di Daniela Brogi
30° TORINO FILM FESTIVAL
PREMIO MIGLIOR FILM CONCORSO INTERNAZIONALE
Shell (Scott Graham, UK, 2012, 87’)
Shell è l’esordio di un regista di trentotto anni, cresciuto nel Nordest della Scozia, che ha realizzato due lavori: un cortometraggio (2007), e il film vincitore del TFF: entrambi con il medesimo titolo e ispirati alla stessa storia.
Siamo alla fine del mondo, in uno sperduto paesaggio delle Highlands. Alla curva di una dimenticata strada statale si trova una stazione di servizio, con una casa e un capannone-officina. Qui d’inverno può passare anche una sola macchina alla settimana. In questa desolata geografia into the wild è bloccata, fisicamente e emotivamente, l’esistenza di una giovane (Chloe Pirrie) che si chiama Shell: «come la benzina?» le chiederà un turista. «No. Come quelle cose meravigliose che si trovano in fondo al mare» – risponde Shell, e lo fa senza inflessioni di tono: in maniera puramente referenziale.
Shell ha diciassette anni, non va a scuola; mentre cucina balla i Dire Straits, scambia qualche parola con i clienti che si fermano a far rifornimento: uno di loro le porta in regalo un paio di jeans; un ragazzo la corteggia. Ma questi rari passaggi scorrono senza lasciare impronte di esperienza nell’unica storia che conosce e che vive la ragazza: quella della relazione con il padre Pete (Joseph Mawle) meccanico e rottamatore di auto (molte distrutte dai cervi che attraversano la strada).
Tra Shell e Pete si consuma una silenziosa quanto intaccabile simbiosi, nata dal trauma di un abbandono (la madre se ne andata quando la figlia aveva quattro anni), e rafforzata dalle crisi di epilessia del padre. Come il piccolo lago su cui si affaccia la casa, il rapporto tra i due personaggi è un cerchio naturale: che protegge e soffoca, al pari di una corolla di tenebre, ogni forma e possibilità di vita altra.
In una delle scene di maggior tensione del film la relazione tra Shell e Pete giunge ai bordi dell’incesto («Siamo felici qui, no?» le dice lui mentre dormono insieme. E ancora «Ho bisogno di te», e poi la bacia. «Scusa tesoro», ripete lui, disperato. «Va tutto bene, papà»). Ma si resta sui bordi, e in ogni caso distanti dal pathos classico delle trame edipiche, perché in Shell la vita, come le cose e la natura circostante, significano solo sé stesse, e spesso lo fanno in silenzio. La sceneggiatura è scarna – mai sciatta però; come i volti presi a schiaffi dal vento, gli scambi di battute si esprimono al minimo di energia; il montaggio è ridotto, l’inquadratura spesso si ferma al mezzo busto, senza dare spazio allo scandaglio in soggettiva: lo stile, insomma, lavora per linee essenziali, anche grazie alla fotografia (Yoliswa Gärtig). La vicenda scorre più che può senza accenti forti, e fa sì che i vuoti di comunicazione, anziché dare enfasi all’incomunicabilità, siano forme piene della storia. «Non mangi?», chiede Pete; «Mi sembra di mangiare la tua carne» dice lei, rifiutando lo spezzatino di cervo che ha cucinato – e non si aggiunge altro su questo dettaglio, per non sciupare la scoperta della storia.
Se fosse una narrazione di carta, Shell non sarebbe un romanzo, ma un racconto, perché il fuoco dell’attenzione, più che sulla storia complessiva, è orientata sui modi, anche formali, in cui un’esperienza incolore e comune può essere riguardata come un’esperienza singolare: non tanto attraverso i colpi di scena (che pure in parte ci sono) ma per via di un’irreversibile variazione di ritmo.
Tra i sedici film in competizione per il Concorso Internazionale, Shell era certamente tra i migliori, all’interno di una selezione di qualità alta e, soprattutto, coerente con lo spirito di un Festival attento a promuovere opere prime. Tra di esse, quest’anno spiccava la ricorrenza di storie che, proprio come in Shell, raccontano, con stile asciutto e distante dal sentimentalismo, giovani donne che per emanciparsi percorrono un destino di solitudine : come la protagonista del film tedesco di Pola Beck Am Himmel der Tag / Breaking Horizons: Lara (Aylin Tezel, Premio per la Miglior Attrice), ventisei anni, che tenta di portare avanti una gravidanza (ma non è la storia melò che ci si potrebbe aspettare); Až Do Mesta Aš / Made in Ash (Iveta Grófová), che racconta con molto realismo la parabola da operaia a prostituta di Dorota, una ragazza slovacca che cerca lavoro nella Repubblica Ceca; Call girl (Mikael Marcimain) che recupera, con taglio televisivo, la vicenda di un giro di prostituzione minorile che coinvolse il governo svedese nel 1976; Una noche (Lucy Mulloy) che racconta la fuga da Cuba di Lila; e ancora la protagonista di Present Tense, della regista turca Belmin Söylemez: Mina, che vorrebbe andarsene in America, e pur di mettere insieme il denaro necessario si spaccia per un’esperta lettrice dei fondi di caffè. Tutte storie, come anche Shell, a cui il finale, in fuga, nega un’uscita di sicurezza.
[Immagine: Shell di Scott Graham, Premio Miglior Film Concorso Internazionale, 30° Torino Film Festival (dbr)].
Spero solo che tutti questi film entrino in circolazione, magari anche su Raimovie che vergognosamente propone e ripropone sempre i quattro titoli che ha…
spero che questo film non faccia la fine di quello islandese che ha vinto l’anno scorso. “either way” è stato proiettato durante il festival, durante la serata di premiazione e poi è elegantemente sparito dalla circolazione. è una politica che mette tristezza…