di Angelo Ferracuti
[Questo articolo è uscito sul «manifesto» di ieri].
La chiamavo “Giovannona”, così come affettuosamente l’aveva nominata Pier Paolo Pasolini, suo amico d’infanzia, con il quale aveva insegnato nella Scuola Popolare di Casarsa, negli anni giovani in cui la sua mitologia vivente aveva cominciato a far breccia nella comunità degli scrittori, la incontravo in genere a Porto San Giorgio, nella casa riva mare dove si rintanava d’estate e dove, come a Roma, sua residenza stabile, tirava a far tardi traducendo e ritraducendo ossessivamente la sua versione dell’Odissea italiana, mangiando poco o niente, lavorando in una specie di stato di trance, tenendosi in piedi col caffè e sorseggiando parsimoniosamente del buon cognac. Stava con gli occhi e col corpo, naturalmente col pensiero, sempre dentro quel poema omerico che non ha mai tradotto interamente per una postura aristocratica, perché il tradurre per lei non era mai qualcosa di definitivo ma un’opera aperta, in divenire, un cantiere continuamente pieno di rifacimenti e ritorni, l’edificio dove tantalicamente si dimenava, il labirinto che si era scelta e le piaceva. Poi aveva tutte le stranezze del mondo, le fobie più tenere, e le paure dei poeti veri, inermi sulla soglia del mondo, fragili per bisogno di profondità, la letteratura era l’unico suo centro nevralgico, l’unico esercizio, tanto per citare quello che è stato il suo fare versi così fatalmente rispettoso e il sentimento estremo di una grande educazione umanistica.
Giovanna era anche un animale notturno, un’anima in pena della veglia, completamente disinteressata del mondo contemporaneo, della politica, di cui sapeva poco, di cui le interessava poco, in quanto sempre dentro il pensiero di un mondo antico, nella classicità che non era un ripiegamento nichilistico ma una necessità espressiva e una postura necessaria, un mondo da tenere in vita nella sua di vita. I gilet scuri, le camicie bianche classicissime che indossava, i pantaloni attillatissimi, erano la divisa di una donna che aveva scelto la letteratura come missione, abdicando a tutto il resto, compresi gli agi di una esistenza borghese che non l’ha mai interessata. Ero giovanissimo e alla ricerca di una strada per la letteratura e per la vita, così durante molte notti passate insieme facevamo letture appassionate delle cose che stavamo scrivendo, incredibilmente alla pari, nel rapporto che era solita stabilire con i giovani scrittori. E lei mi incoraggiava affettuosamente. Per me non era solo una icona, l’amica di Pier Paolo e l’enfante prodige scoperta da Izzo e valorizzata da Sbarbaro, ma un pezzo di classicità, la grecità che si manifestava in quel salotto un po’ retrò di una casa delle vacanze, la sua “casina”, che a ogni nuova partenza per la Capitale salutava sempre come fosse una persona, e anche l’intonazione della sua voce manteneva la solennità dell’epica. Una voce altra, diversa da quella della vita quotidiana, che invece era arresa e di bassa intensità.
Perché Giovanna Bemporad, prima ancora che nei tanti festival si invitassero gli scrittori a tenere dei “reading”, amava leggere ad alta voce le sue poesie o i frammenti dei grandi libri che stava traducendo, proprio perché in quel modo poteva sentire meglio e più viva la lingua che lavorava con l’acume di un fabbro, la perentorietà di uno scalpellino, cercando quella cosa straordinariamente affascinante e impossibile che chiamava “la perfezione”. Mentre leggeva sembrava un direttore d’orchestra, muoveva le braccia impartendo il ritmo, le scansioni, e le sue mani ossute rivoltandosi contro se stesse sembravano seguire i movimenti della bocca, le pause del respiro, da cui uscivano quelle parole nel metro che più amava e che sentiva intimo, l’endecasillabo. Trovava sempre una platea di giovani che stavano ad ascoltarla rapiti, perché in quel momento, mentre recitava, ci stava ricordando un mondo, una perfezione, per l’appunto, che tutti noi avevamo perso e di cui sentivamo il rimorso.
Certe volte chiamava al telefono, anche alle due, le tre di notte, mi recitava un verso reclamando un giudizio immediato su alcune varianti. Poi si discuteva ancora fin quando non sopraggiungeva il sonno, e la notte era sempre più buia. Per lei non lo era mai abbastanza, per lei sembrava infinita, s’augurava sempre che non venisse mai il mattino.
grazie per questo bellissimo articolo.Amelia
I veri artisti sono così, per loro è impossibile vivere come la grente comune, sono disposti, nel momento della difficoltà, a sopportare qualsiasi privazione.
Per loro e’ impossibile rinunciare alla loro passione, morirebbero.