di Raffaele Donnarumma

Il quanto e il quale

Troppo Dante?, si chiedeva qualche giorno fa Claudio Giunta. Ma perché non (e immagino Giunta sarebbe d’accordo): quale Dante? A preoccupare è la quantità di Commedia imposta agli studenti, o l’inerzia con cui persino il più amato tra i classici italiani rischia di essere trasmesso – monumento indiscutibile, apice della cultura medioevale, meteorite piombato sul panaroma a segnarlo per sempre? Dopo la fatica enorme e indispensabile della mediazione linguistica, Dante può essere abbandonato alla sua grandezza e rimanere appunto un gigante estraneo, recuperabile solo perché la poesia, alla fine, vince sempre? La questione è come leggere la Commedia: che cosa andare a cercarci. E qui, non resta che quella soluzione drastica e salutare che la scuola (molto più della didattica universitaria, e a differenza dello ricerca specialistica) può adottare: porre a Dante domande magari irriverenti sul nostro presente, e lasciare che Dante risponda con le sue parole e le sue categorie. E allora, scegliamo un esempio scabroso – studiatissimo, come prevedibile, ma in genere poco battuto dalle antologie e dalla prassi scolastica.

Maometto

Pochi dannati sono colpiti da una pena più feroce di quella che tocca a Maometto nella nona bolgia:

..Già veggia, per mezzul perdere o lulla,
com’io vidi un, così non si pertugia,
rotto dal mento infin dove si trulla.
..Tra le gambe pendevan le minugia;
la corata pareva e ’l tristo sacco
che merda fa di quel che si trangugia.
..Mentre che tutto in lui veder m’attacco,
guardommi e con le man s’aperse il petto,
dicendo: «Or vedi com’io mi dilacco!
..vedi come storpiato è Mäometto!
Dinanzi a me sen va piangendo Alì,
fesso nel volto dal mento al ciuffetto.
..E tutti li altri che tu vedi qui,
seminator di scandalo e di scisma
fuor vivi, e però son fessi così.»

(Inf. XXVIII, 22-36).

L’allegoria e il giudizio (l’ultima terzina chiarisce il senso della pena, che nello stesso canto verrà dichiarata come «contrappasso») impediscono alla violenza e all’osceno di diventare splatter: questione di ammaestramento morale (anzi, anagogico), e non di estetica horror, come sarebbe per noi e per i nostri studenti. Ma la violenza e l’osceno rimangono: il corpo del profeta è come una botte sfasciata (lui, che ha posto il divieto alla consumazione di alcolici); le interiora, designate come il quinto quarto d’una bestia, fanno la loro mostra spaventosa; e le parti anatomiche vengono additate nelle funzioni più infami, con le parole più sconce («trulla» non è ‘peta’: è molto peggio). È per un grossolano eccesso di zelo che, tempo fa, l’associazione Gherush92 ha chiesto di rimuovere questo come altri passi colpevole di istigazione all’odio e razzismo (un concetto, quest’ultimo, inapplicabile al mondo di Dante). Ma non si possono chiudere gli occhi: c’è poco da stupirsi che versi simili abbiano meritato alla Commedia la censura in alcuni paesi islamici, dove il canto è cassato dalle traduzioni, o la circolazione del poema è proibita (come è accaduto in Pakistan). Si potrebbe pensare a offesa più grave per una cultura religiosa che, pur riconoscendo nel Profeta un uomo, ne fa il più degno di venerazione? Cosa direbbero le associazioni cattoliche, se in Iran o in Egitto circolassero caricature grottesche di Francesco d’Assisi o parodie blasfeme della Vergine Maria? Ciò che in Occidente assopirebbe lo scandalo è il nostro essere, se non opportunisti e amanti del quieto vivere, comunque figli scristianizzati dell’illuminismo; ma dove l’Islam è legge nella vita delle comunità oltreché dei singoli, la bestemmia non può passare così in cavalleria: là, proprio come da noi un tempo, essa è davvero reato.

E tuttavia, questa è solo mezza verità. Certo, Cacciaguida ricorderà le crociate come il «martìro» che gli ha fatto guadagnare la «pace» del paradiso: cioè come la guerra santa in cui morire, e uccidere, è legittimo e necessario. Eppure, è Dante stesso a porre nel Limbo, fra i saggi e gli eroi greci e latini, quel Saladino che aveva fama di sovrano nobile e giusto, ma che era pur sempre un vittorioso nemico e sterminatore dei crociati; quell’Avicenna e quell’Averroè che, pur nella loro sapienza, sono origine di gravi errori dottrinali. Se infatti Averroè appare come colui «che il gran comento feo», permettendo la diffusione di Aristotele nell’Europa neolatina, Dante si mostra del tutto consapevole dell’importanza culturale che l’Islam ha avuto perché lo stesso pensiero cristiano medioevale si fissasse nei suoi caratteri più propri: senza quel «comento», la scolastica non avrebbe conosciuto il Filosofo, la Chiesa non avrebbe elaborato il suo pensiero, l’Occidente, insomma, non sarebbe stato se stesso.

E allora, chi è Maometto? Quando Dante lo pone fra i «seminator di scandalo e di scisma», accoglie la leggenda diffusa che lo voleva un prete, o un prelato, cattolico, deluso nelle sue ambizioni e traviato dal genero Alì (che infatti, cattivo maestro, lo precede): scandalo è infatti la divisione politica, scisma quella religiosa. Maometto non è pensato davvero come l’altro: viene dal nostro mondo, si è staccato dalla legge di Cristo e dalla Respublica Christiana poiché la storia può essere pensata, nella cultura medioevale, solo dentro quelle categorie. Ma nel momento stesso in cui si rivela incapace di vedere l’islamismo nella sua identità, riducendolo a una deviazione dalla Chiesa di Roma, Dante mostra il massimo del fraintendimento e una paradossale misura di equità storica: perché in effetti neppure il Corano potrebbe essere quello che è, senza l’apporto del Vecchio e del Nuovo Testamento.

 L’altro

È l’oscillazione fra omologazione e demonizzazione che attraversa tutta la cultura medioevale di fronte al suo altro. Il criterio di giudizio è confessionale, non etnico, o razziale, o semplicemente culturale. Gli altri sono coloro che non hanno conosciuto o hanno rifiutato la rivelazione: i gentili, dunque; gli Ebrei dopo l’incarnazione; appunto gli islamici. Per apprezzarli, occorrerà schiacciarli sul noto; se invece li si vuole respingere, si attribuiranno loro tratti meno che umani (qui, infatti, Maometto è corpo ridotto a cosa). Lévi-Strauss parlava di una atteggiamento fagico o emico: l’altro va mangiato e integrato al noi, oppure espulso (e non si può espellere qualcosa che non si è ingerito: il rifiuto presuppone uno scambio e un’assimilazione minima). Così, per vestire i panni della grandezza, Alessandro e Cesare debbono apparire cavalieri feudali; mentre Minosse e Caronte diventano diavoli dell’inferno (e i diavoli tutti, del resto, hanno qualcosa dei satiri e di Pan). A Dante come a qualunque chierico del suo tempo manca del tutto l’intenzione di capire l’altro in quanto altro. Non esiste filologia: se si leggono gli antichi, è per trarne un insegnamento utile al cammino del cristiano. Perciò Stazio cita la IV ecloga come profezia dell’avvento di Cristo e motivo della sua conversione (Purg. XXII, 70-2). Ma soprattutto, perciò traduce i versi dell’Eneide che l’hanno indotto a emendarsi della prodigalità, capovolgendone il senso:

..E se non fosse ch’io drizzai mia cura,
quand’io intesi là dove tu chiame,
crucciato quasi a l’umana natura:
..Per che non reggi tu, o sacra fame
de l’oro, l’appetito de’ mortali?’,
voltando sentirei le giostre grame.
(Purg. XXII, 37-42).

 A leggere quegli due emistichi nel loro contesto, il fraintendimento è impossibile: «Quid non mortalia pectora cogis,/ auri sacra fames!» vuol dire: «A cosa non sforzi i cuori degli uomini,/ o maledetta fame dell’oro!» (Aen III, 56-7, trad. R. Calzecchi Onesti). Stazio ha dunque rivoltato una tradizionale invettiva contro l’avarizia in un monito sul vizio opposto. Ma il problema non è se Dante avesse inteso Virgilio bene o male: è che a Dante non interessa affatto ciò che Virgilio voleva dire davvero, perché interessa quello che serve alla nostra salvezza. A dispetto del Convivio, il senso letterale è una funzione dei sensi allegorici: littera occidit, spiritus vivificat. Qui sta la distanza incolmabile di Dante da noi: persino crollate le metafisiche dello storicismo, non possiamo rinunciare a quel principio deontologico secondo cui gli altri vanno capiti nel loro essere altri, e in quello che del loro linguaggio e delle loro categorie non è riducibile al nostro pensiero. Il mondo della Commedia diventa allora un mondo attraversato da tensioni meno sotterranee di quanto si potrebbe immaginare: il rifiuto, la condanna, l’esecrazione, anche quando si fondano su un’assenza di comprensione, presuppongono anche sempre l’apprendimento, il riuso, l’assimilazione. L’altro è sempre limitato e insieme necessario, poiché non c’è errore che non contenga una particella di verità – e però non la sua, ma quella di cui abbiamo bisogno noi. E del resto, senza dichiararlo mai, dall’Islam e anzi da Maometto Dante ha imparato molto più di quanto non dica. Il Liber scalae che si credeva proprio di mano del Profeta non è (lo sottolineava Maria Corti) una fonte della Commedia tra le altre: ne è uno dei modelli strutturali più decisivi, e conta per il disegno complessivo del poema persino più dell’Eneide.

L’esercizio che canti come questo ci impongono non ha soluzione: il debito nei confronti della cultura araba non può cancellare irenicamente la furia contro di essa, né il rifiuto e l’incomprensione possono far dimenticare quanto l’Islam sia servito all’Occidente cristiano per definire se stesso in un contrasto manifesto e con una riappropriazione latente. Quell’alterità che Dante respinge è dentro di lui. Non c’è conciliazione di poesia che tenga, non c’è spirito di sistema che regga: qui la Commedia non ha per noi alcuna morale da insegnare, alcuna consolazione estetica da ammannire. Nella sua lontananza e nella sua prossimità ci sono la lontananza e la prossimità degli altri che sono fra noi, in noi.

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Per il commento al XXVIII canto dell’Inferno, e una bibliografia in merito, rinvio all’edizione curata da A. M. Chiavacci Leonardi (Milano, Mondadori 1991). Ha aperto le ricerche, anche se a volte in modo filologicamente impreciso, M. Asín Palacios, Dante e l’Islam [1919], Parma, Pratiche 1994 e Milano, il Saggiatore 2005. Il Liber Scalae Machometi di può leggere sia come Libro della scala di Maometto, a cura di C. Saccone, Milano, SE 1997, sia come Il viaggio notturno e l’ascensione del Profeta, a cura di I. Zilio-Grandi, Torino, Einaudi 2010; utili anche le voci Maometto e Libro della Scala nell’Enciclopedia dantesca.

[Immagine: Priamo della Quercia, Inferno XXVIII, Yates Thompson ms. 36, British Museum, Londra (gm)].

5 thoughts on “Dante, Maometto, l’altro

  1. Caro Donnarumma.
    “The Cheyenne Nation is composed of two tribes, the Só’taeo’o (more commonly as Sutaio) and the Tsétsêhéstâhese (more commonly as the Tsitsistas; singular: Tsétsêhéstaestse), which translates to “those like us” or “Human Beings.”
    http://en.wikipedia.org/wiki/Cheyenne_people#Name

    Così ancora oggi, nel linguaggio familiare degli italiani sopra i cinquanta, “cristiano” vale “essere umano”. “Comportati da cristiano!” mi diceva mia madre quando mettevo i gomiti sulla tavola o scendevo le scale a quattro gradini per volta.
    (Anche se qualcosetta per la formazione dell’idea di umanità universale, però, il cristianesimo l’ha fatta, secondo me).

    San Francesco, che fu molto caro a Dante e ne ispirò profondamente il pensiero, nel 1219 si recò a Damietta, alla corte del sultano, vi incontrò vari sufi, i monaci dell’Islam, e conversò a lungo con loro. Ne aveva già conosciuti nella Spagna musulmana e in Marocco.
    Si era del resto formato (parlava correntemente il provenzale) a contatto diretto con i trovadori francesi, a loro volta educati dai trovatori musulmani, in particolare andalusi.
    Dante pare abbia tratto ispirazione strutturale e figurale per la sua Divina Commedia dal testo musulmano “Il viaggio notturno del Profeta Maometto” (v. lo studio di un prete, Miguel Asin Palacios,1919). E per un esempio di scambi molto intensi tra Islam e Cristianità, politici oltre che culturali, basta ricordare l’Imperatore Federico II Hohenstaufen.
    Nella tradizione islamica, ci sono due jihad o guerre sante: la piccola jihad (esteriore, contro gli infedeli) e la grande jihad (interiore, contro il male che abita in ciascun uomo).
    Molto semplicemente, Dante e la cristianità la pensavano allo stesso modo. Che poi la piccola jihad sia più macroscopicamente visibile, e anche più facile da combattere, mi pare vada da sè.
    Nè l’Islam nè la Cristianità si scontravano con i mazzi di fiori; il che non impediva il rispetto reciproco, sulla base dei comuni valori sia religiosi, sia cavallereschi. Non impediva neanche le reciproche atrocità, come sanno gli abitanti di Gerusalemme passati a fil di spada dai cristiani della Prima Crociata, o Marcantonio Bragadin governatore di Cipro, spellato vivo dopo essersi arreso al saraceno con promessa di aver salva la vita, perchè purtroppo sinora non è riuscito a impedirle nessuno.
    Quanto all’oggi, “in Iran o in Egitto” le “caricature grottesche di Francesco d’Assisi o parodie blasfeme della Vergine Maria” effettivamente circolano, anche se in generale, tra gli islamici è assai diffuso il rispetto e la venerazione per le figure di Gesù (per loro “Issa”, un grande profeta) e della Vergine (“Mariam”, figura di madre esemplare molto amata). Le organizzazioni cattoliche non dicono un gran che, soprattutto perchè in diversi paesi islamici i cristiani vengono ammazzati per ragioni di vario tipo alle quali si mescola anche l’odio identitario e religioso, e dunque si preoccupano soprattutto di quello.
    La mancanza di rispetto peggio che blasfema, cioè proprio abietta e infame, per la religione cristiana è diffusa soprattutto qui da noi, nel nostro Punto Cardinale. Poche settimane fa “Libération”, per dileggiare la manifestazione parigina contro il matrimonio omosessuale, ha pubblicato una elegante vignetta nella quale la SS. Trinità fa un bel trenino, con lo Spirito Santo che ingroppa Gesù e Gesù che ingroppa il Padreterno.
    Queste simpatiche espressioni della nostra libertà di stampa raramente si estendono alle figure sacre all’Islam, per il nobile motivo che gli islamici non hanno il senso dell’umorismo, e dunque si rischia la pelle; o alle figure ebraiche dell’Antico Testamento, perchè le organizzazioni ebraiche e sioniste sono forti, e nessuno ha voglia di farsi tacciare di antisemitismo, nazismo, mostruosità, terrorismo, etc.
    Dovessi dare io la linea alla Chiesa – ma per fortuna mia e di tutti non è così – all’Islam mi avvicinerei, ed eviterei per quanto possibile i fraintendimenti, gli equivoci, gli schieramenti, tenendo presente che in questo momento storico, l’Islam è sotto attacco da parte delle potenze occidentali, in primis gli Stati Uniti, e in secundis anche noi italiani, che abbiamo partecipato alla guerra contro l’Iraq (in totale, embargo e guerra civile compresi, un milioncino di morti), e l’Afghanistan, con voto bipartisan del Parlamento: e se lo decidessero gli americani, parteciperemmo anche a una guerra contro l’Iran.
    Più che guardare alle sbavature della Divina Commedia, gli islamici guardano la gente che gli ammazziamo. Sul resto ci si potrebbe intendere con una certa facilità, fra islamici e cristiani, perlomeno senza saltarsi immediatamente alla gola.
    Meno facile, invece, intendersi fra islamici ed esponenti di una civiltà programmaticamente incompatibile con i valori religiosi (la nostra), che gli islamici, come del resto i fedeli delle religioni tradizionali tutte, trovano un fatto stupefacente, preoccupante e, in certi casi, satanico tout court (anche nella religione islamica c’è l’equivalente dell’Anticristo, la parodia demoniaca del Mahdi, il loro Messia, e qualcuno di loro pensa, argomentando in modo non peregrino, che siamo noi).
    Secondo me, gli Stati Uniti e le potenze occidentali con il cristianesimo c’entrano poco per non dire niente, ma non si può pretendere che sotto le bombe, gli islamici si mettano a distinguere con finezza le posizioni teologiche di gente che mentre gli ammazza i figli, non si perita di nominare Dio (il quale, com’è noto, non ha registrato il Suo Nome alla Siae).

  2. @ Buffagni
    Vedo che sulla sostanza siamo d’accordo. In effetti, quello che volevo dire è proprio che, da un certo punto di vista, Dante è molto più vicino a certo mondo islamico, di quanto sia al nostro (anche se mondo islamico non vuol dire molto: l’Iran non è il Marocco, l’Egitto non è l’Afghanistan). E sicuramente, il XXI secolo non registra alcuna guerra di religione tra cristiani e musulmani: c’è al contrario uno scontro tra chi crede che la religione sia al centro della vita pubblica (una parte, appunto, del mondo islamico) e chi non ci crede (l’Occidente, e direi proprio tutto). Senza tacere che l’Occidente è in larga misura già dentro il mondo arabo (Mammona è Mammona). Non le starò a ripetere le analisi che giudicano il fondamentalismo come un prodotto dell’/una reazione all’imperialismo che è ora anzitutto statunitense.
    Il paradosso è allora che per noi la Commedia è il nostro altro: e non solo perché è il nostro passato.
    Letto così, Dante ha da dire molte più cose che non ridotto a nonno dell’identità italiana o europea in quanto identità cristiana di cartapesta. Che poi la tradizione cristiana sia nella nostra storia, è tanto vero, quanto parziale – anche se la parte può essere quella del leone.
    Vorrei però sottolineare due cose non marginali: 1. nonostante l’onore della armi, Dante tratta Maometto con una violenza superiore alla media dei suoi non teneri standard: lascerei aperta questa contraddizione con il debito contratto con la cultura araba (dichiarato, o segreto, come nel caso del Libro della scala); 2. come spiegare un canto come questo a studenti islamici? Censurare, edulcorare, indorare la pillola con la favola del «però Dante stimava tanto il Saladino e Averroè» è secondo me sbagliato e inutile. Se il sapere della letteratura serve a qualcosa, serve proprio perché non si lascia ridurre all’univocità di una ideologia. È necessario fare alla Commedia (come a tutti i classici) le domande che interessano a noi; cercare là le risposte che vorremmo, un errore.

  3. Più che d’accordo. Dante è più contemporaneo del presidente Ahmadinejad che del Presidente Napolitano. Non so se l’acredine verso Maometto abbia motivazioni documentabili; se lo riteneva un traditore e un apostata, la ragione sta lì.
    Dante è padre della nostra lingua, della nostra letteratura, ha ispirato i sogni lisergici dei tanti che sognarono e poi, in un miracolo di San Gennaro della storia, fecero l’unità d’Italia; non si può pensare l’Europa senza di lui, come non si può pensarla senza la cristianità e senza il cristianesimo (o senza l’islam, senza la Grecia, etc.) ma la sua inattualità è monumentale, ufologica. Motivo di più, a parer mio, di studiarlo, e bene, a scuola: tanto per far capire a) che si può essere anche così, ed essere così non impedisce notevoli risultati umani , anzi b) non meno importante, che chi anche oggi vede e sente il mondo come Dante e i suoi contemporanei ne coglie un aspetto che apre la porta su un panorama mica male.

    (Io sono favorevole allo studio della fantascienza culturale, nei programmi scolastici: un po’ di respiro, sant’Iddio! Sotto con Dante, con Eschilo, con Shakespeare fin dalle elementari…nell’ora di ginnastica, cenni di agoghè spartana, di tauromachie minoiche, di tiro con la balestra…molto più divertente e facile che Bianca Pitzorno, pallavolo, educazione stradale…)

    Come spiegarlo agli studenti islamici. Bè, penso che si possa, caso per caso, o relativizzare e contestualizzare, proponendo esempi di analoga violenza verbale islamica; o proprio saltare il passo, se può scandalizzaere, facendoli uscire al momento dell’illustrazione del brano (certo non saltandolo anche per gli studenti cristiani, ci mancherebbe solo questa, tra l’altro sarebbe la soluzione garantita per far perdere ogni rispetto per l’insegnante agli studenti musulmani).

  4. Demonumentalizzare Dante e fargli le domande che interessano a noi: mi pare un’ottima impostazione.

    Forse però ritenerlo più affine al mondo islamico che al nostro sulla base dell’assunto che l’Occidente è ormai del tutto scristianizzato e razionalistico è eccessivo. Un po’ troppo monolitica, una visione siffatta. Basti pensare che ancora il tentativo vaticano di coniugare ratio e fides è tutto sommato abbastanza medievale, tomistico. Insomma, c’è un po’ di tutto, anche qui fra noi. Poi qualche europeo che non può non dirsi cristiano o qualche cristiano tout court ci sarà pure, no?
    Non sarei perciò così drastico nel definire Dante un argomento di fantascienza culturale (ma ormai, Buffagni, la leggo da un po’ e so che lei ama i gustosi paradossi: credo che lei ci creda davvero, però io li accolgo – intendiamoci: serissimamente – come tali). Traduco in parole mie le sue proposte: fare i classici un po’ a tutti i livelli di scuola, al posto delle “educazioni”. Ci sto. A patto che siano un Dante ad uso di seienni, uno Shakespeare ad uso di novenni, un Eschilo ad uso di tredicenni… non la licealizzazione del mondo. Un po’ come ci ha raccontato Canciani nei commenti al post di Claudio Giunta. In questo senso sottoscrivo i suoi “paradossi” in tutto e per tutto.

    Sono assolutamente d’accordo anche con l’osservazione di Donnarumma sul fatto che alla Commedia (e a qualunque altro classico) dobbiamo fare le domande che ci interessano e non trovarci risposte, specie se politicamente corrette. Se gli studenti non fanno esperienza del fatto che la contraddizione, il negativo e lo sgradevole stanno confitti dentro le viscere di ciascuno di noi, l’educazione umanistica fallisce uno dei suoi più qualificanti obiettivi. Farei un esempio a noi più vicino: Céline. Non farlo perché antisemita, cinico, odioso? Edulcorarlo magari dicendo che dice cose spiacevoli ma le dice “con così tanto stile”, ecc…? O leggerlo capendo che ci mette sotto gli occhi, per dirla con Conrad, “the horror” e che è quest’orrore che porta allo “Sterminateli tutti”? Non è roba per educande, ma tutto ciò ci abita. (O almeno, fare come suggeriva Cases, mi pare: leggerlo la mattina per fucilarlo dopo mezzogiorno).

    Detto ciò, nella pratica non bisogna mai farsi prendere dal gusto di scandalizzare, e adoperare ciò che abbiamo cum grano salis. Mi pare che lei, Buffagni, la faccia un po’ troppo semplice quando parla di far uscire gli allievi islamici dalla classe quando si parla del loro Profeta trattato come un sacco di escrementi lacero. Dentro le scuole, quando la nostra laicità o laicismo o completa indifferenza (è un climax, non una serie sinonimica, ognuno scelga il sostantivo che secondo lui meglio definisce l’Occidente) si scontra con la sensibilità religiosa o bigottismo o fondamentalismo (altro climax, ecc…) degli studenti musulmani possono esplodere conflitti e incomprensioni. Si veda il caso del velo in Francia.

    Io sono per un’educazione al testo di tipo ermeneutico, dunque in dialettica costante tra identificazione e oggettivazione / distanziamento. In ogni caso in campo educativo bisogna, credo, partire dal noto per condurre verso il meno noto o l’ignoto. Ne dico solo una, per ricollegarmi a Donnarumma, e so di semplificare molto. La prima percezione / intepretazione dell’Inferno dantesco da parte di un adolescente di massa sarà probabilmente pervasa soprattutto dallo splatter cui si è accennato. Magari dipende anche dal fatto che esiste persino un videogioco ispirato alla Commedia (mi pare si chiami Dante’s Inferno o roba simile). Ecco: nessun purismo, nessuno scandalo. Confrontiamoci con questa attualizzazione, è il nostro presente. Del nostro presente cerchiamo d’essere più furbi, di sgusciargli via, ma non eludiamolo. Al Medioevo dobbiamo arrivarci, ma cultura non facit saltus.
    In ogni caso, il Medioevo è molto di più di un capitolo di manuale, ha tre dimensioni. Molto altro bisogna mettere intorno a Dante (intendo di medievale, di lontano da noi, utile alla storicizzazione: arte, filosofia, storia, immagini, musica, oggetti, per chi può una bella passeggiata in un centro storico medievale petroso e tortuoso), perché sia compreso nella sua distanza, perché la distanza venga percepita come qualcosa che comunque è con noi in una qualche relazione: lontananza, non estraneità.

  5. Caro Lo Vetere,
    concordo con lei (anche se Céline alle elementari non lo farei, sennò i bambini si spaventano e non vogliono più crescere).
    E’ certo vero che qualche cristiano in Europa c’è ancora, ma anche il papa è un modello di cristiano che con il modello dantesco c’entra pochino: filosoficamente sono aristotelici e tomisti entrambi, ma mentre Dante l’altro mondo se lo immagina come se fosse nell’altra stanza, il papa no: e questa non è differenza da poco.
    “La faccio facile” per inesperienza, ha ragione, la concreta situazione nelle scuole, complicata com’è da strumentalizzazioni politiche, risentimenti, etc. Una sola cosa mi pare di poter dire, che il confronto con identità diverse è fruttuoso solo se possiamo proporre, rispettandola noi per primi, una identità nostra: e qui casca l’asino, temo.
    Ho una sola esperienza di lavoro con i bambini delle elementari. Anni fa, richiesti dal Teatro lirico di Lucca, organizzammo un esperimento didattico con diverse scuole elementari della città. Bambini e maestre provarono in classe “L’uccellino azzurro” di M. Maeterlinck, ne discussero mettendosi al posto dei personaggi, collaborarono alla confezione dei costumi, alle musiche, e poi ne ricavarono una bella parata finale per le vie di Lucca. Curai l’adattamento, una specie di manuale per il lavoro in classe delle maestre, e partecipai anche a qualche giornata di lavoro in classe.
    Ci divertimmo tutti come pazzi, e capimmo anche che scegliere “L’uccellino azzurro” era stata una buona idea, sì, ma troppo prudente. I bambini, questi simpatici extraterrestri, sono capaci di tutto e non hanno soggezione di nulla, se non gliela si mette.
    Mi succedesse di nuovo, rilancerei con la Commedia, il Riccardo III, l’Orestea, il Faust…

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