di Matteo Di Gesù
[Questo articolo è uscito sulla «Domenica» del «Sole 24 Ore»].
Oltre a essere un ennesimo insulto, protervo quanto pacchiano, alla memoria delle vittime delle scorribande fasciste in Africa orientale, nonché un ulteriore sbrego al tessuto civile dell’Italia repubblicana, lo sconcio sacrario eretto ad Affile in onore dell’illustre concittadino Randolfo Graziani ha rivelato, una volta di più, l’inconsistenza della coscienza pubblica nazionale a proposito dei crimini coloniali. La persistenza di questo deficit di memoria comune condivisa, la marginalità di un dibattito che non ha guadagnato adeguata attenzione nemmeno nel corso di un processo di creolizzazione in atto ormai da anni nel Paese, per quanto accidentato sia stato, è forse una delle risultanze più nette che si potrebbe ricavare da un sommario rendiconto sullo stato e soprattutto sulle ricadute, in termini di cultura diffusa, degli studi postcoloniali italiani (di questa lunga rimozione nel discorso pubblico e nella comunicazione mediatica ha scritto recentemente Paolo Jedlowski, La memoria pubblica e i media. Il caso del passato coloniale italiano, in www.mesogeamag.it).
Già, perché con l’annunciato tramonto del “cultural turn”, sembra arrivato il tempo dei primi bilanci, quantomeno in sede critica e accademica, anche per l’Italia: dopo la tappa portoghese a Coimbra della scorsa primavera, dedicata a postmodernismo e postcolonialismo tra storia e letteratura, il gruppo di ricerca internazionale coordinato da Ana Maria Binet e Martine Bovo ha intitolato al “caso italiano” il prossimo congresso in programma all’Università di Grenoble alla fine di novembre (Memoria storica e postcolonialismo: il caso italiano è il titolo completo); mentre ha l’andamento di un consuntivo problematico, quantomeno per come viene proposto al lettore, la raccolta di saggi di Ugo Fracassa, Patria e lettere. Per una critica della letteratura postcoloniale e migrante in Italia, Perrone, 2012. Il libro di Fracassa, anche nella sua stessa organizzazione interna (una prima sezione incentrata sulla letteratura coloniale, con due capitoli dedicati rispettivamente a Malaparte e a Flaiano, e una seconda sulle cosiddette scritture migranti contemporanee, con interventi su Lakhous, Hajdari, la Princesa di Fernanda Farias e Fabrizio De Andrè: dunque con un ampio vuoto in mezzo – o meglio a monte – non certo imputabile solo all’autore), nell’analizzare queste opere-campione evidenzia i ritardi costitutivi e le non poche debolezze metodologiche della critica postcoloniale italiana, destinando alle pagine conclusive una preziosa riflessione critica sullo stato dell’arte, che forse richiedeva un supplemento di approfondimento. Oltre alle consuete resistenze dell’italianistica italiana, Fracassa lamenta la prevalenza, negli studi di letteratura migrante, della «poetica del diverso», di una «mitologia di un ibridismo felice» su una dialettica meno irenica, di ascendenza gramsciana, capace di leggere nei processi culturali e di svelarne le logiche egemoniche: una linea ‘Édouard Glissant’ (autore di Poetica della relazione), insomma, fino ad ora vincente su una linea ‘Edward Said’ (il cui Orientalismo è stato tradotto in Italia tredici anni dopo la sua prima pubblicazione, del resto).
Comunque la si veda, resta indubitabile il fatto che, pur potendo disporre finalmente di un cospicuo repertorio bibliografico teorico ormai accessibile in traduzione – pur con tutti i ritardi del caso – , per il quale va tributato un particolare riconoscimento al lavoro della casa editrice Meltemi, che ha chiuso i battenti purtroppo da più di un anno (da Homi K. Bhabha a Arjuni Appadurai, il cui Modernità in polvere è stato recentemente ripubblicato per i tipi di Raffaello Cortina), il dibattito sulla letteratura postcoloniale e migrante, come si diceva, ha avuto una scarsissima incidenza nel discorso pubblico e nel senso comune e non è riuscito a sollecitare una rivisitazione problematica del passato coloniale italiano e delle sue numerose zone oscure, come è avvenuto altrove e come sarebbe stato auspicabile succedesse anche da noi. Perfino una necessaria rilettura del nostro canone in questa chiave rimane ancora quasi tutta da farsi, a dispetto dei numerosi spunti di ricerca che esso offre (dal Pascoli di Italy e della Grande proletaria all’Ungaretti di In memoria e Italia; dal D’Annunzio delle Canzoni d’oltremare ai rigurgiti razzisti presenti in tante delle venerate riviste letterarie del primo Novecento, solo per fare alcuni esempi), fatti salvi lo studio condotto a suo tempo da Giovanna Tomasello (L’Africa tra mito e realtà. Storia della letteratura coloniale italiana, Sellerio), le documentate e incisive inchieste critico-letterarie del compianto Riccardo Bonavita (Spettri dell’altro. Letteratura e razzismo nell’Italia contemporanea, il Mulino) e poche altre ricerche isolate.
Tuttavia, se un cantiere sul tema coloniale nella letteratura italiana è stato quantomeno impiantato e se gli studi sulla letteratura della migrazione (che, come suggerisce Daniela Brogi, sarebbe ora di chiamare in un altro modo) promettono sviluppi interessanti, l’occasione culturale davvero mancata, quantomeno fino a ora, è quella che gli studi postcoloniali avrebbero potuto propiziare per una rivisitazione dei processi culturali e letterari con i quali è stata codificata nella modernità italiana la nozione di meridione e di identità meridionale, nella loro più convincente e fondata proposta metodologica di critica dei modelli discorsivi egemonici e nella loro efficacia di dispositivo destrutturante. Un Orientalism in one nation, per usare il sottotitolo di una delle sparute indagini condotte in questo campo (Italy’s “southern question” è quello sotto il quale le ha raccolte nel 1998 la curatrice Jane Schneider, studiosa americana, come americano è Nelson Moe, al quale si deve il più cospicuo e convincente lavoro sulla stratificazione letteraria dell’immagine del meridione italiano, dalla metà del Settecento alla fine dell’Ottocento, meritoriamente tradotta in italiano alcuni anni or sono: Un paradiso abitato da diavoli. Identità nazionale e immagini del mezzogiorno, L’ancora del Mediterraneo, 2004) ancora quasi tutto da mettere in pratica, sul versante degli studi letterari (ma va quantomeno segnalato il lavoro curato da Bruno Brunetti e Roberto Derobertis, L’invenzione del sud. Migrazioni, condizioni postcoloniali, linguaggi letterari, Graphis 2009). Magari, anche rivisitando alcuni assunti gramsciani, ne verrebbe fuori qualche novità interessante: per esempio a proposito del conclamato realismo dei veristi siciliani, che riletto da questa prospettiva rivelerebbe non pochi debiti verso un certo pittoresco meridionale e verso un esotismo convenzionale e ‘domestico’ che si andava delineando in quegli anni. Ma la stessa collocazione meridiana dell’Italia, dei suoi costumi e della sua cultura, è una questione che dall’Illuminismo in avanti (all’incirca dalla pubblicazione dello Spirito delle leggi di Montesquieu in avanti) intreccia, in un più vasto quadro europeo, letteratura, geografia, antropologia.
Nelle more della chiusura dell’epoca degli studi culturali, insomma, un altro po’ di lavoro resterebbe ancora da fare, per i volenterosi postcolonialisti di casa nostra.
[Immagine:
«Tutti i territori dell’Impero sono occupati. Le popolazioni sottomesse salutano il Tricolore», «La Domenica del Corriere», 27 dicembre 1936 (gm)].
ottimo pezzo, complimenti matteo.
Le segnalo i seguenti due volumi sull’argomento:
Postcolonial Italy. Challenging National Homogeneity
Edited by Cristina Lombardi-Diop and Caterina Romeo, Palgrave Macmillan 2012
R. Derobertis (a cura di), Fuori centro. Percorsi postcoloniali nella letteratura italiana, Aracne 2010
saluti, FS.
«il dibattito sulla letteratura postcoloniale e migrante, come si diceva, ha avuto una scarsissima incidenza nel discorso pubblico e nel senso comune e non è riuscito a sollecitare una rivisitazione problematica del passato coloniale italiano e delle sue numerose zone oscure, come è avvenuto altrove e come sarebbe stato auspicabile succedesse anche da noi» ( Di Gesù)
Devo smentirla. Non solo manca una rivisitazione problematica del passato coloniale italiano, ma nel solito silenzio del mondo accademico si è avuta di recente una sua ripetizione “teleguidata”: vedi guerra contro la Libia, eliminazione di Gheddafi e silenzio sulla situazione attuale.
Ripropongo qui sfacciatamente agli studiosi del postcolonialismo con l’occhio guercio sul presente (e la coscienza cattiva) questa mia (bruttissima ovviamente) poesia:
Marzo 1821 – Marzo 2011
«Fra un secolo si immaginerà che in questa nostra Assemblea, mentre si discuteva sulla nuova costituzione repubblicana, seduti su questi scranni non siamo stati noi, uomini effimeri, di cui i nomi saranno cancellati e dimenticati, ma sia stato un popolo di morti, di quei morti che noi conosciamo ad uno ad uno, caduti nelle nostre file nelle prigioni e sui patiboli, sui monti e nelle pianure, nelle steppe russe e nelle sabbie africane, nei mari e nei deserti, da Matteotti a Rosselli, da Amendola a Gramsci, fino ai giovanetti partigiani »
(da un discorso di Pietro Calamandrei all’Assemblea Costituente nel 1947)
Cancella, o Marcella
la Libia, stantio pane nostro quotidiano televisivo.
Le facce belle di uomini e bambine
ridevano per noi (ma anche di noi)
nell’attimo delle foto di allora.
Poi nelle notti tremarono, urlarono
disfatte tra le macerie.
[«L’ultimo è il W-80 3, utilizzato,
a quanto pare, anche come carico
per i moderni bombardieri B-52.
A tutt’oggi, fonti statunitensi militari
e scientifiche, calcolano la sua potenza
di esplosione intorno ai 200 kt.»]
«Li lasciamo tutti ammazzare?», chiedesti
ansiosa. «Nulla per loro possiamo più fare»,
ti risposi. Perché eravamo già tutti morti.
« Finché permettiamo alla guerra
(che è sempre cosa molto diversa
dalla resistenza) di tracciare
il solco tra il giusto e l’ingiusto,
siamo già tutti morti.
Siamo cadaveri che pontificano.
Che danzano sui teschi di tutti
gli insorti che verranno».
Luca ebbe ragione a scrivercelo
in quel lontano, amaro, marzo 2011.
“Volenterosi” bombardammo Tripoli
e tornammo popolo dei morti semper
presdellarep in testa, benedicente:
«Non siamo entrati in guerra.
Siamo impegnati in un’operazione
autorizzata dal Consiglio di sicurezza
dell’Onu».
Erano 150 anni esatti dal primo
albeggiante nostro Risorgimento,
ricordi?
*
Marcella è Marcella Corsi di Roma.
Luca è Luca Ferrieri di Milano.
Sono miei amici e collaboratori di POLISCRITTURE.
Un articolo bello e necessario, Matteo. E grazie per la citazione.
Mi permetto di segnalare anche l’ultimo numero della rivista Narrativa intitolato “Coloniale e postcoloniale nella letteratura italiana degli anni 2000”
Forse anche utile, per una più vasta prospettiva (anche letteraria, giuridica, antropologica, artistica), il nostro “Oublier les colonies” :
http://www.mareetmartin.com/livre/isabelle-felici-jean-charles-vegliante_oublier-les-colonies
Cordialità, e buone feste!
Grazie per i commenti e per le indicazioni bibliografiche (non conoscevo il numero di “Narrativa”, tra l’altro). Tra le tante altre possibili, forse può essere utile la segnalazione dei due volumi Orientalismi italiani, curati da Gabriele Proglio, Antares 2012
Avevo un’intuizione: ho incontrato gli studi postcoloniali e sin dal primo momento avevo pensato “guarda un po’, mi sembra si adatti alla realtà meridionale italiana…”. Le citazioni contenute in questo post sono molto preziose. Spero ci sia anche molto di più. Grazie, Denise