di Arturo Mazzarella
[Questo intervento, uscito sul numero 68 del «Caffè illustrato», si inserisce nel dibattito aperto su «Le parole e le cose» dal saggio di Raffaele Donnarumma che potete leggere qui].
Sono diversi anni che la narrativa italiana, in alcuni settori sempre più estesi, si sta dirigendo entusiasticamente lungo le rotte di un nuovo realismo: con tale convinzione e fermezza da far parlare – attraverso una di quelle vuote diciture utili solo a chi costudisce ancora il tempio della storiografia – addirittura di «neo-neorealismo». Finalmente questo terapeutico ritorno alla realtà, secondo i suoi fervidi quanto numerosi cultori (che per lo più si riconoscono nel genere del non-fiction novel), segna l’abbandono definitivo delle rotte malsane seguite dalla narrativa post-moderna, esauritasi in una celebrazione autoreferenziale della letterarietà.
Grazie al libro di Maurizio Ferraris, Manifesto del nuovo realismo (Laterza, 2012), anche i nostalgici sostenitori di un ritorno alla realtà in ambito letterario possono ora richiamarsi a un’articolata piattaforma teorica. Per riuscire in un’impresa del genere si sono dimostrate troppo esili le pur ambiziose forze di Wu Ming, i quali – attraverso il New Italian Epic, apparso da Einaudi nel 2009 – avevano abbozzato una prima codificazione organica del «nuovo realismo». Ancora più fragile si rivelerà, solo l’anno successivo, la sistemazione storiografica coordinata, nei termini di una generica sociologia della letteratura, da Vittorio Spinazzola nel volume dell’annuario Tirature dedicato appunto al New Italian Realism. Né, d’altronde, l’apprezzabile numero 57 della rivista «allegoria», che per prima aveva scelto nel 2008 come tema monografico il «Ritorno alla realtà? Narrativa e cinema alla fine del postmoderno», era sostenuto da un’adeguata cornice problematica.
Adesso, invece, l’acuto piglio teoretico di Ferraris è riuscito – sia pure del tutto involontariamente – a offrire una sponda filosofica della quale il «nuovo realismo» era affannosamente alla ricerca. Ancora è troppo presto per riscontri tangibili, per espliciti riferimenti al libro di Ferraris (pubblicato nel febbraio del 2012) da parte dei letterati, ma l’ampio dibattito che lo sta accompagnando è da loro seguito con un interesse insolito nei confronti di un libro di filosofia per non rilevare una latente complicità.
Insomma, per scrittori e critici letterari, si profila la possibilità di suffragare la propria incondizionata adesione a una solida nozione di realtà con il ricorso a un progetto filosofico – molto più sofisticato di quanto il suo tono volutamente dimesso lasci intendere – che, attribuendo alla categoria di realtà un incontrovertibile valore ontologico, ha di mira un preciso bersaglio: la definitiva liquidazione del concetto di postmoderno. Ecco la risorsa provvidenziale che Ferraris offre ai nostalgici cultori di una realtà corposamente raffigurata dalla scrittura letteraria. Ma qui, a questa semplice assonanza, si arrestano le convergenze effettivamente riscontrabili tra il Manifesto di Ferraris e le aspirazioni, o proiezioni, della folta schiera letteraria in oggetto, senz’altro meno duttile dei loro progenitori filosofici: rivolti a sottolineare, opportunamente, che «il nuovo realismo è tutt’altro che un nuovo dogmatismo», come suonano le parole di Mario De Caro e dello stesso Ferraris, curatori del volume miscellaneo appena pubblicato da Einaudi, Bentornata realtà. Il nuovo realismo in discussione.
Qui si aprono, però, anche una serie di problemi sui quali forse è utile ritornare. Ce n’è uno, per esempio, che attende da tempo una risposta. Una risposta ragionevole, piuttosto che divertenti acrobazie d’autore o, all’opposto, macchinose elucubrazioni pseudo-teoriche (entrambe, negli ultimi anni, ci sono state generosamente dispensate). Proviamo a formulare il problema in questi termini: è proprio indispensabile ricorrere ancora, nel campo letterario, a una categoria – il postmoderno, appunto – entrata nel lessico comune più di trent’anni fa, intorno alla cui datazione e configurazione si è scatenato il più selvaggio arbitrio collettivo, per contrassegnare, ovviamente in termini negativi, quel ventaglio di testimonianze che all’idolatria dell’esperienza ha voluto opporre l’«atrofia dell’esperienza», come avrebbe detto Walter Benjamin? La risposta purtroppo è positiva. Si continua ad avvertire l’esigenza di esorcizzare questa ampia zona d’ombra – di datazione controversa, ripeto, soprattutto riguardo ai suoi esordi – che sembra estendersi fino agli anni più recenti. Altrimenti non si spiegherebbe il senso complessivo degli interventi di Alfonso Berardinelli raccolti con il titolo di Non incoraggiate il romanzo. Sulla narrativa italiana (Marsilio, 2011), come del pamphlet di Giulio Ferroni – ben diversamente attrezzato sia dal punto di vista storiografico sia da quello teorico –, Scritture a perdere. La letteratura negli anni zero (Laterza, 2010). Ma non si spiegherebbe neanche, operando un poderoso salto generazionale, il recente intervento di Raffaele Donnarumma, Iperbolica modernità. Come raccontare la realtà senza farsi divorare dai reality, pubblicato in «alfabeta 2» (24, novembre 2012) e su «Le parole e le cose», che ricapitola un ampio saggio apparso nell’ultimo numero (64) di «Allegoria», con l’emblematico titolo di Ipermodernità: ipotesi per un congedo dal postmoderno.
Sono tutti contributi dalla tonalità diversa, a volte anche stridente tra loro, accomunati, però, dalla stessa urgenza di restituire alla letteratura la sua tradizionale tensione etico-conoscitiva – la sua «responsabilità», per richiamare un termine particolarmente caro a Ferroni -, fondata sul valore di un’esperienza diretta con la realtà che le scritture contaminate dall’universo mediatico, o quelle maggiormente inclini a una sorta di auto-riflessività (entrambi considerati tratti distintivi del postmoderno), continuano sistematicamente a eludere. E non potrebbe essere altrimenti: perché, se misurati sulla base di un giudizio critico che privilegia il quoziente di esperienza autentica stabilita con la realtà, l’intera genealogia postmoderna (quella, per intenderci, che da Don DeLillo e Thomas Pynchon arriva a Bret Easton Ellis, David Foster Wallace e Michel Houellebecq, per rimanere solo ai suoi battistrada storici, verso alcuni dei quali solo Donnarumma, attraverso spericolate acrobazie, si dimostra indulgente) finirà per apparire irrimediabilmente confinata nella più nebulosa irrealtà.
Ecco, allora, il vero nodo da sciogliere, al di là di ogni sterile contesa terminologica. In questione non c’è il congedo dal postmoderno o, al contrario, la sua protrazione indeterminata. Il problema riguarda, piuttosto, l’arco di espressioni attraverso le quali oggi la realtà si lascia fedelmente catturare. È un dato inoppugnabile, anche se troppo spesso trascurato – soprattutto nella fervida crociata contro il postmoderno -, che la realtà, come ci ricorda giustamente Angelo Guglielmi nel Romanzo e la realtà. Cronaca degli ultimi sessant’anni di narrativa italiana (Bompiani 2010), sia «stata sempre in campo, come obiettivo obbligato (e agognato) dello scrittore». Ma come raggiungere un obiettivo del genere? Come aderire integralmente alla realtà?
Qui, a partire da questa domanda inaggirabile quanto elementare, le strade sono destinate a divergere profondamente, a seguire le diramazioni tra loro più lontane. Non c’è da meravigliarsi.
Le soluzioni offerte dalla scrittura letteraria non possono che opporsi radicalmente se si identifica la realtà con l’immediata evidenza sensibile nella quale di volta in volta ci si imbatte oppure la si considera alla luce di quella ininterrotta germinazione del possibile teorizzata da Paul Klee in Teoria della forma e della figurazione: una delle opere capitali per tutta l’estetica novecentesca (che diversi critici letterari farebbero bene a leggere, impegnati come sono nell’utilizzare con preoccupante disinvoltura termini quali forma o raffigurazione).
Ci troviamo di fronte a due modelli interpretativi antitetici, da cui discendono, in ambito non solo letterario, opzioni stilistiche, formali e di contenuto altrettanto opposte, che, di recente, ho tentato di illustrare in Politiche dell’irrealtà. Scritture e visioni tra Gomorra e Abu Ghraib (Bollati Boringhieri 2011). Da un lato si presuppone una realtà già pienamente determinata, che è compito dello scrittore riprodurre (non importa se attraverso i tradizionali protocolli della mimesi adoperati da Saviano in Gomorra o mediante le sofisticate pratiche di «straniamento» apprezzate da Ferroni); dall’altro, viceversa, si afferma la coincidenza della realtà con l’atto stesso della sua raffigurazione. Significa scegliere i fatti o, al contrario, rivolgersi ai «fantasmi dei fatti», per riprendere un’illuminante definizione coniata, nel 1975, da Leonardo Sciascia (per caso anche lui postmoderno?) nella Scomparsa di Majorana, il suo più felice non-fiction novel insieme all’Affaire Moro. Oppure significa privilegiare una dicitura quale «Io so e ho le prove» – reiterata da Saviano sempre nel corso di Gomorra – rispetto alla sua matrice, «Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi», formulata da Pasolini nel Romanzo delle stragi, uno dei suoi più noti interventi «corsari». La scelta, in ciascuno di questi casi, non può che essere netta, decisa. Oggi ne è convinto, in Italia come all’estero, ogni scrittore che sia consapevole del proprio lavoro. Anche i critici letterari ne sembrano convinti, grazie soprattutto al solido sostegno assicurato loro da un antico retaggio umanistico che assegna alla letteratura e ai suoi esegeti una nobile funzione pedagogica: rivolta, negli ultimi anni, essenzialmente a stigmatizzare le pericolose commistioni tra vero e falso, tra prove e congetture, tra personaggi e fantasmi, prodotte da decenni di narrativa postmoderna. Fortunatamente, però, siamo alla fine, ci dicono, di questi intrecci oscuri (che, comunque, non sarebbe male ricordare, costituiscono già il nucleo genetico di tutta la stagione neorealista, come dimostra l’originale e spregiudicata interpretazione offerta da Tommaso Pomilio in Dentro il quadrante. Forme di visione nel tempo del neorealismo, Bulzoni, 2012, che condivide in più punti lo stesso sfondo disegnato da Gabriele Pedullà nella suggestiva introduzione ai Racconti della Resistenza, da lui esemplarmente curati per Einaudi nel 2005).
Finalmente con il ritorno alla realtà intravisto da Ferroni e Berardinelli, come da Donnarumma, si assiste al ripristino di una più congrua e affidabile scala di valori. Ma – va aggiunto – si assiste anche, seguendo il filo dei loro variegati ragionamenti, a un profondo, irreversibile impoverimento del concetto stesso di realtà a cui si accompagna un simmetrico svuotamento delle prerogative più vitali radicate nella letteratura. È l’esito imprevedibilmente incrociato da questa esigenza di solidi appigli, di forme stabili, di nitidi contorni. Un epilogo paradossale, eppure preannunciato con linearità ineccepibile da ogni passaggio della riflessione di Ferroni, Berardinelli e Donnarumma.
È sorprendente, per esempio, che Berardinelli, dopo aver celebrato in innumerevoli occasioni la propria compiaciuta sagacia, non abbia scorto il desolato approdo al quale sarebbe arrivata la letteratura osservando le norme di una testimonianza affidata alle prove della realtà più evidente, da lui chiamata in causa nelle battute conclusive di un breve intervento dedicato a Tabucchi in Non incoraggiate il romanzo. «È difficile, è molto difficile, […] per tutta la nostra generazione – scrive Berardinelli – fare letteratura convincente con esperienze storiche che non si sono avute».
Dello stesso avviso si dimostra Donnarumma, consegnandosi alle certezze offerte dal realismo documentario: espressione per molti versi emblematica dell’ipermodernità da lui individuata quale nuovo scenario politico-culturale. Anche in questo caso il privilegio accordato al realismo dipende dall’attendibilità della testimonianza, dal valore attribuito a una realtà rappresentata nella sua incontestabile evidenza.
Da questa vera e propria idolatria dell’esperienza non può che derivare un radicale restringimento della porzione di realtà assegnata alla letteratura come ambito legittimo di riferimento. Niente ipotesi, congetture; nessuna pista indiziaria viene più concessa, in tale prospettiva, alla scrittura letteraria. Prove, documenti e autocertificazioni diventano il bagaglio obbligatorio di cui deve munirsi ogni narratore che voglia presentarsi come credibile. Tanto credibile da risultare addirittura tautologico, da sottrarre alla letteratura la sua caratteristica più pregnante: quella vis imaginativa che, dal Medioevo fino a tutto l’Ottocento europeo, viene rivendicata come il prolungamento della ragione, anzi come il suo compiuto dispiegamento, in grado di raffigurare – di mettere in immagine, appunto – le inesauribili ramificazioni del possibile che la realtà contiene al proprio interno. Esse possono venire alla luce solo opponendo alle certezze offerte dall’evidenza le spericolate incursioni compiute tra i «fantasmi dei fatti» richiamati da Sciascia o tra i «personaggi immaginari» ai quali Pasolini, in uno degli «Appunti» iniziali di Petrolio, affida il compito di rappresentare la bruciante attualità dei fatti narrati in questo incompiuto «romanzo delle stragi». In entrambi i casi – molto lontani tra loro, sappiamo bene – il valore della testimonianza risiede nella sua inattendibilità rispetto all’evidenza, nella sua capacità, cioè, di intrecciare sconosciute concatenazioni di immagini che vanno ben oltre l’asfittico perimetro entro cui, attraverso la prova, si esercita la tirannia della realtà. Il suo potere nefasto sulla vitalità della letteratura non poteva certo sfuggire a un indiscutibile protagonista della narrativa italiana contemporanea (ma anche della critica, considerata nell’ accezione più nobile) quale Gianni Celati.
Quando il ritorno alla realtà da parte della letteratura era ancora di là da venire, Celati già non perdeva occasione per sottolineare lo straordinario potenziale inventivo inscritto nella costituzione stessa del discorso letterario. Così si esprime, infatti, in una conversazione del 1999, adesso ripresa con il titolo di Elogio della novella nell’aureo zibaldone di riflessioni sparse e interviste, Conversazioni del vento volatore (Quodlibet, 2011): «Un racconto realistico-naturalistico viene dato all’incirca come la registrazione d’una esperienza della realtà, con questo sottinteso per il lettore: “Se tu fossi stato visto in quel posto, mentre avvenivano questi fatti, avresti visto e sentito quello che ti dico io”». All’offuscamento creativo prodotto da un simile privilegio accordato al valore esemplare dell’esperienza Celati oppone un repertorio di forme che non risultano ««fissate nella loro testualità», che si alimentano, al contrario, della «incontrollabile circolazione delle parole» e, dunque, in grado di accantonare una volta per tutte la perversa «idea di amministrare i pensieri degli altri, per portarli verso una completa razionalizzazione della cosiddetta realtà. […] Tutto il razionalismo del racconto e del romanzo contemporaneo va in quella direzione, verso una censura delle fantasticazioni socialmente inutili, da togliere di mezzo. Dici che è una prospettiva agghiacciante. Sì. E più il lettore si abitua a questo regime raziocinante della letteratura, più bisogna caricare le dosi di incriminazione del fantasticare».
Proprio dalle indicazioni di Celati muove Andrea Cortellessa nell’introduzione all’antologia, da lui curata, Narratori degli Anni Zero. Gli esordienti del primo decennio, pubblicata nel 2011 come numero unico della rivista «L’illuminista», diretta da Walter Pedullà. Per acume critico-teorico e padronanza storiografica si tratta di un’opera destinata a costituire nel tempo un punto di riferimento imprescindibile per orientarsi nella narrativa italiana dell’ultimo decennio.
La «prospettiva agghiacciante» nella quale la razionalizzazione dell’esperienza si profila allo sguardo di Celati viene da Cortellessa autonomamente rielaborata e ampliata alla luce di un dibattito che, questa volta, non può ignorare le sicurezze esibite dalla rinascita del realismo documentario. Di fronte alla sterile legittimazione conoscitiva di un testimone partecipe degli eventi narrati Cortellessa non ha dubbi nell’optare per quella «congiunzione di parzialità e inattendibilità» – come scrive nell’ampio saggio introduttivo, La terra della prosa, premesso all’antologia – che, nel segno dell’entusiastica ricezione dell’opera di Thomas Bernhard avvenuta in Italia dagli anni Novanta in poi, ha contribuito in modo determinante, con la vigile presenza maieutica di Celati, alla formazione dei narratori di maggiore rilievo affermatisi nell’arco di tempo considerato da Cortellessa.
Certo, oltre la comune parzialità e inattendibilità nei confronti di ogni tipologia letteraria variamente ispirata a moduli realistici, la scrittura di Bernhard e di Celati segue traiettorie tanto lontane da apparire addirittura antitetiche. Ma Cortellessa sa bene che l’accidentata mappa della narrativa contemporanea – non solo italiana – diventa sempre più indecifrabile se valutata in base ai nobili schemi derivati dalla Stilkritik. Ci vogliono altre chiavi esegetiche, anzi un lessico critico del tutto nuovo, per orientarsi nel convulso panorama letterario attuale, operando scelte e valutazioni all’altezza della complessità del nostro presente. E quali categorie risultano oggi più duttili ed efficaci della «congiunzione di parzialità e inattendibilità» rivendicata da Cortellessa?
Non a caso proprio intorno a questo stesso intreccio si snoda la riflessione di Daniele Giglioli in un saggio dal titolo Il buco e l’evento. Sul «Taccuino siriano» di Jonathan Littell (apparso nel volume miscellaneo Mosaico francese. Studi in onore di Alberto Castoldi, a cura di Juanita Schiavini Trezzi, Moretti& Vitali, 2012): quasi un prolungamento, soprattutto dal punto di vista teorico, dell’ultimo – e, con pieno merito, fortunato – libro dello stesso Giglioli, Senza trauma. Scrittura dell’estremo e narrativa del nuovo millennio (Quodlibet, 2011). Soffermandosi sul soggiorno di Littell, in qualità di corrispondente di «Le Monde», a Homs, cuore della recente rivolta siriana, Giglioli nota come l’attendibilità del Taccuino siriano si intersechi necessariamente, al di là delle intenzioni esplicite del suo autore, con una stratificata sequenza di mediazioni letterarie, imposte dalla trascrizione stessa degli eventi di cui Littell è testimone. Ma non c’è alcuna contraddizione, solo la consapevolezza – già presente nelle Benevole, il discusso romanzo che, nel 2006, ha imposto Littell all’attenzione generale – dell’impossibilità di aderire alla realtà senza il filtro deformante dell’immagine. La realtà non comprende, non può comprendere, al proprio interno eventi «puri»: in quanto unici, irripetibili nella loro singolarità. Il ricorso a una catena di schemi figurali, indispensabili per attribuire alla realtà una forma che la renda distinguibile, comporta sempre una manipolazione della realtà medesima: foggiata, modellata, plasmata (e, dunque, «finta», come vuole l’etimo del termine finzione), proprio per diventare oggetto di rappresentazione, per accedere al patrimonio comune di conoscenze..
Ecco perché le inevitabili concessioni alla fiction operate da Littell nel Taccuino siriano non costituiscono il risultato – ci ricorda giustamente Giglioli – di una insopprimibile vocazione letteraria, ma segnano, piuttosto, il conflitto, quanto mai vitale, intrinseco a ogni espressione di quella «svolta documentale» che Giglioli considera oggi uno tra i generi maggiormente frequentati nella letteratura internazionale. Basti pensare, tra gli autori menzionati nel saggio, in Francia, a Laurent Mauvignier (autore di Degli uomini, tradotto da Feltrinelli nel 2010), Mathias Énard (del quale Rizzoli, sempre nel 2010, ha pubblicato l’imponente romanzo intitolato Zona) e Laurent Binet (HHhH. Il cervello di Himmler si chiama Heydrich, Einaudi, 2011); o, sul versante spagnolo, ai romanzi, oramai ampiamente noti anche da noi, di Javier Cercas (tra cui Soldati di Salamina e Anatomia di un istante, entrambi tradotti rispettivamente da Guanda nel 2002 e nel 2010); in Italia, per finire, l’interprete più convincente di questa tendenza verso un realismo documentario che attinge ad alcuni eventi cruciali della storia novecentesca appare da tempo Helena Janeczek, in particolare con il suo ultimo romanzo, Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010).
Oltre agli eventi che, in vario modo, ci riportano nel cuore della storia del Novecento, la svolta documentale in atto si è indirizzata anche verso una serie di avvenimenti più defilati o, talvolta, di notevole rilievo, ma accantonati nel corso del tempo. È questo, per esempio, il caso del disastro collettivo avvenuto a Marcinelle, sezione di un importante distretto carbonifero belga, l’8 agosto 1956: quando 262 operai, tra cui 136 italiani immigrati in Belgio, muoiono in seguito a un incendio scoppiato a 975 metri sottoterra. Paolo Di Stefano vi è ritornato in uno dei non-fiction novel di maggiore originalità apparsi di recente nel panorama nazionale (La catastròfa. Marcinelle 8 agosto 1956, Sellerio 2011).
Per rimanere fermamente ancorato alla realtà dell’evento, per restituire fedelmente la molteplicità di voci adoperate come materiale documentario privilegiato, Di Stefano non ha altra scelta che imbastire una sorta di romanzo polifonico, che aderisce alla realtà proprio perché riesce a estendere prepotentemente il ristretto raggio di visibilità filtrato dalla semplice evidenza. Ne viene fuori un’immagine della strage di Marcinelle di gran lunga più complessa e contraddittoria di quanto è stato tramandato dalle cronache ufficiali. Tutto nella Catastròfa si rivela ambiguo, duplice. Non basta a Di Stefano essersi affidato a un corredo di testimonianze oculari e di documenti, puntualmente riportati, che egli si limita a commentare di volta in volta con apparente neutralità. Il coro di voci che rimbalzano da una pagina all’altra del libro, invece di armonizzarsi, producono stridenti dissonanze (come era già avvenuto nel precedente romanzo di Di Stefano, Nel cuore che ti cerca, Rizzoli 2008). Le testimonianze degli operai italiani sopravvissuti al disastro o dei loro parenti, che scandiscono il racconto, sono assolutamente attendibili, ma si dispongono lungo traiettorie molto distanti tra loro, anzi spesso opposte. C’è chi maledice il Belgio oppure chi, addirittura, ringrazia la nuova patria per le opportunità concesse dopo la «catastròfa»; chi «è stanco di ricordare il proprio dolore» e chi, viceversa, non smetterebbe mai di rievocare tutti i particolari del disastro per accertarsi della sua dinamica. «Marcinelle – osserva Di Stefano in un passaggio cruciale del libro -, per fortuna, non significa sempre morte».
Emanuele Trevi sarebbe sicuramente d’accordo con una conclusione del genere. Qualcosa di scritto, il suo romanzo arrivato ingiustamente secondo all’ultima edizione del Premio Strega, trasforma, infatti, l’incontro con Pier Paolo Pasolini e Laura Betti nell’attestazione di una frenetica reversibilità simbolica tra vita e morte: associando, in un intreccio quanto mai calibrato, la rivisitazione del suo rapporto con Laura Betti a un’incursione – davvero di grande intelligenza interpretativa – nell’universo magmatico dell’incompiuto Petrolio, l’opera più funebre e misteriosa lasciataci da Pasolini. «Proprio perché puzza di vita in maniera così intensa – scrive Trevi -, il manoscritto incompiuto puzza altrettanto di morte». Non molte pagine dopo aggiunge: «Petrolio e Salò sono anche questo, due teste di ponte, due maniere per proiettarsi oltre i confini della sua stessa vita, per adottare il punto di vista di un morto. Molti aspetti della realtà che sfuggono ai vivi, come si può facilmente intuire, per i morti sono cose addirittura risapute. Ciò rende particolarmente interessante la loro prospettiva. Che però non è infallibile. Il tallone d’Achille dello spettro, se così vogliamo definirlo, consiste nel fatto che, via via che passa il tempo, i vivi iniziano a sembrargli tutti uguali, come ombre». Tra queste ombre, e nient’altro, Trevi si vuole insinuare. Per verificare la loro consistenza, ricorre a una continua oscillazione tra i vivi e i morti: valutando i vivi a partire dall’eredità lasciata dai morti e interrogando i morti sulla base dell’apporto creativo effettivamente esercitato nei loro confronti dai vivi. Per questo motivo i destini di Laura Betti – a lungo frequentata da Trevi – e di Pasolini appaiono in Qualcosa di scritto quasi inscindibili. Come altrettanto inscindibili risultano, nel corso del romanzo, la pregnanza irriducibile dei corpi e i rituali astratti della scrittura; la realtà dell’impronta fisica e l’irrealtà della conoscenza intellettuale. Due polarità opposte ma, nello stesso tempo, assolutamente complementari. Intorno ad esse, al richiamo conflittuale che propongono senza sosta, ruota anche il recente romanzo di Tommaso Pincio, Pulp Roma (ilSaggiatore, 2012).
Questa volta non ci sono personaggi a cui è delegata la funzione di protagonisti. Lo scenario è occupato interamente da una città: Roma, osservata nella sua inedita frammentazione piuttosto che nella tradizionale monumentalità. Anche l’io narrante (Tommaso Pincio in persona) è uno di questi frammenti che si aggira lungo un paesagggio solcato da una pioggia di sprazzi visionari, i quali, come era accaduto già in Hotel a zero stelle. Inferni e paradisi di uno scrittore senza fissa dimora (Laterza nel 2011), discendono da un’abile manipolazione della propria autobiografia e, insieme, della memoria culturale novecentesca. Per scavare al loro interno, per verificarne la molteplicità di possibili proiezioni, Pincio accentua ulteriormente la sua sperimentata capacità visiva. Capacità di catturare i corpi, i luoghi, gli incontri in immagini dalle tonalità cromatiche sempre più ardite, a tratti sconosciute; eppure fatalmente lontane, troppo lontane, dalla tangibile realtà alla quale queste immagini intendono riferirsi. Pincio è consapevole, però, che un simile scacco può ribaltarsi in una risorsa imprevista: in una dilatazione degli schemi percettivi abituali verso nuove frontiere del senso, dove l’irreale è solo un aspetto della realtà non ancora venuta alla luce. Per questo tanto più significativa.
Forse parlando di realismo si sta dimenticando con puntuale frequenza l’irrealtà che esso sempre presuppone. Non è certo una dimenticanza da poco.
[Richard Estes, 43th and Broadway (2005) (gm)].
Per alcuni versi, questo combattivo saggio di Mazzarella mi riporta, più che alla discussione sull’ipermodernità di LPLC, a quella di anni fa sul cosiddetto ritorno alla realtà (formula alla cui provocazione sono caduti mani e piedi in tanti): chi vuole, può riguardarsela (o guardarsela: http://www.nazioneindiana.com/2008/10/31/quid-credas-allegoria/). Rispetto ad allora, mi si sono precisate le idee su alcune cose. Ho tirato fuori questa storia dell’ipermoderno anche per cercare di evitare le ripulse, aprioristiche e un po’ obnubilate, che le sole parole realtà e realismo suscitano in alcuni. Se non sono riuscito a far capire in un centinaio di pagine di saggi che per me (come per qualunque diplomato di scuola superiore) il realismo non può essere quello spauracchio trogloditico che ogni tanto vedo agitare, non potrò certo farlo qui. Non uso neppure realismo come un bollino di qualità: a parte la stupefacente varietà di forme che il realismo ha conosciuto e conosce, sul comodino non tengo la Viganò e Zdanov, ma Flaubert e Auerbach.
Mi limito perciò a qualche osservazione. Chi legge, se desse giusto un’occhiata al mio breve pezzo sull’ipermoderno, vedrebbe subito se quello che scrivo ha a che fare con il neo-realismo pedagno e la realtà-cozza che disgustano Mazzarella (e, assicuro, me più di lui). Premetto, come qui sopra si riconosce, che non mi muovo nella stessa direzione né di Ferroni (il cui intento difendere, anzitutto eticamente, di un’idea umanistica di letteratura) né di Berardinelli (che vedo qui liquidato con una fretta ingiusta, ma il cui sospetto antiromanzesco non condivido del tutto). Spero Mazzarella voglia perdonare la mia spicciatività bloggara, e apprezzi il pepe.
Anzitutto, non ho ben capito se Mazzarella pensi che la letterarura da metà anni Novanta in poi, con un «entusiasmo» realistico che vorrei vedere più argomentato che enunciato, stia precipitando nelle tenebre dell’errore. La sua posizione sembra un po’ quella di chi vuole ristabilire l’ordine: oggi va di moda questa specie di ritorno al realismo, ma che pasticci grossolani! meglio attenersi a quello che abbiamo già imparato dalla cultura postmoderna (eh sì, riconosce: bisogna comunque darle questo nome). Così, però, si finisce per disconoscere alcuni problemi del presente e generare, anzi, equivoci.
Faccio qualche esempio. La prima cosa che mi colpisce, sotto l’apertura ai dubbi e alla duttilità contre la rozza sicumera del realismo, è il dogmatismo. Ci sono scrittori che hanno capito come sta il mondo (cioè che condividono la diagnosi di irrealtà di Mazzarella, o cui Mazzarella attribuisce quella diagnosi), e sono bravi scrittori; gli altri, no. Come bandiera di critica militante, non è la mia, e pace; come criterio storiografico, la bandiera è troppo sbrindellata per resistere alla furia dei venti. Anche se non ho fama di essere indulgente, sono un fan di scrittori diversissimi come – per restare a quelli citati qui – DeLillo o Rushdie (che sono stati postmodernisti), Foster Wallace (che dichiarava di non esserlo), Littell (che a mio giudizio non lo è). E così, dedico attenzione e apprezzamento ad autori italiani tanto diversi quanto Siti e Saviano, Moresco e Trevi: a cui mi sforzo di fare dire le cose che hanno da dire, chiedendomi se queste differenze non stiano in (e quindi non siano esaltate da) un quadro di problemi comuni.
Sarà per questo che sembro uno spericolato acrobata e attiro la metafora del salto poderoso. Volteggio però con la rete. Perciò, non mi attenterei a definire La catastròfa un non ficition novel o un romanzo: a meno che non si chiami romanzo qualunque narrazione e non si sia mossi da un’ostilità preconcetta contro scritture che sono non fiction e basta (se vogliamo usare quest’etichetta piuttosto barbara). Di Stefano ha scritto un bel reportage, perseguendo la fedeltà testimoniale con il collage di voci. Suppongo che se uno andasse a dirgli che si è inventato qualcosa (che è appunto il mestiere del romanzo), si offenderebbe: e a ragione. Trovo ci si esponga addirittura al pericolo di rompersi l’osso del collo quando si applica la stessa etichetta di non fiction novel all’Affaire Moro: che non è Il caso Maiorana o I pugnalatori, ha un impianto saggistico prima che narrativo, e include come appendice una Relazione parlamentare, non le Cronache di Narnia. Analogamente, dire che è un romanzo Qualcosa di scritto significa nascondere la specificità di quel libro, come anche di altri in cui Trevi dà il meglio di sé, a partire da Senza verso. Lì la libertà di mistione tra autobiografismo e saggio, cronaca e riflessione non si lascia esorcizzare sotto il solito, slabbrato cappello romanzesco. Questi tre piccoli esempi sono sintomatici. Vorrei fosse chiaro che non sono fisime da nominalismo classificatorio: si tratta di interpretare lo statuto di verità dei testi. Se uno dice a Saviano: «Bel romanzo, che hai scritto» (come hanno fatto i camorristi) non sta sdottorando e giocando al piccolo Genette, ma rivela (a rovescio) quanto peso hanno certe categorie. Mazzarella riconduce al noto e al generico (il romanzo…) ciò che invece andrebbe pensato con categorie non dico nuove, ma almeno più proprie e varie. Risultato: se non la famosa notte hegeliana, certo un nebbione da tamponamenti a catena. Strano come il richiamo alla problematicità, alla complessità e alla sottigliezza approdi a spianare ogni cosa sotto di sé, producendo l’indistinto. Tutto è romanzo, tutto è fiction, tutto è lo stesso fantasma. Oltre a essere falso, è pure un po’ una noia, no? Oppure chissà, forse anche Mazzarella ci ha regalato con questo saggio un capitolo di romanzo, ed io che gli rispondo sono senza saperlo il visconte di Valmont o, frissons!, la marchesa de Merteuil.
Non so neppure se Il manifesto del nuovo realismo di Ferraris dia ai «nostalgici sostenitori di un ritorno alla realtà in ambito letterario» «un’articolata piattaforma teorica». Non sono un nostalgico, visto che parlo di «nuove forme di realismo», e sarà per questo che ho recensito su Allegoria quel libro con interesse, ma anche con perplessità. Così, ho sottolineato che una filosofia tarskiana è «poco utile a chi si occupa di humanities, ed è abituato a enunciati empiricamente falsi e a simulazioni che hanno la forza del vero». Se del resto il famoso ritorno alla realtà di Allegoria non era abbastanza problematico, forse neppure Mazzarella lo è troppo: a lui, tutto quello non stia in una cornice alla fine postmoderna fa problema solo per essere respinto, cancellato, bocciato o postmodernizzato. Sino a quando dovremo cantare le canzoni di Derrida o di Baudrillard? Sono ever green, d’accordo; ma cerchiamo un Simonetti che ci aggiorni la playlist.
Che la realtà sia quel macigno opaco e triste al quale Mazzarella suppone incatenati i nuovi scrittori, sotto la sorveglianza di critici accigliati, può esser vero per qualche scrittore opaco e triste: ma non è quel che dico io, né vale per gli scrittori di cui mi occupo. Trovo buffo, ma coerente con il dogmatismo ideologico di cui sopra, che Mazzarella pensi io mi consegni alle brutali «certezze offerte dal realismo documentario» visto che ho studiato le forme del realismo documentario (intendendo, per altro, che mirano alla persuasione, e non che partono dalla certezza): suppongo anche che, siccome ho scritto due libri su Gadda, pensi che io sia fascista, milanese e aspirante matricida. Invece, non parlo affatto di un’«incontestabile evidenza» dell’«attendibilità della testimonianza»: tutt’al contrario, mi sforzo di far capire come le poetiche della testimonianza si impegnino a strappare la credibilità al sospetto di un’universale finzionalizzazione. Forse al riguardo Mazzarrella non ha sospetti, ma certezze. Del resto, citavo al proposito Agamben: non i Flintstones. E per questo, non direi che «il valore della testimonianza risiede nella sua inattendibilità rispetto all’evidenza»: tra inatteso e inattendibile ce ne corre.
L’«idolatria dell’esperienza» dev’essere senz’altro una triste superstizione. Tuttavia, messo con le spalle al muro, preferirei accendere il mio tremante lumino a Santa Esperienza (martire, ma mica vergine), piuttosto che unirmi alle litanie rintronanti, e neppure più gemebonde, sulla sua fine.
Mi sottraggo al match Cortellessa vs Donnarumma, soprattutto se aizzato da terzi. Noi acrobati ci teniamo, alla classe: senza, cascheremmo giù per terra. Il numero triplo (come il salto?) dell’Illuminista citato da Mazzarella è senza dubbio utilissimo, e poteva metterlo in piedi solo una persona della cultura di Cortellessa. Non sono proprio sicuro, però, che colga i veri elementi di novità della narrativa di oggi: del resto, mi sembra che sulla storiografia del presente prevalgano là intenti di critica militante; io ambirei a fare l’opposto.
Che in Sciascia si trovi più che qualcosa di postmoderno, è una tesi sostenuta da molti. Avete presente Il contesto, o Todo modo? E persino l’Affaire Moro di cui sopra, con tutto quel Borges… Ma saranno, questi molti, acrobati pure loro: chissà come sarà contenta Moira Orfei. Taccio su Petrolio e su Celati: troppo ci sarebbe da dire.
Infine: ma l’irrealtà proclamata dal titolo e nel finale non sarà mica solo un partito preso? Possibile che l’angoscia di derealizzazione da cui partono tutte le forme serie di realismo contemporaneo debba essere scambiata per un’irrealtà così solida, così infrangibile, così consolantemente senza scampo? Lo stesso Mazzarella si trova costretto ad ammettere una svolta verso il realismo documentario, a patto che sia Daniele Giglioli a suggerirgliela. Capisco che dopo le feste occorra rimettersi in forma con dei bei minestroni, ma qui c’è come un odorino di minestra riscaldata. Per me, frutta di stagione, verdure, trenta minuti di attività fisica al giorno; e poi… oplà! mi entra di nuovo la tuta rossa da saltimbanco.
applaudo e rilancio
http://officinedipoesialin.wordpress.com/category/dichiarazioni-di-poetica/
Dopo la lunga e livorosa reazione all’articolo, mi sento di consigliare soltanto: calma, fanciulle, non strappatevi i capelli. E ricordate di essere Prof.
@Saggezza impopolare
La reazione di Donnarumma è ragionata e per nulla livorosa. Invece mi sembra che Mazzarella faccia una caricatura dei suoi interlocutori e se la prenda con posizioni che nessuno ha mai sostenuto, forse nemmeno Zdanov. Anche quando si fanno i riassunti bisognerebbe ricordarsi di essere prof.
Un contributo ad Arturo con l’inizio di un mio testo di qualche tempo addietro
SCRITTURE PRIVATE
(Essay in Progress)
È l’imbecillità realista che non si ferma a dirsi che niente, per quanto una mano possa sprofondare nelle viscere del mondo, vi sarà mai nascosto, perché un’altra mano ve lo può raggiungere, e che ciò che è nascosto altro non è mai che ciò che manca al suo posto, come si esprime la scheda di ricerca di un volume quando è smarrito nella biblioteca.
(Jacques Lacan, Il seminario su La lettera rubata)
Tanto per restare all’attualità, almeno in abbrivio, la fiaccola ancora arde: in poche settimane è passata dalle mani di “Allegoria” a quelle dello “Specchio” spargendo faville un po’ dappertutto, dimodoché il suo bagliore, quel tenue riverbero di polemica, ha continuato a brillare qua e là tra le aule dei convegni e il web (soprattutto su “Nazione Indiana”), tra le terze pagine dei quotidiani e le chiacchiere da salotto. Per non peccare d’ignavia, ognuno ha acceso il suo fuocherello e intorno alle fiamme ci si è ritrovati a discutere il tema del giorno: il Ritorno alla Realtà in letteratura – o, preferibilmente, il Ritorno della Realtà; ovvero ancora, come recita l’intestazione di un libro del critico d’arte statunitense Hal Foster – citato in proposito da Andrea Cortellessa -, il Ritorno del Reale. E già qui lampeggia la prima spia che induce a sospettare che il problema, così posto, non si tradurrà nell’ennesima tappa obbligata del discorso critico (simile a certe malattie che si debbono per forza fare, insomma), in un’estenuazione, ora come allora, di fatti diversi di storia letteraria e civile; questa spia è proprio l’allusione al concetto lacaniano di Reale (il secondo avvertimento, non troppo lontano, si nasconde invece nel sottotitolo del libro di Foster, che reca la parola “avanguardia”: il vero convitato di pietra al banchetto della Realtà).
Quanto alla genealogia della frizione tra due sinonimi, Scrittura e Realtà, i precedenti più o meno illustri in argomento non si contano. Ognuno si faccia il po’ di storia che è in grado; per quello che conta, e senza andare troppo oltre, va benissimo che si rimandi al secondo capitolo di Realismo e Avanguardia (1975), di Walter Siti. Come insegnano le regole dell’ingaggio, è bene circoscrivere lo scenario della battaglia per non disperdere le forze in campo, mentre il diluvio dei riferimenti, le supposte paternità terminologiche e le precisazioni a cascata piuttosto che chiarire, o almeno esemplificare, spesso finiscono per espropriare il terreno di una possibile condivisione, di una negoziazione sperimentabile tra fazioni distanti. Tuttavia, l’intrusione nell’ordine del discorso del grimaldello lacaniano induce, per associazione, a fare un po’ di guerriglia e a rimettere in pristino alcune sequenze causali che nell’arco del novecento letterario hanno tracciato una linea alternativa a quelle modernista o naturalista (così eludendo gli “ismi” considerati, quando più quando meno, forme di negazione del reale). Come se non bastasse, l’invito celatiano all’impensato – puntualmente accolto da Cortellessa – allude a una declinazione contemporanea dell’impossibile di Georges Bataille, senza il quale resterebbe pressoché oscuro il Reale lacaniano. «Le réel c’est l’impossible», recita uno dei frammenti più famosi dell’autore degli Ecrits, e l’Impossibile, per Bataille, è quanto eccede le convenzioni, al punto da non potersi definire che per negazioni. Il Reale, dunque, è lo spazio – letterario – di questa negatività, l’ambito entro il quale e verso il quale procede il romanzo: lo «spazio in cui l’individuo non sviluppa le proprie forze ma le dilapida, le distrugge: in questo spazio non esiste l’accumulazione della ricchezza ma la festa insensata in cui al valore dell’utile si oppone la seduzione dell’inutile. Quest’universo (del riso, dell’ebbrezza, della selvaticità erotica o mistica, del male e della morte) è l’universo dell’Impossibile». Secondo Serge Leclaire: «ciò che resiste, insiste, esiste irridimibilmente e si dà e sottrae come gioia, angoscia, morte e castrazione». Se è questa, allora, la prima pista da seguire, altri snodi cruciali e, forse, più urgenti, connessi e, in certo modo, convergenti – sebbene più ambigui nella formulazione –, riguardano l’appello alla responsabilità dello Stile e il rapporto che con il Reale intrattiene l’esperienza – che del primo è la perfetta negazione e il suo riflesso sensibile; ne discendono i precipitati formali dello scontro tra Coscienza Individuale e, appunto, Esperienza del Mondo, da cui scaturisce, praticamente, l’intero novecento romanzesco. Scrive, infatti, Giacomo Debenedetti: «quando si dice “fare il romanzo” c’è una parola che risponde subito, come si toccasse un tasto elettrico, ed è la parola esperienza. Su quale esperienza si farà il romanzo? Nei prodotti di una vera vocazione narrativa, nelle epoche e nelle civiltà intimamente chiamate al “genere” romanzo, si ha sempre l’impressione che l’esperienza sia stata suggerita dal di fuori: dalla società, dagli uomini che la formano, dalle vicende che logicamente ne nascono. Invece, l’impegno astratto di fare il romanzo, il penso dello scrittore, si accusano subito nel timbro soggettivo, privato, personale dell’esperienza presa come base. Su questa l’autore costruisce a pezzo a pezzo un mondo esterno, che prima d’allora per lui non esisteva. Nei casi migliori, fatti e figure si organizzano come trascrizioni, cifre, simboli, allegorie di quell’esperienza». Oppure, per contiguità stridente, così il Lacan più cratileo: «è il mondo delle parole a creare il mondo delle cose, inizialmente confuse nell’hic et nunc del tutto divenire, dando il suo essere concreto alla loro essenza, e ovunque il suo posto a ciò che è di sempre: κτημα ές άεί». In termini attuali, il Reale non è un tema se non nella misura esatta in cui ha lo statuto di un resto – dice più o meno Bataille –, anche in senso matematico; e l’esperienza è questo resto in relazione al quale si definisce la possibilità romanzesca.
Assecondando questo clivaggio si incappa facilmente in Novalis: «per il linguaggio è come per le matematiche: esse non esprimono nulla se non la loro meravigliosa natura, e perciò esse esprimono così bene gli strani rapporti fra le cose»; e si arriva a Claude Simon: «è proprio della realtà apparirci irreale, incoerente, in quanto si presenta come una perpetua sfida alla logica, al buonsenso, almeno come ci siamo abituati a vederli ragionare nei libri – a causa della maniera con cui sono ordinate le parole, simboli grafici o sonori di cose, di sentimenti, di passioni disordinate – sicché naturalmente ci capita a volte di domandarci quale di queste due realtà sia la vera».
«Bisogna cambiare la vita.» Ogni letteratura che non ci aiuti in questo intento, magari contro il suo autore, a più o meno breve scadenza (e la pressione e l’urgenza degli eventi è tale, la malattia del mondo è diventata così acuta che tendo sempre più a credere che sia a brevissima scadenza) è ineluttabilmente condannata.
(Michel Butor, Repertorio)
Insomma, la linea alternativa è tortuosa ma se ne comincia a indovinare la traiettoria. Che diventa poi evidente se solo si apre la prima pagina di Età d’uomo (1939), dal momento che Michel Leiris dedica questo libro proprio a Georges Bataille (che ne è «all’origine»). Di più: trattandosi di un testo che vi poggia come una costruzione sulle sue fondamenta, L’Âge d’homme offre all’attenzione due parole strettamente connesse con la Realtà, due parole che la connotano e la scantonano, ossia Tempo e Memoria: i numi tutelari attraverso cui la Realtà entra in quel meccanismo complesso che si chiama Cultura. Ebbene, l’attuale ritorno al Reale (e non del Reale) è connotato, così appare, dalla parziale indifferenza di cui godono questi due termini, il che porta poi al fraintendimento delle cosiddette scritture private o introspettive e al loro sacrificio rispetto a quelle contingenti; quelle, si dice, di “ampio respiro”, che non rinunciano a misurarsi con il mondo che le circonda (come se l’uomo stesso non comprendesse anche quel mondo o ne fosse solo un residuo inconsistente). E poiché i paradossi di ieri sono i pregiudizi odierni, di equivoco in equivoco non sarà inutile rispolverare questo Moravia del ’61: «oggi il realismo è sulla bocca di tutti così per biasimarlo come per elogiarlo; ma pochi intendono davvero il realismo come realismo; i più, come abbiamo già accennato, vedono il realismo là dove invece c’è il naturalismo». La faziosità poetica dello scrittore romano nemmeno intacca la constatazione che il romanzo naturalista, di questi tempi travestito ora da reportage ora con i costumi di forme espressive ibride che fanno esplicito riferimento alla persona dell’autore come testimone, sostituisce all’ostensione del Reale il falso sembiante della Realtà, immolata anch’essa sull’altare di un frainteso o strumentale attualismo, ai piedi del qui e ora. Invece, se di Ritorno del Reale si deve parlare, sembrano imprescindibili le contorsioni conoscitive che scaturiscono dalle tensioni tra Tempo e Memoria (non a caso tutta la giostra psicanalitica ruota intorno a questa dinamica). Insomma, se il romanzo dimentica che il Reale è l’Impossibile o, per Celati, l’Impensato, allora subentra la piega “mimetica”: si supporrà che esista uno solo stato obiettivo del mondo (un’unica realtà, a dispetto delle interpretazioni che pure se ne accetteranno) che sarà sufficiente riportare (sebbene filtrandola o deformandola) per attestarne l’esistenza, mentre il Reale è esattamente ciò che la rappresentazione, il linguaggio, la finzione non accostano che svelando la linea di una mancanza, l’assenza di quanto li suscita ma di cui non possono rendere conto. È la contraddizione dell’arte, l’oggetto dell’intesa letteraria; e nondimeno è ormai chiaro che l’indefinibile non è ciò che induce al silenzio quanto, piuttosto, quello che ci costringe al lavoro incessante, infaticabile del pensiero.
Seguendo la pista ormai nota, si rinviene in Leiris un altro indizio: «Raymond Roussel ha sempre puntato sull’Immaginazione e c’era per lui una netta opposizione tra il mondo inventato, che è quello della “concezione” e il mondo dato – il mondo umano in cui viviamo quotidianamente e che percorriamo nei nostri viaggi – che è quello della “realtà”». È un passo tratto dallo scritto che lo scrittore parigino compose quasi in risposta a una lettera di Roussel ricevuta il 16 dicembre del 1922, «pochi giorni dopo la “prima” di Locus Solus (che si svolse tumultuosamente, di fronte a un pubblico quasi totalmente ostile)». Dunque, Concezione e Realtà come antagonisti (si pensi alle tennistiche Vittorie e sconfitte di cui si fa cronista Nabokov nelle sue lezioni cervantine di Harvard), come antinomie a partire dalle quali Michel Leiris innesca l’opus magnum perfettamente compiuto della sua – duplice a tutti gli effetti – pagina autobiografica, che fonda, codifica e parzialmente esaurisce, nei quattro volumi de La Règle du jeu (Biffures, Fourbis, Fibrilles e Frêle bruit), un intero canone. Fedele a Proust come Lacan lo è a Freud – non potendo, cioè, fare altro che tradirlo -, Leiris volge l’enunciato di Bataille in un gesto che afferma, alla stregua di quello lacaniano, la primazia dell’attività in corso sull’atto compiuto (e realizza, con La regola del gioco, un passo ulteriore e necessitato – così lo legge Michel Butor nel saggio di Repertorio intitolato L’autobiografia dialettica -, anche rispetto a Età d’uomo, dove è scritto: «fare un libro che fosse un atto: questo, all’incirca, lo scopo che mi parve di dover perseguire»). Alle spalle di entrambi si agita non a caso la scena surrealista: prima di rompere ufficialmente col movimento e con Breton (nel 1929), spinto da André Masson, Leiris pubblica su “La Révolutioin surrealiste” racconti onirici, poesie e i testi sperimentali Glossaire: j’y serre mes gloses; qualche anno più tardi, da poco insediatosi a Parigi, un giovane Salvador Dalì, autore dei frontespizi per Le Second Manifeste du surréalisme, incontra l’altrettanto giovane psichiatra Lacan, che ha appena pubblicato la thèse De la psychose paranoïaque dans ses rapports avec la personnalité (1932). È la scintilla di molte delle riflessioni teoriche daliniane.
Non c’è un muro da rinsaldare o da abbattere tra Vita Vissuta e Vita Immaginata, non si dà un mondo concreto, percepito, a petto di uno astratto, solo pensato, bensì un prisma che li contiene e ne esautora i limiti, questo dimostra Michel Leiris. Sulla pagina intima (o su quella estima dell’ultimo Tournier), dietro la maschera dell’Io si intravede il rovescio della Realtà: all’autobiografia in senso classico subentra l’Altrobiografia (l’espressione è di Giuliano Gramigna). Ormai è questo il campo di azione del Principio di Realtà. Leiris, Léautaud, Valéry, Amiel, ma anche Gombrowicz, Herzen, Torga e Frisch. Il diario diventa il romanzo del novecento, e viceversa: non lo strumento di ricezione della realtà, nel rispetto impostogli dalla verità, ma il momento del suo costituirsi; in altre parole, non trascrizione ma costruzione. Che poi è quanto avviene esemplarmente e al massimo grado delle sue potenzialità negli aperçu “privati”, e a noi più prossimi, di Alain Robbe-Grillet e Oreste Del Buono.
Ma che bravi questi professori universitari e/o dottorandi! Che verve, che citazioni, che movenze avvolgenti e sensuali delle frasi!
Purtroppo a noi, pur a suo tempo laureati, le posizioni dell’attuale dibattito restano cifrate.
Non sarebbe il caso di smazzarvi i problemi ancora un po’ tra voi, dando all’accademia ciò che è dell’accademia e restituendo ai blog quel che è dei blog?
In attesa che il fumo si diradi restiamo qui a strisciare nei bassifondi della teoria e della lingua. Tornerà il giorno in cui anche noi potremo balbettare qualcosa su questa benedetta/maledetta realtà? Chissà…
Abate, e da quando in qua lei si fa spaventare dalle citazioni? E poi, quelle «movenze avvolgenti e sensuali delle frasi»! Con tutto questo parlare di matrimoni gay, ci fa preoccupare.
Sia gentile: non smerci antiaccademismo all’ingrosso, e sputi il rospo.
Effettivamente, anch’io sono interessata a tutta questa faccenda del postmoderno, del ritorno del realismo et coetera, ma trovo veramente indigesti – certo per mia incapacità- certi post che i miei studenti chiamerebbero “pipponi”. Sono solo una modesta insegnante di scuola secondaria, amo la letteratura, mi piace il commento, la critica, l’interpretazione, ma talvolta mi sento soffocare da interventi dottissimi, ma praticamente illeggibili, almeno per me, che certamente non sono un’intellettuale, ma che altrettanto certamente ho una buona cultura…
“io insegno. Leggo di fronte ad altri, per altri. Devo rendere ragione di quel che faccio. Il mio primo problema è: perché mai i ventenni che ho di fronte dovrebbero interessarsi a Svevo, a Pirandello, a Gadda, a Calvino? Cosa hanno da dire questi scrittori a noi, non solo come individui abbandonati a noi stessi, ma al nostro vivere qui e ora? Non è che possono farci capire giusto un pezzetto del mondo in cui stiamo? Aiutarci a pensare? Renderci un po’ più consapevoli? Le favole (hai visto! mo pure gli zdanovisti parlano delle favole…), che le raccontiamo a fare? Il mondo incantato di Bettelheim non vi dice nulla? E un po’ di caro, vecchio, sano senso critico? Dove e come volete che se lo facciano? Tra i videogiochi e la metaletteratura, non c’è proprio nulla in mezzo? Altrimenti, perché mai dovremmo avercela con la Gelmini e la 133?
Certo, finché uno si ripete che la letteratura è marginale, stai fino! Ho il sospetto che sia questo soffocare la letteratura. E se provassimo, invece, a fare sul serio?”
a me è piaciuto questo passaggio di Donnarumma nella discussione su NI da lui stesso citata. In più quel suo testo è chiaro. Cmq il saggio di WM1 non so se riguardasse il nuovo realismo, il realismo viene citato pochissimo, e oltretutto nel memorandum vengono messe assieme opere ( perché è sulle opere che verte l’attenzione, non sugli autori ) realistiche e non. Il discrimine dunque è tra il “buttarla in vacca” reiterato e sistemico della sbornia post-modernista e l’impegno.
quindi non tanto e non solo le prove, ma la voglia, la fiducia.
@Marco Gusberti
Non a caso mi sono servito della seconda persona plurale. Entrambi dovrebbero ricordarlo: colui che ha pubblicato un riassunto – concordo assolutamente con Lei nel definirlo tale – praticamente povero dal punto di vista critico (ma questa è una via assai battuta dalla critica degli ultimi anni: «questo l’ha detto Tizio, questo l’ha detto Caio, questo non l’ho detto io!»), ma interessante se lo si vuol leggere mentre si sorseggia un tè e si aspetta un amico;
e colui che ha risposto a questo riassunto, facendone pressappoco un altro, aggiungendo una buona dose di livore e di sfottò (mi dica Lei, una frase presa a caso come «Capisco che dopo le feste occorra rimettersi in forma con dei bei minestroni» non la reputa astiosa? Io sì, e credo di essere al di sopra delle parti).
Vede, purtroppo oggi (ma con «oggi» non vorrei sembrare ingenuo e non vorrei nemmeno utilizzare i toni del catastrofismo) il problema di questo folto gruppo di sedicenti critici letterari è quello di cantarsele e di suonarsele da soli, scrivendo dei pastoni pieni fino alla nausea di citazioni – una vera gara a chi stila la bibliografia più lunga -, dando così alle questioni, come contributo personale, il minimo e dispensabile (!). Certo, oggi dobbiamo essere precisi, non possiamo farla fuori dal vaso, ed ecco perché sguazziamo nella melma del compilativo: un foglio Word deve avere almeno 4 o 5 note a piè di pagina, altrimenti non si viene nemmeno presi in considerazione.
A questo, aggiungo che il mio invito a «ricordare di essere Prof» voleva essere un invito a lasciare a casa alcuni atteggiamenti poco seri che rischiano di minare la credibilità di chi svolge un certo mestiere (anche all’interno di questo stesso “blog”). Come lettore, mi sono sentito in dovere di richiamare all’ordine: uno sforzo sicuramente vano.
Detto questo, nessuno mette in dubbio le conoscenze di questi Prof, e nemmeno le capacità (siano felici di essere compilativi! Io la penso diversamente, come ho già spiegato). Ribadisco che tutto il mio biasimo è rivolto a certi loro atteggiamenti inutilmente polemici e, sì, astiosi, nonché comici.
Pax vobis.
Donnarumma, non mi spaventano le citazioni, ma non sopporto il fumo (non suo, in verità..) che viene fuori da certi interventi. Non vedo finora l’arrosto. (Del resto non lo vede neppure Marisa Salabelle, della cui opinione mi fido e che è costretta, proprio dal fumo, a velarsi di modestia da insegnante di scuola superiore per non beccarsi accuse di antiaccademismo…).
Quanto alle movenze avvolgenti e sensuali, prendo volentieri in considerazione un ritorno del represso. Sa, dopo tante mie citazioni di Fortini…
Tuttavia, da vecchio, dopo due matrimoni con donne tradizionali e corredo di 4 figli, non penso di fare in tempo a provare anche le gioie (e i dolori) di un matrimonio gay.
Resto in panchina a osservarvi. I giovani, accademici o meno, non temano la mia concorrenza.
Il rospo, se necessario, lo sputerò a tempo debito, dopo aver completato la lettura di “Allegoria” 64; e se il fumo di questo post si diraderà.
@ Salabelle
Guardi, io farei pagare una tassa a chi supera una soglia minima consentita di citazioni. Però, al di là di tutto, le posizioni mi sembrano abbastanza chiare: c’è chi ritiene che un ritorno di forme di realismo sia fondato sull’errore, perché lo giudica con una cultura che non ha mai creduto a nessun realismo, letterario o peggio che mai filosofico; e chi, un po’ stanco di quella cultura, e guarda ai nuovi realismi con interesse – magari pure con speranza.
@… Mi viene un dubbio: Saggezza impopolare o Il Senso Comune Della Mi’ Nonna?
Mi rendo ben conto che un severo tutore dell’ordine non apprezzi l’ironia, trovi del tutto inconcepibile l’autoironia, e veda livore (!) e astio (!!) persino nei minestroni. Ma, appunto, pace. Come professore, le consiglierei una maggiore attenzione ai testi, un’analisi stilistica più accorta, un più prudente uso della lingua italiana.
Se poi ha da dire qualcosa nel merito della questione, la ascoltiamo volentieri.
Suo
Colui
http://www.youtube.com/watch?v=AwRB1sVqVZI
@ Abate
Il mio arrosto l’ho già cucinato e portato in tavola: in porzioni generose, su Allegoria, e nella short version di Alfabeta e LPLC. Colà, persino Il Senso Comune Della Mi’ Nonna sarebbe soddisfatto di vedere un professore che conferma la sua idea di professore un po’ da brodino (perdoni lo slancio inconsulto di odio!).
Scenda comunque in campo. Secondo me il velo il vestito da cerimonia con una pochette arcobaleno le dona.
Il problema è che spesso, leggendo alcuni interventi critici, più che amore per la lettura percepisco amore per la dimostrazione d’aver letto. Uno sfoggio di cultura quasi muscolare. Non so.
L’altra sera ho spulciato per caso, in libreria, una postfazione al Grande Gatsby di Tommaso Pincio, e l’ho trovata magnifica. La cosa che più mi ha colpito è stata la consonanza fra il commento di Pincio e l’opera di Fitzgerald; questo comporta, io credo, oltre che sensibilità e cultura, una buona dose di umiltà. Cioè io mi metto davvero in ascolto delle opere che leggo e le faccio parlare; e dopo, semmai, parlo.
Poi questo continuo citare, rimandare ad altro offusca la chiarezza del pensiero critico – un effetto che non posso spiegare solo con la mia ignoranza di certe fonti, di certi richiami. Quando ad es. leggo Harold Bloom (per fare un nome noto a tutti) sono spesso traversato da brividi di raccapriccio, ma sto leggendo un’idea chiara di letteratura, qualcosa che pensa e parla un linguaggio ben preciso. Forse il momento storico così convulso, da un punto di vista letterario e non soltanto, rende più difficile la produzione d’una critica che sappia davvero andare ai punti essenziali, che sappia stringere i nodi senza troppo acrobatiche circonvoluzioni.
Caro Donnarumma, mi verrebbe da risponderle: se la questione è tutta qui, c’era bisogno di spararsi tutti quei “pipponi”? Ok, Tizio dice questo, Caio pensa quest’altro: entro certi limiti, citare fonti è indispensabile, ma francamente, per una persona (immagino che ce ne siano molte come me) che non è esperta di tutti i saggi critici possibili ed immaginabili, leggere certi post chilometrici è un’impresa non solo ardua, ma pesante, da abbandonare subito. Per come sono io, ho sempre amato più leggere i testi che le critiche, però non sono una sprovveduta, e capisco l’importanza della critica. Sarebbe bello che un critico, come ce n’erano una volta, dicesse in modo semplice e chiaro perché non crede più nel realismo, o perché ritiene che sia il momento di ritornarci, o esprima qualsiasi altra posizione sull’argomento, senza bisogno di infarcire il suo articolo con una quantità esagerata di riferimenti, che lo rendono alla fine indigesto. Voglio chiarire comunque che queste mie osservazioni non sono riferite al suo commento all’articolo di Mazzarella.
Riguardo a realismo e non, che dire? Io sono per certi versi una “lettrice ingenua”, leggo un libro, mi piace o non mi piace, non mi domando se mi piaccia perché appartiene alla tale categoria o risponde ai tali requisiti. Non nascondo una predilezione per il realismo, ma sono disponibile anche ad altre tipologie: secondo me, nell’attuale situazione, nell’attuale momento storico, può aver qualcosa da dire un racconto della realtà ma anche una narrazione fortemente simbolica, un travestimento fantasioso, grottesco… perché no? Tutti i mezzi espressivi son buoni; le cose che, da lettrice, io detesto sono le storie esageratamente pulp, a meno che non vi si intraveda una qualche ironia da parte dell’autore, insomma quei polpettoni in cui tutti sono sventuratissimi e accadono le cose più truci, che talvolta ci vengono propinati come opere coraggiose e che invece, a mio modesto parere, sono solo spregiudicate operazioni di marketing. Non amo molto nemmeno la moda dell’inserire trattazioni economiche, politiche o sociali all’interno dei romanzi, come per esempio fa Siti: non che Resistere non serve a niente non mi sia piaciuto, ma ho trovato pesanti certi inserimenti che, sempre nel gergo degli studenti di scuola superiore, vengono detti “spiegoni”. Infine non sono molto entusiasta dei romanzi molto frammentari, in cui ci sono parti anche consistenti che sembrano del tutto autonome e scollegate o superflue rispetto alla “storia principale”, però questo forse è un difetto mio, e della mia formazione tradizionale. Mi scuso per la lunghezza di questo post e per aver esposto le mie opinioni forse troppo ingenue, da “uomo (o donna) della strada”. Ma alla fin fine, quelli che leggono i libri siamo noi comuni mortali.
Caro Donnarumma,
non mi stupisce che Lei continui a utilizzare questa «ironia» spiccia, più adeguata a un salotto televisivo che a un luogo di dibattito e di critica letteraria. Del resto – come dice la saggia nonna – «chi cammina con lo zoppo impara a zoppicare». Questo Suo atteggiamento spocchioso, che vuol spacciare per «autoironia» (io La inviterei, se non alla prudenza, quantomeno a una maggiore attenzione nei confronti del significato della parola) è tutto dei vari Luperini e dei vari Ferroni che frequenta e/o ha frequentato (intendo in ambito accademico – ci mancherebbe). Lei è liberissimo di tirare i capelli a chi vuole, ma non pretenda poi di essere preso sul serio.
Il caro Segre, quando scrisse Ritorno alla critica, dimenticò una categoria: tra cuculi, camaleonti e farfalle, avrebbe fatto bene a inserire i pappagalli.
Come studente universitario – eh già, caro Prof – io La inviterei a riscoprire il buon gusto e a concentrarsi maggiormente sul lavoro della critica letteraria. Capisco che Le piaccia tanto chiacchierare, ma ogni tanto non si lasci scappare l’occasione di tacere (è un consiglio).
Secondo consiglio: guardi meno Abatantuono e vedrà che più nessuno avrà dubbi su un Suo eventuale uso dell’Ironia (che, ahimè, dimostra di non conoscere, nella maniera più assoluta).
Anch’io Le allego un video: http://www.youtube.com/watch?v=2ABgUJPx3Tc
Dunque, buon lavoro.
La nonna. (mi adeguo alla Sua sottile e intelligente ironia)
@Saggezza impopolare
Il tono dei suoi “consigli” a Donnarumma non ci piace. Lo cambi, o cambi sito.
(gs)
@ Le parole e le cose
Diverte molto questa parzialità spudorata. Il sito non lo cambio, perché capita sovente di trovare articoli interessanti. Di certo, al prossimo articolo mi asterrò dal commentare: non vorrei suscitare le ire dei numerosi lacchè al servizio del pensiero dominante.
Saluti (visto che sarebbe educato salutare).
Flavio De Bernardinis
La frontiera del cinema civile
in
MicroMega 6/2012 almanacco del cinema
@ Salabelle
Però anche posta nei termini elementari di sopra, non è una questione così da poco. Sono due idee di letteratura che hanno le loro brave conseguenze. Del resto, fare realismo in un’epoca che avverte costantemente il pericolo della riduzione del mondo a favola è tutt’altro che ovvio. Siti non è Balzac, anche se entrambi sono inclini ai pipponi.
Certo, come lettrice, lei ha tutti i diritti di prendere dai romanzi il bene che ne viene: anche se mi pare abbia un’estetica abbastanza chiara, e a tratti persino normativa. Resta il fatto che una critica e una storia letteraria che si accontentassero del mi piace/non mi piace, o che stabilissero in partenza che non si possono fare digressioni economiche o romanzi frammentari, non servirebbero un gran che.
Ah, dimenticavo: a proposito di pipponi e spiegoni. Non dia troppa ragione agli studenti. Persino quassù ce n’è qualcuno che sarebbe meglio perdere che trovare.
@ ?
Via, da bravo, non faccia così: qualcuno potrebbe pensare che ha nei miei confronti motivi di… astio? livore? personale.
Lei e il buon gusto siete come la morte ed Epicuro: e non mi permetterei mai di darle dell’epicureo.
Donnarumma,
non c’è alcunché di personale, non La conosco. Ma – come dire – leggendoLa, mi sembra di fiutare un certo tipo di ambiente che ben conosco e che ho ben intenzione di evitare (quello della critica chiacchierona). Che dirLe ancora?
Le auguro una carriera di successo; prepari per noi un’arguta stroncatura dei nuovi Baricco: ne abbiamo tutti bisogno. Possibilmente utilizzi pure la sua brillante Ironia, ma faccia attenzione a non divertirsi troppo: le risate, alla lunga, possono diventare pericolose (lo chieda a Margutte!).
Naturalmente – lo dico per i lacchè – sono ironico (cioè, per essere chiari una volta per tutte: sto dicendo il contrario di quello che penso), dunque non prendetevela troppo a male.
Mi saluti Luperini, Ferroni, Paperino e l’italiano, l’inglese e il francese di ogni buona barzelletta che si rispetti. Ritorno umilmente ai miei studi.
Addio.
@ Insipienza onnipolare
O come? Di nuovo qui? Ci aveva già promesso di tagliare la corda. Le chiacchiere non le mancano, ma neppure di supercazzole capisce un gran che: la migliore è un’altra.
C’era da sperare che lei ci facesse: purtroppo, ci è.
Certamente non credo che la critica e la storia letteraria possano accontentarsi del “mi piace/non mi piace”! Dopotutto sono una professoressa, per quanto modesta. E se cito il gergo studentesco lo faccio con un pizzico di ironia. Ho solo voluto manifestare la posizione, che a me pare preziosa, del “lettore ingenuo”. Credo di essere capace di argomentare sul perché un romanzo (o altra opera letteraria) mi piaccia o meno, all’occasione non disdegno la lettura di un testo critico, purché non sia eccessivamente pesante e gonfio di dotte citazioni; a volte trovo dei buoni articoli in rete, mentre le recensioni spesso sono orientate alla promozione dell’opera, anche nel caso in cui questa non meriti gli elogi sperticati che il recensore le rivolge.
Due considerazioni.
Una generale: mi sembra che di nuovo (non è certo il primo caso) il dibattito abbia lasciato presto da parte i contenuti degli interventi, per concentrarsi solo su forme e modalità. Va bene anche questo, naturalmente, se, come ha fatto Salabelle, lo si fa in maniera pertinente, esprimendo poi anche un parere sull’argomento in questione; va decisamente meno bene, direi, se dalla critica si passa a un attacco rivolto a professione, frequentazioni, atteggiamenti, magari motivazioni recondite degli intevenuti. In origine sembrava ci fosse una polemica, vivace l’attacco di Mazzarella, vivace la replica di Donnarumma, al di là di ragioni e torti potevano esserci sviluppi, la discussione poteva estendersi, altri potevano dire la loro, poteva venirne fuori qualcosa; così c’è solo una zuffa in più e non ne verrà fuori un bel niente.
Una più specifica, per Saggezza impopolare. Non voglio certo contestarle il ricorso a un nick, io che ne uso uno a mia volta, i motivi possono essere tanti; ma proprio in questi casi è più importante mantenere una misura: altrimenti è inevitabile che il motivo principale sembri il piacere di insultare pesantemente e gratuitamente gli interlocutori senza minimamente esporsi. E poi suvvia: non è il caso di “richiamare all’ordine”, non siamo in fanteria (grazie al cielo); non si capisce chi sarebbero “i numerosi lacchè al servizio del pensiero dominante” (ha scambiato i responsabili del blog per i giornalisti di Libero?); rifletta un momento; altrimenti, per tornare ai proverbi o aforismi del tempo della nonna, ci farà venire in mente quello secondo cui la giovinezza è una cosa fantastica, peccato finisca sempre sprecata nei giovani.
Forse, anzi sicuramente, mi sbaglio: ma in interventi come questo (e non sono pochi, su LPLC) mi sembra che a prevalere siano, ancora una volta e per sempre, la sociologia della letteratura sullo studio (umile, testuale, ravvicinato) della letteratura; il “salotto” degli scrittori che vogliono ri-orientarsi rispetto a un discorso su come modalita’ narrative legate a vario titolo al concetto di realismo (che tra l’altro non mi pare specificato: forse viene dato per gia’ acquisito, forse la premessa e’ che uno abbia gia’ letto il libro di cui si parla), su come queste modalita’, dicevo, possano interessare al lettore.
Insomma, in sostanza mi sembra che si faccia 1) un processo alle intenzioni degli scrittori (piu’ che una ricognizione comparativa dei loro risultati) e che si riduca il senso della letteratura appunto alla intenzione (alla posizione da assumere di fronte alla realta’), cosi’ cadendo nella “affective fallacy” di cui dovremmo esserci liberati dallo strutturalismo in avanti.
Io non critico il contenuto – che anzi mi interessa molto – ma un’impostazione che e’ astratta e speculativa, e che non cita nemmeno uno stralcio testuale a supporto delle sue tesi.
Insomma: posso dirlo che molti critici letterari (ma non quelli della scuola filologica pavese, a cui mi sento piu’ vicino per formazione) fanno sociologia della letteratura, filosofia e teoria della letteratura (ed estetica) ma NON sembrano interessati a vedere poi come questi alti costrutti si inverano nei testi, che dovrebbero essere (scusate la banalita’ e limitatezza dell’argomento) il punto di inizio e il punto di arrivo per uno specialista della letteratura?
@ Salabelle
Certo che il punto di vista del lettore non specialista conta! E per chi si scriverebbe, sennò? Ha ragione pure sulle recensioni: ma non apriamo qui la questione della critica militante.
Invece, per tornare ai pipponi, segnalano una cosa interessante. In quanti romanzi postmoderni trova digressioni serie sul presente? Lasciamo Calvino, che per il romanzo di tradizione realistica non ha mai avuto troppa simpatia (e che in Se una notte d’inverno un viaggiatore infila un intero saggio a patto di attribuirlo a un personaggio fittizio, Silas Flannery, che rimpiange di non esserci). Arbasino in Fratelli d’Italia ammette il discorso saggistico solo in veste di chiacchiera colta, camp e giocosa; Manganelli argomenta per sabotare o reinventare il racconto, in Hilarotragoedia e in Nuovo commento, ma veste i panni dichiarati del clown e fa letteratura come menzogna; Eco, nel Pendolo di Foucault, pratica una specie di fantasaggismo, a base di complotti, Rosacroce e paccottiglia subculturale di cui ride; Tabucchi non mi pare amasse particolarmente il modo argomentativo… Invece, in Resistere non serve a niente Siti inserisce riflessioni che vanno prese sul serio, e che presuppongono un lavoro d’indagine che, più che Petrolio di Pasolini, o Manzoni e Tolstoj, ricorda Zola. Appunto questo concedere al saggismo uno spazio e, soprattutto, un ruolo così importante nel romanzo è, secondo me, un altro segno del cambiamento ipermoderno. (Poi, bisognerebbe riflettere sul rapporto tra particolare concreto del racconto e universale della riflessione. E aggiungere che di saggismo serio sono fatti alcuni nuovi generi ipermoderni, come il cosiddetto personal o lyric essay – pensi a scrittori, per andare un po’ a caso, come Sebald o Foster Wallace o Trevi).
@ Scaramouche
Come vede, parlo volentieri del tema, sebbene ci abbia già scritto su alcune dozzine di pagine. Ma qualcuno me ne deve dare occasione. Quanto ai nick, penso siano un falso problema: che mi cambia se una cosa intelligente è firmata Romilda Del Secchio, Amenhotep o Il Gallo Cedrone? Invece, tradizionalmente, delazioni, contumelie, vendette private, lettere minatorie e rivelazioni di corna si imbucano anonime.
Grazie, comunque, per il suo commento.
@ Castiglione
Le rispondo per il poco che mi compete. Anche se la poetica di uno scrittore non ne esaurisce la scrittura (e se lo fa, vuol dire che poco vale leggerlo…), tuttavia studiarla è una cosa importante: riconoscerà anche lei che, se uno vuole identificare un cambiamento culturale, deve affidarsi anche, sebbene non esclusivamente, alle dichiarazioni di intento.
Sociologia della letteratura, filosofia e teoria della letteratura (ed estetica) a me sembrano indispensabili.
Credo poi che le misure del blog, o quelle del saggio dall’alto (come quello di Mazzarella), non consentano close reading. Ma che tutto debba partire da lì, è assolutamente certo.
Aggiungo che nelle analisi ravvicinate (e in certa filologia) ho talvolta ravvisato scarsa umiltà, e anzi una certa intimidazione scientista. Ma dev’essere roba del passato: appartengo a una generazione un po’ traumatizzata dai manuali di formalismo & strutturalismo. Oltre al fatto che qualunque buona lecture de texte sta in circolo ermeneutico con una sociologia, una filosofia, un’estetica e una teoria della letteratura. Meglio, allora, giocare a carte scoperte: che è uno dei meriti appunto del saggio di Mazzarella.
Scusate, gentili Amici, mi indirizzo a tutti Voi che siete intervenuti nel blog, ma vorrei capire meglio: Hermann Broch ed Elias Canetti non dovrebbero essere postmoderni secondo le categorie di “realismo” che sono state invocate? Fanno romanzi-saggi, e saggi-romanzi… E Giuseppe Pontiggia allora?
Come si può inquadrare Eco, dal momento che fa il romanzo precisamente con gli ingredienti che proponeva Marina Mizzau, nel saggio “Logica della finzione”, <>, 20, 1966?
A me sembrerebbe, ma mi riservo di leggere tutta la bibliografia da Voi citata, che la definizione di realismo qui proposta non sia individuata con chiarezza teorica (ma forse dipende dalla sintesi necessaria in un blog). Lo stesso concetto di “iperrealismo” mi piacerebbe più individuato rispetto all’idea di “ipermoderno” proposta da Jameson. Per quanto definisco “realismo” e “realtà”, mi permetto di rimandare al mio “Sogno della letteratura” (Roma, Gaffi, 2012), che raccoglie 30 anni di lavoro critico e di studi. Un cordiale saluto e congratulazioni per la passione con cui si discute qui di letteratura, Daniela Marcheschi
@ Marcheschi
Grazie per l’intervento, le segnalazioni e l’occasione di precisare.
Se nota, mi sono limitato a citare autori italiani. La storia del romanzo-saggio (lascerei da parte, per non complicare le cose, quello che lei chiama saggio-romanzo) è in buona misura una storia modernista: e Broch è appunto, almeno secondo me, modernista – come Musil, o Proust, o Joyce (che qui citerei per il Portrait: Ulysses e Finnegans Wake c’entrano l’uno poco e l’altro nulla con il romanzo-saggio). L’ipermoderno si chiama così anche perché, appunto, riprende quella tradizione.
Pontiggia… Non mi è chiaro a quale suo libro lei pensi. Del resto, solo i matti vogliono classificare tutto, le pare? Se non ci fosse qualcuno che non si lascia «inquadrare», che gusto ci sarebbe?
Eco è postmoderno per sua dichiarazione (Postille al Nome della rosa, 1983); e per consenso di molti critici.
Sull’iperrealismo, c’è qualcosa nel saggio di Allegoria 64 sull’Ipermodernità.
Ci sono più definizioni di realismo che mele su un melo nella stagione delle mele: come ha mostrato Francesco Orlando, anche Auerbach (che per altro parlava di Dargestellte Wirklichkeit) ricorreva ad accezioni persino contrastanti. Voto per una tendenziale (cioè non ottusa) restrizione cronologica e concettuale. Trovo utilissimo, in questo senso, Realismo e letteratura. Una storia possibile di Federico Bertoni. Sulla realtà, invece, ci si accapiglia da che esiste la filosofia: arrossisco, soprassiedo, e mi congedo.
@ Donnarumma e Mazzarella
Tagliata con l’accetta (e per soddisfare le voglie di chiarimento dei “lettori comuni” o quelle che in modi più striscianti potrebbero esserci sia nel mio precedente commento “antiaccademico” sia in quelli di un’arrabbiata “Saggezza popolare”), la questione del duello realismo/immaginazione potrebbe essere posta anche così:
– da uno scrittore che sta per cominciare un romanzo: perché dovrei optare per l’una o l’altra visione, se fallimenti o capolavori ci sono stati sia quando i miei antenati hanno seguito la prima strada che la seconda?
– da un uomo/donna comune: che convenienza c’è ad essere realisti doc o utopisti doc, se la vita quotidiana è un indistricabile groviglio di fatti che a prima vista paiono certi e sensibili e di desideri che implacabilmente li deformano (ma senza i quali non si campa)?
– da un letterato mediamente politicizzato: quali spinte politiche oggi finirei per sostenere – direttamente o indirettamente – se difendessi «il realismo in un’epoca che avverte costantemente il pericolo della riduzione del mondo a favola» (Donnarumma) o se paventassi l’«impoverimento del concetto stesso di realtà a cui si accompagna un simmetrico svuotamento delle prerogative più vitali radicate nella letteratura»(Mazzarella)?
Che ne pensate?
Se davvero l’ipermodernismo letterario dovesse arrivare ad offuscare la realtà, si arriverebbe al ripudio della sua matrice antropologica. Ed allora anche il nominalismo stilistico potrebbe deprivare la parola del suo stesso contenuto. Ma non è così. E, se lo fosse, sarebbe un paradosso nell’ars letteraria: l’astrattismo sarebbe vittima di se stesso. In realtà se ci fermiamo ad un divisorio, ad un separè di bell’arredo, tra realtà e vis immaginaria, ci troviamo solo di fronte ad un processo meramente indiziario del reale.
Mazzarella afferma “Ci troviamo di fronte a due modelli interpretativi antitetici, da cui discendono, in ambito non solo letterario, opzioni stilistiche, formali e di contenuto altrettanto opposte”.
Probabilmente il risultato è divergente nei contenuti, e, talvolta, nella forma stilistica, ma ognuno attinge, in piccola o grande parte, al reale.
Credo che nello stesso pregevole contributo di Mazzarella si possano cogliere queste sottili sfumature laddove afferma, come prerogativa, di dover ripudiare “l’idolatria dell’esperienza”. Il discorso giunge alla critica di Belardinelli quando quest’ultimo afferma che per fare buona letteratura lo scrittore deve raccontare di fatti vissuti ed esperienze storiche avute. Poi, però, si lascia sfuggire che esiste “il conflitto, quanto mai vitale”. Ecco, io credo che nell’avere dentro un conflitto tra irreale e realtà, tra fantasticazioni create e velate censure di inutili orpelli, c’è tutta la tensione della scrittura, come percezione del reale.
Davvero il vissuto filmico del reale crea un offuscamento creativo? E, ancora, mi domando: perchè mai guardare il reale non dovrebbero permettere di fare ipotesi alternative o costruire piste lessicamente alternative? Tanto lo sa Mazzarella che nell’epilogo ci piazza un bel “forse”: “Forse parlando di realismo si sta dimenticando con puntuale frequenza l’irrealtà che esso sempre presuppone. Non è certo una dimenticanza da poco.”
Pur portando gli occhiali continuo a non vedere una grande antinomia trai i due mondi. Se la frequentazione dell’irreale è essenziale per documentare una storia, lo è altrettanto viceversa. Altrimenti, è pura storiografia, o un “pippone” nozionistico che fa inorridire non solo gli studenti ma anche qualche Professoressa (nonostante che “pippone” si usi a Roma , pare che tutti lo abbiano ben capito…).
Insomma, anche un romanzo-saggio, iperdocumentato, può avere quel pizzico di umana rappresentazione del reale, senza essere chiuso nel suo ferreo dinamismo storico-compilativo.
Ed è vero anche l’inverso: raccontare storie di un mondo che non c’è fa entrare la parola nel mondo della poesia, uscendo da quel rigido binario di un tram chiamato romanzo.
James Joyce nella sua opera su l’Epifania, “I morti”, racconta di persone che non ci sono più, per dargli un luogo, attraverso la lingua dei vivi, accendendo il passato per rendergli Giustizia. E quale sarà questo metro di Giustizia se non quello vissuto dall’esperienza? Esperienza propria o di altri tempi, elaborata, studiata, fatta rivivere anche attraverso il compiacimento della parola. O, come, mirabilmente è accaduto, con la musica. Giustamente dice Trevi, nella sua opera Musica distante, Mondadori, “un simbolo vale per l’interrogazione che produce, e non per le risposte che consente.”
Mi trovo pienamente in accordo con Donnarumma quando afferma che usare il realismo letterario come bollino qualità, alla stregua di un prodotto vinicolo d.o.c., sarebbe fallace.
Libro è parola del mondo. E sarebbe interessante leggere qualche cosa sulle aderenze lessicali e le trasformazioni della parola in quei scrittori che vivono di conflitto perenne tra la mano che tocca la terra ed il dito proteso verso il cielo.
Chiudo così: Nimzowitsch (insieme ad altri celebri giocatori quali Tartakower e Reti) fu esponente di spicco della “scuola ipermoderna”, che si proponeva di superare le rigide convenzioni del “classicismo” nella scuola di scacchi allora imperante. E come negli scacchi anche nella letteratura si cercano nouvelles frontières, con quell’agone di cui questa discussione ne è traccia…
@ Abate
Caro Abate, se proprio vuole un duello, dovrebbe far affrontare realismi contemporanei e poetiche postmoderne: l’immaginazione c’è ovunque per contratto. Per il resto, ho l’impressione che lei faccia interferire un piano di descrizione con uno di prescrizione o consiglio, uno sguardo che viene dopo le cose e uno che vorrebbe orientarle prima. I giudizi estetici e politici possono venire solo a festa finita, tutt’al più azzardarli a festa in corso: non quando gli invitati devono ancora suonare al campanello. Nella fattispecie:
1. Oh, per un sacco di motivi: magari anche solo perché ritiene che sia di moda l’una o l’altra cosa; o perché, visto che va di moda, lui che è un bastian contrario fa all’opposto. Però non è una domanda a cui possa rispondere: non do consigli a chi scrive. Aggiungo che uno scrittore che parte su quel piede, cioè chiedendosi in astratto che ricetta seguire, parte parecchio male.
2. L’utopia non era in ballo. Se lei parla di realismo come poetica e prassi letteraria, non vedo come possa esserci opposizione tra fatti e desideri: Austen o Balzac o Stendhal o Flaubert o Tolstoj o Dostoevskij la guarderebbero strano. Se realismo e utopismo sono, per l’uomo e la donna comune, posizioni davanti alla vita… mah, veda ciascuno per sé. Vuol mica che faccia il direttore di coscienze?
3. Le mie spinte politiche sono queste: una letteratura che cerca di promuovere lo sprofondamento in se stessa per alternativa o straniamento sul mondo ha le armi spuntate. Forse è il caso di sporcarsi un po’ di più le mani. In questo, condivido il giudizio di M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza 2012: «il postmoderno non ha avuto gli esiti emancipativi profetizzati dai professori», poiché «ha trovato una piena realizzazione politica e sociale» (p. 5; non «piena», comunque). Insomma: chi ancora pensa che essere nichilisti e proclamare che tutto è testo o discorso liberi il pensiero dalle tristi coazioni della modernità, dovrebbe fare i conti con un nichilismo generalizzato e pantofolaio, e con il fatto che la trasformazione del mondo in discorso o favola è la mira di soggetti poco raccomandabili, che appena possono rialzano la testa (cotonata, più che coronata). Degradato a prassi politica e diffuso come mito mediatico di smercio quotidiano, il postmoderno è diventato un prigione, un incubo (e comunque a me qualche capogiro claustrofobico viene anche a leggere certe cose di Derrida, o di Baudrillard, o di Rorty, o di Vattimo).
Invece, un pensiero e una una letteratura che si pongano il problema della realtà, cioè di un fuori che li limita e sovrasta, e che cerchino di strappare qualcosa (o anche più di qualcosa) all’angoscia della derealizzazione, mi dicono di più. Per lo stesso motivo, ritengo poco produttiva una letteratura che assuma il realismo passivamente, come un dato pacifico: metto lì tanto cosiddetto realismo normalizzato, opaco, stento, commerciale (i romanzi più o meno ben fatti da premio letterario, insomma).
La mia spinta politica nasce anche da una delusione per il passato. In Italia, la cultura e la letteratura postmoderne sono state a mio giudizio più flebili che altrove. Fermiamoci al campo più scabroso, dove non è affatto detto che giudizio estetico e giudizio ideologico coincidano: appunto, la letteratura. O ha rifiutato la politica (cosa che si fatica ad ammettere, arrampicandosi sugli specchi di una politicità obliqua indiretta o sognata), o ha mostrato nei confronti del pensiero critico troppa cautela e troppi timori. Prima ancora che discutere i risultati, discuto la postura intellettuale, in cui non mi riconosco (e lo ripeto, visto che l’equivoco è costante: a una postura intellettuale condivisibile non è detto corrispondano risultati estetici entusiasmanti; e viceversa). Calvino non è Rushdie, Tabucchi non è Pynchon, Eco non è DeLillo (chissà, magari è la versione deluxe e avant la lettre di Dan Brown).
Quello che mi interessa delle forme attuali di realismo è che cercano di fare i conti con qualcosa che i postmoderni tendevano a liquidare, a far svaporare, a considerare come un mondo non scritto, anziché come un mondo che, quando vuole, manda all’aria qualunque scrittura. Possiamo chiamare questo qualcosa, giusto per capirci, e con tutto lo spirito problematico del caso, realtà.
a R. Donnarumma.
Lei scrive:
“Le mie spinte politiche sono queste: una letteratura che cerca di promuovere lo sprofondamento in se stessa per alternativa o straniamento sul mondo ha le armi spuntate. Forse è il caso di sporcarsi un po’ di più le mani…chi ancora pensa che essere nichilisti e proclamare che tutto è testo o discorso liberi il pensiero dalle tristi coazioni della modernità, dovrebbe fare i conti con un nichilismo generalizzato e pantofolaio…”
Faccio domanda d’iscrizione al suo partito, almeno letterario. Mi sembra che il problema stia più che altro nel fatto che gli scrittori, appartenendo anch’essi al novero degli esseri umani, sono anch’essi alle prese con gli effetti delle “tristi coazioni della modernità”. Realismo è racconto di un progetto storico individuale (e sovraindividuale). Se gli individui difettano di un progetto storico personale (e a maggior ragione sovrapersonale) faticheranno un bel po’ a fare del realismo, se non come citazione, aspirazione, nostalgia (con riuscite migliori o peggiori, certo).
Faccio un esempio inattuale e qualche considerazione ingenua e sentimentale per tentare una diagnosi ruspante.
Secondo il mio avviso, “I Buddenbrook” è molto meglio de “Il dottor Faustus” (e anche de “La montagna incantata”). Però, una volta chiusa la ditta, morti il Senatore Buddenbrook e il piccolo Hanno, cosa doveva fare Mann, reincarnarsi? Ha ripiegato in buon ordine sui libri, onore a lui.
Gli americani che lei cita, e gli altri che sottintende, un progetto storico con il quale misurarsi ce l’hanno eccome: è il progetto imperiale americano, una cosa madornale, seria, torreggiante.
Qui, finiti l’antifascismo e il comunismo con le loro grandezze, le loro miserie, i loro equivoci, la storia e i progetti storici sono andati in vacanza o in cassa integrazione a zero ore.
Non è facile neanche essere un individuo qualsiasi, senza storia: figuriamoci un romanziere realistico, che lavora con la lingua della sua nazione, e con il suo modo di esperire la storia nazionale. Ce lo voglio vedere, il conte Tolstoi, a scrivere “Guerra e Pace”, se invece della dinastia dei Romanov in Russia avesse continuato ad esserci l’anarchia feudale e il giogo mongolo…
Gentile Raffaele Donnarumma,
Grazie della risposta, ma restano i dubbi. H. Broch è su posizioni teoriche ed estetiche antitetiche rispetto a Proust e Joyce, come è chiaro dai suoi due corposi libri di saggi. U. Eco può ben dichiarare di essere postmoderno, ma fa il romanzo precisamente sull’esempio di quanto scriveva Marina Mizzau nel Verri del 1966; e questo mi lascia pure in dubbio. Ho letto Bertoni, Auerbach e Allegoria 64; e di F. Orlando ho letto tutto, e ho anche avuto l’onore e il piacere di essere nel gruppetto che seguiva le lezioni a casa sua la sera dopocena. L’idea di temporalità storica sottesa al postmoderno è ancora quella della fisica classica: se non si fanno i conti con questa arretratezza teoretica degli studi letterari, che ignora gli sviluppi delle scienze moderne e ciò che esse dicono sul tempo e la temporalità di nuovo, anche l’idea di realismo resta poco chiara. Un cordiale saluto, Daniela Marcheschi
@ Buffagni
Iscriviamoci entrambi: tanto lì non c’è pericolo ci si debba accapigliare su matrimoni o adozioni.
È vero però anche che un eccesso di progetto storico può ridurre le rappresentazioni realistiche
a didascalie del concetto. È questo che rende a molti indigeste le tirate di Balzac (confesso che non di rado sono tra quei molti); è questo che rendeva a Flaubert insopportabile la filosofia della storia di Tolstoj, pur permettendogli di ammirare Guerra e pace; e chissà se questa sovraesposizione del concetto non renda anche a lei meno apprezzabili la Montagna incantata (o magica) e il Doctor Faustus rispetto ai Buddenbrook (però, via, è gran bella roba anche quella: e il progetto storico con cui misurarsi non mancava proprio). In effetti il rapporto fra concetto e storia, fra leggi generali e destini individuali è uno dei grandi problema del romanzo dall’Ottocento in poi, come si desume anche da Teoria del romanzo di Mazzoni. Non credo ci sia nessuna garanzia a priori di riuscita, né nessun rischio preventivo di fallimento. Manzoni o Proust o Musil sono, nei romanzi, degli straordinari saggisti o almeno cultori di un discorso argomentativo non finzionale; altri, anche se non si mettono a spiegare esplicitamente come va il mondo, riducono la favola a dimostrazioni della morale (è questo che, credo, ci fa apparire archeologiche o primitive molte cose di realismo sovietico o del neorealismo italiano più spiattellato). Alla fine, il sapere narrativo dovrebbe conservare comunque una sua qualche irriducibilità al sapere del concetto – che è infatti quanto avviene puntualmente in Manzoni o Proust o Musil, e quanto non accade nei deprecati zdanovisti di sopra.
Non so poi se al suo discorso sia sottointesa un’ipotesi come: a grandi strutture politiche e a grandi movimenti di storia e di ideologia corrisponde [o può corrispondere] una grande letteratura; a zone storicamente e ideologicamente depresse, una letteratura povera. (I progetti individuali, immagino, devono esercitarsi su qualcosa che riguardi tutti). È possibile, ma non mi azzardo a diagnosi per le quali ci vorrebbe uno Hegel. Del resto, e per fortuna, esistono le eccezioni, e anche da uno dei più arretrati, paludosi, tristi fra gli stati italiani preunitari son saltati fuori Leopardi e Rossini (Belli, che per altro stava nella capitale, avrebbe beneficiato di un po’ più di movimento – o di corruzione); nessun romanziere, però.
@ Marcheschi
Grazie a lei: e per carità, non pretendo di fugare i suoi dubbi. Anche io, del resto, ho qualche dubbio. Non so se per capire la storia contemporanea occorrano Heisenberg o Einstein: magari servono di più les Annales o Foucault. Il che, naturalmente, lascia ciascuno di noi libero di cavare un po’ di verità da dove viene meglio.
Non penso che per capire la storia contemporanea occorrano Heisenberg o Einstein (nei senso di ciò che hanno fatto per la fisica moderna), e loro stessi probabilmente non sarebbero stati d’accordo. Al più si possono prendere a prestito concetti da usare come metafore – ciò che fu tentato per esempio dagli economisti classici per costruire una fisica sociale, tanto erano invidiosi dei successi della fisica newtoniana -, men che meno come elementi per costruire un’analisi (nei termini di un estremo riduzionismo). Forse solo un metodo, ma questo è già stato proposto e, penso, ampiamente utilizzato. Abbiamo delle serie difficoltà a capire i costituenti più elementari dell’universo – si vedano i problemi che lascia aperti il cosiddetto Modello Standard delle particelle elementari nonostante gli innegabili successi sperimentali – figuriamoci “oggetti” più complessi come una società umana nel suo divenire storico. Per parte mia ritengo che siano più utili romanzi e studi storici (o les Annales e Foucault, come dice Donnarumma) che arbitrarie estensioni delle scienze esatte ad ambiti per i quali non sono state pensate.
@ Donnarumma (In attesa che si faccia vivo anche Mazzarella…)
Sono andato a rileggermi la discussione da lei segnalata (http://www.nazioneindiana.com/2008/10/31/quid-credas-allegoria/) e comprendo meglio le buone ragioni (contingenti, spero…) per cui lei schivi un atteggiamento che una volta si diceva “militante” («Vuol mica che faccia il direttore di coscienze?»).
Con l'”ingenuità” del vecchio in panchina (di cui ho detto), in questo caso fuori dalle polemiche accademiche, direi però che, se si realizzassero certe condizioni (oggi inesistenti: lei può solo insegnare, io solo commentare su un blog), non vedo perché non ci si debba dar da fare nel dirigere coscienze (e incoscienze). Quando un Titanic affonda, chiunque abbia nozioni utili per salvarsi e salvare altri passeggeri, non dovrebbe esitare a dirigere per quel che è possibile e a contrastare anche autoritariamente i vari comandanti Schettino.
Ma diamoci una calmata: brancoliamo al buio e ci vuole prudenza. E torniamo nel nostro bicchier d’acqua letterario.
Pure io vedo che oggi né i critici pretendono di dare consigli a chi scrive né gli scrittori ne richiedono. Ma non mi pare buon segno che non si discuta neppure più tra gli uni e gli altri. (Su Nazione Indiana il duello serio fu tra lei e Cortellessa e nessuno dei “convitati di pietra”, in pista come narratori o lettori agguerriti del meglio della narrativa nazionale o internazionale, si degnò di intervenire). Critici e scrittori (assieme ai lettori) mi paiono oggi sottomessi alla dittatura di un pluralismo d’obbligo e di facciata. Una cosa insopportabile. Io perciò, pur senza essere aggiornato sulla narrativa contemporanea, vedo con simpatia questo duello tra poetiche realiste e poetiche postmoderne che almeno agita la palude.
A differenza di lei, però, non mi pare che i giudizi estetici e politici – miei, suoi o dei suoi sfidanti – vengano «solo a festa finita» o in corso. (Dovrebbero venire? Ma secondo me è impossibile…). Sono invece sempre presenti, magari tra le righe, sotto il lenzuolo del pluralismo; e spuntano continuamente, ora ben limati ora più approssimativi.
In questo secondo caso, perché siamo in tanti che, non potendo leggere tutti i romanzi e meditarli a sufficienza, siamo costretti a valutare «la postura intellettuale» più dei risultati, che per essere valutati a fondo richiedono tempo e studio.
Ma che c’è di male, se uno affaccia delle ipotesi e non vende certezze?
Nel mio precedente commento, ad esempio, ho preso tre generici idealtipi e ho accentuato le incertezze proprio per sollecitare chiarimenti da chi ne sa di più. Non è questo che si dovrebbe fare su un buon blog?
Ma ora mi vorrei soffermare sulle sue spinte politiche. Concordo con Buffagni. Vedo io pure di buon occhio la ripresa di un discorso sul realismo, con le cautele e i distinguo che lei e «Allegoria» avete posto.
Eppure credo che il duello nuovo realismo/ postmodernismo si chiarirebbe di più se esso venisse collocato nell’attuale contesto storico-politico che per ora fa solo da sfondo o da contorno alla discussione “letteraria”, per me fin troppo allusiva o “allegorica”…
Concordo sul fatto che «possiamo chiamare questo qualcosa, giusto per capirci, e con tutto lo spirito problematico del caso, realtà». Bisogna però pur cominciare a dire qualcosa su questa benedetta/maledetta “realtà”.
Invece a me pare che la discussione si fermi sulla soglia. Come se si temesse di inoltrarsi in quel territorio più schiettamente “politico”. Come se non si volessero più sentire certi vecchi discorsi che accanto al nome ‘realtà’ mettevano anche qualche cognome preciso o aggettivo preciso.
Lì volevo spingere sia lei che Mazzarella. E perciò nella terza domanda chiedevo «quali spinte politiche oggi finirei per sostenere» di quelle in atto qui in Italia…
Detto ora brutalmente: che significherebbe scegliere il realismo oggi *anche* in politica? (Poiché non penso che si possa essere fautori del realismo in narrativa e di altro in politica… Anche se oggi, grazie alla “complessità”, tutto è possibile…).
Per dirla tutta, se le spinte politiche “realiste” dovessero essere quelle che su LPLC porta Mauro Piras, io comincerei a dubitare e a ritirare la mia simpatia per queste spinte…
P.s.
Il tema che qui ripropongo lo avevo sollevato polemicamente nel post “Romanzo e morale. Una discussione su “Resistere non serve a niente” di Walter Siti” (http://www.leparoleelecose.it/?p=7053)
Copio qui la mia prima frecciata subito intercettata da Simonetti. Le precisazioni e repliche si possono leggere nel medesimo post.
Ennio Abate
19 ottobre 2012 alle 09:04
QUANTE CHIACCHIERE SUI SITI E QUANTO SILENZIO SUI MONTI!
«Sul piano politico ognuno potrà fare le sue scelte, scegliere una parte se se la sente; ma intanto è utile, oltre che piacevole, che il romanzo allarghi la nostra visuale, ci interroghi e ci attraversi. Per cui da questo punto di vista, secondo me, serve: vale la pena di insegnare la letteratura moderna, vale la pena di insegnare il “male”, e di farsene contagiare (“tra il male che vogliamo combattere fuori di noi e il male che ci abita dentro”: ben detto Buffagni). Soprattutto vale la pena di sommare alle altre forme di conoscenze la conoscenza specifica della letteratura – qualunque ne sia il contenuto di verità, la forma di quella conoscenza resta preziosa, specifica e irriducibile». (Simonetti)
È questa scissione tra piano politico e piano della conoscenza il guaio del nostro presente (italiano in particolare).
È questo pluralismo giocondo, sventato e un po’ fessacchiotto che concede: «ognuno potrà fare le sue scelte, scegliere una parte se se la sente; ma intanto…» a tenerci con la testa nelle nuvole.
Intanto, che cosa?
Intanto, mentre io imparo il “male” sul libro di Siti e mi faccio abitare da questo male (immaginario), gli altri (Monti & C.) il male (senza virgolette ) lo fanno a me e a milioni di altri. Che guarda caso scendono in piazza ( a fare il bene o il male?) ormai solo nella “povera” Grecia. Qui zitti e a cuccia. (Quasi come ai bei tempi del fascismo…).
E mentre il male (vero) aumenta, aumentano a dismisura anche le nostre preziose, specifiche e irriducibili conoscenze.
Ma a che servono? Che rapporto hanno con la vita degli altri (con il bene e il male che fanno gli altri)? Che scelte ci impongono?
Detto fuori dai denti, a me questa discussione su male e bene in astratto (e solo nei romanzi) mi fa venire in mente l’aria di parrocchia della mia lontana infanzia.
Fare il bene (soltanto?). Fare il male( soltanto?). Con chi? A vantaggio di chi? E perché non fare il bene e il male? Ma per uno scopo chiaro…Quale?
I nostri padri queste cose le sapevano o almeno se le ponevano come problema:
Ma più c’è da tornare ad un’altra pazienza
alla feroce scienza degli oggetti alla coerenza
nei dilemmi che abbiamo creduto oltrepassare.
Al partito che bisogna prendere e fare.
Cercare i nostri eguali osare riconoscerli
lasciare che ci giudichino guidarli esser guidati
con loro volere il bene fare con loro il male
e il bene la realtà servire negare mutare.
(F. Fortini, Forse il tempo del sangue…(1958))
Noi non più. La politica da una parte, la conoscenza dall’altra…
a R. Donnarumma.
Al mio discorso è sottintesa l’idea che si può essere un grande poeta (meglio se lirico) o un grande scrittore (di prose strambe tipo Delfini, aforismi, operette morali e immorali) bulgaro, ma *non si può* essere un grande romanziere (specie se realistico) bulgaro.
Ho fatto l’esempio di Mann, perchè il confronto fra “I Buddenbrook”, dove il progetto storico borghese è pienamente incarnato nel testo (e nell’autore) e i romanzi saggio posteriori (dove si sente tutto il lavoro di schedatura in biblioteca, tutta l’acribia teologica) mi pare un esempio leale perchè elevatissimo delle ragioni che me la fanno pensare così.
Certo, mi sono lamentato del brodo grasso. A parziale discolpa le dirò che ho letto tre volte il “Doctor Faustus”, e due “La Montagna”, e chissà che non faccia in tempo a leggerli di nuovo.
Il romanzo realistico viene bene quando s’incarna bene, nell’autore e nei suoi personaggi, un progetto storico sovraindividuale, al quale, beninteso, l’autore può anche essere contrarissimo, sul piano delle opinioni personali, ma che deve coinvolgerlo e travolgerlo nel midollo, abitare anche i suoi sonni, là dove nasce il linguaggio: è il caso di Balzac, un padrone delle ferriere in ispirito se mai ce ne fu uno, nonostante tutte le sue noiose tirate legittimiste; o di Tolstoi, un aristocratico innamorato della bella guerra e della Madre Russia se mai ce fu uno, nonostante tutte le sue penitenze vegetarian-cristiane.
Il romanzo realistico in Italia trova terra grama perchè qui da noi, nel dopoguerra, di progetti sovraindividuali di grande respiro ce n’è stato uno solo: il comunismo, con le sottovarianti dell’antifascismo più o meno popolare e/o nazionale. Emozionarsi per la DC era difficile, per il fascismo vietato. Ci mettiamo, volendo, il progetto modernizzante di adeguamento ai paesi più avanzati, che a parer mio ha prodotto “Fratelli d’Italia” di Arbasino, opera ben riuscita ma non casualmente priva di capo e di coda, poi replicata dall’autore e da tanti altri all’infinito, come i moduli di Le Corbusier.
Sarà un po’ esagerato, ma secondo me tutti questi progetti sono morti, anche se purtroppo non sepolti.
Resta la forza propulsiva, nient’affatto esaurita ma anzi rinvigorita, del progetto mafia (mi sbaglierò, ma “Resistere non serve a niente” parla sostanzialmente del progetto storico “Italia = Mafia”, forse addirittura “Mondo = Mafia”).
E concluderò dicendo che secondo quanto mi ha confidato in una seduta spiritica A. Manzoni, egli ha potuto e voluto scrivere “I promessi sposi”, abbandonando gli inni e le tragedie, solo quando si è persuaso sul serio che valesse la pena fare tutto questo casino per unificare l’Italia. Non ha purtroppo aggiunto se la pensa ancora così.
@ Abate
Non sono solo contingenti le mie perplessità sulla critica militante, né parliamo solo di polemiche accademiche. Considero la direzione di coscienze regressiva: di aspiranti o sedicenti direttori in giro ce ne sono sempre troppi. Se è infelice un paese che ha bisogno di eroi, si figuri lei un paese che ha bisogno di parroci. Ambisco semmai all’esercizio del pensiero critico. Mi piacerebbe far sì che i miei studenti (se è di questo che parliamo) pensino con la loro testa, riflettano su cose alle quali non avevano fatto caso, facciano scelte culturali – e non solo – consapevoli. Riconoscerà che, oltretutto, è molto più difficile che spacciare una quantità variabile (ma in genere immoderata) di verità sul corso del mondo.
Se è di facciata, il pluralismo sta antipaticissimo pure a me. Ma il problema è che c’è un pluralismo dei fatti, inemendabile: credo nessuno possa più ritenere che ci sia una sola linea, o poetica, o forma, o genere, all’altezza dei tempi, e che le altre siano arretrate o improponibili. In questo senso, davvero la logica della modernità si è spezzata. Certo, ci sono scelte che sembrano parlare immediatamente di una posizione che non ha troppe patenti di legittimità presso la cultura alta (p. es., a scrivere oggi un giallo sulla mafia, se va bene sono Camilleri, ma non Sciascia). Eppure, anche qui le censure si sono affievolite. Se, mettiamo, nel 1925 scrivere strofe saffiche carducciane era mettersi ai margini del campo letterario, ora ho l’impressione che le cose non siano così nette (se non, appunto, per le saffiche e altre anticaglie conclamate). In questo senso, le forme di realismo sono oggi una delle possibilità, ma né unica né incontrastata né privilegiata. Ci sono scrittori tutt’altro che minori che rifiuterebbero e rifiutano sdegnosi il realismo (che so? Moresco).
Ha ragione quando dice che un giudizio c’è sempre. Il problema è vedere dove o se sia fondato. In molta critica militante è estemporaneo, legato all’idiosincrasia di chi lo pronuncia – cioè, è la mascherina di interessi di gruppi tenuti insieme da colle diverse, ma tutte piuttosto viscide (interessi di consorteria, amicizie, legami, feudalesimi, agganci editoriali, prebende). Poi, continua a esserci una critica militante attendibile, ragionata, seria e perciò esposta alla discussione. E a mio giudizio, una critica militante che abbia queste patenti è quella che pensa un qualche quadro storiografico, e guarda fuori dei libri.
Le forme di realismo contemporaneo parlano di una volontà di giudizio e intervento sul presente. Ma al di là di questo, non credo sia possibile collegarle a una qualche direzione politica. Non credo, anzi, che sia opportuno farlo mai, per nessuna corrente, in nessun tempo. È esistito un neoclassicismo giacobino e uno imperiale; un romanticismo reazionario e uno liberale e progressista. Così, esiste un realismo di sinistra (Saviano) e uno nichilista (Siti; nichilista non vuol dire ‘di destra’: siamo proprio fuori della politica). Costretto al gioco della torre, sceglierei il secondo: la letteratura che mi prende davvero non è un eccipiente alla politica. Mi hanno sempre lasciato perplesso anche i tentavi del tipo: Leopardi? oh, sì, sembra proprio un apolitico disperante, però, nel ’48, sulle barricate, ce lo saremmo trovato accanto! Ci vuol più coraggio ad ammettere che Leopardi, coi suoi Rubatocchi e Leccafondi, e a dispetto della social catena, sulle barricate non ci sarebbe salito manco issato con la carrucola; e che questo non lima nemmeno di un millimetro il suo gigantismo.
Semmai, è interessante che oggi si torni a chiedere agli scrittori – come dire? – una giustezza di pronunciamenti politici. Forse la polemica di Cortellessa su Resistere non serve a niente testimonia anche questo. Io non saprei aggiungere nient’altro che bene! bravo! bis! a quanto ha scritto Simonetti.
Perciò, non sono d’accordo con lei quanto lamenta che il problema italiano è la «scissione tra piano politico e piano della conoscenza». No: il problema è proprio che non si sa, non si capisce, non si pensa. A me pare che oggi il realismo più del postmoderno (mettiamola così) serva a farci sapere, capire, pensare: per questo lo seguo con interesse. Ma poi, la verità viene da dove vuole – ammesso che voglia, e che qualcuno stia ad ascoltare. La separazione che lei pone («Noi non più. La politica da una parte, la conoscenza dall’altra…») non mi pare sia nelle cose.
Aggiungo che la polemica sul realismo di Nazione indiana non è stata, propriamente, politica: tant’è vero che erano su posizioni opposte persone che, più o meno, stanno politicamente dalla stessa parte. Se uno la studiasse con Bourdieu alla mano, invece, scoprirebbe secondo me cose interessanti: era, infatti, una polemica culturale (in tutti i sensi, dall’istituzionale all’ideologico).
Quanto a scrittori e critici: alla fine, sono più i critici che hanno da imparare dai critici, che non il contrario (e spero non legga in questo una dichiarazione di umiltà: è un difetto che non mi si può certo imputare). Detesto gli artisti cosiddetti naïf; ma ci guadagna più il pensiero a scavare nelle arti, che le arti a farsi imbeccare dalle discipline del pensiero. Poi, anche oggi abbiamo scrittori ben consapevoli di quel che fanno e di cosa voglia dire scrivere: non parlo di uno come Siti, che è stato professore universitario, ma di autori più giovani ed estranei all’accademia, come Covacich o Lagioia (i poeti sono ancora più vicini alla critica, che spesso esercitano, anche perché spesso sono o sono stati più vicini all’università). Non si tratta certo di intellettuali al modo dei suoi padri, cioè dei miei nonni: ma avranno pure il diritto di essere se stessi, prima che essere figli di.
P.S. Guardi che basta una goccia di stricnina, e anche un bicchier d’acqua letterario ci stenderebbe a terra stecchiti.
P. P. S. Quante chiacchiere su Monti e quanto silenzio su Mps!
@ Buffagni
Partiamo dalla pista bulgara. Lei può sostenere che non c’è mai stato un grande romanziere bulgaro: non che nessun bulgaro può essere un grande romanziere (a meno che non voglia fare il profeta). Del resto: che ne sappiamo noi della Bulgaria? cosa ci arriva? per come è fatto oggi il mercato mondiale della lettaratura e della cultura, che capacità di export può avere la Bulgaria?
Forse ha ragione quando dice che il realismo presuppone un grande progetto sovraindividuale. Ho l’impressione però che sia un gioco un po’ sleale, che ricostruisce i progetti proprio là dove trova i grandi romanzi. Del resto, il legame che lei pone tra realismo e ideologia è alla fine abbastanza calamitoso: precisamente perché fa risorgere lo spauracchio del realismo come visione impositiva e dogmatica sul mondo, quando al contrario le sue virtù potrebbero essere tutt’altre (la pluridiscorsività, il prospettivismo, il rapporto non pacificato fra destini individuali e destini collettivi, la relazione difficile tra concetto e narrazione…). Anche oggi, del resto, e soprattutto in Italia, certi romanzoni che tentano il grande affresco epocale nascono morti proprio perché il progetto, là, è velleitario.
Ci troveremmo più d’accordo se pensassimo che il realismo ha il suo terreno migliore nella conflittualità sociale? ma anche qui, e dove mai sarebbero un luogo o un tempo senza conflittualità? Gli anni Settanta in Italia ne traboccavano, ma non direi sia stata la stagione più gloriosa del romanzo realistico nazionale.
Morale della favola: dovrebbe esistere una filosofia organica della storia per reggere il peso complessivo delle sue osservazioni (che, singolarmente e parzialmente, possono anche funzionare). Ma non riesco a credere in una filosofia della storia di quel genere.
Mi saluti tanto, quando lo risente, Manzoni. E gli dica che secondo me il romanzo gli è venuto meglio di inni e tragedie, perché lì il piano ideologico gli si è complicato, non ci ha messo dentro le chiavi allegoriche tipo S’ode a destra uno squillo di tromba e Dagli atri muscosi, e ha mescolato le carte della storia e dell’invenzione.
a R. Donnarumma.
Non ce l’ho con la Bulgaria: citavo Montale, che un giorno disse “Non si può essere un grande poeta bulgaro.”
Poi sulle virtù del realismo “(la pluridiscorsività, il prospettivismo, il rapporto non pacificato fra destini individuali e destini collettivi, la relazione difficile tra concetto e narrazione…)” concordo con lei. E la miglior riuscita del romanzo rispetto al resto, in Manzoni, dipende certo da questo: che il realismo macina più vita e più scelta. Per spingere su quei pedali e far girare il meccanismo, ci vuole più forza nei polpacci.
Ma dove la trovi quella forza, che, come il coraggio, “se uno non ce l’ha non se lo può dare”?
Nell’ideologia? Non direi. L’ideologia è un’amfetamina, l’effetto immediato è violento ma quando finisce la paghi cara con un tremendo down.
Io direi nella storia: ma in quella storia che si rivolge, sotto forma di domanda e di sfida, *anche a te*, direttamente a te; la storia di cui sei e ti senti responsabile tu (il realismo è lo sguardo del padre, di chi è per antonomasia responsabile).
Per usare il suo esempio leopardiano, ti deve esser venuta la voglia di “salire sulle barricate” (che a Leopardi – un figlio se mai ce ne fu uno – non venne mai: e infatti non fu realista). Va bene anche se se la voglia di salire sulle barricate ti è venuta e poi ti è passata, o se si è trasformata in voglia di salire sulle barricate *ma dall’altra parte*: comunque, la barricata deve averti fatto pensare, sognare, etc. (Questo mi sembra, per precisare, il caso di Siti, o di Céline).
La Bulgaria, o per essere chiari l’Italia, non si presta al realismo perchè non ha storia: una nazione che non ha autonomia politica, come l’Italia o la Bulgaria del dopoguerra, non ha storia in senso proprio ma solo cronaca, perchè le decisioni rilevanti per la sua esistenza vengono prese altrove e sfidano e interrogano altri. (Non diversamente, la tragedia classica d.o.c. cessa di esistere con la fine dell’indipendenza delle polis greche).
Allora la possibilità che nella vicenda di un “io” si narri anche la vicenda di un “noi” continua a darsi solo se questo “noi” non coincide con la nazione: per esempio, quando coincide con “i proletari di tutto il mondo” che si devono unire. Ma quella festa è finita, no? E il santo è stato gabbato.
@Donnarumma
ahahhahaha, Saviano come esempio di realismo ‘di sinistra’ mi mancava: vada cortesemente a ripassarsi furio jesi – ad esempio: “Di destra” è ogni discorso che abbia forma assertiva indiscutibile, cioè autoritaria e quindi “mitica”: è soprattutto il linguaggio di «parole spiritualizzate» elaborato dalla destra tradizionale, fascista e neofascista, con le iniziali maiuscole (Tradizione, Razza, Patria, Famiglia, Sangue, Terra…) ma è anche il linguaggio del «sinistrese […] più dinamitardo» dei comunicati delle Brigate Rosse o la celebrazione del Risorgimento e della Resistenza quando si fa discorso basato sulla mistica del sacrificio e del martirio”
confronti pure la ‘Bellezza contro le mafie’
a dod
Furio Jesi era un intelligente studioso, ma a me sembra che mettere la freccia (a destra, a sinistra) al realismo faccia andare fuori strada la critica.
la freccia non l’ho messa mica io, sottolineavo un passaggio di donnarumma: spero però che tu non ti riferisca a posizioni tipo ‘le cose buone non sono né di destra né di sinistra’ et similia, che mi paiono la più pericolosa posizione che si può avere nel nostro momento storico dominato dall’ideologia del mercato
Il discorso di Buffagni è giusto – e annoso. L’ha trattato fra gli altri, con efficacia, La Capria in Letteratura e salti mortali. In Italia mancano grandi romanzi (cosiddetti) realisti. Qualcosa d’imparagonabile rispetto alla letteratura francese, inglese, americana, russa, tedesca. I nostri più grandi prodotti in prosa (eccezion fatta per I promessi sposi, I vicerè, forse qualche altro) sono strani “mostri”, Le operette morali, Pinocchio, Il pasticciaccio, La cognizione, Il partigiano Johnny, Horcynus Orca, Il quinto evangelio. Anche quello che mi sembra il romanzo italiano più notevole dell’ultimo decennio, Il suicidio di Angela B., è un “mostro”. Si tratterebbe di capire meglio il perché di questa narrativa sghemba, tortuosa, incapace di fare a meno d’un uso eccentrico, quando non eccedente, della lingua, incapace di raccontare senza raccontarsi. Ho il sospetto che c’entri Dante, ma per evitare di fare il passo troppo più lungo della gamba mi fermo.
@ Buffagni
Si figuri! Nessuno ce l’ha con la Bulgaria: avremmo potuto citare un altro paese, ma ora non stiamo a mettere nei guai il ministero degli esteri.
Sicuramente, il problema del perché in certe condizioni non si affermi una tradizione realistica, o perché quella tradizione non acquisti peso fuori dei confini nazionali, è un problema su cui val la pena riflettere. E se individuiamo come elemento costituitivo del realismo, a partire dall’Ottocento e per effetto del romanzo storico, il rapporto fra vicende collettive e distini singolari, ne consegue che dove non c’è storia, non c’è un realismo che stia in piedi. (Elemento costitutivo non vuol dire appalto esclusivo: lo stesso tema e modo di strutturare il racconto può stare in una narrazione spericolatamente modernista – Ulisse –, in una trasposizione fantascientifica, in un’allegoria utopica, in un’ecloga bucolica). Tuttavia, la storia, un po’ come la bellezza, sta pure negli occhi di chi guarda. Oltre al fatto che ci sono eventi storici che non hanno prodotto romanzo realistico: lasciamo stare la rivoluzione francese (era un po’ presto), ma citavo prima il caso del terrorismo e della conflittualità sociale nell’Italia dal Sessantotto a Moro. Converrà che quella non era solo cronaca.
Ora, ciò che mi colpisce è che nel realismo ipermoderno soprattutto italiano c’è, invece, un’enfasi di fedeltà alla cronaca che non si registra nel realismo della tradizione precedente. Stendhal o Flaubert o Dostoevskij non avrebbero potuto scrivere quel che hanno scritto senza che le gazzette gli offrissero materia; ma appena iniziavano a scrivere, abbandonavano la cronaca per renderla irriconoscibile. Oggi, invece, la fedeltà alla storia vera e ai nomi reali è esibita e diventa una parte costituitiva e pertinente del racconto: persino il genere che gioca di più a manipolare la realtà, cioè l’autofiction, non potrebbe funzionare senza riferimenti precisi e palesi alle cose come sono andate davvero.
Aggiungo che, con tanto parlare di globalizzazione, anche la scala della storia cambia: e questo dovrebbe cambiare anche il rapporto dei romanzieri con un mondo non più stretto ai confini nazionali.
@ dod
E ha bisogno di scomodare Jesi per andarci giù non con l’accetta, ma con la clava? Se poi vuol dire che che Saviano tende a presentare il suo discorso come politicamente trasversale o super partes, o che Saviano non può essere letto come un intellettuale impegnato marxista (come hanno sostenuto, e a ragione), lo dica: magari anche con parole sue. Lei mi cita a capocchia: nello stesso commento ho scritto che «non credo sia possibile collegarle [: le forme di realismo contemporaneo] a una qualche direzione politica. Non credo, anzi, che sia opportuno farlo mai, per nessuna corrente, in nessun tempo».
@ Macioci
Eh già. Anche se non mancano oggi romanzieri a loro modo realisti che sanno il fatto loro, resta il fatto che alcuni critici hanno un sospetto o un’avversione preventivi per il realismo.
@Donnarumma. lei scrive:
Ora, ciò che mi colpisce è che nel realismo ipermoderno soprattutto italiano c’è, invece, un’enfasi di fedeltà alla cronaca che non si registra nel realismo della tradizione precedente. Stendhal o Flaubert o Dostoevskij non avrebbero potuto scrivere quel che hanno scritto senza che le gazzette gli offrissero materia; ma appena iniziavano a scrivere, abbandonavano la cronaca per renderla irriconoscibile. Oggi, invece, la fedeltà alla storia vera e ai nomi reali è esibita e diventa una parte costituitiva e pertinente del racconto: persino il genere che gioca di più a manipolare la realtà, cioè l’autofiction, non potrebbe funzionare senza riferimenti precisi e palesi alle cose come sono andate davvero.
e mi trovo d’accordo, c’è un’aderenza ai dati reali, ai nomi e cognomi che diventa quasi un tic formale, da sbandierare ed esibire salvo poi negarlo, a volte con esibizione compiaciuta e a volte di nascosto, con un vago sentore di beffa sadica ai danni del lettore cui viene chiesto di fidarsi completamente (sto parlando dell’autofiction, per lo più).
Mi chiedo però se la scelta dei continui ed esibiti riferimenti precisi a una realtà extratestuale, negli autori “ipermoderni”, non implichi una constatazione del fatto che tali riferimenti sono di per sé segni di un unico grande “racconto finzionale”, mancante dell’oggettività che potevano avere i gazzettini di cronaca per flaubert o chi per lui. loro mistificavano una realtà sentita come granitica e oggettiva per ricrearne, nei loro romanzi, una “più vera del vero”, il cui corrispettivo pittorico potrebbe essere una grisaille. molti narratori ipermoderni invece, mi sembra utilizzino riferimenti “reali” trattandoli come dati testuali, della cui effettiva e univoca esistenza si può e si deve dubitare.
insomma mi pare che alcune fra le più interessanti tendenze della narrativa contemopranea considerino la realtà come un pozzo da cui attingono la benzina delle loro storie e come una narrazione non più verosimile di altre, con cui mettersi in competizione e confondersi, all’occorrenza; senza però ritenerla un punto di partenza imprescindibile distaccato nettamente dal livello della creazione romanzesca. il che, manco a dirlo, mi sembra un atteggiamento molto “postmoderno”, per usare le categorie usate in questo e altri dibattiti, e sottolineerebbe la continuità di una tradizione narrativa postmodernista con una cosiddetta “ipermoderna”. non so se sono riuscito a farmi capire…
postilla: partendo da quanto ho detto prima, a me pare che siano molti degli scrittori che più attingono al “pozzo della realtà” per le loro creazioni narrative, ad avere un’avversione preventiva per il realismo, che si esprime nelle forme di una rielaborazione auto- o eterofittizia. senza contare le critiche più esplicite; così a memoria, per esempio, la domanda irrelata e perplessa del personaggio Moresco nell’opera più “realista” dell’autore Moresco, “Lettere a nessuno” (1997): “Se esiste la realtà, come può esistere il realismo?”
Scrive Donnarumma:
“Ora, ciò che mi colpisce è che nel realismo ipermoderno soprattutto italiano c’è, invece, un’enfasi di fedeltà alla cronaca che non si registra nel realismo della tradizione precedente. Stendhal o Flaubert o Dostoevskij non avrebbero potuto scrivere quel che hanno scritto senza che le gazzette gli offrissero materia; ma appena iniziavano a scrivere, abbandonavano la cronaca per renderla irriconoscibile. Oggi, invece, la fedeltà alla storia vera e ai nomi reali è esibita e diventa una parte costituitiva e pertinente del racconto: persino il genere che gioca di più a manipolare la realtà, cioè l’autofiction, non potrebbe funzionare senza riferimenti precisi e palesi alle cose come sono andate davvero.”
Condivido appieno e domando: questa fedeltà, quest’aderenza quasi assoluta alla cronaca (in Italia in special modo) è a suo avviso il sintomo d’un deficit immaginativo? O viceversa è il segno d’una fantasia più “matura”, più consapevole e finanche più potente, capace cioè di giocare assieme alla realtà con una disinvoltura prima ignota? Oppure nessuna delle due, e cioè lei interpreta questo fenomeno come qualcosa di neutro, che non ha a che fare con la salute del nostro immaginario di scrittori?
ps: pensavo per esempio all’incredibile potenza e audacia della narrativa statunitense – DeLillo, Roth, Pynchon, McCarthy, McCann, Lethem, Wallace, Eugenides, Eggers, Auster, King, Irving, Moody, Franzen ecc – e pensavo altresì che negli Stati Uniti la cronaca (e bella grossa) non manca mai. Come si spiega?
a R. Donnarumma.
Sono d’accordo praticamente su tutto quel che dice.
Convengo che la stagione della lotta armata etc. non fosse solo cronaca: e infatti ho l’impressione che il romanzo storico che ne deriva sia il “realismo nichilista” di uno scrittore come Siti, o il romanzo visionario di Moresco. Quella parte della nostra storia è stata abortita con una violenza così brutale dalla rimozione ideologica (in primis dei coetanei dei protagonisti a loro vicini per opinioni politiche) che non ha potuto tradursi direttamente in romanzo storico, se non usandola come “prologo assente”, o trasfigurandola con la prospettiva deformante, o dicendola con l’anacronismo (“Una storia romantica” di Scurati parla di quegli anni, e con il Risorgimento non c’entra un tubo: ricordo ancora lo stupore e il nervoso che provai scoprendo che Scurati, con tutte le ricerche che avrà fatto, mi metteva in scena come protagonista un senatore del Regno corrotto che ha problemi a farsi rieleggere: quando il Senato del Regno non era elettivo ma di nomina regia).
Sul periodo della lotta armata rossa e nera è gravato, e grava, un diniego (una forclusione, direbbe Lacan) quasi altrettanto pesante di quello che pesa sul periodo fascista, sulla Seconda Guerra Mondiale, e soprattutto sulla RSI. Con una pressione sociale così forte per *non* dire, la vedo dura ricavarci un romanzo realistico. Neanche un bel romanzo d’avventura ci si ricava.
Per esempio, se le nomino Teseo Tesei, dubito che lei sappia chi è, se non si è arruolato nel Comando Subacquei Incursori, che è intitolato a lui. Eppure, dalla vicenda di Tesei si potrebbero ricavare sessanta romanzi d’avventura meglio di quelli di James Bond, con relativi film e serie tv; però, avendo egli avuto la sfortuna di combattere in una guerra per i caduti della quale non ci sono lapidi, i nostri adolescenti si possono emozionare con il soldato Ryan, ma con uno come Tesei, che di soldati Ryan ne valeva settecentomila, no.
Sull’attenzione microscopica alla cronaca del realismo ipermoderno ho un’ideuzza: che la cronaca è quel che resta della storia quando la storia *si disgrega*, cioè quando le viene a mancare il senso (buono o cattivo non conta). Se sfili l’ordito, resta la trama, la texture della stoffa, etc. Però non resta il capo di vestiario.
L’accenno alla globalizzazione è interessante; ho l’impressione però che prima che un romanziere realistico italiano l’abbia digerita, ce ne vorrà un bel po’; anche perchè l’unico modo in cui può digerirla, è attraverso l’assimilazione di quel che la globalizzazione ha significato e significa *per lui* e *per noi* (non è facile).
a dod.
No, mi riferivo al fatto che la realtà non è nè di destra nè di sinistra. Può esserlo chi ce la racconta, ma è se non l’ultima, la penultima cosa che mi interessa.
a E. Macioci.
Effettivamente, è un discorso annoso. Sarà perchè lo sono anch’io, anche se meno di La Capria.
@Lorenzo: se esiste Lettere a nessuno, però, è anche perché il vincolo che la voce d’autore instaura col lettore è ben più profondo di quello di un ordinario “personaggio che dice io”. E tiene alla prova dei fatti. Per esempio, l’autore non si perita di fare cinquento chilometri a piedi nell’arco di un mese, cosa che, se scritta così com’è senza portare prove documentarie a sostegno, farebbe pensare a una poco creativa e non realistica testualizzazione di se stessi.
Insomma, direi che il ragazzo si è guadagnato sul campo i galloni e lo statuto della sua parola è un’anomalia che satura ed eccede l’ordinaria distinzione tra autore empirico, personaggio mediatico, personaggio-personaggio, bestia da stile, eccetera. Che ne pensi?
@donnarumma
il dito e la luna: non è questione di ‘dirlo con parole mie’, non si rende conto che è assurdo prendere come esempio di ‘realismo’, di ‘ipermodernità’ o come la vuole chiamare Roberto Saviano, un non-scrittore creato dai media che si serve solo di schemi astratti manichei e di un’idea moraleggiante dello scrittore ”’civile”’?? e invece lei continua come se nulla fosse con i suoi teoremi, senza orrore di se stesso (questa invece è di petrolini)
@luca, ciao=) tu scrivi:
Se esiste Lettere a nessuno, però, è anche perché il vincolo che la voce d’autore instaura col lettore è ben più profondo di quello di un ordinario “personaggio che dice io”.
e mi trovi d’accordo. ho citato en passant moresco, difatti, proprio perché la creazione romanzesca di sé che attua in Lettere a nessuno muove da una, mi ricito, esplicita critica al realismo, per portare la vicenda a un piano, per così dire, superiore in cui sogni, ricordi, dialoghi ed esperienze vissute hanno pari dignità narrativa e richiedono al lettore di essere prese come ugualmente veridiche, urgenti e letterarie. il terzo aggettivo non contraddice i primi due: per moresco, mi pare, la letteratura è ragione di vita, come sottolinea a più riprese in Lettere e come dimostra la stessa struttura dell’opera; strutturata in apparenza come un diario, o meglio uno Zibaldone, ma alla fin dei conti un romanzo vero e proprio. su questo se vuoi ti scrivo in privato, onde non appesantire.
tornando a noi, è chiaro che quando parlo di scrittori contemporanei che scrivono in prima persona ed hanno un atteggiamento fortemente critico per il realismo, do per assodato che il rapporto della voce autoriale con il lettore sia ben più complesso di “un ordinario personaggio che dice io” (etichetta che, così irrelata, fatico a comprendere) e ciò mostra che, a conti fatti, non la pensiamo troppo diversamente.
ma mi rendo conto che in parte il fraintendimento è stato colpa mia: nel mio intervento del 25 gennaio h 17:12 ho fatto una distinzione, nelle mie intenzioni, innocua fra autore e personaggio, ma forse avrei fatto meglio a scrivere “narratore” invece che “personaggio”. non sei la prima persona che mi muove una critica a partire da quell’intervento, pensando che con ciò io abbia voluto effettuare una distinzione svalutativa degli intenti “parresiastici” di moresco, o trattare di attributi da me non considerati (personaggio mediatico, bestia da stile…), mentre non era quel che avevo in mente: volevo solo fare una piccola distinzione fra autore e narratore, comune in narratologia, dalla quale moresco, per quanti chilometri possa camminare, non è esente. tutto qui =)
@Lorenzo, capisco. L’equivoco viene dal senso e dalle armoniche di senso intorno alla parola “romanzo”, per cui più che scrivermi in privato, occorrerebbe…oddio, sai che non lo so? :)
a presto.
Si parla di tutti, in molti blog. Mai che si accennasse grandi scrittori del Novecento .Ortese e il suo realismo magico, visionario, il grande Tabucchi. E tutte le magnifiche scrittrici napoletane. Napoli .4 città. Grandi scrittrici ne hanno parlato, anche la Morante, prima di scrivere L’isola di Arturo’, La Ramondino, la Cilento Marosa Castaldi (Feltrinelli)
Lo farò io. E lo pubblicherò.
Tabucchi merita un discorso a parte, scrittore cosmopolita, che usa vari registri, dal romanzo al racconto, al romanzo epistolare., ai le reveries sui viaggi, al roman-journal.
@ Marchese
No, non credo affatto che «la scelta dei continui ed esibiti riferimenti precisi a una realtà extratestuale, negli autori “ipermoderni”, implichi una constatazione del fatto che tali riferimenti sono di per sé segni di un unico grande “racconto finzionale”». Se così fosse, saremmo ancora dentro un paradigma postmoderno: forse potrebbe essere vicino a un’ipotesi come questa Mazzarella. Sostengo al contrario che l’ipermoderno è tale perché non si arrende all’angoscia di derealizzazione. Faccio un esempio. Lei crede che l’esorbitare di dati documentari nelle Benevole di Littell stia lì per dirci che il nazismo e la Shoah sono racconti finzionali? Ha la stessa funzione delle enciclopedie squadernate da Borges e Pynchon? Oppure, prenda il Taccuino siriano citato da Mazzarella per il saggio di Giglioli (che purtroppo non ho letto). Là, la retorica dei nomi e dei dati sta precisamente ad attestare la veridicità del reportage. Anche se i fatti sono quasi ossessivamente doppiati dalla loro messa in video (c’è sempre qualcuno che filma le atrocità dello scontro e le posta su YouTube), questo non significa per nulla che i fatti si sciolgono nei pixel delle immagini digitali. Tant’è vero che a un giornalista belga che minimizza l’entità della strage governativa, Littell consiglia irosamente di guardare quei filmati per capire come davvero stiano le cose.
Moresco riprende una polemica inaugurata a inizio Novecento: nell’avversione alle forme codificate di realismo, conserva la sua fede, più ancora che nella realtà, in una qualche verità. Del resto, come nota bene Luca Cristiano, la posizione di Moresco è atipica in quello che io definirei un panorama ipermoderno (ma non estranea né marginale rispetto ad esso).
@ Macioci
Direi che possono darsi entrambe le risposte che lei avanza: povertà d’immaginazione e immaginazione che non si fa spavenatare dai fatti. A essere onesto, non mi vengono in mente libri che mi abbiano deluso per il primo motivo: magari erano così sciapi, che li ho dimenticati.
La domanda grossa viene nel poscritto. Come mai negli Stati Uniti, dove la cronaca non manca, non ne sono così succubi? Forse Buffagni le contesterebbe che quella è storia, non cronaca: o almeno, che gli scrittori americani la traducono subito in storia, visto che si sentono nel cuore dell’Impero.
Nella nostra periferia, tentativi analoghi sono più rischiosi: la distanza tra la cronaca e la storia, tra il particolare e il generale si colma a fatica e, ho a volte l’impressione, per velleità.
È del resto possibile che questa ossessione italiana per la cronaca e la realtà empirica sia una reazione agli anni del berlusconismo: lo sostiene F. D’Agostini, Menzogna, Bollati Boringhieri 2012. Penso anche io che, in generale, nel nostro paese la confusione tra reale e immaginario e il dominio della televisione (un medium, per altro, vecchiotto) siano stati più forti, più diffusi, più perniciosi che altrove. Chi arriva in ritardo alla modernità, sposa la postmodernità con un entusiasmo da neofita. Il berlusconismo sta in questo quadro, e va letto al di là delle vicende di Berlusconi e dei suoi governi. Anche per questo, credo, sostenere che tutto è fiction, che la verità non esiste e che il mondo si è polverizzato in favola non ha ormai alcun valore emancipatorio, e una capacità critica piuttosto debole. (È la tesi di Ferraris; e può essere una risposta ‘politica’ anche per Abate). Come diceva Diderot, «c’est sourtout lorsque tout est faux qu’on aime le vrai»; che potremmo aggiornare in: abbiamo fame di realtà perché per così lungo tempo abbiamo temuto che tutto fosse falso (e non ci siamo ancora ripresi dallo spavento).
@ Buffagni
In realtà sugli anni di piombo e sulla strategia della tensione ci sono dozzine di romanzi: ma se va bene, raccontano l’incomprensione di quanto stava accadendo; oppure, trasformano i fatti in materiali di una favola picaresca ispirata da nostalgie per un’età eroica perduta. Ormai ci sono vari studi in materia, e confermano un’insufficienza che ha poche eccezioni (per me, Sciascia, Balestrini, Petrolio di Pasolini, poco altro).
Sono d’accordo con lei: la cronaca sono i fatti senza Storia, cioè i fatti che offrono materia di racconto senza un ordine, una continuità o una discontinuità nella quale essere letti. Non a caso romanzieri tanto diversi come Siti o Moresco saltano dalla cronaca a un’universalità che sa di metastorico («io sono l’Occidente») o alla visionarietà sonnambolica che esce dalla storia (Gli esordi – Canti del caos). Proprio questi casi, però, dimostrano che la pluralità di piani da giocare per dare spessore a un racconto non è necessariamente quella cronaca-Storia: e credo che in quello spazio possano stare anche forme di realismo narrativo. Si tratta, in ultima analisi, di mettere in relazione (non necessariamente di riscattare) il particolare concreto con un qualche sovrasenso. Non escluderei, insomma, un realismo fuori della Storia.
Vediamo intanto come si muove la generazione che nella globalizzazione è nata: di certo, come lei osserva, non è facile.
@dod
Lei dev’essere di quelli che solo a sentir nominare Saviano cascano in terra scalciando per le convulsioni. Come contributo a questa discussione, mi sembra miserello. Che Gomorra sia realista e ipermoderno o meno, prescinde dal fatto che sia l’opera struggente di un formidabile genio o un volantino fotocopiato per far soldi – non essendo nessuna delle due cose. Non sono ancora arrivato a farmi orrore: ai miei occhi non giganteggio come ai suoi. Lei pure, del resto, mi cava tutt’al più uno sbadiglio.
a R. Donnarumma.
Qualche anno fa, Piero de Bernardi mi raccontava come avevano scritto, lui e Leo Benvenuti, la sceneggiatura di “Amici miei”. Ci lavoravano ormai da un bel po’, con l’imbarazzo della scelta tra i mille episodi di reali beffe della combriccola di picari a cui è ispirato il film, e tutto filava liscio.
Di punto in bianco, Benvenuti si chiese: “Ma questa storia, come finisce?” De Bernardi gli ribattè: “Finisce, che uno muore.”
E in effetti, se uno degli adorabili picari, ultima o penultima incarnazione dei tipi della Commedia dell’Arte (ultimo genere autenticamente nazionale che abbiamo conosciuto e probabilmente conosceremo) non morisse, la storia di “Amici miei” potrebbe andare avanti in eterno, sempre uguale e sempre diversa.
Ecco: la differenza fra cronaca e storia, come tra comico e tragico, è questa.
Le cose che accadono possono essere le stesse, ma la storia e la tragedia (cioè lo sguardo e la personalità di chi le vive) le vivono al cospetto di una morte che *dà loro significato e senso*, e non di una morte che serve solo a dire basta così.
La storia e la tragedia non sono solo politiche, certo; anche se la politica è la dimensione elettiva della storia e della tragedia. Saltare la politica è possibile, a volte obbligatorio (quando, ad esempio, la politica come storia non c’è, come oggi da noi). Si salterà allora a capofitto nella religione, comunque denominata (“la verità” di cui le pare in cerca Moresco, che ripete, in questo, la scelta obbligata di Testori).
Altrimenti, c’è la storia come “storia del servo” (il tentativo della Morante, il primo Pasolini, i tanti dialettali) per la quale è già pronta la nobile e lunga tradizione del teatro e della lingua napoletana.
La “storia del signore”, cioè la storia vista e partecipata da chi se ne possa assumere la piena responsabilità (che richiede la lingua nazionale) ha bisogno della progettualità politica e dell’indipendenza della nazione: e questa, quando non c’è non te la puoi dare.
Ho sempre trovato non casuale che tanti reduci della RSI (Walter Chiari, Raimondo Vianello, Ugo Tognazzi) si siano rifugiati nel teatro di varietà, luogo d’elezione del frammentario, del comico, del servo…
No, non credo affatto che «la scelta dei continui ed esibiti riferimenti precisi a una realtà extratestuale, negli autori “ipermoderni”, implichi una constatazione del fatto che tali riferimenti sono di per sé segni di un unico grande “racconto finzionale”». Se così fosse, saremmo ancora dentro un paradigma postmoderno: forse potrebbe essere vicino a un’ipotesi come questa Mazzarella. Sostengo al contrario che l’ipermoderno è tale perché non si arrende all’angoscia di derealizzazione. Faccio un esempio. Lei crede che l’esorbitare di dati documentari nelle Benevole di Littell stia lì per dirci che il nazismo e la Shoah sono racconti finzionali? Ha la stessa funzione delle enciclopedie squadernate da Borges e Pynchon? Oppure, prenda il Taccuino siriano citato da Mazzarella per il saggio di Giglioli (che purtroppo non ho letto). Là, la retorica dei nomi e dei dati sta precisamente ad attestare la veridicità del reportage. Anche se i fatti sono quasi ossessivamente doppiati dalla loro messa in video (c’è sempre qualcuno che filma le atrocità dello scontro e le posta su YouTube), questo non significa per nulla che i fatti si sciolgono nei pixel delle immagini digitali. Tant’è vero che a un giornalista belga che minimizza l’entità della strage governativa, Littell consiglia irosamente di guardare quei filmati per capire come davvero stiano le cose.
ho ripensato alla questione, e cambierei un paio delle cose che ho scritto pur rimanendo, di base, alla considerazione del mondo, per questa nuova classe di narratori, come “grande racconto finzionale”. Sia per loro desiderio sia malgrado loro stessi. Questo perché, mi ricollego in parte all’intervento cui lei risponde, credo che il narratore “ipermoderno” fronteggi nella propria pagina la derealizzazione del reale, la sua riduzione a testo e la sua conseguente perdita di credibilità con uno spirito sì angosciato (o con le “vertigini”, come le chiamava Covacich http://www.sparajurij.com/tapes/azioni/letteraturarealta.htm), sì responsabile e meno ludico degli enciclopedisti Borges e Pynchon, ma usi strategie derealizzanti, proprie della fiction, per esprimere la propria angoscia.
Penso ad esempio che sia questo ad essere particolarmente affascinante in Gomorra, l’aderenza a una realtà sotterranea e maleodorante, ad altezza d’uomo quindi con effetto presa diretta, raccontata con modi sovente romanzeschi, basti pensare al finale dell’opera che è una citazione dichiarata da un film, o a tante “scene” dello stesso. O anche Littell: non ho letto il Taccuino Siriano, e mi riprometto di farlo, ma scrivendo Le Benevole lui non ha inteso fare un reportage o uno studio storico, sebbene dal punto di vista di un possibile protagonista. Con un dettaglio da romanzo storico, ha creato una storia completamente fittizia e spesso anche fantastica, citazionista, iperletteraria. Che poi abbia mirato, efficacemente, a porsi non all’interno del Grande Racconto Finzionale (lo gonfio per dargli un aspetto da Morte Nera che non nuoce all’effetto =) ) ma a sottolinearne, dall’interno, le sue aporìe, è un altro discorso. Non è un discorso da poco, chiaro…
A tal proposito, rettificherei parzialmente quello che ho detto in un post precedente. avevo scritto:
insomma mi pare che alcune fra le più interessanti tendenze della narrativa contemopranea considerino la realtà come un pozzo da cui attingono la benzina delle loro storie e come una narrazione non più verosimile di altre, con cui mettersi in competizione e confondersi, all’occorrenza.
modificherei la definizione della realtà per questi scrittori come “la narrazione, voglio crederci, più verosimile di altre”; mentre è innegabile che, vuoi per vertigini vuoi per altre motivazioni (esigenza di verità, come in Moresco? probabile) che ora è troppo lungo ricatalogare, i narratori più interessanti oggi cerchino di mettersi in una competizione proficua e rischiosa con la realtà, con le narrazioni “realistiche” che di essa si fanno.
spero con questo di aver risposto anche @luca; su moresco avevo buttato giù un paio di linee intorno a questo discorso, magari più avanti ve le scrivo.
@lorenzo: sì, mi farebbe molto piacere leggerle.
Mi dispiace che si torni a parlare di realismo in letteratura, continuo a credere nella grande critica – quella di Garboli, di Citati – così come nelle grandi opere. Indirizzare gli scrittori non verso lo studio delle grandi opere ma verso il realismo, categoria così onnicomprensiva, mi pare per lo meno imbarazzante, bisognerebbe invece suggerire loro di acquisire uno stle personale e di opporsi alle case editrici che impongono editor o lezioni presso scuole di scrittura per polli in batteriai. Ritengo il realismo di Vittorini, Calvino e poi di Tondelli colpevole di aver insegnato agli scrittori giovani la sciatteria. I più grandi scrittori del secondo Novecento sono la Morante, Bufalino, Manganelli, Flaiano che avevano una cifra di eleganza indconfondibile, inimitabile. Lo scrittore deve essere inimitabile, nella tecnica, nello stile. L’adesione al reale è spontanea, lo scrittore non può fare a meno del reale! Dovrebbe invece stare attento a non scambiare il realismo con la scrittura di genere, visto che molti oggi sostengono imprudentemente che la letteratura noir è quella che racconta meglio il nostro tempo. Poveri noi!
Donnarumma si chiede: “sino a quando dovremo cantare le canzoni di Derrida”? La risposta mi pare ancipite, ma molto semplice: per un verso fino a quando continuerà ad esistere il mondo di cui parla Derrida (e non siamo manco e per niente fuori dalla postmodernità: non vi sono motivi strutturali per crederlo, né le risibili tendenze filosofiche recenti rappresentano segni del contrario); per un altro verso finché un pensatore altrettanto geniale non sarà in grado di interpretare il nuovo mondo in maniera tanto efficace. Per capire la contemporaneità, ancora oggi, Derrida è un pensatore insostituibile (come dire che se il pensiero critico continua ad adottare “categorie novecentesche” è perché la realtà economica e dunque sociale e dunque estetica del mondo in cui viviamo è, in profondità e in sostanza, immutata). E chi fosse convinto della barzelletta luperiniana della fine del postmoderno dovrebbe accendere la televisione invece di leggersi Flaubert.
@ Fastelli
Donnarumma si chiede un sacco di cose. Chacun sa chimère, del resto (o anche a Baudelaire va preferita la televisione?). Derrida non è i suoi remakers; e del resto ammirarlo non significa attenersi a lui come al Corano (cfr. M. Ferraris). Anche Hegel e Platone sono insostituibili.
Ma il postmoderno dura quanto il cenozoico?
Il postmoderno dura finché non c’è una modificazione strutturale. Come qualsiasi altro periodo storico: è che, drammaticamente, si fa ancora molta confusione, tra le tantissime cose che narcisisticamente ci si chiede, nel distinguere le tendenze estetiche dalle logiche culturali. Non è questione di preferire, è questione di comprendere.
@ Fastelli
Mi perdoni: ma guardi che ho scritto più volte che l’ipermoderno è un cambiamento culturale, non strutturale (sebbene non ami troppo la nozione di struttura, visto che finisce per implicare quella non troppo felice di sovrastruttura). Per carità: mica è tenuto a leggermi; ma se l’avesse fatto, si sarebbe risparmiato il dolore di vedermi perire nel dramma della confusione e del narcisismo (e perché, poi, narcisista?).
Io la perdono volentieri (una volta si diceva: sarà colpa mia, non sarò stato sufficientemente chiaro… anche quella era una forma di narcisismo). Rispondevo semplicemente alla sua battuta sulla durata della postmodernità: se l’ipermoderno è un “cambiamento culturale” e non strutturale converrà che la postmodernità non è finita. Ma se con “cambiamento culturale” intende “logica culturale” nel senso di logica della produzione culturale (vede che la nozione di sovrastruttura, troppo spesso denigrata, torna poi comoda, talvolta) allora la categoria di ipermoderno, a me pare, spiega ben pochi fenomeni perché (ma ovviamente è ideologia) un cambimento di logica culturale presuppone una modificazione strutturale che non è mai avvenuta. Comunque mi scuso per essermi evidentemente perso alcuni passaggi del suo discorso. Cordialmente.
@ Fastelli
Meno male! Però, quella secondo cui «un cambiamento di logica culturale presuppone una modificazione strutturale» (cioè debba presupporla) è una comoda superstizione dello storicismo volgare. Anche Bourdieu, tanto per dire, è un pensatore imprescindibile; ma basterebbe la nozione marxiana di ideologia a impedire l’equazione «muta la struttura» = «muta la sovrastruttura» (con il calamitoso reciproco: «se muta la sovrastruttura, allora è mutata la struttura; altrimenti non è mutato nulla»). Se poi lei crede che l’aria che si respira nel 2014 è gratta gratta la stessa che si respirava nel 1984, gratti un po’ di più, e vedrà che in fondo lei ed io siamo come un australopiteco. Buon fine settimana!
Gentile Donnarumma, poi con questa chiudo, e la ringrazio per la pazienza. Io credo che le modificazioni storiche siano tali non perché determinano una serie di perdite o una serie di acquisizioni ma perché modificano i parametri con cui si misurano perdite e acquisizioni. Se questo fa di me uno storicista superstizioso, va benissimo, sono in ottima compagnia. Credo che non si debba banalizzare l’idea di logica culturale, la cui lontana antenata è proprio la nozione di ideologia definita da Marx ne L’ideologia tedesca (sì, perché poi, quando lei dice “la nozione marxiana di ideologia” si dovrebbe anche chiarire a quale Marx si riferisce, perché, lei sa bene, la nozione di ideologia nel significato di falsa coscienza non solo muta nel tempo, ma è pure talvolta autocontraddittoria). Comunque convengo sul “calamitoso reciproco” (se muta la sovrastruttura è mutata la struttura): l’idea stessa che le idee abbiano una vita autonoma, separata dalla struttura economica e dunque dalla composizione sociale e dunque dai bisogni estetici della classe dominante è per me (e sarebbe per Marx) falsa coscienza, nonostante quello che spiegano i compendi e i riassuntini della nostra epoca postmoderna, e nonostante tutti i distinguo posti da Marx nel corso degli anni. Ma qui si dovrà intendere pure qualcosa di più, e cioè riflettere meglio sulla natura profondamente politica del giudizio estetico, come base unica dell’autoriconoscimento della classe dominante.
@ Federico Fastelli. La critica d’arte è un po’ come il commercio prima della diffusione del sistema metrico decimale. Per misurare la distanze fra le cose, ognuno usa misure un poco diverse. Mi chiedo però se non ci si possa intendere almeno sull’ordine di grandezza – come immagino accadesse ai mercanti. Ad esempio, se si prendono due trailer cinematografici come punti di riferimento, la distanza che separa il 1994 da quella del 2014 mi sembra molto grande:
1994: http://www.youtube.com/watch?v=GFhadqrMPiU
2014: http://www.youtube.com/watch?v=z02Ie8wKKRg
Gentile Alessio Baldini,
scusi, ma la distanza che separa il trailer di Pulp Fiction da, che ne so, quello di Film Rosso di Kieslowski (sempre del ’94) non le pare altrettanto grande? Non vedo inoltre come tale distanza, quella che lei mi mostra con i due trailer linkati, possa accordare la mia visione a quella di Donnarumma. In ogni caso la ringrazio per avermi fatto rivedere il trailer di Tarantino dopo tanti anni… Cordialmente, f
@ Federico Fastelli. Certo, lei ha assolutamente ragione. I cambiamenti storici sono fatti non tanto di soglie, ma di faglie che si sovrappongono. Inoltre, ogni strato dello spessore storico è plurale – e alcuni strati hanno una lunghissima durata. Eppure, a me sembra che un film come “12 Years a Slave” non sarebbe potuto uscire nel 1994 o, anche se fosse uscito, non avrebbe potuto essere uno dei film più importanti e discussi del 1994. Per fortuna, esistono la non-contemporaneità del contemporaneo e la pluralità estetica – e ogni persona ha diritto di vivere nell’atmosfera culturale che rappresenta la sua idea di buona arte. Non c’è perciò bisogno di parlare di uscita dal postmoderno o postmodernismo; però avevo sperato di convincerla che c’è anche qualcosa di nuovo sotto il sole. Pazienza, se non ci sono riuscito! PS: ho adorato Pulp Fiction quando è uscito ed è tuttora uno dei miei film preferiti!