di Mariangela Caprara
Una mattina di fine ottobre. Interrogazione, rituale, ma non troppo, visto che in uno slancio di fiducia nelle misere forze grammaticali di una quinta ginnasio ho letto e spiegato il proemio dell’Eneide in latino. L’Eneide, comunque, la stiamo leggendo, lentamente, a piccole puntate, in italiano. E si ha sempre l’impressione che Virgilio, per quanto nella traduzione italiana, sia troppo per le misere forze letterarie di una quinta ginnasio. Comunque, in uno slancio di fiducia nelle miserrime forze mnemoniche e morali di una quinta ginnasio, avevo anche detto di provare ad imparare i primi versi dell’Eneide in latino, due, quattro, sette, insomma quelli che entravano in testa. Provare, eh, mica obbligatorio; se no non mi avrebbero fatto i compiti tout court. Già, perché le cose stanno così: se i compiti a casa sono troppo gravosi, non si cominciano neppure. Una mattina di fine ottobre, dunque. Interrogazione. Domande sulla traduzione, analisi logica, qualche osservazione stilistica. Bene, non c’è male. Hai mica provato a imparare i versi a memoria? Sì. Quanti? Sette. Ah. Bene. Ce l’hai fatta. Sentiamo. Bene, bene. E, scusa, quanto tempo ci hai impiegato? Mah, non lo so. L’ho fatto quando ero già a letto, prima di dormire. Ah! Non eri stanco a quell’ora? No, no: era bello, e l’ho fatto.
È bello, Virgilio. Tre giorni prima, mentre leggevo declamando la fuga di Enea da Troia, nel punto in cui l’eroe racconta della perdita della moglie Creusa, qualcuno si era commosso. Soprattutto i maschi. Quando avevo alzato gli occhi dal libro, avevo visto occhi lucidi, davvero. Giorni dopo, una ragazza mi dice: Virgilio è bellissimo.
Dovrei essere contenta. Ho fatto i passi giusti. Mi sono servita delle pagine di Amore lontano di Vassalli; ho letto e commentato la I Ecloga delle Bucoliche in traduzione; ho messo in evidenza gli aspetti lirici della poesia virgiliana, le malinconie, il sentimentalismo. Ho vinto. Ma non del tutto. Mi resta, infatti, sempre, l’amarezza della grammatica, che a loro non sembra bella, affatto. Le forze di una quinta ginnasio sono davvero misere, davanti alla grammatica. Si getta la spugna subito, con la grammatica. Perché la grammatica è una cosa, e la lingua è un’altra. È la lingua che manca, quando i voti sono 7 all’orale e 4 allo scritto, fenomeno frequentissimo in latino e greco, e per tutto il liceo. Questa situazione significa che lo studente ha imparato a pappagallo la grammatica, ma non sa capire un testo. Non mi stupisco. Non sanno capire un testo neanche in italiano. Non sanno produrre un testo scritto. Non sanno elaborare un testo in forma di discorso. Non sanno più che la parola crea, non immaginano neppure che ci sia un modo in cui la parola crea. Voglio dire, il temino lo fanno, due parole in croce per raccontare la biografia di Manzoni sanno metterle; ma il primo è un automatismo più o meno lontanamente appreso, e le seconde pure. Insomma, non si tratta di competenze testuali, giacché non c’è la visione del textus come tessuto, intreccio di parole e strutture che fanno transitare idee. Anche perché in pochi hanno idee. Nella mia misera e insignificante esperienza di insegnante di lettere al ginnasio, questo vedo. Et excrucior.
Poi parli con un collega del triennio (già: perché in molti licei classici c’è questo bel gradino, tra i docenti del cosiddetto ginnasio e quelli del cosiddetto liceo, il Liceo per antonomasia della Repubblica Italiana), credendo di aver fatto buona cosa con Virgilio in latino. “Eh, ma per forza… Virgilio… certo che è bello… ma poi devi vedere il greco… e poi è la prosa il problema… è quella che gli danno da tradurre all’esame di Stato, certi testi che manco noi li capiamo, lunghissimi poi”. Ah. Allora proviamo col greco. Però poesia, eh, che Aristotele già lo hanno visto nel libro degli esercizi, e Senofonte pure, senza molto giovamento, parrebbe. Bene, Mimnermo, frammento 1.1, quello che, per color che sanno, inizia con “Cos’è la vita, cos’è la gioia senza Afrodite d’oro?”, perché è bello, e perché ci sono solo due (due proprio) forme verbali che loro non conoscono, quei mostri chiamati perfetto e aoristo, il primo all’ottativo, poi. Succede un fatto interessante. Riconoscono l’ottativo sconosciuto: è questo cos’è, prof? Certo, sono i bravi ad accorgersene. Ma hanno individuato l’estraneo, e pure questo vuol dire sapere. “Possa io morire…”, dice Mimnermo, col verbo in posizione enfatica all’inizio del verso 2. Quel verbo vedrai che se lo ricordano. E infatti, interrogati, fanno faville, soprattutto quella che va matta per tutti i poeti e gli scrittori del mondo, soprattutto quando parlano d’amore e morte, e infatti sa a memoria tutte le storie più intriganti della mitologia greca, con quel gran rimescolio copulativo di uomini, donne, animali e dei.
Ma la prosa… così ha detto lui, il collega del triennio. Confesso che l’unica terapia in corso per la prosa è la seguente. Il libro degli esercizi di greco è pieno di frasi e versioni di argomento moraleggiante, che nessun ragazzo normale può capire da solo. Mi spiego: quelli lì, i greci, nei testi che noi consideriamo esemplari della loro civiltà e dell’intera civiltà occidentale, parlano continuamente di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato, un’ossessione, davvero molto in linea con i nostri tempi, con i nostri adolescenti della piccola, media e grande borghesia (quelli del classico, sia chiaro), che normalmente non sono andati a catechismo (e va bene), ma non hanno avuto un insegnamento corrispondente in termini di bene e male, colpa, errore e merito, egoismo e altruismo, e simili categorie etiche. La lingua dell’etica non è a loro familiare. Quindi cosa traducono? Provano ad applicare le regole, e poi ti dicono che la frase non gli è tornata bene. Allora io mi sono messa (e li ho messi) a far questo: dopo aver tradotto meccanicamente, chiediamoci che cavolo vuol dire in parole povere. Di che sta parlando la frase. A chi, a cosa si riferisce, riassunto, parafrasi, chiamiamola come volete, ma COSA SI STA DICENDO QUI? La frattura più clamorosa fra contenuti e grammatica greca si consuma peraltro col più gettonato autore per il ginnasio, Esopo. Già: perché Esopo ha la morale in fondo, e te la dimostra col più assurdo dei metodi retorici (per un adolescente), ossia la favola con i personaggi che sono animali parlanti e che devono ciascuno impersonare vizi (cosa?) e virtù (cosa? al quadrato) dell’umana natura (eh?). La grammatica è facile, elementare, per carità. Ma nella mia scuola siamo rimasti così traumatizzati dall’esito generale della prova di recupero di settembre di due anni fa, quando come testo da tradurre fu proposta la favola “Il leone innamorato”, che Esopo ha subito in sostanza la damnatio memoriae. Vedi cosa succede all’inizio del terzo millennio alla prosa greca e a una tradizione millenaria che vedeva in Esopo un maestro di lingua e di vita. (Io infatti per mio figlio di quattro anni uso già un poderoso volume di favole esopiche, illustrate in un modo terribilmente policromo e cartoonistico, che comincia con la cicala e la formica: riuscirò a prepararlo al ginnasio?)
Poi c’è un giorno, un pomeriggio cupo di inizio dicembre, quando, su convocazione accorata (sì, accorata) del Preside (ops, Dirigente Scolastico), ci si trova tutti quanti insieme, quelli di materie letterarie del biennio e triennio, per parlare della possibilità di cambiare un po’ i curricula, ossia i piani di studio: in molte scuole lo hanno già fatto, proprio per evitare lo scollamento tra come abbiamo fatto noi, i docenti, il liceo classico, e come possono farlo, ora, gli alunni. (Che poi, noi docenti di latino e greco idealizziamo sempre, alla Antonello Venditti, quel nostro passato tra i banchi rievocandolo come l’età dell’oro, in cui il greco e il latino si studiavano davvero, con disciplina ferrea: sì, certo, perché noi che ora siamo i docenti altro non eravamo che i primi della classe in qualche liceo classico d’Italia, ed è per quello che siamo finiti a fare quel mestiere.) A dimenarsi nella riunione sono soprattutto quelli che insegnano al ginnasio, quelli della grammatica per intenderci; quelli del triennio si trincerano sempre dietro alla formula oracolare “Esame di Stato”. Qualunque cosa si dica, “c’è l’Esame di Stato”. Comunque questo è quello che ne viene fuori in termini di novità (tralascio le proposte conservatrici dello status quo, quelle che insistono sulla grammatica e sulla tecnica di traduzione come salvacondotto per l’Esame di Stato e per tutte le professioni nobili – in particolare avvocato e ingegnere); qui smetto con l’autobiografia patetica e divento seria:
1) la prova scritta per il liceo classico dell’Esame di Stato va cambiata per tipologia ed estensione;
2) Omero e i lirici non dovrebbero essere proposti in prima liceo classico;
3) si dovrebbero usare da subito e di più i testi letterari con traduzione a fronte;
4) l’esercizio tipico della traduzione andrebbe integrato sistematicamente con altre tipologie, anche come prova di verifica.
Punto 1. La traduzione così com’è proposta oggi all’Esame di Stato è una prova di problem solving, che deve costituire il pendant della prova di matematica propinata agli studenti del liceo scientifico. Si potrebbe però integrare questo esercizio con un questionario sul testo e sull’autore (si veda la prova d’esame del liceo europeo), una volta stabilita una rosa obbligatoria di autori significativi da conoscere. Il testo proposto dovrebbe avere caratteri di esemplarità all’interno della civiltà classica. Beninteso, si potrebbero sottoporre agli alunni sia un autore greco che un autore latino, così nessuna delle due lingue verrebbe trascurata a partire dal momento in cui si viene a sapere quale sarà la materia d’esame.
Punto 2. Chi conosce Omero e i lirici sa bene che uno studente medio appena uscito dalla quinta ginnasio non può affrontarli se non con quintali di note esegetiche e con la traduzione a fronte, ammesso che comunque capisca. Mediamente, a livello linguistico non resta niente di questi autori, che si esprimono in dialetti diversi dall’attico, quello della grammatica che i ragazzi hanno conosciuto e su cui sono stati tartassati per due anni buoni. Che senso ha non ritrovare subito l’attico nei testi letterari e passare all’eolico o allo ionico? A me sembra che gli studenti ne vengano fuori parecchio disorientati e perfino demotivati. Purtroppo la lettura dei testi letterari in Italia procede lungo l’asse temporale, per cui se Omero è vissuto prima di Platone, non si può cambiare la storia. Vediamo però di trovare qualche compromesso, che ne dite?
Punto 3. La regola e l’esercizio vanno spodestati dal ruolo principe che giocano nel ginnasio, e se vogliamo anche nel triennio, nella prospettiva dell’Esame di Stato di cui si è già detto. Il testo letterario con traduzione a fronte è molto motivante, perché si capisce e ti insegna subito qualcosa. Magari ti insegna anche l’italiano (e ce n’è bisogno); magari si possono pure confrontare traduzioni diverse, e discuterne. A mio parere, anche così si impara una lingua morta, e si fa nello stesso tempo una buona semina per le lingue vive. Va superato il tabù (tutto italiano) verso la traduzione a fronte; che poi, i ragazzi se la cercano e se la trovano sempre in internet. Liberalizziamola! La cercheranno meno! Daremo noi quella giusta! Alla luce del sole!
Punto 4. Tipologie alternative di prova di verifica. Trova l’errore di traduzione. Riempi gli spazi vuoti nel testo dato. Leggi e riassumi il contenuto (senza vocabolario: sull’uso del vocabolario vorrei fornire una volta o l’altra una trattazione a parte). Traduci e inquadra il tema sul piano storico-culturale. Eccetera, purché non si immagini che lo studente medio del liceo classico del terzo millennio, in Italia, sia un filologo classico, né all’inizio, né alla fine.
Purché i ministri dell’Istruzione, in Italia, si decidano a sentire il parere di qualche docente. Almeno per una volta. Una sola. Poi ci chetiamo.
[Immagine: Sasha Waltz, Aeneas and Dido (gm)].
Anch’io, pur da prof del triennio (!), penso come te: le prove di verifica e le esercitazioni diverse dalla “versione”, cioè dal brano estrapolato dal contesto e senza nemmeno la firma dell’autore, sono la normalità. Il punto è che le diverse esercitazioni che si fanno sul testo (cioè di tipo testuale, non solo grammaticale, o peggio non solo “settimana enigmistica”), su Virgilio Tacito Nepote Petronio, poi insegnano ai ragazzi sia la grammatica sia la traduzione. Quindi l’esame di stato (solo traduzione) lo fanno meglio.
Aggiungerei a quel che dici tu che occorrerebbe mettere più al centro anche il lessico, soprattutto il lessico dei valori e i lessici frequenziali.
Quelle che elenchi sono tecniche di esercitazione, ambienti di lavoro, procedure che i docenti di lingue classiche dovrebbero applicare normalmente e il problema sta esattamente nel finale del tuo articolo: non dobbiamo portarli a diventare dei filologi, ma dei buoni lettori; non dobbiamo portarli a essere insulsi pappagalli di regole normative e di pagine di storia della letteratura, ma esperti di pensiero critico e lingua.
Cara Mariangela, tutto giustissimo, impostazione generale e singole proposte.
Il problema è proprio la LINGUA, come dici. Finché si continuerà a considerare la traduzione solo come un esercizio di verifica dell’applicazione delle regole grammaticali saremo noi insegnanti i primi ad esser causa del traduttese, della distorta percezione dell’esistenza di una traduzione letterale e di una ad sensum piena di strampalate licenze.
Taccio del greco, che ahimé non so; quanto al latino ricordo perfettamente che in prima liceo scientifico (il liceo scientifico ante Gelmini, con 9 ore su due anni di latino nel biennio: ah, i bei tempi andati…) lo studio del latino su base puramente grammaticale produsse di primo acchito una deformazione (di cui poi, fortunatamente, io e i compagni ci liberammo appena superata l’iniziale ingenuità), ma che è eloquente. Se rosae è genitivo e dativo, può essere SEMPRE l’uno o l’altro INDIFFERENTEMENTE. Ma c’è una bella differenza tra dire “il libro è DI Mario” e “DI autunno le foglie cadono”. Dovremmo puntare a far capire che la grammatica non è (solo) la descrizione di una lingua, ma la sua stessa architettura e che parlando la sua madrelingua anche un analfabeta rispetta una grammatica.
Dunque: alleanza strategica tra studio della letteratura e della lingua, tra studio della grammatica e produzione scritta, tra insegnanti di greco e latino e insegnanti di italiano. E basta con la bizzarra distinzione, nel triennio, tra ore di letteratura, di autori e di grammatica. Ci dovrebbero essere solo le ore di educazione linguistico-letteraria.
Come ex studentessa di un liceo classico, mi trovo del tutto d’accordo. Mi permetto anche io un piccolo autobiografismo, per sostenere le proposte dell’autrice del post. Durante il liceo ho frequentato un anno di studio in Olanda, uno dei pochi Paesi europei dove a scuola si studia non solo il latino ma anche il greco.
Al primo compito in classe ho sistemato sul banco il mio monumentale “GI Montanari” spedito dall’Italia e i compagni olandesi erano stupefatti: il lessico loro dovevano impararlo a memoria, come si fa con le lingue vive, e in classe traducevano per lo più all’impronta e in gruppo, aiutati solo da un piccolo vocabolarietto e dalle note al testo. Nessun autore incuteva timore: da brava studentessa addestrata all’attico, mi scandalizzava che i miei compagni si lanciassero in dubbie traduzioni di Omero. Facevano moltissimi errori, ma in qualche modo scioglievano quella lingua per me illeggibile, perché il loro scopo non era riconoscere grammaticalmente ogni verbo, ma capire che cosa Omero ci stava dicendo. Alla fine della lezione almeno un quarto d’ora era dedicato alla discussione di ciò che avevamo letto.
Per me è stata una rivelazione!
Anche se fino a quel momento ero sempre stata una “prima della classe”, per la prima volta al penultimo anno di liceo mi rendevo conto che la traduzione non era un esercizio di autopsia, ma soprattutto di comprensione, interpretazione e resa letteraria.
L’anno dopo, tornata a casa, è arrivato anche per me l’”Esame di Stato”: non ricordo nemmeno più di quale autore si trattasse, ma nella versione c’era un giro di frase difficile, una questione grammaticale che non avevamo mai affrontato prima e che nessuno sapeva tradurre. Dopo aver combattuto per alcuni minuti ragionando “all’italiana”, con il naso incollato sull’oggetto grammaticale irriconoscibile, mi sono arresa e ho deciso di affrontare il problema “all’olandese”, rileggendo il testo nella sua interezza per capire che cosa quel nodo micidiale potesse voler dire. La traduzione della frase non è risultata grammaticalmente perfetta, ma sono riuscita a riproporne il senso. Penso che un pizzico delle proposte avanzate da Mariangela Caprara aiuterebbero gli studenti ad affrontare in modo diverso anche l’atroce Seconda Prova, soprattutto proprio là dove la grammatica vacilla.
Penso anch’io, come Lo Vetere, che lo studio sistematico della lingua non debba essere abbandonato, anzi debba andare di pari passo con la conoscenza antropologica e culturale del mondo che la lingua rispecchia. Quindi ben venga, Mariangela, un approccio meno didascalico alla conoscenza della lingua; ben venga anche l’impostazione “all’olandese” di cui si parla in altro commento (che è poi quella tipica, nella didattica del Latino, per i Paesi del NordEuropa e per gli USA); tuttavia, l’escamotage del testo a fronte o della traduzione contrastiva, ecc., credo debba essere sempre posteriore – come arricchimento – alla traduzione autonoma, effettuata basandosi sulle singole competenze acquisite sia con lo studio della grammatica sia con l’esercitazione in proprio. Recentemente ho proposto ai “miei” il Carmen CI di Catullo chiedendo loro di tradurlo all’impronta (con l’aiuto del dizionario e anche con il mio riguardo alle diverse possibilità semantiche dei singoli temini, che però erano loro poi a dover scegliere in base al parere collettivo) e solo dopo, quando tutto era compiuto, ho portato in lettura un pugno di traduzioni che alcuni dei più grandi latinisti hanno dato del componimento: ebbene, devo dire che traducendo in proprio hanno avuto la possibilità di scoprire concretamente la valenza dei vocaboli e anche le strutture grammaticali, in alcuni casi ne ho anche approfittato per spiegare nuovi elementi non ancora incontrati partendo dalla pràxis (di questo approccio nella didattica mi convinco sempre più, man mano che vado avanti); e, in aggiunta, il confronto posteriore con le altre traduzioni ha permesso loro di cogliere il concetto di sfumatura semantica, di scelta linguistica (naturalmente, dopo l’attenzione si è focalizzata sul poeta, sul dato biografico, sui costumi funerari, via via fino al collegamento interdisciplinare con la lirica italiana e quello che gli addetti ai lavori immaginano; a proposito, colgo l’occasione per sostenere che il collegamento sistematico, capillare, non occasionale, tra lingue classiche e insegnamento della lingua e letteratura italiana è secondo me ormai imprescindibile). Tutto questo, però, non sarebbe possibile – a mio parere – se si ponesse da subito il testo a fronte: il linguaggio va “manipolato” ben bene, ci si deve entrare, prima di poterlo assaporare dal di fuori, prima che ci dica veramente qualcosa su chi lo ha prodotto.
Va molto bene, in ogni caso, che nascano confronti su una didattica delle lingue classiche, in Italia francamente un po’ obsoleta: anch’io ritengo che la conoscenza maniacale della “regula” non porti né all’amore per la disciplina né alla sua profonda comprensione né, in via esclusiva, allo sviluppo di competenze linguistiche. Sarebbe bello che si creasse un ambiente di discussione su questi temi tra i docenti di materie umanistiche, invece di piangersi addosso perché – secondo alcuni – i ragazzi non comprendono, sono ormai poco interessati, e blabla come si è letto da qualche parte. I tempi sono maturi per un rinnovamento didattico nella Scuola da opporre a quello meramente organizzativo (e lesivo) proposto dai Governi degli ultimi vent’anni, e perché i docenti ne siano i promotori principali.
Grazie per questo post.
Gentile Mariangela,
sono contenta e molto stupita di leggere tali riflessioni da parte di un professore di ginnasio. Vorrei giustificarle il mio stupore descrivendole la mia passata esperienza. Sono una studentessa universitaria, classe ’93, uscita a pieni voti da un liceo classico statale che è stato mio incubo e mia prova di tenacia per 5 anni. Ho passato il ginnasio studiando grammatica, sempre e solo grammatica, facendo traduzioni dall’italiano al latino/greco e imparando a memoria ogni regoletta come un computer. Poi il liceo: il tanto agognato liceo, con la letteratura e la civiltà. Invece no, la professoressa era più rigida di quella del ginnasio, e ho ripetuto paradigmi greci e valori dell’ut + congiuntivo per altri 3 anni. Saffo? Chi è ‘sta sconosciuta? Non c’è tempo di studiarla, passiamo le ore a correggere versioni, che non ci vengono nemmeno, perchè appena ci imbattiamo in un costrutto irregolare ci blocchiamo come davanti ad un muro. E figuriamoci capire il senso di una versione, quello è proprio inarrivabile. Poi l’Esame di Stato: immaginavo che la mia perenne insufficienza di scritto si sarebbe fatta sentire, e invece no, ecco la vittoria dei miei professori di lettere, e di tutto questo sistema di insegnamento. Aristotele, bella versioncina il cui significato era incomprensibile anche in italiano. Ho provato a tradurre la prima frase facendo attenzione al senso del discorso, ma non ci cavavo niente. Allora mi sono arresa, e ho tradotto nel modo becero con cui ho sempre tradotto latino e greco: parola per parola, attenzione ai tempi verbali e alla grammatica. Senza aver capito assolutamente niente, ho preso 14/15.
E’ questo che ho imparato dal liceo classico? cosa mi rimarrà ora? tra qualche anno avrò dimenticato tutte le regole e poi ci sarà solo più tanto rancore per 5 anni che non mi hanno lasciato nulla. Quello che mi chiedo è come sia possibile che i professori di lettere non tentino neanche di aprire gli orizzonti sulle civiltà che sono alla base di ciò che oggi siamo.
Per questo accolgo con meraviglia il suo articolo. I professori di lettere del liceo classico mi sono sempre sembrati una roccaforte di rigidità mentale e scarsa autocritica, mi fa piacere che qualcuno si renda conto dell’assurdità di tutto ciò. Secondo lei è possibile portare il dibattito ad un livello più alto?
Aneddoto personale.
Sono uscito (vivo) dal liceo classico nel 1974. Oggi, recidivo, ho due figli che fanno uno la quinta ginnasio, l’altra la seconda liceo.
Di tanto in tanto mi sveglio nel cuore della notte, con il battito cardiaco a duecento: no, non ho sognato la guerra civile libanese che pure ho visto di persona, ho sognato i terrificanti compitini di verbi greci della mia maestra unica del ginnasio.
“Tirate fuori un foglio”, ed era il terrore, come se avesse detto “Al muro”. Dieci verbi dal greco, dieci dall’italiano, dieci secondi a verbo, un errore un voto, uno spirito o un accento sbagliati mezzo voto. Si registrarono voti algebricamente negativi: – 3, – 4, 5…
Nessuno, inspiegabilmente, si ribellava. Le ragazze (con grembiulone nero preventivo) andavano a piangere in bagno. Io una volta mi slogai un polso tirando un cazzotto contro una porta. In classe, però, muti, codardi, coperti e allineati.
I sopravvissuti arrivarono al liceo, dove ci davano del lei e ci trattavano da esseri umani, ci chiedevano il nostro parere…si leggevano insieme i classici greci e latini, l’Eneide (tutta) Omero (un bel po’). Tre anni di convalescenza, tutta vita.
Dissolvenza. Passano trent’anni. I miei figli ci ricascano. Seguendo i loro compiti a casa, mi accorgo con sbalordimento che mi ricordo tutto. Va bè, le regole grammaticali no, ma so tradurre a prima vista quasi tutto, dopo decenni di inattività.
Però, la prof Castiglioni-Mariotti Viendalmare con le sadiche schiacciatine che sgranocchiava beffarda mentre noi pregavamo gli Dèi per un aoristo…Ne sarà valsa la pena, mi chiedo? Mah. Almeno faccio bella figura con i figli, che non è poco.
Ai miei figli va molto, ma molto più liscia. Lo sterminismo da noi vissuto, improponibile: i ricorsi al TAR, alla Corte di Giustizia Internazionale dell’Aia, alle Nazioni Unite si sprecherebbero.
Il metodo è identico, l’applicazione infinitamente più delicata, montessoriana, user friendly (anche il vocabolario di greco, tanto più carino e leccatino del nostro roccioso Rocci).
I figli se la cavano. Imparano abbastanza bene, mi sembra. Oltre a latino e greco, che per noi erano sole e luna, hanno anche altre materie, fatte piuttosto a fondo (soprattutto matematica e inglese). I professori li ringrazio sempre, complimentandomi per questa innovazione del latin et grec sans larmes. A me, tutto sommato sembra che vada bene così. Poi, certo, migliorare si può sempre. Però, il vecchio liceo cassico c’è ancora, e a dir la verità, mi sembra un’ottima cosa. Speriamo che duri.
Non me ne vogliate se rispondo prima alle ragazze, entrambe ex studentesse di liceo classico, che ringrazio per la serietà con cui hanno letto il mio contributo e per il sentito resoconto sulle loro esperienze, entrambe non molto felici.
@Teresa: che peccato per Saffo! Senza Saffo non si può parlare dell’amore. Una lacuna gravissima. Spero tu l’abbia recuperata per altre vie. Dici cose davvero forti, rimproveri aspramente tutti i tuoi maestri, e fai bene. Voi dovete essere esigenti. Voi, gli studenti, dovete imporre il vostro bisogno di capire, di imparare, e anche di godere della bellezza della parola che crea. Oggi – visto che abbiamo sdoganato l’autobiografismo – ho riportato, corretti, dei compiti di greco in V ginnasio: non tutti hanno preso 9, ma qualcuno mi ha detto “comunque, prof, questa versione era bella, era adeguata, era un bel discorso, si capiva”. Questo è il tipo di dialogo a cui io personalmente aspiro, ma hai ragione, Teresa, bisognerebbe che il dibattito fosse portato ad un livello più alto. Ti rassicuro in questo senso: ho molti colleghi che la pensano come me. E siamo molto, molto agguerriti. Vediamo se scrivendo e confrontandoci, come su questo blog, cominciamo a smuovere qualcosa.
@Maddalena: bellissimo il confronto Italia-Olanda, sei stata efficacissima nel proporci la tua esperienza; un po’ di rabbia per la vittoria di quest’ultima (perché, voglio dire, gli eredi degli umanisti dovremmo essere noi italiani), e però una considerazione che condividevo giorni fa con un collega di ginnasio a proposito del greco: ma il greco, la prosa greca, non è tutta un’eccezione alle regole?? Spero di non scandalizzare troppo i colleghi che leggeranno questo commento. Voglio dire, il greco richiede così tanta intuizione, “all’olandese”… Dunque a che pro insistere sulle “regole”? Ai miei alunni io non parlo di regole, ma di FENOMENI della lingua. Siamo noi, i posteri, ad avere bisogno di classificare, ma loro, loro parlavano e scrivevano, e basta. Io cerco di abolire la parola “regole”, e parlo di “tendenze”, “fenomeni”. Perché, come dimostra la tua esperienza e quella di Teresa, col greco arriva il giorno in cui la regola ti abbandona, mentre il discorso ti insegue. E allora, “all’olandese”, senz’altro.
E qui vengo a @Fiorella, che giustamente mi richiama alla cautela nell’uso della traduzione a fronte. L’esperimento su Catullo da te condotto è validissimo, però Catullo è poesia, il carme CI è un testo breve, tratta un topos letterario famoso, e i ragazzi diventano facilmente e positivamente operativi su testi come questo, dunque non mi stupisco dei risultati. Il testo a fronte io lo userei di più per la prosa, quella della filosofia e quella dell’oratoria, sia greca che latina: lì i ragazzi hanno bisogno di modelli, secondo me, perché raramente sono maturi, soprattutto al ginnasio, per l’argomentazione, che infatti è la loro bestia nera anche in italiano. Imitare un modello è una delle vie, secondo me, per imparare a scrivere, e dunque anche a ri-scrivere da una lingua all’altra.
@Daniele e Michele: ci siamo capiti.
Grazie a tutti comunque per la sincera passione dei vostri commenti. Incontriamoci, parliamo, scriviamo. Tanto la scuola cambia solo dal basso, nelle aule.
Confermo anch’io, per rassicurare @Teresa: gli insegnanti insoddisfatti dell’attuale stato di cose ci sono e l’autocritica circola. Ma i cambiamenti sono una cosa faticosa: “L’abitudine non può essere gettata dalla finestra da un giorno all’altro, ma deve essere accompagnata un gradino alla volta giù per le scale” (M. Twain).
Chi non fa leggere Saffo per fare solo studio delle regole, non dovrebbe insegnare: significa che la lettura della poesia per lei/lui non ha senso, che rifugge e non conosce quel piacere e usa la grammatica come un trincea.
Le cose si cambiano solo dal basso, sì, per cui, usiamo la Rete. Dobbiamo però essere consapevoli di una cosa, e spero di non sembrar atteggiato in pose eroico-tragiche: siamo proprio soli.
Al momento il Ministero, la politica, gli sdottoreggianti didatticologi accademici, i guru delle nuove tecnologie, sono una controparte. La scommessa per noi insegnanti è cambiare passando tra lo Scilla del tradizionalismo inerzialmente e pedissequamente perseguito e il Cariddi del delirio di stupidità degli ultra-iper-modernizzanti. Con condizioni materiali di lavoro sempre peggiori e però ricoperte, a confonder studenti genitori opinione pubblica, dalla retorica della scuola che dovrebbe adeguarsi a più alti standard di “produttività”.
Molto interessante questo articolo. Non sono insegnante di lettere e non ho frequentato il Classico però ritrovo alcuni spunti che potrebbero essere estesi anche ad altre discipline. Mi riferisco in particolare all’intervento di Maddalena che svela come ci sia una leitmotiv che pervade negativamente la scuola italiana che è quello che nella fase di apprendimento si deve puntare all’esattezza del compito, indipendentemente dal senso che questo sottende: fare senza sbagliare, non ha importanza poi se non si è capito ciò che si stia facendo. (Spesso all’esame di Stato ne ho conferma: studenti che hanno studiato ma non riescono a dare giustificazione della conoscenza). La mia esperienza nei Consigli di Classe con docenti di lingue classiche mi induce a pensare che non si può più “correggere”* un compito contando gli errori, questo equivale a vedere il bicchiere sempre mezzo vuoto. L’esattezza non deve essere un traguardo fine a se stesso. Le proposte che fa l’autrice sono condivisibili e spero che qualcuno che conta, prima o poi, le faccia proprie.
*Preferisco pensare che si dica “valutare” un compito.
Grazie per questo commento, che mi stimola a perlustrare anche il penoso campo della correzione-valutazione. Dico penoso, perché ne ho viste delle belle, da parte dei miei colleghi di latino e greco. Anche a questo proposito sarebbe già tanto aprire un dibattito… la tradizione della conta degli errori è solidissima! Grazie ancora.
Cara Mariangela, sottoscrivo quasi tutto quello che hai detto… conservo gelosamente il tuo articolo fin da quando è uscito perché, già da allora, esso aveva dato voce a un mio disagio personale, allora non meglio definito, ora evidentissimo. Ad esso si aggiunge la mia personale incapacità, dovuta a motivi antichi, di sopportare le difficoltà degli alunni e a punire con la “rimandatura” gli alunni meno bravi (con la maturità è sopraggiunta, dolorosamente, la consapevolezza che il latino e il greco non sono lingue per tutti, a differenza di quanto ho fatto credere all’utenza per anni in fase di orientamento). Non se se sei ancora in servizio… probabilmente saprai che ad aprile si terrà un importantissimo convegno al Politecnico di Milano, nel quale dovrebbe “rifondarsi” il Liceo Classico, speriamo su nuove basi. Perché non far avere a qualcuno queste “nostre” riflessioni perché le porti lì? Io sono stata contattata dal centro AMA del professor Bettini in quanto partecipante alla Summer School di Siena nel 2015 e potrei inoltrare in parte o in toto le tue riflessioni. In attesa di una tua risposta, cari saluti Maria Antonietta D’Alessandro
Grazie a Mariangela Caprara per l’articolo e a maria antonietta per aver riportato alla luce quest’articolo interessante. Sottoscrivo anch’io e aggiungo solo che ho da segnalare una proposta davvero di grande valore: allargare lo studio degli autori classici a tutte le scuole superiori, comprese soprattutto quelle non liceali, quest’articolo fa notare anche quanto oggi la formazione da cittadino consapevole sia da molti erroneamente ritenuta privilegio di pochi e non diritto di tutti:
http://www.santalessandro.org/2015/02/lo-studio-dei-classici-deve-essere-esteso-tutti-anche-fuori-dai-licei-e-senza-latino-e-greco/
Saluti.
Dall’alto dei miei 84 anni dei quali circa sessanta passati a scuola per insegnare greco e latino (Perchè diciamo latino e greco? In che ordine?) voglio dire che sono perfettamente d’accordo con l’articolo e con tutti commenti. Vorrei umilmente segnalare un mio libro, “EPISTOLE EROTICHE A CHI INSEGNA INTELLIGENTEMENTE IL LATINO, DELL’ Editore Osanna, disponibile anche in e-book. A a scanso di equivoci, aggiungo che i diritti d’autore sono devoluti alla LILT (Lega Italiana conper la Lotta contro i tumori. Ci sono dentro le anticipazione delle sofferenze e entusiasmi di tutti voi.
Vedendo in intervento sull’insegnamento del Latino, paventavo un pittoresco amarcord fine a se stesso. Ho invece trovato una simpatica ma razionalissima serie di considerazioni che suggeriscono più di un ‘che fare?’ dal punto di vista grammaticale ed anche sintattico, salvando però l’ottica finale che deve coinvolgere tutti, cioè la lettura e l’apprezzamento dei testi! Per questo penso: si liberalizzi anche subito il testo a fronte ( quello ‘d’autore’, però, non l’interlineare); facciamolo circolare commentandone le scelte di resa e di traduzione, le peculairità sintattiche, gli ‘errori’ eventuali riscontrati, le discordanze ‘ad sensum’ e le rese letterali. Ma non smontiamo per l’ennesima volta l’impianto metodico delle grammatiche ( io usavo in classe Flocchini-Bacci e la tanto più avviluppata Mariano) facendone uno sbriciolato non-sistema di osservazioni sparse, al margine di una civiltà marmorea ma spacciata….