di Adelelmo Ruggieri
Il contrario della solitudine
Gennaio 2012. Devo andare a Rotella, è sotto il Monte dell’Ascensione. Devo, che parola – voglio, che parola. È domenica. Tra andata e ritorno un centinaio di chilometri. Porto con me Il mondo che ho visto di Mario Praz. Vide tantissimo Praz. Il libro inizia dalle pinares di Alcalá de Guadaira per chiudersi tra i cappuccini mummificati di Sàvoca, pochi chilometri entro terra tra Taormina e Messina. Tra il primo e l’ultimo viaggio i sette continenti. Ma appena prima della chiosa, al paesello montano di Sàvoca, al penultimo viaggio, Praz racconta di un posto che conosco anche io, che di mondo ho visto quasi nulla: Capo Colonna, poco a sud di Crotone. Era il Settacinque. Bene, parto. Ero molto magro. C’è una gran luce oggi. Avevo i capelli molto lunghi, surmagnetizzati dallo studio recente delle lamine in Fisica II. Vado a vedere i vulcanelli. Ne sentii parlare anni fa. Spero di trovarli. Bene, sono partito… Ora sono fermo lungo la provinciale 238, alla frazione Aso di Ortezzano, sul ponte. È semideserta la strada. È un posto che amo molto. Da qui in poi è come iniziasse un altro Paese, più coerente allo spazio che gli è proprio. Guardo il fiume che scorre tra le colline interne. Mi accade sempre la stessa cosa qui: è come se ciò che sto vedendo già lo conoscessi, ma non perché l’ho già visto: è una questione di sintonia. Il fiume ha le sue sorgenti a mille metri. È lungo 63 chilometri; ha due affluenti: il torrente Pallone e il torrente Indaco… Fra poco devo svoltare. Ho azzeccato il bivio. Ecco: sono arrivato a Croce Rossa.
C’è una donna che cammina sul bordo della strada. C’è tanto sole, ma fa freddo. Mi fermo. La raggiungo. Le chiedo se sa dove sono i vulcanelli. Non devi andare a Rotella… devi scendere laggiù… dopo il ponte, quello… lo vedi?… lo vedi?… vedi quel gruppo di case?… quelle, laggiù, lì… lì, quelle… quando sei arrivato chiedi a una di quelle case… Ho capito… Ecco il gruppo di case. Sono circa le dodici. Suono. Si affaccia un signore della mia età, mi presento, lui si chiama Luigi, è vissuto sempre qui. Gli dico: Sono qui per i vulcanelli, può dirmi qualcosa? Luigi mi guarda un pochino perplesso, poi mi mostra con tutta la mano dove stanno. Scorgo due monticcioli piccoli e bassi, sarà mezzo chilometro, di meno, appena sopra il fosso… Posso appuntare le sue parole? Certo: l’eruzione avviene di rado… mai nella siccità… sempre dopo un periodo di piogge… viene fuori argilla sciolta… un diametro di circa un metro… sale lentamente… delle volte nemmeno si avverte che sale… escono centinaia di metri cubi di melma… invadono il fosso delle laure… in altri posti esce solo acqua colorata… qui no… questo delle laure è di sola melma consistente. Le laure sono gli allori? Sì. Luigi mi dice che posso scendere a vederli, il fondo è suo… Ecco, li ho trovati, sono loro, i vulcanelli, appena sopra il fosso delle laure. Sono molto emozionato… L’altra cosa che farò, fra un po’, è tornare al Santuario di Tommaso da Canterbury, a Montedinove, non lontano; cinque chilometri, sei. Prima mangio qualcosa a Rotella. Può bastare per oggi. Non voglio eccedere con queste mie epifanie minime… Ho trovato un ristorante. È in Via Umberto I: quaranta metri di corso, in fondo la torre del borgo.
La sala da pranzo è a piano primo. C’è il focolare acceso. È gennaio. Al tavolo lungo, incorniciato dalle tre finestre sul corso, c’è una comitiva di undici persone, tutte della mia età o quasi. A capotavola c’è una signora. Forse la stanno festeggiando. Forse oggi compie gli anni. Anche io fra un po’ farò gli anni. Festeggio con loro, oggi stesso, alla chetichella. Chiedo al ragazzo che sta ai tavoli se ha un depliant del paese. Mi risponde: C’era, ma è finito. La cucina è al piano sopra. Il ragazzo va in su e in giù di continuo senza il minimo sforzo, come un atleta alle olimpiadi dei cento inclinati. Quando sto per andarmene mi regala un libretto: C’è questo però. Si chiama “Circuito delle cucine tipiche locali”. Serve a sostenere e incoraggiare l’economia della zona. Gli domando se è di qui. Certo. È così che mi risponde. Bella risposta. Il contrario della solitudine… Sono seduto a uno scalino del sagrato del Santuario di Tommaso da Canterbury. Sono le tre. L’aria si è fatta fredda. Sto sfogliando il “Circuito delle cucine tipiche locali”. Ci sono un po’ di notizie su Rotella. Per il suo toponimo si fanno diverse ipotesi: pare derivare da “rota”, che vuole dire “ansa del fiume”; ma pare derivare anche da rotula, che è “lo scudo di antichi guerrieri”; ma pare – anche – che possa – derivare dal – nome del – console romano Rutilio. L’origine è certa: medievale, ad opera dei Benedettini. Nel 1775 ci fu una grave sciagura: «il torrente Oste, ingrossato dalle piogge, erose i suoi argini creando voragini talmente grandi e profonde da inghiottire parte dell’abitato, compresa la chiesa di Santa Maria e l’annesso convento». Restò solo la torre civica. Era il campanile della chiesa a quel tempo. Non venne inghiottito. Aveva fondamenta migliori… Quando arrivai a Capo Colonna mi parve di stare di fronte al monolito di 2001, con il verbo essere che si dava quella forma tanto regolare, ma forse è solo una impressione posticipata. Il film era di sette anni prima, del Sessantotto. Ben diversa fu l’odissea nei cieli, trentatre anni dopo. Fino al XVI secolo erano rimaste in piedi molte colonne del tempio arcaico dedicato a Hera. Per questo il promontorio fu chiamato Capo delle Colonne. Poi il sito venne per intero spogliato. Restò una colonna soltanto. Era una delle tappe, non obbligatoria, del grand-tour…
Sto leggendo Gita alla Colonna di Praz. Più che di sé (Praz) racconta, con le stesse parole del romanziere inglese, del viaggio alla Colonna di George Gissing. Quando arrivò (Gissing) “il mare invernale in tempesta aveva impedito la visita alla Colonna”, e ora “il poveraccio giaceva infermo, delirante”; “poi si svegliò da quei cupi sogni e vide una serie d’immagini mirabili: grandi vasi, marmi sepolcrali scolpiti squisitamente, scene di vita antica, strade affollate. Il giorno dopo ancora più notevole gli apparve la finita compiutezza di quelle immagini”: Ricordo una sfilata di volti… sento ancora la fitta di rimpianto con cui li persi di vista…uno dopo l’altro, mentre svanivano nel buio… Durante il pranzo avevo chiesto del pane; mi viene portato una prima volta dall’olimpionico, e poi, dopo un po’, una seconda volta, dalla cuoca. Allora sto per dirle che ho già il pane, ma lei si è già voltata. Dal tavolo accanto qualcuno le dice che il tale all’altro tavolo (io) ha chiesto qualcosa; e lei torna a vedere, con lo sguardo che diventa domanda, e gli occhi che mi fissano nel farsi della domanda: Le occorre qualcosa? Ho già il pane, grazie, molto gentile. Qualcuno dei convenuti al grande tavolo forse si era dispiaciuto per la mia solitudine, con quel mio quaderno d’appunti che la drammatizzava. No, non era questo. Forse era quando due cose opposte si calamitano: da una parte una comitiva allegra, dall’altra un tale che mentre mangia, solitario, d’un tratto, prende a scrivere. È domenica. Fa i compiti del lunedì. Ma io ero contento in verità, c’era in me la dolce calma di chi è contento, ero in pace. Ero contento di quanto mi era accaduto, di ciò che avevo visto: quei semplici fatti che si erano messi in fila da soli. E prendevo appunti di modo che quanto mi stava accadendo e quanto scrivevo corrispondessero, nero su bianco… Sono ancora seduto allo scalino. Davanti al sagrato c’è un gruppetto di case che chiude la vista sul Monte dell’Ascensione. Su una qualche balza della collina c’è un campo di calcio. Stanno giocando una partitella domenicale. Si sentono gli incitamenti: Dai. Corri. E dai. E corri… Devo, devo – che parola, tornare presto da queste parti. Andrò a Montefortino stavolta. La chiamano La Louvre degli Appennini. C’è una pinacoteca molto bella. È per questo che la chiamano così.
La seconda mattina dell’anno
Il condominio sui calanchi
Gennaio 2013. È ancora notte. C’è un che di elementare nell’aria che non riesco a dire. Qualcosa che non può essere scomposto, come una nozione fondamentale. I vocabolari riportano sempre. Ho lasciato da poco la Statale 16. Mi ha scritto Linnio ieri. È che un po’ di giorni fa gli ho dato un libro che ho fatto stampare di recente, a ottobre. Si intitola I tetti sono semplici a Sali. Quando l’ho riletto, da stampato, mi è venuto un accidente. Non solo è sgangherato assai, e questo ci può stare, come taluni dicono, ma ci sono non pochi errori e stridono non poco. Uno per tutti: un altro con l’apostrofo. Ma come ho fatto? Come? Linnio mi ha detto che ho fatto male in alcuni testi a lasciare la prima persona per la terza, a lasciare l’io colloquiale; dice che si crea una frattura nella narrazione. Uno dei testi in cui lascio la prima persona si chiama La scelta del luogo; in verità avrei dovuto chiamarlo Il contrario della solitudine, è di questo che raccontava… Domani lo riscrivo in prima persona. Pensavo di avere finito con l’andare in giro e intanto che giravo prendere appunti, ma un poco mi dispiaceva, anzi assai, e allora eccomi qui, sotto un’insegna al neon,è quasi giorno, che scrivo. Sto andando a Montefortino, la Louvre dei Sibillini. Me l’ero ripromesso un anno fa, proprio di questi giorni… Ho con me Le porte dell’Appennino. La raccolta è del 1960. Paolo Volponi, il suo autore, ha trentasei anni. È in essa, scrive Emanuele Zinato, che subentra la terza persona, il distanziamento narrativo. Ma quando mi distanzierò da me stesso? Ah, ecco, ho capito che succede quando me ne vado in giro e intanto prendo appunti: sostituisco la distanza che dovrei mettere tra me e me che scrivo con l’intervallo di spazio che sto percorrendo, e questo dato reale prende il posto dell’imparzialità con cui vorrei dire del perché sto lì, in quel momento? Non lo so… Sono arrivato. Non sono ancora le nove. Ma come ho fatto a metterci così tanto ad arrivare? A quanto andavo? A venti? Sono felice di essere qui. Mi trovo a Porta San Biagio. Risale al XIV secolo. Da qui entravano in paese gli abitanti delle frazioni di Velice, Piedivalle e Rovitolo. Da qui uscivano gli abitanti del paese per raggiungere il mulino e le gualchiere. La pinacoteca è poco sopra. Ci sono dei dipinti di grandissimo riguardo, fra di loro non poche tele di Corrado Giaquinto, e poi c’è una Imago pietatis del Perugino. È un tondo di diametro centimetri ventuno, ma è talmente inestimabile la sua fattura che anche se fosse stato un tondo di diametro metri dieci nulla si sarebbe aggiunto a quello che è già lì, in quei trecentoquarantasei centimetri quadrati. Manca un’ora all’apertura. Sto uscendo da Porta San Biagio. Cammino piano lungo la Subappenina. Guardo i Sibillini coperti di neve, stanno lì, a un passo, e intanto che li guardo rileggo emozionato dalla vista Volponi. La poesia si chiama L’Appennino contadino. Inizia che è la “prima mattina dell’anno”: “era già tra la neve,/ era già nascosta come un piccolo animale/ nella nostra casa.”.
Epifania. Sono seduto a un gradino del Santuario di Tommaso da Canterbury, a Montedinove. L’ultima volta fu un anno fa. Sono circa le tre (del pomeriggio). C’è una bella luce e non fa freddo. Un’ora fa ero a Ripaberarda, non distante. È che volevo terminare questo racconto con i suoi calanchi, sotto le ultime pendici del gibboso Monte dell’Ascensione. Ma è troppo complesso dire di loro, troppo. Non ci riesco. Quello che riesco a dire è questo: lasciata la provinciale 73 in un minuto si è dentro l’incasato storico: Via d’Anchise, Via d’Enea, Piazza Priamo. Si chiamano così. Nel 1510 tre quarti del castello franarono a causa delle erosioni del torrente Macchia. La torre campanaria, su progetto di Antonio da Lodi, risale a quella stessa epoca. È alta quarantotto metri, a spaziature sovrapposte, marcate a salire da lesene angolari e cornici, la prima cornice ad archetti, la seconda dentellata. Al disopra del cornicione di coronamento, ai quattro spigoli, i quattro pinnacoli decorati da scodelle di maiolica azzurro scuro – blu acciaio. La cuspide di sommità è su base ottagonale anche essa decorata di maioliche a scodella. A venti metri nemmeno dalla torre si apre il cratere dei calanchi. Altri cento metri nemmeno e sulla terra stabile hanno tirato su un nuovo condominio. Ho aspettato che uscisse qualcuno o che arrivasse qualcuno. Poi qualcuno è arrivato. Volevo domandare qualcosa, del tipo che effetto fa abitare sopra i calanchi o perché quei nomi di via, ma poi non l’ho fatto.
[Immagine: Calanchi (mg)].
Uno sguardo semplice
Ciò che più mi colpisce di queste due microstorie è, ancora una volta, lo sguardo “semplice”, senza sovrastrutture, del loro autore.
Non è facile avere un tale sguardo, mantenere quella fedeltà alle cose. È così l’Adelelmo scrittore, e poeta, la sua opera, intendo, che è quanto – almeno in parte – posso dire di conoscere di lui.
Ora, ricollegando sensazioni ed immagini di altre cose scritte dalla sua penna, m’appaiono evidenti alcuni elementi che sono insieme inerenti al “fare” e all’”essere”, e che ricorrono nella sua scrittura.
Innanzitutto la fedeltà alle cose di cui dicevo poc’anzi, cioè la necessità, persino dichiarata in uno di questi due brani, di una corrispondenza tra scrittura e realtà in atto. Dice infatti ad un certo punto Adelelmo: ”E prendevo appunti di modo che quanto mi stava accadendo e quanto scrivevo corrispondessero, nero su bianco…”
Attenzione, qui si tratta non di una necessità di “coincidenza” (tra ciò che accade e l’atto della scrittura), cioè mera riproduzione del reale in cui siamo immersi, ma di “corrispondenza”, cosa che ha a che fare con un’altra parola utilizzata da Adelelmo che è “sintonia”, cioè riconoscimento, appunto, di una corrispondenza tra sé e l’altro da sé. Nel caso dei brani in questione, l’altro da sé, sono il paesaggio e le persone che lo abitano e che Adelemo incontra.
Ora, mi è venuta in mente una domanda che forse può sembrare banale (di certo lo sarà): ma cos’è che fa la differenza? – mi spiego: sarebbe uguale quel paesaggio se Adelelmo non si fosse fermato ad osservarlo? (se proprio non fosse stato lì, in quel momento, o se al suo posto ci fossi stato io, o qualcun altro…). E quella locanda in cui si è fermato per il pranzo?
Il pane nei due cestini avrebbe avuto lo stesso sapore? La festa sarebbe stata la stessa festa? E i volti visti sarebbero stati gli stessi volti se lo sguardo di Adelelmo non avesse contenuto nella sua memoria anche i volti da lui stesso immaginati leggendo Praz e “il Gissing di Praz”?
Si, lo so, di domande del genere se ne è occupata gente come Bergson, e le sue teorie a riguardo sono ancora straordinarie – quindi lasciamo perdere – non vorrei tagliarmici strada facendo.
Però una cosa la vorrei dire, e cioè che la realtà che accade sotto i nostri occhi è anche fatta di tante cose che noi ci mettiamo dentro, per rimettere in gioco tutto o quasi – forse per alzare la posta. E questo ha molto a che fare con l’”essere”, e col “fantasma” che ci portiamo dietro.
È per questo che se in quest’essere c’è anche il fatto dello scrivere, allora diventa essenziale uno sguardo semplice – non obiettivo (che non esiste), ma “semplice” (altrimenti il fantasma lavora dietro le nostre spalle, e la montagna sullo sfondo non è più la montagna, il fiume non è più il fiume, e il ponte collega le sponde dello Stige).
Nella scrittura di Adelelmo trovo una forza interpretativa della realtà data proprio da quella giusta distanza che pone tra l’atto dello scrivere e l’accadimento (inteso anche come memoria di sé), distanza che lo stesso Adelelmo dice però di non possedere.
Di fatto, tale distanza c’è e, contrariamente a quanto si possa pensare, lascia che le cose emergano dalla pagina limpide – come sono. Ed è proprio lui a suggerirci perché e come questo avvenga: “sostituisco la distanza che dovrei mettere tra me e me che scrivo con l’intervallo di spazio che sto percorrendo”.
Questa cosa qui apre ad un altro aspetto della poesia, e in generale della scrittura di Adelelmo Ruggieri, che riguarda la sua continua peregrinazione. Quella di Adelelmo, infatti, è spesso una poesia in movimento – un movimento molto calmo, pacato. Molte sue poesie riguardano luoghi, e credo siano state scritte proprio spostandosi da un luogo a un altro, in giro tra le colline della nostra terra, nei piccoli paesi che conosce, nei vicoli e nelle piazze, o nelle chiese rurali che costeggiano strade di campagna. E dentro questi movimenti fisici si aprono spazi di intima memoria, spesso piccoli ricordi raccontanti con pudore.
Anche queste due storie minime, che in fin dei conti a me raccontano un’unica storia, quella dell’uomo “originario”, cioè di colui che è pronto a cedere allo stupore, nascono da una peregrinazione spazio-temporale nella quale, alla scrittura e lettura dei fatti si aggiungono, in un gioco di rimandi, storie nella storia con “Il mondo che ho visto” – “Gita alla Colonna” – Praz – Gissing – Gissing in Praz, e così via….
E non mancano certo in esse, la timida misura delle cose e del mondo che da sempre caratterizzano i luoghi della poesia e della memoria adelelmiane.
Io, suo conterraneo, che non ho ancora letto né Praz né Gissing, ma che molti di quei luoghi ho frequentato e continuo a frequentare, ne colgo segni, sfumature, ricordi…,
…e anche questo, caro Adelemo, è un po’ il contrario della solitudine.
Un saluto da
Andrea Lanfranchi
PS. (a proposito “adelelmiane” si può dire?…).
Caro Andrea, anche se è molto difficile provo a rispondere ad alcune tue domande: mi chiedi se sarebbe stato uguale quel paesaggio se non mi fossi fermato ad osservarlo. Ne sono “certo”: in quel dato istante sicuramente sì, che io lo abbia osservato o meno. Lo stesso vale per la locanda in quel dato istante. Per il pane nei due cestini la questione non si sarebbe posta se io non ero lì. “Non ci sarebbe stata”, in senso stretto. Penso davvero che ogni domanda che ci rivolgiamo ammetta una risposta. Se poi la domanda che ci rivolgiamo è paradossale allora possiamo rispondere sempre che “un dubbio senza fine non è neppur più un dubbio”. Nel linguaggio le persone corrispondono, e non è solo concordanza-discordanza di opinioni, ma è una corrispondenza nella “forma di vita”. Ma la vera risposta a queste tue domande è questa, la più esatta o la sola è questa: sono molto contento che tu in questo mio testo abbia colto segni, sfumature, ricordi che appartengono anche a te, che conosci “i posti” di cui ho provato a dire qualcosa, o meglio: di cui ho provato a dire quello che sono riuscito a scrivere di loro. Ti ringrazio davvero molto. Adelelmo
(… no… adelmiano no…)
… ciao Andrea, ieri sono stato troppo affrettato nel rispondere… sarà pur vero che se non ero lì in quel dato istante etc etc, ma una domanda come “cos’è che fa la differenza?”, una domanda che inizia per “cos’è”, forse chiede una risposta senza tanti “se”, e forse la risposta è proprio: “il fatto di essere lì”, e “il fatto di essere lì” tiene in sé anche l’inerenza di cui dici giustamente al “fare” e all’ “essere” (essere in quel posto in quel dato istante)… sì, così mi sembra meglio… grazie di nuovo, buona giornata, Adelelmo
Caro Adelelmo, ti ringrazio davvero tanto per questo confronto, e spero che si possa parlare ancora di certi argomenti, magari facendo un giro insieme per paesi e colline della nostra terra.
Un caro saluto da
AL
ruggieri fa ready-made con lo spazio e col tempo
Ciao Renata
grazie del tuo commento; mi ha fatto pensare a questo: … può accadere che guardando una tal cosa ci si accorga che non la vedevamo più, è che sta “lì” “da una così grande quantità di tempo” che non la vedevamo più … o vedevamo un grigiore … e allora decidiamo di toglierla da lì e la mettiamo “in un altro posto” e allora (può succedere che) quella tal cosa è come se rinvenisse, delle volte (addirittura) si fa smagliante nel suo nuovo contesto … ma come? ma che è accaduto? … una cosa sicuramente è accaduta: ora guardo quella tal cosa in un altro modo, sta in un altro contesto … posso guardarla al modo di prima? … non so, forse no … ma ora questa cosa la so e decido di rimetterla lì dove stava… etc etc etc etc … e ora come guarderò quella cosa che prima stava lì (da tanto), poi l’ho tolta da lì e ora è tornata lì? … etc etc etc etc …
Adelelmo