di Emiliano Morreale
I titoli di testa del nuovo film di Bernardo Bertolucci sono lanciati su un gioco di specchi e di scambi tra lettere bianche e rosse. Non si direbbe, però, che poi il tema del doppio vi sia predominante, e in fondo nemmeno quello di un rapporto incestuoso o edipico. Anzi, e per fortuna, mi sembra questo uno dei film in cui lo sguardo del regista è meno interno ai giochi psicanalitici e famigliari. Io e te è un’opera spiazzante, serissima, che non sedurrà forse gli spettatori ma che, come a volte è capitato al regista, in una dimensione piccola e leggera trova un’urgenza e un’imprevista consonanza coi tempi. La sceneggiatura prende spunto, e segue abbastanza da vicino, il racconto di Niccolò Ammaniti, su Lorenzo, un ragazzino borghesissimo e un po’ disturbato, che finge di andare in settimana bianca e si chiude in cantina. Il suo rifugio viene però ben presto disturbato dall’arrivo della sorellastra Olivia, un’artistoide balorda e tossicodipendente, che proviene dalla Sicilia. Il film è tutto sul confronto tra questi due personaggi, dei quali con evidenza il regista sembra prediligere quello femminile.
Bertolucci è sempre stato attratto dai giovani, fin da quando era uno di loro. Ma ha sempre avuto bisogno di una, dapprima lieve, sfasatura temporale nei loro confronti. Per un gioco che poteva apparire strano, aveva deciso di ambientare Prima della rivoluzione (1963) nell’estate di un anno prima, quella della morte di Marilyn, come se fosse un film appena appena “in costume”. Poi, in La luna, procedeva sempre più a fondo nella regressione-identificazione con un figlio-fratello minore. E in Io ballo da sola e The Dreamers giocava a farsi sedurre, da protagonisti che gettavano scompiglio in un mondo borghese come pietrificato, o rivendicava l’elemento ludico, e da perverso polimorfo, delle rivolte giovanili. Qui però il regista non rifà affatto se stesso. Anzi, proprio le evidenti somiglianze con i suoi temi soliti rendono lampante la novità del film nel suo insieme. Si prenda l’altro suo tema ricorrente, la claustrofilia (Ultimo tango a Parigi, la prima parte dell’Ultimo imperatore, L’assedio, The Dreamers). Qui il gioco da camera è spogliato di ogni elemento ludico e virtuosistico, nella maniera di guardare i personaggi. Lo stile si fa meno elegante, si libera di ogni estetismo, non ha paura di avvicinarsi ai personaggi e di sporcarsi, come se davvero fosse, dopo cinquant’anni, un primo film nouvelle vague. Ma di una nouvelle vague disillusa, che non insegue e non comunica l’energia dei vent’anni e finisce per approssimarsi alle regioni del dramma autentico, della tragedia.
In Io e te non c’è però solo la clausura dei due ragazzi nella cantina, ma anche una claustrofobia diffusa, che viene mostrata nel prologo, costruito attraverso una serie di inquadrature dentro l’inquadratura, di vetri, specchi, pareti trasparenti che imprigionano tutti i personaggi: il tetto di vetro nel ristorante, le teche degli animali tropicali e delle formiche, i vetri delle auto e delle finestre. Come nel Conformista, ma senza la plastica ambiguità nei confronti delle superfici del passato; anzi, con uno sguardo insolitamente analitico. La chiusura dei due ragazzi è quasi una reazione a questa chiusura soft del mondo fuori. Lorenzo e Olivia sono due giovani borghesi, ribelli senza estetismo, per istinto. Bertolucci non sembra identificarsi con loro, ma ne vede le ragioni con particolare trasporto e lucidità. Se La tragedia di un uomo ridicolo (uno dei suoi capolavori) era il film che segnava il passaggio di Bertolucci alla generazione dei padri, questo è il film in cui passa a quella ulteriore, dei padri dei padri, e mette fuori campo la generazione di mezzo per concentrarsi sui nipoti. Con l’appassionata saggezza di chi evita identificazioni narcisistiche e coglie, nelle movenze e nelle rabbie di alcuni individui giovani (non parlerei di generazione: il film è, viene da dire, anti-generazionale) i segni di una confusa eppure giusta intuizione del presente.
È curioso che Bertolucci, come l’ultimo Bellocchio di Bella addormentata, abbia messo in scena padri e figli in termini di confronto tra attori. Ma il gioco di Bellocchio è di mostrarci i giovani come attori mediocri, spesso figli d’arte (compreso il proprio), esibendoli quasi sadicamente nella loro modestia. Bertolucci invece ha fatto impersonare gli adulti a degli attori di teatro (Pippo Delbono, Sonia Bergamasco, Tommaso Ragno), spesso tenendoli su toni dichiaratamente da palcoscenico, e a loro ha opposto l’energia, pur non esibita, dei due protagonisti. Questo giovane bruttino, che Bertolucci sembra voler allontanare da sé in termini fisici, per negarsi quel trasporto erotico che era la sua cifra, è poi un giovane per così dire quintessenziale, stilizzato, uno che ascolta David Bowie o i Cure più che la musica d’oggi. È forse l’immagine di tutte le gioventù che Bertolucci ha sfiorato e non vissuto (si è sempre detto troppo giovane per aver fatto la resistenza, e troppo vecchio per il ’68: ma aveva appena 27 anni…). Ed è sorprendente che il regista, rifiutando ogni giovanilismo e ogni rispecchiamento diretto della realtà, arrivi, per pura via d’immaginazione, a rendere in maniera intensa e credibile qualcosa che oscuramente sentiamo come essenza profonda del tempo: se altrove egli aveva mostrato un’astuzia e una ricettività uniche nel captare e anticipare le tendenze piccole e grandi (dal ’68 al ritorno al privato, dal revival degli anni ’30 alla moda di Bataille), questo film sembra avere una cifra temporale più segreta, come se desse già l’idea di doverci parlare meglio tra qualche anno.
In fondo, Olivia e Lorenzo sono due ribelli perché sono a modo loro artisti; due performer, mossi però da una confusa e psicotica spinta di ordine anzitutto etico. Il loro rifugio potrebbe essere una “cantina” come quelle del teatro off nostrano di un tempo. È un set, un camerino, una sala prove, un luogo in cui i personaggi fanno, da soli e senza pubblico, delle performance, cercando di ripartire da un legame minimo tra due- che, più che familiare, sembra essere generazionale, e più ancora comunitario, conoscitivo. I due sembrano più un germe di gruppo che dei fuorusciti da una famiglia. Compiono azioni di training, di esplorazione di sé e dello spazio: camminano compiendo strani percorsi tra gli oggetti, provano costumi d’epoca, tengono la testa sott’acqua il più possibile, danzano. E si mettono in maschera, ovviamente: del resto, i film di Bertolucci si sono spesso offerti come consapevoli mascherate. Specie quando si trattava di mettere in scena il passato. Brando e Schneider si travestivano e ballavano facendo delle parodie di tanghi, come in fondo anche i protagonisti del Conformista (e quello di Strategia del ragno ballava in liscio sulle note di Giovinezza). Ma qui il mascherarsi dei personaggi è più doloroso che altrove. Bertolucci, come mai prima, oltre alla gioia di filmare ne comunica anche la sofferenza, come chiedeva l’ultimo Truffaut. Il fatto è, e il film lo mostra esplicitamente, che i ragazzi del film sono fantasmi, vampiri. Lorenzo legge Anne Rice, e lui e Olivia entrano invisibili nella casa paterna, come spettri che abitano quelle stanze. Spettri del futuro, non del passato. Forse nessuno li vede anche per quello, forse (come il protagonista nel finale di un altro libro di Ammaniti) non hanno paura proprio perché sono già morti. E da lì possono magari ripartire.
A suo modo Io e te emana una saggezza e una fiducia cui si crede davvero, e a cui sembra credere l’autore. Se nelle prime scene del film, giocando morbosamente, il protagonista immagina di sopravvivere con la madre a un’apocalisse e di doversi accoppiare con lei, nel finale all’alba, usciti dalla cantina, i due ragazzi sembrano essere loro soli nella città, e dover ripartire, liberi da Edipo, dalla psicanalisi, dalla borghesia. Ripartire magari da Agape prima che da Eros (sì, questo è uno dei film meno erotici di un regista sempre ambiguo e seducente). Fratellastri, ma anzitutto ragazzi, inizio di un legame: io-e-te, appunto. È solo un attimo: subito arrivano macchine, e passanti. Lorenzo rientra a casa, alla luce del giorno, forse non più vampiro, ma certo nevroticamente diverso dai padri. L’intervallo è finito, ma il suo rientro a casa sarà molto diverso dalla resa, quasi mezzo secolo prima, del Fabrizio di Prima della rivoluzione.