[È da poco uscita l’Eneide nella traduzione di Alessandro Fo, con note di Filomena Giannotti (Torino, Einaudi, 2012). Nei giorni scorsi “Le parole e le cose” ha pubblicato la recensione di Massimo Raffaeli].

 Aen. IV 1-30 (L’innamoramento di Didone)

At regina gravi iamdudum saucia cura
volnus alit venis et caeco carpitur igni.
Multa viri virtus animo multusque recursat
gentis honos; haerent infixi pectore voltus
verbaque nec placidam membris dat cura quietem.       
Postera Phoebea lustrabat lampade terras
umentemque Aurora polo dimoverat umbram,
cum sic unanimam adloquitur male sana sororem:
«Anna soror, quae me suspensam insomnia terrent!
Quis novos hic nostris successit sedibus hospes,     
quem sese ore ferens, quam forti pectore et armis!
Credo equidem, nec vana fides, genus esse deorum.
Degeneres animos timor arguit. Heu quibus ille
iactatus fatis! quae bella exhausta canebat!
Si mihi non animo fixum immotumque sederet    
ne cui me vinclo vellem sociare iugali,
postquam primus amor deceptam morte fefellit;
si non pertaesum thalami taedaeque fuisset,
huic uni forsan potui succumbere culpae.
Anna (fatebor enim) miseri post fata Sychaei   
coniugis et sparsos fraterna caede penatis,
solus hic inflexit sensus animumque labantem
impulit. Adgnosco veteris vestigia flammae.
Sed mihi vel tellus optem prius ima dehiscat
vel pater omnipotens abigat me fulmine ad umbras,   
pallentis umbras Erebo noctemque profundam,
ante, Pudor, quam te violo aut tua iura resolvo.
Ille meos, primum qui me sibi iunxit, amores
abstulit; ille habeat secum servetque sepulcro».
Sic effata sinum lacrimis implevit obortis.

Ma la regina, da tempo ferita da grave tormento,
dentro le vene alimenta la piaga e arde d’un cieco fuoco.
Torna la molta virtù dell’eroe nell’animo, il molto
pregio di stirpe, confitti nel petto stan volto e parole,
né il tormento concede alle membra il riposo che placa.
Con il seguente fulgore di Febo irradiava le terre
e scostava, l’Aurora, l’umida ombra dal cielo[1],
quando così, male in sé, alla concorde sorella si volge:
«Anna, sorella, che sogni mi tengono in ansia e terrore![2].
Questo ospite giunto da noi com’è straordinario,
come si porge nel volto, che forza nel petto e negli omeri!
Credo davvero, e non sbaglio, che sia di una stirpe divina.
Animi ignobili accusa il timore. E lui, ah, da quali
fati è stato vessato! Che guerre affrontate cantava!
Se non avessi nell’animo salda e incrollabile scelta
di non congiungermi più con patto di nozze ad alcuno,
dopo che il mio primo amore, morendo, mi illuse e deluse;
se non avessi ormai in odio le stanze e le torce nuziali
forse a quest’unica colpa avrei potuto soccombere[3].
Lo confesso, Anna, infatti, dal fato del misero sposo
mio Sichèo, e dalla strage fraterna che asperse i Penàti[4],
lui solo i sensi ha piegato, e ha colpito, sì che ora vacilla,
l’animo. Riconosco l’antica fiamma e i suoi segni.
Ma preferisco mi si apra profonda, piuttosto, la terra
o il padre onnipotente mi scagli col fulmine alle ombre,
pallide ombre nell’Èrebo [5], e ad una notte d’abisso,
prima che te, Pudore, io vìoli, o i tuoi vincoli sciolga.
Quello, colui che per primo a sé mi congiunse, i miei amori
si è rapito: lui li abbia con sé, e nel sepolcro li serbi!»
Detto che ebbe, affiorate le lacrime, ne riempì il seno.

Aen. VI 440-76 (L’incontro fra Enea e Didone negli Inferi)

Nec procul hinc partem fusi monstrantur in omnem Lugentes
Campi: sic illos nomine dicunt.
Hic quos durus amor crudeli tabe peredit,
secreti celant calles et murtea circum
silva tegit; curae non ipsa in morte relinquont.
His Phaedram Procrinque locis maestamque Eriphylen    
crudelis nati monstrantem volnera cernit
Euadnenque et Pasiphaën; his Laodamia
it comes et iuvenis quondam, nunc femina, Caeneus
rursus et in veterem fato revoluta figuram.
Inter quas Phoenissa recens a volnere Dido       
errabat silva in magna; quam Troïus heros
ut primum iuxta stetit adgnovitque per umbras
obscuram, qualem primo qui surgere mense
aut videt aut vidisse putat per nubila lunam,
demisit lacrimas dulcique adfatus amorest:     
«Infelix Dido, verus mihi nuntius ergo
venerat exstinctam ferroque extrema secutam?
funeris heu tibi causa fui? per sidera iuro,
per superos et si qua fides tellure sub ima est,
invitus, regina, tuo de litore cessi.      
Sed me iussa deum, quae nunc has ire per umbras,
per loca senta situ cogunt noctemque profundam,
imperiis egere suis; nec credere quivi
hunc tantum tibi me discessu ferre dolorem.
Siste gradum teque aspectu ne subtrahe nostro. 
Quem fugis? extremum fato, quod te adloquor, hoc est».
Talibus Aeneas ardentem et torva tuentem
lenibat dictis animum lacrimasque ciebat.
Illa solo fixos oculos aversa tenebat
nec magis incepto voltum sermone movetur       
Tandem corripuit sese atque inimica refugit
in nemus umbriferum, coniunx ubi pristinus illi
respondet curis aequatque Sychaeus amorem.
Nec minus Aeneas casu percussus iniquo
prosequitur lacrimis longe et miseratur euntem.

E non lontano da lì, da tutte le parti a distesa,
ecco i Campi del Pianto: con questo nome li chiamano.
Qui quanti un duro amore consunse in crudele disfarsi
strade appartate nascondono, e, intorno, protegge di mirti
una selva; le pene nemmeno in morte li lasciano.
È in questi luoghi che scorge Fedra e Procri e Erifìle
mesta, che mostra le piaghe inferte dal figlio crudele,
ed Evadne e Pasìfae; ad esse vanno compagne
Laodamìa e, giovinetto un tempo, Cèneo, ora femmina
e nell’antica figura per fato di nuovo mutato[6].
E la fenicia Didone, di fresca ferita, fra loro
nella gran selva vagava; e, come l’eroe dei Troiani
si trovò a lei vicino e lei riconobbe fra le ombre
scura, quale chi al primo iniziare del mese la luna
o vede sorgere o crede di aver fra le nubi intravista,
non trattenne le lacrime e con dolce amore le disse:
«Vera, o infelice Didone, era a me dunque giunta la voce
che tu eri morta, seguendo la sorte estrema col ferro?
Ahi, della morte ti fui causa io? Per le stelle, lo giuro,
per i sùperi e se una lealtà vale in fondo alla terra,
contro mia voglia, regina, dal tuo lido ho preso congedo.
Ma me i comandi divini, che ora qui a andare fra le ombre,
per luoghi squallidi e putridi e notte profonda mi forzano,
hanno spinto coi loro decreti; né avrei mai creduto
che ti avrei dato, partendo, un simile grande dolore.
Ferma il tuo passo, e non ti sottrarre al mio sguardo! Chi fuggi?
Questa è per fato l’ultima volta che posso parlarti».
Con tali detti Enea quell’animo ardente e dal torvo
sguardo voleva lenire, e lacrime intanto versava.
Lei, altrove rivolta, gli occhi fissava giù a terra,
né si smuoveva nel volto al discorso intrapreso più che se
fosse una statua di dura pietra o di roccia marpèsia[7].
E infine se ne andò via, e piegò, rifugiandosi, ostile
nell’umbrifero bosco, dove lo sposo di un tempo
alle sue cure risponde, Sichèo, e ne ricambia l’amore.
Non di meno Enea, percosso da quel caso avverso [8],
lei, che va via, con le lacrime segue, lontano, e commisera.

 


[1] 6-7. Cfr. la nota a II 8-9.

[2] 8-9. Senza averla in precedenza presentata, Virgilio introduce qui la figura di Anna, sorella unanima di Didone (sull’aggettivo si veda ora Roberta Strati, Itinerari di parole: unanimus, in Paolo Mantovanelli – Francesca Berno, a cura di, Le parole della passione, Studi sul lessico poetico latino, Pàtron, Bologna 2011, pp. 209-42: 209-11). Il personaggio apparteneva già alla tradizione previrgiliana; sappiamo anzi dal commento di Servio che una variante del mito, sostenuta da Varrone Reatino, faceva di lei, e non di Didone, la protagonista degli amori con Enea (cfr. nota a IV 680-81). Virgilio le assegna il ruolo della confidente, una delle risorse tecniche sfruttate dai poeti drammatici per mettere il pubblico al corrente dei sentimenti di un protagonista; che questa funzione spetti qui alla sorella e non, per esempio, a una nutrice (cfr. nota a IV 632), favorisce una maggiore nobiltà di tono, in linea con la elevatezza e la regalità che connotano la Didone virgiliana. Una certa influenza su Virgilio ha esercitato anche il rapporto fra Medea e la sorella Calcíope nelle Argonautiche di Apollonio Rodio. Per tutta la problematica si vedano Richard Heinze, La tecnica epica di Virgilio, edizione italiana a cura di Vittorio Citti, traduzione di Mario Martina, introduzione di Gian Biagio Conte, Il Mulino, Bologna 1996 (edizione originale 1903, 19153), pp. 149 sgg. (particolarmente 157-61) e Giovanni D’Anna, s.v. Anna, in Enciclopedia Virgiliana I, 1984, pp. 178-82.

[3] 18-19. Virgilio ha qui in mente le fiaccole che a Roma, in occasione del rito matrimoniale, accompagnavano il corteo degli sposi. Nella sua agitazione, Didone avverte già fin da ora la sua possibile unione con Enea come una culpa nei riguardi della fedeltà verso il defunto marito Sichèo, e di conseguenza nei riguardi del pudor. Si veda anche Heinze (cit. alla nota precedente), pp. 157 sgg. Cfr. IV 91 e 172.

[4] 20-21. I due versi rievocano con orrore il delitto di cui era stato vittima Sichèo, marito di Didone, ucciso dal fratello di lei, Pigmalióne. Per i Penati si veda nota a I 5-7. L’aggettivo fraterna potrebbe rinviare al rapporto quasi di fraternità che veniva a intervenire in Roma fra cognati, piuttosto che al legame di fraternità intercorrente fra Didone e Pigmalióne (P. Vergili Maronis Aeneidos Liber Quartus, edited with a Commentary by Roland G. Austin, Clarendon Press, Oxford 1955, reprinted with corrections 1963, ad locum). Cfr. I 343 sgg.

[5] IV 26. Èrebo è uno dei termini per indicare l’oltretomba, personificazione delle loro tenebre; si elaborò anche una genealogia che lo voleva figlio di Caos, fratello e sposo della Notte (cfr. nota a IV 510-11); sulla scorta della nota di Servio ad VI 604, si è ritenuto che possa essere distinta con il nome di «Èrebo» la parte più profonda degli inferi, in cui dimorano coloro che vissero bene, ma non possono accedere agli Elìsi perché ancora non hanno affrontato il processo di purificazione: si veda Mariangela Scarsi, s.v. Erebo, in Enciclopedia Virgiliana II, p. 363, che difende in questo passo la lezione alternativa Erebi, recepita da vari studiosi. Poco oltre (v. 34) Anna chiama in causa i Mani: su di essi cfr. nota a III 62-68.

[6] 445-49. I versi in questione presentano una sorta di catalogo di celebri donne che in vario modo furono vittime dell’amore: Fedra, sposa di Tèseo, si innamorò del figliastro Ippolito e, dopo averne provocato la morte per vendicarsi di essere stata respinta da lui, si uccise (cfr. anche VII 761 sgg. con relative note); Procri seguì per gelosia il marito Cèfalo durante una battuta di caccia ed egli la uccise involontariamente, avendola scambiata per una preda; Erifìle, sedotta con un monile da Polinìce, che guidava la guerra dei Sette contro Tebe, causò la morte del marito Anfiarào e fu uccisa per vendetta dal figlio Alcmèone; Evàdne, moglie di Capanèo, un altro dei sette re alleati nella guerra contro Tebe, si gettò sul rogo del marito, fulminato da Giove durante l’assedio della città; di Pasìfae (sulla quale si veda la nota ai vv. 23-27), non è noto in che modo morì, e una possibile fine violenta che la accomuni alle altre eroine è attestata solo da questo cenno di Virgilio; Laodamìa, sposa di Protesilào, il primo dei Greci a cadere all’arrivo a Troia, ottenne dagli dèi di incontrarlo nuovamente per breve tempo, e in seguito si uccise per seguirlo. Infine, il problematico caso di Cèneo (cfr. Paratore, in Virgilio, Eneide, a cura di Ettore Paratore, traduzione di Luca Canali, Mondadori-Fondazione Lorenzo Valla, 6 voll., Milano 1978-1983, ad locum): si sarebbe trattato originariamente di una ragazza di nome Caenis amata da Nettuno, che ottenne dal dio di essere trasformata in un uomo invulnerabile; secondo il mito, avrebbe incontrato tuttavia la morte durante la lotta con i Centàuri, e Virgilio è il solo a precisare che negli inferi avrebbe conosciuto una retrometamorfosi, tornando donna; è incerta la precisa ragione per cui figuri fra le altre eroine legate a patetiche storie d’amore (forse Virgilio attingeva a una fonte ellenistica di cui non siamo a conoscenza: cfr. Tristano Gargiulo, s.v. Ceneo, in Enciclopedia Virgiliana I, 1984, p. 728). Tra le donne elencate da Virgilio, Fedra, Procri ed Erifìle potrebbero essere state tratte dal catalogo delle eroine incontrate da Ulisse durante la cosiddetta Nékyia di Od. XI 225-327.

[7] 470-71. La roccia marpèsia è il marmo di Paro, per via del monte Marpessus a Paro (la traduzione sviluppa l’immagine della statua, evocata dallo stare in piedi fissa, espresso da stare: cfr. Buc. VII 32. È degno di nota che il verso 469 sia quasi per intero identico a quello che fissa in analoga postura la statua di Pàllade, ostile ai Troiani, in I 482).

[8] VI 475. Il casus iniquus è con ogni probabilità l’immeritata sorte sventurata di Didone; ma l’espressione è ambigua (P. Vergili Maronis Aeneidos Liber Liber Sextus, edited with a Commentary by Roland G. Austin, Clarendon Press, Oxford 1977, ad locum) e può abbracciare anche la circostanza amara e sfavorevole occorsa a Enea in questo incontro, come qualcuno ha preferito intendere (Wagner: cfr. The Works of Virgil,  with a Commentary by John Conington, 3 voll., vol. III, revised by Henry Nettleship, Bell, London 18844, ad locum). L’incontro di Enea con l’ombra sdegnata di Didone è notoriamente esemplato su quello di Odisseo con l’ombra sdegnata di Aiace in Od. XI 542 sgg. Adam Parry, The Two Voices of Virgil’s Aeneid, in «Arion» 2, 1963, pp. 266-80 (ora in Philip Russell Hardie, a cura di, Virgil. Critical Assessments of Classical Authors, 4 voll., Routledge, London-New York 1999, vol. III, pp. 49-64: 61) ha sottolineato come, nel caso della vicenda d’amore fra Enea e Didone, Virgilio abbia conferito alla donna una nobile statura eroica che in quel frangente Enea invece perde, e su questo incontro ha scritto «Virgil strengthens the emotions this scene creates in us by recalling the one scene in the Odissey where Odysseus meets a hero greater than himself, and is put to shame by his silence».

[Immagine: Sasha Waltz, Dido and Aeneas (gm)].

7 thoughts on “Due brani dell'”Eneide” nella traduzione di Alessandro Fo

  1. L’italiano è una lingua tremenda davvero:

    “Ma la regina, da tempo ferita (11) // da tempo ferita da grave tormento (2×6),
    dentro le vene alimenta la piaga (11) e arde d’un cieco fuoco (7).
    Torna la molta virtù dell’eroe (11) // virtù dell’eroe nell’animo, il molto (2×6)
    pregio di stirpe, confitti nel petto (11) stan volto e parole (6) // confitti nel petto stan volto e parole (2×6),
    né il tormento concede alle membra (10 manzon.) // alle membra il riposo che placa (10 manzon.).”

    Comunque, tanto di cappello!…

    E si ricorda per l’occasione – in francese però – la traduzione di P. Klossowski senza nessuna nota (L’Énéide, Gallimard, 1964).

  2. Tanto di cappello anche da parte mia. Però ci sono almeno tre cose che non mi tornano nel primo (famosissimo) di questi due brani proposti.

    La prima è abbastanza clamorosa, secondo me, visto che si tratta di un’espressione arcinota e perfino proverbiale. “Adgnosco veteris vestigia flammae” al verso 23 non può diventare quello che è diventato, perché Virgilio sta usando un nesso col complemento di specificazione e non una coppia. Capisco che la trasformazione nell’italiano è indotta dalla necessità metrico-ritmica, ma mi sembra una forzatura eccessiva. Per di più, trovo che a volte la vulgata, quando divenuta dominio di molti, vada preservata. La traduzione dantesca di Purgatorio XXX.48 “conosco i segni dell’antica fiamma” è per noi italiani un richiamo suggestivo che io riuserei. In classe, infatti, io traduco così quest’espressione. Oppure, per preservare il ritmo voluto dal traduttore, suggerirei: “Riconosco dell’antica fiamma i segni”.

    La seconda riguarda la traduzione di “male sana” al verso 8. “Male in sé” in italiano non significa niente. Quindi “fuor di sé” mi pare preferibile; oppure “quando, malata, così” eccetera.

    La terza è al verso 20: “post fata Sychaei” diventa “dal fato del misero sposo /
    mio Sichèo”. Ma che vuol dire in italiano “dal fato di x”? Niente. Allora proverei: “Lo confesso, Anna, infatti del misero sposo Sicheo / dopo morte e strage fraterna che asperse i Penati”.

    Ripeto, trovo notevole l’impresa e coraggioso il proposito, dunque complimenti.

    A chi voglia però divertirsi esercitando/misurando le proprie competenze in materia di traduzione dal latino all’italiano mi permetto di segnalare il geniale e divertente pamphlet di Walter Lapini, “Spinoza e le inezie puerili”, Il Melangolo 2010.

  3. Gentile Professoressa,
    grazie dei suoi rilievi. Purtroppo in un lavoro simile non è possibile risolvere sempre tutti i problemi a perfezione, né accontentare tutti. Cerco di rispondere, rendendo ragione delle mie scelte.

    1. Lei scrive «“Adgnosco veteris vestigia flammae” al verso 23 non può diventare quello che è diventato, perché Virgilio sta usando un nesso col complemento di specificazione e non una coppia».
    Nell’ambito di una traduzione in versi – e, nello specifico, con questo tipo di versi, l’ho riscontrato molto spesso – il genitivo solleva diversi problemi; richiede una preposizione (con inizio consonantico, non ‘annullabile in sinalefe’) e spesso per di più articolata. Ne deriva, nell’italiano, una dilatazione del sintagma latino estremamente ingombrante. Lungo tutta la traduzione ho dovuto più volte ricorrere a qualche escamotage per ‘far entrare’ queste rese di genitivi nelle misure del verso. In questo specifico caso ho risolto nel modo da Lei definito «abbastanza clamoroso», ben sapendo di scomporre la «specificazione» in «una coppia». Quanto all’idea di usare ad verbum tutta intera la famosa resa di Dante per l’emistichio di Virgilio, vorrei quasi appellarmi al «del contrario ho io brama». Proprio perché quel verso di Dante è così celebre, il corto circuito sarebbe stato, secondo il mio personale gusto, più da evitare che da ricercare (avrebbe innescato una sorta di anacronismo di traduzione). Ci ha pensato in ogni caso la gabbia metrica a impedirlo, e mi sembra di avere già disseminato fin troppi tratti di richiamo («antica» e «segni» oltre al quasi obbligato «fiamma»), con un episodio di allusività ‘al limite’, ma ancora (così almeno mi è parso) senza invadenza. Il suggerimento che lei mi porge è contra metrum: “Riconosco dell’antica fiamma i segni”. Come immaginerebbe di scandire il verso? Forse “l’ánimo. Ríconósco dell’ántica fiámma [iato] i ségni”??? (senza iato sarebbe ancora più brutto, divenendo spondaico). Sono esametri «barbari», ma questo non autorizza a coniarli con quelle che a mia volta mi permetterei di definire «forzature eccessive» (già mi sono preso la libertà di un ictus secondario su Rì-, eviterei di andare oltre). Avevo anch’io possibili rese alternative, ma dopo lungo soppesare ho ritenuto che la meno nociva fosse questa.

    2. Lei scrive «La seconda riguarda la traduzione di “male sana” al verso 8. “Male in sé” in italiano non significa niente. Quindi “fuor di sé” mi pare preferibile; oppure “quando, malata, così” eccetera».
    Come immaginerà, ho fatto leggere le prove di traduzione a molte persone, e le rivelerò che più d’una mi ha come Lei contestato il fatto che io abbia deciso di tradurre qui in questo modo il latino cum sic unanimam adloquitur male sana sororem: («quando cosí, male in sé, alla concorde sorella si volge»). Ma io mi sono ostinato e ora le spiego perché. Una delle mie maggiori cure è stata quella di adibire traduzioni costanti per locuzioni costanti; nel II libro, ai vv. 735 s., Enea racconta di un qualche numen a lui male amicum che gli ha sconvolto la mente al punto da fargli dimenticare le sorti di Creùsa che lo stava seguendo. A me è sembrato che in entrambi i casi conservare la locuzione virgiliana con quel “male” fosse importante. Anche in latino non è una espressione corrente; l’uso virgiliano dà alla forma di negazione una sfumatura di indefinitezza, che personalmente avverto fra il sinistro e il conturbante. Nel II ho tradotto: «Qui a me trepidante non so quale dio male amico/ tutta rapí e confuse la mente»; qualcuno ha storto il naso, io mi sono incaponito. E così al II ha tenuto dietro il IV libro; capisco che «male in sé» per il latino male sana possa risultare inconsueto. Che però «non significhi niente» mi pare una Sua conclusione un po’ sbrigativa. Sarei incline a intenderla come una locuzione straniata, non del tutto impropria in un linguaggio poetico. A soluzioni come «nemico», «non amico», «fuori di sé» e simili non era troppo difficile pervenire. Ma perché sciupare quel «male» virgiliano con una chiosa banale? Perché male sana dovrebbe diventare direttamente, per es., “malata”? C’è una bella differenza, direi. Mi è parso (è l’arbitrio del traduttore) che qui valesse la pena di sbilanciarsi per ‘sostenere’ in qualche modo lo sbilanciamento di Virgilio. Uno dei miei amici-consulenti più autorevoli (scrittore, ma anche latinista) era d’accordo con me, e così ho osato. Un altro amico poeta, Ferdinando Cogni, a un tipografo che gli opponeva resistenza su certe peculiarità di impaginazione, appellandosi alla tradizione editoriale, rispose una volta «e allora noi che ci stiamo a fare?». Qui non siamo sul tipografico; ma forse talvolta, almeno in poesia, è lecito rischiare qualche oltranza («male amico» e «male in sé» possono destare dissenso, ma non credo siano parti così mostruosi e incomprensibili da sollevare una fondata indignazione).

    3. Lei scrive «La terza è al verso 20: “post fata Sychaei” diventa “dal fato del misero sposo /
    mio Sichèo”. Ma che vuol dire in italiano “dal fato di x”? Niente. Allora proverei: “Lo confesso, Anna, infatti del misero sposo Sicheo / dopo morte e strage fraterna che asperse i Penati”».
    Anche qui: che «fato» slitti a significare «sventura fatale, catastrofe, morte» non penso possa stupire nessuno. D’accordo, siamo abituati, traducendo dal latino, a cogliere al volo questa forma enfatica, al limite forse della metafora, e a rendere mentalmente fatum/fata con «morte». Ma siamo sicuri che non sia una nostra chiosa? La scelta latina ha un suo spessore figurale che io ho osato cercare di conservare. Con un eccesso di latinismo? Con un eccesso di letterarietà? Può darsi. Tuttavia Lei sa benissimo quale sia la risposta al Suo «Ma che vuol dire in italiano “dal fato di x”?». Non già «niente», come Lei vuole, ma «dalla sorte/ dalla morte di x». Certo, non nel linguaggio quotidiano, ma qui non siamo nel linguaggio quotidiano (che può anzi farsi nemico di quello poetico). Posso capire la sua contestazione, ma mi permetto di restare della mia idea. In ogni caso NON «proverei» la soluzione che Lei mi consiglia, perché mi sembra ben più gravemente aberrante di quella che ho tentato e che Lei mi rimprovera. Infatti l’eliminazione dell’articolo davanti a «morte» sa di sbrigativa e innaturale soluzione dettata da ragioni metriche (la gabbia metrica va rispettata, ma – secondo me – non precisamente ad ogni costo: anche qui, le soglie vengono fissate dal gusto del traduttore). In secondo luogo l’eliminazione dell’articolo davanti a «strage» raddoppia il danno, perché rende confuso il concetto (sembra quasi che sia Sichèo a commettere una strage fraterna).

    Insomma, gentile Professoressa, non mi illudo assolutamente di avere sempre risolto al meglio l’infinita messe di problemi. Ma (spero mi creda) mi ci sono abbastanza applicato; e per ognuno di quei quasi diecimila versi – anche quello che ora al tranquillo lettore può apparire più goffo e sbagliato – ho valutato sempre diverse alternative, cercando di ‘far quadrare conti’ che come ben sappiamo sono destinati a non quadrare mai perfettamente. Anche negli scontri da cui posso essere uscito maggiormente perdente, ho tentato di cadere con quello che reputavo il minimo del disonore – il minimo, cioè, del detrimento nei riguardi del poeta tradotto. Questo non giustifica le eventuali durezze, naturalmente, e per ogni singola difficoltà che io possa esporre nel dettaglio, non valgono mai pienamente le ‘spiegazioni’ di una soluzione di compromesso, poiché si tratta di una materia in cui resta possibile opporre quasi all’infinito l’obiezione «uno più bravo avrebbe fatto di meglio». Ci tenevo però a sottolineare che dietro ogni soluzione non c’è la prima resa estemporanea che passava per la testa, ma un processo di analisi e decantazione attento a una grande quantità di fattori – al termine del quale bisognava, secondo le proprie capacità, operare una scelta.

    Grazie ancora della Sua attenzione e i più cordiali saluti
    Alessandro Fo

  4. Caro Fo,

    la Sua puntuale e sollecita risposta mi onora, e, cosa ancora più importante, m’insegna molto.
    Avrei forse dovuto premettere alla mie osservazioni (lo ammetto, sbrigative, per certi aspetti, ed evidentemente prive di adeguata competenza metrica) che esse giungevano da un punto di vista specifico, ossia quello scolastico. E’ questo, del resto, il contesto pressoché esclusivo in cui io, da anni, leggo normalmente Virgilio, e l’Eneide nello specifico. E siccome mi auguro – e Le auguro – che la Sua traduzione diventi quella di riferimento, mi sono già domandata come farei a chiarire agli alunni i punti che Lei, così generosamente, ha chiarito a me.
    Sul primo punto, mi è chiarissima adesso la Sua posizione, e mi pare inevitabile, per ragion di metro, trovare altre soluzioni al dilemma del genitivo. Dunque ritiro la mia obiezione a riguardo (anche se continuerò a riferirmi a Dante durante le lezioni).
    Gli altri due punti, invece, come insegnante continuano a lasciarmi perplessa. Come insegnante, ribadisco; perché come lettrice colta, e abbastanza esperta del latino (il mio maestro è stato Antonio La Penna), trovo, come Lei, assai suggestivo preservare l’avverbio “male” in entrambi i passi in cui Lei lo ha fatto, né mi sconcerta l’equivalenza “fato/morte”. Anzi, Le dico di più: quell’espressione “male sana” mi tormenta e mi rapisce ogni volta che devo spiegarla ai ragazzi; solo Virgilio poteva tanto. E Lei ha fatto una scelta ardita ma tutt’altro che banale. Tuttavia per un ragazzo di 14-15 anni che non presuppone, come me e Lei, il dettato virgiliano, “male in sé” non è immediatamente perspicuo, almeno secondo la mia esperienza; con quello che a Lei può essere sembrato provocatorio (“non significa niente”), riportavo quella che sarebbe l’impressione dello studente medio del biennio liceale. Lo stesso potrebbe accadere con la soluzione che ho discusso al terzo punto. Dunque mettiamola così: la sua traduzione, se adottata nella scuola, avrà bisogno, secondo me, di note esegetiche che riportino il testo latino in quei punti che più si discostano tanto da esso, quanto dall’uso linguistico più comune, anche poetico.
    Spero di aver chiarito la natura delle mie obiezioni. Mi propongo di leggere la Sua traduzione per intero, e mi farebbe piacere discutere con Lei ancora su qualche questione, in futuro.
    Mi farebbe anche piacere che Lei venisse a presentare la Sua traduzione nel mio Liceo, a Firenze, ai ragazzi e ai colleghi. Ma non oso sperare nella Sua disponibilità.
    La ringrazio ancora e la saluto cordialmente.

    M.C.

  5. Carissima professoressa, grazie a Lei della squisita risposta. Naturalmente quando lavoravo non immaginavo assolutamente che poi la traduzione potesse essere destinata ai ragazzi nelle Scuole. E non so neanche se si possa sperare che vi si continui a leggere l’Eneide più o meno per intero, come si faceva ai nostri tempi (fra l’altro, nel mio caso, nella traduzione di Annibal Caro, sebbene in effetti qua e là ‘addomesticata’ da note). Grazie anche dell’invito (per Firenze ho già un mezzo impegno con l’Associazione Italiana di Cultura Classica, anche se ancora non vi sono date definite). Resto a disposizione per altri eventuali contatti (i miei indirizzi mail si trovano agevolmente nelle pagine web dell’università di Siena) e chiarimenti. Rinnovo la mia riconoscenza e porgo i migliori saluti a lei e ai Redattori di leparoleelecose; ogni cordialità Alessandro Fo

  6. Un’ opera fondamentale, almeno per chi consideri ritmo e “musica” della poesia non meno importanti dei concetti, delle immagini e del sentimento che l’ animano.

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