di Romano Luperini
[Questo articolo è apparso sul numero 63 di «Allegoria»].
1.
A partire dagli anni Settanta e Ottanta del Novecento si è diffusa un’idea bipartita oppure tripartita delle tendenze poetiche della prima metà del secolo. Cominciò Pasolini opponendo Novecentismo ad Antinovecentismo (ed iscrivendosi nel secondo filone), continuò, in modo radicalmente diverso, Sanguineti con Avanguardia e Tradizione; ma intanto Fortini, Mengaldo, Raboni andavano piuttosto proponendo tre linee antitetiche rifacendosi ai tre maggiori poeti: Ungaretti, da cui nascerebbe la tendenza alla poesia pura e all’ermetismo, Montale capace di unire una vocazione di lirica “alta” e “tragica”, “metafisica” addirittura, a una poesia di pensiero incline anche a increspature prosastiche secondo una procedura poi ripresa, fra gli altri, da Sereni e dal Luzi della maturità, Saba la cui aspirazione alla narrazione e all’abbassamento sarebbe stata proseguita da Caproni, Penna, Bertolucci, Giudici. Queste divergenze hanno una loro ragione d’essere, derivano insomma da dati reali stilistici e tematici più volte sottolineati (anche dal sottoscritto, per quello che può valere). Tuttavia non danno conto delle convergenze e di una certa aria di famiglia che è possibile riscontrare fra questi diversi filoni che si caratterizzano tutti, per esempio, per una opposizione radicale alla poesia di fine secolo. Questo comune carattere innovativo, seppure indubbiamente declinato in modi diversi, non ha ancora un nome. Mi chiedo – è questo il senso delle note che seguono – se la categoria critica di modernismo non possa servire a cogliere questo aspetto unitario e quindi a dare un quadro del primo Novecento poetico italiano meno spigoloso e forse anche più rispettoso dei processi reali.
2.
L’etichetta di modernismo è stata impiegata sinora in area anglosassone per definire la letteratura più innovativa dei primi tre decenni del nuovo secolo (anche se va registrato che attualmente tende a diventare più estensiva e inclusiva e dunque più generica): Pound, Eliot, Joyce, Woolf sono considerati i maestri indiscussi di tale tendenza. Nella letteratura spagnola e ispanoamericana viene chiamato modernismo il movimento inaugurato dal poeta nicaraguense Rubén Darìo nel 1888 e sviluppatosi poi a cavallo dei due secoli sino al 1914, mentre nella letteratura in lingua portoghese il termine indica la letteratura d’avanguardia fiorita intorno agli anni Venti.
Nella storiografia della letteratura italiana l’impiego del termine è assai recente, eppure appare già in rapida espansione in seguito sia alla crescente influenza degli studi di comparatistica, sia alla diffusione del concetto di “postmodernismo” che lo evoca in opposizione necessariamente dialettica. Si è cominciato a parlare di modernismo negli anni Novanta a proposito della poesia di Montale, per cui è stata usata l’espressione di “classicismo modernista” da parte di alcuni critici della ultima generazione, come Casadei, Mazzoni, de Rogatis e Simonetti.[1] Più recentemente ancora il termine è stato impiegato soprattutto per la narrativa, sempre da parte di critici giovani, comparatisti e italianisti come Pellini, Donnarumma, Castellana, Tortora, ed è stato riproposto come categoria storiografica complessiva in un volume in inglese a cura di Somigli e Moroni pubblicato dall’University Press di Toronto, Italian Modernism.[2] Fra costoro c’è chi intende il modernismo come un contenitore della letteratura fra fine Ottocento e i primi tre o quattro decenni del Novecento, facendolo iniziare addirittura da Verga (Pellini) o invece da Pascoli e d’Annunzio (Somigli e Moroni), e chi lo vede come un movimento meno esteso e generico perché più caratterizzato in senso innovativo e novecentesco, collocandolo fra crepuscolari e vociani da un lato e Ungaretti, Montale e Gadda dall’altro (Tortora, Donnarumma), oppure limitandosi a verificare in narrativa l’esistenza di un’area di realismo modernista (Castellana). Va ricordato inoltre che Guido Guglielmi è stato uno dei primi a utilizzare per la letteratura italiana la categoria di modernismo (seppure con riferimento generico alle tendenze sperimentali presenti già nell’Ottocento) e a distinguerla da quella di avanguardia (mi riferisco al libro L’invenzione della letteratura. Modernismo e avanguardia del 2004).[3]
Preciso subito che, per quanto mi riguarda, un uso generico e indifferenziato del termine mi sembra poco produttivo, mentre esso mi sembra acquisti senso e valore se riferito alla rottura primonovecentesca e alla nuova cultura determinata dalla rivoluzione epistemologica di fine secolo. Come definire, per esempio, la ricerca di Tozzi, Pirandello, Svevo? Non rientra certo nell’ambito né del verismo né del simbolismo decadente e anzi si contrassegna per una netta presa di distanza non solo dalle poetiche naturaliste ma anche dall’estetismo dannunziano; ma non può neppure essere definita di avanguardia dato che questi autori non hanno militato in gruppi, né hanno scritto manifesti, ma hanno condotto ricerche appartate e individuali, e neppure hanno annunciato drastiche rotture con la letteratura del passato, ma hanno assunto a riferimento autori delle precedenti generazioni come Verga o Flaubert. Un discorso analogo potrebbe essere fatto per quella poesia del primo Novecento che si pone decisamente al di là delle tre corone fin de siècle senza ripudiare in blocco la tradizione né aderire a movimenti di avanguardia.
3.
Se il moderno nasce – come insegna Jauss[4] – dalla coscienza di una radicale separazione dal passato, la prima generazione modernista della poesia italiana è ben rappresentata dalla linea crepuscolari-Sbarbaro-primo Montale (quello compreso fra Quaderno genovese, Accordi e gli altri testi poetici del quinquennio 1918-1923 che fanno parte di Ossi di seppia), cui si può avvicinare anche la poesia di Palazzeschi, nonché l’esperienza di Rebora. I crepuscolari, Palazzeschi, i poeti vociani (ma Campana richiederebbe probabilmente un discorso a parte), Ungaretti di Allegria di naufragi, il primo Montale esprimono una radicale rottura – anzitutto in termini di tono, linguaggio, stile – rispetto alla tradizione più recente rappresentata da Carducci ma anche da Pascoli e d’Annunzio e una coscienza poetica influenzata dalla cultura delle avanguardie europee, di cui peraltro spesso mutuano piuttosto i temi che le soluzioni formali più radicali. Il modernismo italiano nasce insomma nettamente distinto dal simbolismo decadente di fine secolo, e in polemica con esso e con la pretesa di sublime – non importa se d’en bas – che esso accampa. Pur partendo da posizioni opposte, Montale e Ungaretti giungono alle medesime conclusioni: da un lato avvertono inadeguata e ancora ottocentesca la lezione di Pascoli e d’Annunzio, dall’altro denunciano la mancanza in Italia di un maestro di modernità come era stato Baudelaire in Francia; entrambi sentono perciò l’esigenza di rifarsi a modelli stranieri, lasciando da parte o attraversando a ritroso i maestri italiani del simbolismo decadente e ripiegando su Foscolo e Leopardi (che però, aggiunge Montale, «partono dal Settecento, lasciando allo scoperto gran parte dell’Ottocento»)[5] sino a ritornare molto indietro, a Dante (Montale) o a Petrarca (Ungaretti).
Come gli autori di avanguardia, anche i modernisti non possono prescindere dalla rottura epistemologica di fine Ottocento e inizio Novecento rappresentata in modi diversi da Nietzsche, Bergson, Freud. Condividono dunque con loro il clima culturale, ma poi se ne differenziano per soluzioni artistiche e ideologiche. Gli scrittori modernisti non fanno gruppo, ma seguono traiettorie individuali; non sbeffeggiano la tradizione ma perseguono un rapporto complesso di continuità e cambiamento nei suoi confronti. Modernisti e avanguardisti hanno inoltre due differenti coscienze del tempo: gli uni vivono il presente in quanto precarietà e apertura al possibile, gli altri in quanto contributo al futuro e sua obbligata anticipazione; i primi, come ha osservato Compagnon, presuppongono «una temporalità intermittente o seriale», i secondi una temporalità «genetica o dialettica».[6]
Rispetto all’avanguardia futurista i modernisti esprimono perciò netto dissenso e anche quando, per un certo periodo, ne fanno parte (è il caso di Palazzeschi) poi se ne dissociano apertamente. D’altronde, all’inizio del nuovo secolo, la separazione dal passato è assai più netta fra i modernisti che fra gli adepti del futurismo. Marinetti e i suoi sono infatti largamente debitori della cultura ottocentesca su tre punti fondamentali: 1. conservano una concezione analogica e sostanzialmente simbolista e impressionista del fare poetico: pur annullando il soggetto attraverso la sua riduzione a materia e a magnetismo animale, la poesia dovrà infatti esprimere le corrispondenze fra tale realtà e la materialità dell’esistente; 2. l’io creatore mantiene un valore assoluto e protagonistico: infatti, sul piano estetico, i suoi prodotti, pure esaltati come manifestazione dell’effimero e del disprezzo per la sacralità dell’arte, mantengono un privilegio in quanto espressione del genio individuale, mentre sul piano politico spetterà al «proletariato dei geniali» prendere il potere nella società («Sì! Gli artisti al potere! Il vasto proletariato dei geniali governerà», Marinetti, Al di là del comunismo); 3. il sottofondo costante della loro filosofia sta nell’esaltazione del progresso e delle macchine, cioè nel mito ideologico più diffuso e popolare nella borghesia ottocentesca. Da un punto di vista storico bisogna dunque distinguere i valori del nuovo e quelli del futuro, senza confonderli o, tanto meno, uniformarli.
Se assumiamo come esemplare la linea crepuscolari-Sbarbaro-primo Montale, allargandola a Rebora e Palazzeschi, la coscienza della separazione dal passato si annoda a due questioni strettamente intrecciate fra loro: la consapevolezza della crisi dei fondamenti e della fine del senso che ne deriva e la coscienza del declino del tradizionale ruolo protagonistico del poeta come vate, maestro e profeta o comunque come distributore di ideologie complessive. La nuova poesia nasce insomma dopo Nietzsche, e si sente. Gozzano, Corazzini, Moretti, Palazzeschi si ritraggono persino dalla definizione di poeta. D’altronde la rinuncia alla qualifica di poeta o la dichiarazione di vergogna di esserlo vanno lette contestualmente a dichiarazioni come questa di Gozzano: «La Patria? Dio? L’Umanità? Parole / che i retori t’hai fatto nauseose!» (da Pioggia d’agosto) o al rifiuto di Moretti di discutere «di Dio, di politica, d’altro», giacché il poeta non ha «nulla da dire» e niente più vale (cfr. Che vale? E Io non ho nulla da dire). La percezione di una nuova coscienza storica, e della crisi di funzione e di mandato che ne deriva, è espressa da Palazzeschi e da Montale in versi famosi: «I tempi sono cambiati, / gli uomini non domandano più nulla dai poeti. / E lasciatemi divertire!» (Palazzeschi, E lasciatemi divertire) e «Non chiederci la parola che squadri da ogni lato / l’animo nostro informe […]. Non domandarci la formula che mondi possa aprirti […].Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo» (Montale, Non chiederci la parola), nei quali appare anche un altro aspetto cruciale della modernità: la differenza col passato sentita come consapevolezza dell’«adesso storico», dell’oggi, di ciò che è «attuale».[7] È il senso del presente che fa nascere il mito del passato, la nostalgia di una infanzia che può essere insieme del soggetto e del mondo, l’angoscia per un distacco dalle «antiche radici» dell’essere e dalle «sponde felici» di un eden perduto (La farandola dei fanciulli sul greto), un eden in cui era ancora possibile dare un significato alla vita perché in esso «rapido rispondeva / a ogni moto dell’anima un consenso / esterno, si vestivano di nomi / le cose, il nostro mondo aveva un centro» (da Fine dell’infanzia). E qui, in La farandola dei fanciulli sul greto, appunto, la ricerca di Montale incrocia per un attimo quella di Ungaretti, che della linea che andiamo tracciando rappresenta in realtà un’alternativa, come vedremo più avanti.
In Rebora l’estraneità al significato e, nondimeno, il bisogno di esso sono suggellati nel doppio settenario «e non muore e vorrebbe, e non vive e vorrebbe» di O carro vuoto sul binario morto. Il soggetto di questa frase rimanda al «ciel», cioè a un valore che trascenda la contingenza, al significato generale della vita. Qui Rebora comunica con estremo vigore di sintesi il senso di una condizione umana che, di fronte alla impossibilità di qualsiasi certezza, vorrebbe annullare la ricerca dei significati e riuscire a vivere senza di essi e non ci riesce, e allora vorrebbe trovare uno sbocco positivo a tale ricerca ma egualmente non ci riesce. E se in questo caso il soggetto sembra oscillare ancora tra il desiderio di vivere senza certezze e valori e quello opposto di chiedere al cielo «il suo verbo», il trauma della guerra gli insegnerà la «frode» di qualunque significato («Frode la terra») e l’inganno di qualsiasi situazione in cui «l’uomo e la vita s’intendono ancora» (Voce di vedetta morta).
Ma la linea crepuscolari-Sbarbaro-primo Montale si caratterizza anche per altre due tematiche che discendono immediatamente da tali assunti: il senso di esclusione e di estraneità rispetto alla società e alla natura e la conseguente opzione per l’atonia, l’indifferenza, il sonnambulismo. Ecco Gozzano: «Altra salute / non ha che nella cerchia disegnata / intorno dall’assenza volontaria» (da Storia di cinquecento Vanesse, in Le farfalle). Ecco il sonnambulismo di Sbarbaro: «Son come posto fuori della vita / una macchina io stesso che obbedisce, / come il carro e la strada necessario», oppure «A queste vie simmetriche e deserte / a queste case mute sono simile. / Partecipo alla loro indifferenza, / alla loro immobilità. Mi pare / d’esser sordo ed opaco come loro, / d’esser fatto di pietra come loro» (Esco dalla lussuria), la sua percezione di un cambiamento storico prodotto dalla perdita di senso del mondo («perduta ha la sua voce / la sirena del mondo, e il mondo è un grande / deserto», in Taci, anima stanca di godere) e dall’impossibilità di stabilire rapporti vitali e di attribuire significati simbolici alle parvenze della vita: «E gli alberi son alberi, le case / sono case, le donne / che passano son donne, e tutto è quello / che è, soltanto quel che è» (ancora da Taci, anima stanca di godere). Ecco l’inventario di oggetti, la condizione di indifferenza, di aridità e di devitalizzazione, il destino di deiezione del primo Montale («lo stesso / sapore han miele e assenzio», in Portami il girasole), per cui, come in Sbarbaro, «alberi case colli» possono apparire dotati di senso e di un qualche legame vitale con il soggetto soltanto a causa di un inganno, o meglio dell’«inganno consueto» del «mondo come rappresentazione» (da Forse un mattino andando in un’aria di vetro e Intenzioni [Intervista immaginaria]). Il «terreno bruciato dal salino» di Portami il girasole è insomma fuori e dentro l’io.
4.
Ungaretti condivide inizialmente con la linea appena descritta il tema dell’esilio, dello spaesamento, dell’esclusione da un porto sepolto originario, ma se ne differenzia poi per la percezione – di matrice simbolista – che un senso esista e che lo si possa ritrovare andando indietro a ritroso, alle radici dell’io, e sprofondando, giusto secondo l’ideologia dell’unanimismo, nel «popolo» dei soldati e nella culla di una «patria» («popolo» e «patria» non mancano in Il porto sepolto, anzi compaiono già in alcuni suoi titoli). La stessa situazione di Rebora – l’esperienza dell’orrore e della morte nella guerra di trincea – può determinare perciò esiti opposti: non la denuncia della «frode» dei significati ma la possibilità di ricostituirne dei nuovi. Come in Rebora la dissonanza e l’asprezza espressionistica esprimono la prospettiva drammaticamente nichilistica dei «putrefatti di qui» (Voce di vedetta morta), così in Ungaretti la sublimazione musicale delle rime e delle allitterazioni manifesta, con la forza di una rivelazione istantanea, la conversione della morte in vita, dell’orrore in amore (è la conclusione di Veglia). Analogamente anche Saba ritrova nella città vecchia, negli ambienti più umili e vitali di Trieste, una intesa con il mondo, un crogiuolo di calda vita in cui riconoscersi. In un certo senso la loro poesia degli anni Dieci sembra anticipare già una fase più avanzata del modernismo italiano, quella più piena e matura, da cui negli anni Venti e Trenta nascono capolavori come Le occasioni, Sentimento del tempo, Cuor morituro.
Il carattere specifico di questa nuova fase del modernismo poetico è la ricostituzione del senso attraverso procedimenti di tipo epifanico e allegorico (è il caso di Montale), di tipo simbolistico (Ungaretti) e di tipo analitico e freudiano (Saba). Per esempio: l’esperienza della morte della madre – a cui tutt’e tre dedicano grandi liriche nello stesso giro di anni (La Madre Ungaretti, Preghiera alla madre Saba, A mia madre Montale) – determina esiti fra loro diversissimi: laici e immanentistici in Montale, religiosi e trascendenti in Ungaretti, regressivi sino all’autoannullamento in Saba; ma in ogni caso il testo acquista respiro, racconta una vicenda, mette in scena una narrazione sorretta e guidata da un bisogno di senso. Anche il rapporto con la tradizione si fa più robusto e consapevole, ispirato a una sorta di inedito classicismo modernista, declinato in modi originali e sostanzialmente fra loro alternativi: se Saba persegue il modello del Canzoniere e mira, come scrive Montale, a un «classicismo sui generis e quasi paradossale»,[8] Montale stesso persegue una forma di classicismo dantesco, mentre Ungaretti si ricollega alla linea Petrarca-Leopardi, seppure ibridandola con la lezione di Mallarmé («il maggiore dei petrarchisti», sostiene)[9] e con quella dei barocchi (Gòngora soprattutto). La loro polemica con le avanguardie è costante, ma è una polemica modernista, non tradizionalista o, tanto meno, rondista. Montale, infatti, la conduce in nome di Eliot e della linea metafisica che muove da Baudelaire, Saba recuperando la poesia minore dell’Ottocento e il melodramma (Verdi soprattutto), Ungaretti leggendo la tradizione petrarchista in modo radicalmente antitradizionale. Tutt’e tre rifiutano l’immediatezza delle avanguardie, opponendole l’esigenza di una mediazione. Alla tabula rasa del passato teorizzata da futuristi e surrealisti oppongono il valore della memoria, come scavo psicologico nella storia dell’io Saba, come sentimento petrarchesco del tempo e recupero leopardiano dell’Antico Ungaretti, come repertorio di lampi epifanici e di procedimenti danteschi e allegorici Montale. Anche la metrica tende negli anni Venti e Trenta ad abbandonare il terreno del verso libero dominante nel primo ventennio del secolo e a rientrare in misure note, seppure con una sprezzatura spesso nuova e originale che presuppone appunto quella precedente esperienza.
5.
Dal quadro appena tracciato è possibile forse provare a dedurre qualche conclusione provvisoria.
Anzitutto il modernismo non è un movimento né tanto meno una scuola omogenea e unitaria. È una tendenza che mira a rinnovare profondamente la letteratura, portandovi la nuova cultura messa in circolo da Nietzsche, Bergson, Freud. Copre un’area cronologica di una quarantina d’anni: i suoi confini sono rappresentati infatti, verso il basso, dal simbolismo decadente a cavallo fra i due secoli e verso l’alto dal neorealismo degli anni Quaranta, che impone un nuovo clima culturale e politico e una diversa idea del ruolo dell’intellettuale nella società. In poesia il modernismo rifiuta l’immagine tradizionale di poeta vate e una concezione protagonistica dello scrittore, mentre sul piano letterario accoglie criticamente le innovazioni apportate dalle avanguardie optando per soluzioni che includano anche pratiche più tradizionali come l’uso di una metrica regolare o il mantenimento dei generi letterari.
In secondo luogo il modernismo in poesia si distingue nettamente non solo dal classicismo carducciano ma anche dal simbolismo decadente. Nasce anzi in polemica con tutti i maestri fin de siècle. Tuttavia si distingue con altrettanta nettezza anche dalla avanguardia futurista e poi da quella surrealista, di cui rifiuta la poetica dell’immediatezza e la pratica dei manifesti e del lavoro di gruppo.
In terzo luogo la rottura più radicale con la tradizione ottocentesca non è quella, apparentemente più drastica, dei futuristi, ma l’altra, più sobria, dei modernisti, che, pur guardandosi bene dal fare tabula rasa del passato, esprimono in modo più netto la crisi dei fondamenti del significato e il senso di estraneità e di spaesamento dell’artista moderno agli inizi del secolo. Se si aggiunge che modernismo e avanguardia presuppongono due diverse coscienze del tempo, possiamo concludere che costituiscono due esperienze diverse che sarebbe sbagliato confondere o sovrapporre.
In quarto luogo, è opportuno distinguere una prima fase del modernismo, da una seconda, che si sviluppa nel corso degli anni Venti e Trenta e ha in Ungaretti, nel secondo Montale e in Saba i principali rappresentanti. Nella prima fase l’influenza delle avanguardie (dal futurismo all’espressionismo) si fa sentire assai più che nella seconda, nella quale prevale invece l’aspirazione a un classicismo moderno o paradossale che dir si voglia. Da questo punto di vista i tre poeti centrali della prima metà del secolo scorso, Montale Ungaretti e Saba, che la storiografia degli anni Cinquanta e Sessanta, da Anceschi e Contini (ma con strascichi sino all’antologia sanguinetiana), voleva uniti in un unico raggruppamento e che la critica successiva – da Mengaldo a Fortini e Raboni – aveva visto invece, non senza ragione, come iniziatori di percorsi alternativi, potrebbero di nuovo trovare una loro collocazione unitaria.
In quinto luogo, Montale e Ungaretti rappresentano nell’Italia degli anni Venti e Trenta gli esempi più avanzati del modernismo europeo: uno introduce nella poesia delle Occasioni le oscillazioni e intermittenze del cuore di Proust, le epifanie di Joyce, il correlativo oggettivo di Eliot, l’altro, in quella di Sentimento del tempo, la valorizzazione del frammento e del barocco, la dialettica fra memoria e innocenza, fra momento «petrarchesco» e momento «omerico» delle origini, fra riscoperta leopardiana del classico e dell’Antico da un lato e poesia pura dall’altro. In questa luce l’ermetismo stesso, di cui sono noti il costeggiamento del surrealismo ma anche la resistenza “petrarchesca” a esso, potrebbe uscire dalla dimensione provinciale in cui è stato cacciato negli ultimi decenni e ricuperare nella prospettiva del modernismo un po’ di quel respiro europeo che gli è stato negato.
[1] G. Mazzoni, Forma e solitudine. Un’idea della poesia contemporanea, Marcos y Marcos, Milano 2002; A. Casadei, Prospettive montaliane. Dagli «Ossi» alle ultime raccolte, Giardini, Pisa 1992; T. de Rogatis, Montale e il classicismo moderno, Iepi, Pisa-Roma 2002; G. Simonetti, Dopo Montale. Le «Occasioni» e la poesia italiana del Novecento, Pacini Fazzi, Lucca 2002.
[2] Cfr. P. Pellini, In una casa di vetro. Generi e temi del naturalismo europeo, Le Monnier, Firenze 2004; R. Donnarumma, Gadda modernista, Palumbo, Palermo 2006; R. Castellana, Realismo modernista. Un’idea del romanzo italiano (1915-1926), in «Italianistica», XXXIX, 1, gennaio-aprile 2010; M. Tortora, Debenedetti, Svevo e il modernismo, in Per Romano Luperini, a cura di P. Cataldi, Palumbo, Palermo 2010. Cfr. infine Italian Modernism. Italian Culture between Decadentism and Avant-Garde, a cura di L. Somigli e M. Moroni, University of Toronto Press, Toronto 2004.
[3] G. Guglielmi, L’invenzione della letteratura. Modernismo e avanguardia, Liguori, Napoli 2004.
[4] H.R. Jauss, Tradizione letteraria e coscienza contemporanea della modernità, in Id., Storia della letteratura come provocazione, a cura di P. Cresto-Dina, Bollati Boringhieri, Torino 1999, pp. 37-98.
[5] E. Montale, Variazioni, in Id., Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di G. Zampa, Mondadori, Milano 1996, vol. I, p. 620.
[6] A. Compagnon, I cinque paradossi della modernità, il Mulino, Bologna 1993, p. 70.
[7] Jauss, Tradizione letteraria e coscienza contemporanea della modernità, cit.
[8] E. Montale, Umberto Saba, in Id., Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, cit., vol. I, pp. 118. Il primo che, a proposito del «classicismo modernista», ha sottolineato la centralità dello scritto sabiano di Montale è stato Mazzoni, Forma e solitudine, cit.
[9] G. Ungaretti, Vita di un uomo. Saggi e interventi, a cura di M. Diacono e L. Rebay, Mondadori, Milano 1974, p. 204.
[Immagine: Gino Levi Montalcini, Mostra Nazionale della Moda, Torino 1932; fotografia di Augusto Pedrini (gm)].
Un pezzo che chiarisce molto e aiuta anche a capire i discorsi che si fanno in questo sito. Confesso che nella mia mente i concetti di avanguardia e di modernismo si sovrapponevano: e infatti non ero mai riuscito a collocare bene gli Ungaretti e i Montale. Questa uscita “morbida” dal passato simbolista, questa rottura e ripresa della tradizione poetica, mi sembrano decisivi per comprendere la poesia italiana dei primi decenni del secolo scorso. Grazie.
Per quanto riguarda Saba, vorrei citare una pagina di Lavagetto, il quale mette in luce un aspetto di questo autore che può essere, a mio avviso, un altro argomento, semmai fosse necessario, a favore della tesi esposta nell’articolo: parlo cioè della figura (termine sabiano) di Lina in Trieste e una donna.
«Sullo sfondo di Trieste campeggia la figura di Lina: nata sotto l’ambiguo segno di Carmen, questa donna non ha progenitrici nella nostra tradizione letteraria. È un personaggio drammatico, che non si lascia ridurre nei confini di chi la pronuncia: non un nome – o un vocativo sottointeso – ma un’antagonista dotata di voce propria, di una specifica durezza. Trieste e una donna è anche la storia di un lento, inesorabile esproprio e dei tentativi che Saba, il personaggio Saba, compie per difendere il proprio dominio: non lesina espedienti, né sotterfugi per garantire la convertibilità del pensato in vero.
[…]
Il riconoscimento della menzogna equivale ad ammettere una realtà diversa, controllata da un’altra coscienza, disorganizzata, su cui lo sguardo non può esercitare nessun controllo e che si struttura in figure o situazioni enigmatiche. La parola altrui si riduce a una differenza, a un messaggio equivoco che ammette soluzioni contraddittorie e che può essere decodificato solo attraverso le sue mancanze.»
Mario Lavagetto, La gallina di Saba, Einaudi, Torino, 1989, p.93
Tesi molto convincente. L’avanguardismo ci interrogherà sempre, non possiamo eluderlo, ma in un certo senso esso finisce con se stesso, è l’ultima forma possibile della letteratura. I grandi modernisti individuati da Luperini invece sono dialetticamente assai più fecondi, ancora oggi possiamo imparare da loro la necessità di pensare il nostro presente tra frattura con il passato, proiezione nel futuro, continuità e discontinuità.
Tra l’altro, questo saggio mi chiarisce definitivamente perché Marinetti non mi sia mai stato simpatico. Per dirla con Gaber: “Aveva tante idee / era un uomo d’avanguardia / si vestiva di nuova cultura / cambiava ogni momento / ma quand’era nudo / era un uomo dell’Ottocento”. L’effrazione della tradizione proclamata al megafono strilla proprio perché è ancora avviticchiata al passato. Muta il paesaggio intorno, invece, chi vi si applica con faticoso, costante, rivoluzionario lavorio.