di Franco Arminio
Noi diamo agli altri sempre una parte di noi stessi anche quando ci sforziamo in ogni modo di dare tutto, di andare oltre. Anche nell’amore più vivo, più infiammato rimane qualcosa in noi che non ci lascia, che non prende la via dell’altro. E così fanno anche gli altri con noi. Ci accolgono, ci sorridono, ci fanno grandi promesse, ma poi tramonta il sole, arriva la notte, poi c’è il giorno dopo. Sono anni che penso alla macchina di demolizione che è il giorno dopo. Fai un incontro con tante persone, si parla di politica, di letteratura, si parla con calore, pare che tutti vogliano iniziare una vita nuova, pare che abbiamo trovato una casa per tutti e per tutto. E invece niente, il giorno dopo cadono i ferri dalle mani, l’intreccio è perduto, il filo spezzato. Accade così anche negli incontri d’amore. Ogni volta proviamo a raccontare il nostro guasto per intero, proviamo a raccontare il nostro naufragio senza fine. Sembra che veniamo accolti, ma qualcuno vuole asciugarci un braccio, qualcun’altro vuole asciugarci un piede.
Quello che non pare possibile tra esseri umani è essere presi interamente. Solo la morte ci prende interamente, non scarta niente di noi. Se mi butto dal balcone la morte si prende il mio corpo, si prende le mie storie, le mie paure, i miei desideri. La morte non sceglie, non dice che ha altro da fare, è sempre a nostra disposizione, non è mai distratta. Ci accoglie, non ci dice che è troppo presto o troppo tardi, la morte non ha mai altri impegni, non è mai disinvolta. La morte è con noi se noi vogliamo. Forse arriva un momento della nostra vita in cui dobbiamo davvero arrenderci, rassegnarci. In me c’è un sogno, uno solo, è il sogno di incontrare una persona con cui è possibile sfasciarsi assieme. Il mio è il sogno di un amore disumano. Non è questione di fedeltà, di assiduità, di coerenza. Non è neppure questione di rispetto, di attenzione per l’altro. In questo fiume siamo sassi aguzzi, coccodrilli a bocca aperta, siamo spine negli occhi. Io continuo ad avanzare, a proporre il mio sogno. So che è incomprensibile.
Ognuno di noi è incomprensibile, intraducibile. Comincio a pensare che le relazioni sociali e quelle intime alla fine si reggono propria grazie al fatto che noi non entriamo mai davvero in gioco. Quando questo accade, quando ci spingiamo veramente fuori ci accorgiamo che nessuno ci vuole, che nessuno sa che farsene di noi. Il mondo è indisponibile e gli altri non ci sono. Noi siamo indisponibile e non ci siamo. Bisogna farsene una ragione. Dio, le poesie, i palazzi, tutto quello che c’è in giro e nella nostra testa è la prova che non c’è niente da fare, che possiamo solo fare qualche smorfia, qualche prova. a cui crediamo sempre meno. La novità di quest’epoca è proprio il fatto che la forma umana mostra di non reggere. Non solo per le scelte che abbiamo fatto in campo politico ed economico. Non regge l’idea della crescita e del ricavo nel momento in cui diventano idee democratiche, alla portata di un numero grande di persone. Non regge la forma umana del nostro sentire gli altri, del nostro amarli, del nostro tradirli. Non abbiamo più consistenza e non sappiamo accogliere l’inconsistenza. Ci annoia la coerenza e ci indigna l’incoerenza. Siamo delle bestie che non possono usare la loro ferocia, degli angeli che non possono usare le loro ali. Abbiamo messo noi stessi e la vicenda umana in uno spazio piccolo e senza luce. Per uscire, per avere ancora terra e cielo dentro e davanti a noi, adesso dobbiamo celebrare la nostra fine, chiudere col fiocchetto della morte questo lungo disordine che chiamiamo vita e vedere se resta qualcosa, vedere se c’è un oltre, se c’è un prima, se c’è qualcosa al fianco dell’umanità che abbiamo trascurato, qualcosa in cui versare il sacchettino della nostra avventura.
[Immagine: Spencer Tunick, Der Ring des Nibelungen, Monaco di Baviera, 2012 (gm)].
Non so, mi vien da piangeredalla commozione ,ma ripensandoci bene mi sembra assurdo tutto ciò: un graveolens retorico dal quale spero non ti lasci stordire; se posso dire qualcosa della mia esperienza di vita ad ogni disponibilità ed una totale apertura non condizionata a nulla c’è sempre una risposta pur imprevedibile, poco visibile, spesso totalmente inattesa da persone inattese ,forse occorre sollevare gli sguardi da terra perchè possano incrociarsi .Mentre al contrario elle chiusure o alle domande condizionate ci sono consensi che si squagliano come neve al sole o che diventano delle pietre tombali.
Mi sembra un pezzo magnifico, al passo coi tempi, che sono tragici – ci pongono innanzi a scelte e problemi che prima non era mai stati così radicali, forse.
Io ri-comincerei dalla frase (abusatissima ma spesso fraintesa) di un grande poeta, un poeta a me caro, il più profetico della modernità: Io è un Altro. In questa frase c’è tutto ciò che dice Arminio: il nostro essere incomprensibili a noi stessi, e al contempo il nostro bisogno innato degli altri; noi siamo un io in relazione (anche le scienze neonatologiche ci soccorrono in tal senso, dicendoci che siamo fin dal concepimento una relazione, un dialogo); noi siamo un’infinita apertura.
Il problema è restare sempre all’altezza del dialogo, non perderlo, non perdersi; ma per viaggiare su certe frequenze occorre – l’aveva detto sempre il poeta di cui sopra – lavorare a sé stessi, diventare meno “egoisti”. Però quello parlava di “libertà nella salvezza”, di “Natale sulla terra”, del “canto chiaro delle sciagure nuove”. L’hanno preso per pazzo. Gli hanno preferito – e continuano a preferigli – un sacco d’accamdemici, continuano a situare Baudelaire al centro, continuano a chiamarlo eccentrico, a trattarlo con le pinze della perplessità, dello scetticismo.
Ecco, io nelle parole di Arminio sento un’urgenza oggi indifferibile. La crisi è un vortice che coinvolge tutto, economia, politica, cultura, religione, ambiente, sensatezza dello stare al mondo; come possiamo fare per restare umani e per salvarci? Per smetterla di ridurci a rappresentazioni di noi stessi? Forse la chiave sta nel dialogo appunto, un dialogo individuale e al tempo stesso collettivo, un dialogo che non è solo il confabulare della rete e che non si sciacqua via col passare della notte, col giorno successivo. Chissà.
La morte non ci prende interamente e basta, ci prende nell’interezza della nostra parzialità; non è l’antidoto di quest’ultima, ma il presentimento e la conferma di essa. D’altra parte, noi siamo la conferma che la morte esiste. Che non esiste, cioè, Tutto senza parte e viceversa, ma non in quanto contrari che si danno solo dialetticamente; sì in quanto flatulenze linguistiche che si sovrappongono più o meno arbitrariamente a un’unica polpa inseparata. Che non esistono coerenza e incoerenza, e che la vita e l’universo tutto – quello che riusciamo a percepire – sono la più coerente realizzazione di un’incoerenza perfettissima e coerentemente protratta. Due o tre punti da cui bisognerebbe partire per sbarazzarsi una volta per tutte di Platone e di duemila anni di cose al servizio delle parole, e non viceversa.
Grazie per il pezzo.
“Comincio a pensare che le relazioni sociali e quelle intime alla fine si reggono propria grazie al fatto che noi non entriamo mai davvero in gioco”.
Verissimo. Pero’ questo oltranzismo un po’ manicheo (del tipo: “o la finzione sociale o la verita’ che si brucia”), che esclude le sfumature intermedie, non credo sia utile ne’ auspicabile. Abbiamo tanti limiti: anziche’ rifiutarli nel nome di un qualche assoluto (sia pure nichilistico, come la fine degli uomini, quella che mi pare di leggere tra le righe di questo intervento), dovremmo imparare a dosarli, a cercare l’equilibrio tra forma umana e necessario (ripeto, necessario) “non entrare veramente in gioco”.
da Russia Today [ http://rt.com/usa/news/us-2030-report-global-757/%5D un resoconto del rapporto (140 pagg. distribuite lunedì scorso) del National Intelligence Council, organismo di sintesi delle agenzia d’intelligence statunitensi, che pare concordare con la visione di Arminio.
«Superhumans, supercities and supercomputers: US intelligence’s vision of 2030»
«Given the current rate of growth in technology and medicine, the marvels considered in the NIC report shouldn’t come as all too surprising. Only 18 years down the road, however, the ideas being pitched by the people behind the report might not be as much science fiction as soon-to-be-reality. It also might very well be predictive policy making.
»“We are at a critical juncture in human history, which could lead to widely contrasting futures,” Council Chairman Christopher Kojm writes in the report. With the next few years ripe for experiment, the future is “malleable,” Kojm suggests, making no time like the present to start perfecting space-age advances once thought to be out of this world. On the contrary, though, the NIC seems to think cyborg civilians and instant super-cities are thing of the not-so-distant future… […]
»No matter who is calling the shots, though, the NIC seems to think that a generation down the line will be a damn exciting time to be a human being. “People may choose to enhance their physical selves as they do with cosmetic surgery today” in 2030, they predict, at which point the replacement-limb technology is expected by the panel to be prevalent. “Future retinal eye implants could enable night vision, and neuro-enhancements could provide superior memory recall or speed of thought,” the report adds. “Brain-machine interfaces could provide ‘superhuman’ abilities, enhancing strength and speed, as well as providing functions not previously available.”
“La novità di quest’epoca è proprio il fatto che la forma umana mostra di non reggere.”
se l’accento della novità sta sul “mostrare” – se l’accelerazione e l’amplificazione delle pratiche economiche, comunicative, socio-politiche mostrano una fragilità della forma umana che è ad essa costitutiva – allora, forse, lo “spazio piccolo senza luce” in cui si trova la vicenda umana è quello che ha sempre occupato. Forse non eravamo mai stati collocati o descritti con la lucidità di adesso.
post affascinante, sintomo di una resa umanissima all’evidente inefficacia delle nostre forze. La verità caro Arminio è che lei non sente l’altro
Apprezzando molto la forma propria dell’Arminio scrittore e riconoscendogli coerenza di visione (anche quando schiacciata sul tempo presente), non posso non far notare che al poeta e’ data la possibilita’ massima dell’incontro e precisamente attraverso la traduzione, nel corpo a corpo con la lingua e con le forme altre. Saluti.
Non sono uno scienziato sociale. Sono uno che si è abituato a ricorrere alla lingua quando si sente male. Vorrei che mi si leggesse con la faccia sulle frasi, sentirle, annusarle, non guardarle mai da lontano.
giusto: si nota infatti quanto lei stia male, il suo pezzo sembra una prosa da “I mondi” rielaborata, questo lo dico da molto vicino
Analisi in larga parte condivisibile: vi si intravede il discorso camussiano del ‘solitaire solidaire’, ma senza la possibilità di una solidale condivisione di intenti. Ed è questo che amareggia e che angoscia di più: in un tempo che ha smarrito i valori della semplicità e dello stupore, che ha smarrito la grande ricchezza dell’ascolto, quello che sembra aprirsi non è un futuro prossimo venturo, ma un baratro nero di maledizioni e sordità. Ciononostante, sebbene tutto l’oggi ci spinga a pensare nichilisticamente il nostro stare al mondo, non possiamo/non dobbiamo/non vogliamo chiuderci in questo riccio di incomprensibilità: dobbiamo continuare comunque a coltivare la ‘speranza laica’ di una comunicazione che sia il più possibile orientata alla compassione (‘cum patior’: essere con l’altro nel soffrire). Certo, resteranno comunque due grandi ostacoli alla realizzazione completa di questo sentimento:
1. il fatto che non tutti vogliono essere ascoltati e che non possiamo, per quanto buoni, ascoltare tutti, ma proprio tutti coloro che ci circondano;
2. e questo Ungaretti su tutti lo aveva compreso: ognuno di noi possiede in sé un ‘porto sepolto’, che è la nostra vera intimità – per quanto oscura e nascosta: è lì che si trova il seme della nostra coscienza, la radice della nostra interiorità latente. è da lì che si sprigiona, probabilmente e in barba a ogni convenzione psicanalitica, il nostro essere uomini: uomini tra gli uomini e uomini nel mondo. Ed è un bene che quel porto, sepolto e dunque scrigno che contiene non solo il nostro proiettarci nel mondo ma anche i nostri ‘segreti’, continui per una volta a rimanere tale. Essere uomini sta anche nel mantenere il ‘segreto’, la nostra personalità. e, per quanto uno si sforzi, quel segreto continuerà a restare latente, e a renderci diversi l’uno dall’altro, pur sapendo che andiamo ad affrontare un comune destino di morte.
Sebbene esistano questi ostacoli/necessità, rimaniamo comunque uomini: pieni di segreti, dunque dediti alla coltivazione di un prezioso orto chiamato solitudine, ma anche propensi inevitabilmente alla vita sociale, e dunque predisposti all’altro… Dobbiamo e possiamo continuare su questa strada, sapendo quanto è accidentato il terreno e accettando di portare con noi una croce ingombrante che preme sul cuore e lo fa lacrimare spesso, ma anche ridere anche per un solo istante quando si costruisce veramente la ‘comprensione’ con l’altro
Non è possibile essere presi interamente perché siamo frammenti, siamo frammenti incollati insieme e lo scambio con gli altri, spesso, è accidentale. Avviene perché abbiamo perso uno dei nostri frammenti, e perché qualcuno l’ha raccolto. Qualcuno fatto, a sua volta, di frammenti.
Parliamo lingue diverse, ci incontriamo per caso, quando alle nostre orbite capita di sfiorarsi. Crediamo di poter comunicare e condividere ma questo non può succedere perché nessuno può prenderci tutti interi, nessuno ha lo spazio necessario per ospitare un mucchietto di particelle.
Quando incontriamo qualcuno – quel qualcuno che ci restituisce uno dei nostri frammenti perduti – viviamo, per un attimo, l’emozione dello scambio; ma è uno scambio che si esaurisce in quell’attimo. Il giorno dopo arriva e porta l’assenza.
Arriva per alcuni soltanto, credo, per quelli che hanno memoria, per quelli che guardano oltre l’attimo, per quelli – pochissimi – che si concentrano su tutti i dettagli, e, magari, si perdono l’intero, ma hanno a cuore ogni singolo frammento. Forse anche questa è una perdita. Forse la perdita c’è sempre e comunque, perché “Ognuno di noi è incomprensibile, intraducibile”.
Franco Arminio è il sentimentalismo allo stato puro. Scopre che le persone non possono darsi per intero e imbastisce un piagnisteo pieno di retorica, con tutto il lessico suadente e caramelloso dei romanzi rosa….
L.R.
Io credo che il dolore più grande sia nel non saperlo, Allora i sogni diventano disincanto, le aspettative mancate delusione. Forse siamo tutti bisognosi di cercare qualcuno che ci completi e siamo disposti a tutto pur di crederci. La fiducia, la generosità, il bene invece hanno sempre un limite. Viviamo con passione e sentimento quello che ci unisce. Magari il giorno dopo sarà destino. Ma un destino possibile.
Leggere ciò che si prova durante il percorso della nostra esistenza è davvero straordinario e commovente, e questo mi basta quando mi rivolgo ad uno scrittore-poeta. Mi sembra di trovare in Arminio una nuova religione, una religione laica, una religione dell’umano che in tempo di così forte decadenza spirituale riesce ad accompagnarci nel vivere la nostra esistenza. Ringrazio Arminio e tanti commenti che mi hanno dato la prova dell’esistere di uno spazio pensabile e vivibile per l’uomo. Mi dispiace per Luigi che ci vede solo quello che ha descritto.