stessi ed all’auditorio; enormità di cui è stato consapevole (per sua stessa ammissione) l’autore dell’opera di traduzione; enormità che, spinta all’estremo, mette in discussione tutta l’attività di divulgazione culturale (in particolare) e del sapere (in generale). “Ingens d’altronde – ha sottolineato Fo – è uno dei termini che più spesso (una trentina) ricorre nell’Eneide”.
Il traduttore, insomma, ha dovuto affrontare problemi inerenti sia la semantica che la filologia. “Una formula ricorrente in Virgilio è stata da me tradotta con “dette i detti”, – ha detto a proposito Fo – espressione che può apparire poco elegante ma che è stata l’unica che ho trovato per rendere quella formula secondo l’impostazione poetica del testo.”
”Anche Pasolini – ha detto in conclusione Tateo – si era cimentato con la traduzione dell’Eneide, ma con risultati che si discostavano assai dall’impostazione classica dell’interpretazione del testo virgiliano, tanto che lo stesso Pasolini dopo i primi 300-400 versi lasciò perdere”.
L’Eneide, tradotta da Fo, è disponibile anche in files audio sul sito Einaudi.it.
di Giampiero Calia