cropped-cropped-colourful_chavs_by_micfoto-d41ln54.jpgdi Cristina Marconi

[In questi giorni LPLC si prende una breve vacanza pasquale. Per non lasciare soli i nostri lettori, continueremo a pubblicare la playlist del sabato e ripubblicheremo alcuni vecchi post. Questo articolo di Cristina Marconi è uscito il 16 gennaio 2013].

Qualcuno sul Daily Telegraph l’ha chiamato il ‘Justin Bieber della sinistra inglese’, a riprova che il pregiudizio anti-giovani non è solo cosa italiana. Resta il fatto che a 28 anni Owen Jones il suo libro l’ha pubblicato e da più di un anno Chavs – The demonization of the working class (Verso 2011) è in cima alle classifiche dei titoli più venduti e la sua tesi principale, ossia che l’odio di classe sia l’ultimo pregiudizio socialmente accettabile per i britannici, lo ha fatto diventare uno degli intellettuali più influenti a sinistra. Il titolo del libro di Jones contiene due parole poco traducibili. ‘Chav’ vuol dire grossomodo ‘burino’, ‘tamarro’, ma ha una connotazione più sociale che estetica rispetto alla versione italiana, mentre ‘working class’ in questo caso si può rendere con un desueto ‘proletariato’, visto che il libro tratta proprio della scomparsa della classe operaia per mano di Margaret Thatcher. Secondo Jones – nato nell’operaio Nord da una famiglia middle class, laureato a Oxford – la mobilità sociale in Gran Bretagna è scarsa, se non inesistente, ma migliorarla è un’illusione, che porterebbe comunque benefici solo ad una minoranza. Quello che bisogna fare innanzi tutto è invece conferire una nuova dignità ai ceti più bassi, costantemente rappresentati dai media e dalla pubblica opinione in termini talmente negativi da apparire quasi caricaturali.

Difficile, quasi impossibile durante una cena di intellettuali di sinistra a Londra, sentire discorsi razzisti, omofobi o sessisti, ormai censurati da decenni. Più facile che qualcuno si lasci invece sfuggire qualche commento offensivo nei confronti dei ‘chavs’, dei ‘cafoni’, senza che questo susciti imbarazzo alcuno. E non è niente rispetto a quello che succede altrove. Ci sono lussuose palestre della capitale britannica che cercano di incoraggiare nuovi facoltosi iscritti promettendo allenamenti ‘anti-tamarro’, o agenzie di viaggi online che negano le prenotazioni a tutti i Wayne, Chantelle, Britney e simili in modo che i clienti middle class come gli Alice, Charles e Joseph non siano costretti a condividere le vacanze con persone troppo diverse da loro. La stampa, da parte sua, fa di tutto per rimandare l’immagine più negativa possibile dei ceti bassi, descrivendone principalmente i lati delinquenziali, quando non si limita ad ignorarli del tutto. Secondo Jones la ragione di questo atteggiamento è semplice: i giornalisti sono tutti di estrazione medio o alto-borghese, come capita in tutti i mestieri in cui ci sono stages non pagati e stipendi molto bassi all’inizio, e non hanno idea di come sia in realtà il mondo dei ‘chavs’. Non c’è immedesimazione possibile, non c’è comprensione, e alla fine quello che resta è solo ignoranza e odio.

Insieme a Margaret Thatcher e ai suoi tentativi di negare il sistema delle classi sociali con dichiarazioni come ‘non esiste la società, esistono solo gli individui e le famiglie’, al centro delle critiche di Jones c’è il New Labour, che ha cercato di dare al problema degli ex operai rimasti senza fabbriche e senza identità una risposta ‘aspirazionale’. Il punto più controverso del libro è forse proprio questo: l’autore pensa che promuovere la mobilità sociale non sia la soluzione, o almeno non l’unica, poiché quello della working class è un problema di identità, persa al momento della chiusura delle grandi industrie del Nord del Regno Unito, e di rappresentanza, dovuta al fatto che i sindacati sono deboli e che la stragrande maggioranza, se non addirittura la totalità, dei politici e dei giornalisti non è in grado di esprimerne le istanze, di dar voce a delle persone che vengono costantemente descritte come avide sanguisughe del sistema di welfare, ancor più dopo episodi come i riots dell’estate del 2011. Che un figlio di ex-operai possa fare una carriera brillante non cambia la situazione complessiva della classe ex-operaia, che passata dalle fabbriche alle casse di un supermercato non ha più trovato una propria direzione. E questo, secondo Jones, è un problema eminentemente politico, e non individuale come direbbe la Thatcher. Per questo la demonizzazione dei ‘chavs’ è solo un tentativo di rimuovere e negare una questione a cui non si è saputo dare una risposta valida.

Il sistema britannico di classi sociali è più netto e definito di quello che c’è in Italia e per certi versi le due situazioni sono poco paragonabili, anche perché in Italia le classi operaie sono sempre state trattate con rispetto dalla stampa (per certi aspetti quello che vale per i chavs nel Regno Unito è molto più simile al modo in cui vengono rappresentati gli immigrati). Ma in una stagione in cui molte grandi realtà industriali sono in crisi e il loro futuro è incerto, il libro pone alcuni problemi sui quali riflettere attentamente: una crisi economica è una crisi d’identità, e se la prima si può risolvere, la seconda rischia di trascinarsi per molto tempo e portare a risultati disastrosi nel lungo termine. Come soluzione, Jones vagheggia però un ritorno ad un passato industriale con una classe operaia ipersindacalizzata in grado di far ascoltare le proprie istanze. L’istruzione non può essere una soluzione unica, a suo avviso, perché crea disuguaglianze e ripropone il problema di cosa succede a chi rimane escluso dal sistema meritocratico. Ma si possono ricomporre comunità intorno a fabbriche che non ci sono più? E cosa avviene con la underclass urbana emersa prepotentemente durante i riots? A voler ragionare secondo i termini classici delle ‘classi sociali’ e nella ricerca di una soluzione univoca, Jones ci regala pagine avvincenti e un’analisi lucidissima e molto chiara, in cui qualche sfumatura, forse per amor di ideologia, rischia però di perdersi.

[Immagine: micfoto, Colourful Chavs (gm) – http://micfoto.deviantart.com/art/Colourful-Chavs-244554088]

15 thoughts on “Burini. La demonizzazione delle classi popolari in Gran Bretagna

  1. Hitler dava la colpa agli ebrei, gli italiani accusano gli immigrati (i politici però aggiungono anche le indagini dei magistrati rovinano l’economia) e gli inglesi definiscono sanguisughe i lavoratori. È facile dare la colpa agli altri, così come è semplicissimo trascinare sempre più persone nel baratro del pregiudizio. Non conosco il libro di Owen Jones, ma dopo un simile articolo lo leggerò sicuramente.

  2. se esiste una memoria collettiva e quindi una coscienza collettiva, forse è possibile
    ipotizzare un senso di colpa comune che allontana la radice dello stesso e che quindi
    produce rifiuto e rimozione demonizzando il prodotto della propria azione.
    questo, se vero, succede a livello economico dove i possessori di privilegio e ricchezza,
    acquisita grazie a procedure finanziarie/digitali, non ”spartiscono” e spariscono, relegando
    coloro che sono stati succhiati al midollo fino a privarli del lavoro stesso, in un’area
    fisicamente riconoscibile, esteticamente definibile, anzi, pre-definita dai loro stessi commerci.
    una memoria laica non avrebbe bisogno di demonizzare, anzi non sarebbe giunta a tali
    condizioni, ma una ”coscienza” cattolica, ancorché protestante, ha bisogno dell’antagonista
    malefico per giustificare, appunto, il proprio senso di colpa e purificarlo.
    anche gli illuministi, politici populisti e sinistra sindacale, però, si arroccano: condividono
    punti vista e producono giudizi offrendo apparenti soluzioni, ma senza innescarle.
    l’unica differenza riscontrabile tra le parti, è nelle modalità di gestione delle apparenti riforme unicamente legislative.

    grande è la stasi. si va a fondo come fosse niente.

    la forbice si allarga a dismisura
    e la ferita è lacero contusa
    tagliente quella lama configura
    separazione che non verrà chiusa

    c’è una ricchezza nata dall’usura
    e che produce realtà confusa
    la scomparsa del reddito è matura
    tra gli operai sempre più diffusa

    la vita digitale non sutùra
    la classe media vive alla rinfusa
    e il codice binario è la chiusura

    la solidarietà non è futura
    lo scontro tra le classi fa le fusa
    al governo c’è solo la paura

  3. Disegnare l’antagonista malefico e’ una tentazione irresistibile, che qui puo’ contare anche su una netta segregazione geografica tra ricchi e poveri. Certe realta’, nei paesi anglosassoni piu’ che altrove, non si sfiorano quasi mai, e la stampa puo’ raccontare quello che vuole delle classi subalterne, oppure limitarsi a tratteggiarne caratteri e comportamenti solo in casi estremi come gli omicidi o i fattacci di cronaca. Qualcuno mi diceva che lo stesso caso di Jimmy Savile può essere interpretato seguendo la logica del senso di colpa e della cattiva coscienza delle classi alte: era il chav che ce l’aveva fatta, l’unico, e per questo nessuno ha mai osato accusarlo delle sue enormi colpe. Non sono sicurissima che sia andata cosi’, ma e’ interessante che un inglese possa pensarlo.

  4. una ”coscienza” cattolica, ancorché protestante

    Questo si chiama aver le idee chiare.

  5. In tedesco esiste il termine spregiativo “Prolo” (nome) e “proll” (aggettivo). La derivazione – e quindi il classismo puro – mi sembra trasparente.

  6. Ho fatto 5 anni in UK e la vita, al di fuori del circolo white & international che si raccoglie intorno alla Londra metropolitana, alle multinazionali e alle Universita’ red brick, e’ molto dura. Interi quartieri dormitorio, etnie molto diverse a contatto, criminalita’ di quartiere e di gang che rende impossibile uscire di casa -se non si abita nel pieno centro cittadino- gia’ dalle 9 di sera. I chavs sono indigeni doppiamente intenagliati: da una parte dai posh e dai ricchi col loro stesso colore di pelle che li discriminano per via di censo, dall’altra da tutti gli “altri” con i quali sono costretti a coabitare e dividere una quotidianita’ miserabile in un territorio di cui si sentono usurpati.

  7. A Londra ci si sfiora appena, lo so. E’ sicuramente la città apparentemente più sicura nella quale abbia mai vissuto. Merito delle CCTV, immagino, e dei sistemi elaboratissimi che i britannici hanno per evitarsi anche quando vivono a pochi metri di distanza. Hai letto ‘Chavs’, fu GiusCo? Cosa ne hai pensato?

  8. Non ho letto “chavs”: non conoscevo il libro e ho cercato in rete dopo aver letto qui. Istruttiva la nutrita lista di recensioni al libro su amazon.co.uk, che restituisce uno spaccato abbastanza verosimile del tessuto sociale britannico.

    Mi riferivo alla gente che ho conosciuto nelle Universita’ e nelle citta’ dove sono stato, cioe’ a Birmingham e Manchester: i “cleaners” tutti neri… gli “steel workers” tutti bianchi e molto dignitosamente underclass… i “lab technicians” spocchiosi come pochi e veri chav… i dottorandi, i post doc e i lecturer da ogni parte del mondo, con rappresentanza indiana e cinese in forte crescita… i full professor quasi tutti rigorosamente inglesi… i gestori di negozi e negozietti tutti asiatici e divisi fra indiani (onesti e gentili) e pakistani (truffatori e scortesi)… i tanti cinesi che non si capisce dove prendano i soldi che hanno, visto che non lavora nessuno… i tanti ragazzini indigeni che lavorano nel customer service e nei supermercati… le tante donne, donnine e donnette che lavorano nel giornalismo, nelle charity e nella letteratura con i soldi dell’arts council… gli oxbridge che occupano i posti chiave nei media e nelle amministrazioni… i guidatori di autobus che sono in buona parte dell’Europa dell’Est, con folta rappresentanza italiana… gli hooligan senz’arte ne’ parte che bazzicano le sale giochi… i beggar indigeni seduti ai bancomat che, una volta, a Manchester, hanno organizzato un raid con bastoni e mazze ferrate contro dei ROM che avevano rubato loro le strade e i posti migliori per l’elemosina.

    Voglio dire che in Regno Unito ci sono tanti mondi separati e che e’ difficile entrarci in contatto diretto, se non quando si perde l’identita’ col proprio… dinamica veloce soprattutto dall’alto verso il basso, quando ad esempio ti scade il contratto di lavoro e diventi un paria da un giorno all’altro. L’Italia ha tanti problemi, ma la colla sociale tiene ancora, quasi nessuno muore di fame e quasi nessuno e’ un escluso per definizione.

  9. Bella descrizione, molto netta, grazie! In Italia abbiamo tante cose da tenere care e da rivalutare, tra cui il modo di stare insieme e di convivere, sia pure in modo imperfetto. Sul mio blog scrivevo pochi giorni fa della brutta storia di Julie Burchill, editorialista dell’Observer, personaggio che un tempo avrei detto progressista, prendere a male parole in un pezzo i transessuali colpevoli di aver insultato una sua amica femminista. L’idea di rispetto che emerge da una storia come questa è solo formale e si basa unicamente sul non dire per non sbagliare, invece che sulla comprensione. Ciò detto i britannici cercano di migliorarsi, mentre noi da un po’ di tempo abbiamo smesso.

  10. Ciao Cristina,
    Il tuo articolo è molto interessante, soprattutto perchè solleva delle questioni, presenti e determinanti nella nostra epoca, di cui poco si parla: quanto è cambiata la società, quanto sono cambiate le classi sociali (in particolari i ceti popolari e il mondo del lavoro) da quando, in occidente perlomeno, l’organizzazione del lavoro e dell’economia si sono trasformate dalla fine dei Trenta Gloriosi come si dice in Francia?
    Questo passaggio, gli anni Ottanta -epoca o glorificata come la nascita di un nuovo mondo e di una società più fluida o disprezzata come fine delle “Utopie”- sono spesso poco studiati, tanto come fase di esplosione di importanti fenomeni culturali quanto come importante passaggio della contemporaneità (dico questo da studente di storia che cerca di affrontare questo periodo con le sue ricerche). Dell’esistenza di questa sorta di tabù, chi ne paga il prezzo più alto è la sinistra che lascia cadere una fase della sua storia che considera macchiata dalle fosche tinte della sconfitta, con il risultato di vedere la propria analisi monca.
    Il contributo di Owen Jones, per quanto forse provocatorio o povero a livello di analisi in alcuni punti, sembra essere interessante e diretto a coprire proprio questo vuoto e per questo mi piacerebbe molto leggere qualcosa di suo.
    Purtroppo mastico molto poco l’inglese e quindi farei fatica a leggere un testo che magari usa anche riferimenti allo slang e al parlato della quotidianità: sapresti per caso indicarmi dei suoi articoli sull’argomento, che magari possono essere meglio affronatbili data la maggiore brevità del testo?
    Sai per caso se questo lavoro è stato tradotto in francese (lingua che pratico molto meglio)?
    Ti ringrazio per l’attenzione

  11. L’ultimo film di Ken Loach, secondo me, mostra molto bene queste cose. ( Se qualcuno non l’avesse visto, lo consiglio).

  12. Ma state ancora ricorrendo gli anglofoni, convinti di avere ancora un’ impero. Che non respirano piu se la babbiona che li comanda perde un pelo di struzzo dal cappellaccio. Mma state ad ascoltare un popolo che si nutre come i porci, e che ha una montagna di obesi. Se ai britofoni togliete la carta da culo che stampano a londra devono nutrirsi del cappello della babbiona. ma dai lasciateli perdere.

  13. “Qual è la tua risposta affermativa?” Diceva un noto attore in un film (“la bisbetica domata”),rimarcando l’impossibilità di un vero contraddittorio che non sia conflittuale. E’ questo il criterio imperante, una forma allargata d’ignoranza…Perché è il pregiudizio che ne segnala la presenza. C’è tanta gente colta che ha figli senza identità esattamente come l’operaio che ha perso il lavoro e la sua concezione di vita. Superare l’orgoglio di ESSERE (sempre ingiustificato) e considerarsi soltanto esseri umani è la conquista più difficile. Chi ci riesce è VERAMENTE UNA PERSONA SUPERIORE!

  14. La cosa che mi lascia più perplessa della posizione dell’autore – di cui certamente leggerò il libro – è che migliorare la situazione della working class sia “un’illusione”, e quindi dobbiamo preoccuparci solo degli aspetti morali della questione. Mi chiedo: cosa ce ne facciamo di una società profondamente classista, in cui però le classi si rapportano fra loro con tanta buona educazione? Benché la questione posta sia importante, il problema va ben oltre il “politically correct” e non basta fermarsi a questo livello. Ovviamente non faccio un’apologia dell’odio di classe: dico solo che il vero problema sono le classi, non i modi per camuffarle.

  15. Mi appare piuttosto interessante la lettura proposta. Mi sembra che, anche se non espressamente, vi sia un richiamo all’approccio anilitico e interpretativo della tradizione dei cultural studies. Ritengo sia centrale la questione sollevata dall’autore, che – piuttosto che morale – definirei normativa. Le classi, nella loro riproduzione sociale, ingaggiano con la cultura dominante una lotta simbolica che ha come posta in gioco le possibilità della ridefinizione del rispetto di sè. Questo avviene mediante dinamiche conflittuali che si collocano presso un livello diverso da quello che caratterizza la mera rivendicazione redistribuitva e materiale. Si inaggiano lotte e resistenze simboliche al fine di riaffermare la proprian dignità; al fine di riattivare relazioni riconoscitive, le quali costituiscono il presupposto irrinunciabile della continua definizione di valori, credenze, stili, comportamenti e linguaggi. In questi termini la autonoma capacità normativa della classe oppressa diventa orientamento verso una risignificazione etica, estetica e sociale.
    Per quanto riguarda l’Italia, con tutte le dovute differenze, non sarei così sicuro che non vi siano in atto processi affini a quelli descritti in riferimento al contesto britannico. Basta pensare al pervasivo discorso pubblico di disprezzo nei confonti di coloro che subiscono primariamente gli effetti della crisi, dai disoccupati ai giovani precari della consocenza. Per non parlare dello strisciante populismo razzista. Possiamo fare poi riferimento a tutta la retorica del decoro come forma socialemnete accettabile del disperzzo. Per non parlare di fenomeni sempre più diffusi e marcati, come ad esempio quelli riconnessi alla questione abitativa, con gli sfratti che interessano zone sociali sempre più estese e non coincidenti con le “vecchie povertà” e le conseguenti risposte organizzate in termini di sindacalismo sociale e mutualismo dal basso. In questi termini è anche problematico parlare in modo deterministico di classe. Ciò non significa affatto che le classi non esistano più, ma che vi siano modalità nuove, non essenzalistiche, di tracciarne i confini effettivi ed ermeneutici.

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