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di Clotilde Bertoni

Rispondendo, dalle colonne del “Giorno”, a una lettrice che si chiede se lo meraviglierà una sua domanda, Giancarlo Fusco osserva: «uno che abbia assistito per cinquanta giorni di seguito alle udienze del processo Montesi non può più meravigliarsi di niente»; Natalia Ginzburg ricorda che su quel processo lei e Gabriele Baldini si litigarono «fino al delirio»: tra quelli che conosco scelgo due esempi disparati per evidenziare subito la peculiarità di uno scandalo insieme eccentrico e drammatico, che sconvolge a fondo l’Italia degli anni Cinquanta, uno scandalo su cui vengono periodicamente riaccesi i riflettori, ma su cui sia quelli che rimpiangono l’integrità dei politici di una volta, sia quelli che datano alla tragedia di Vermicino l’inizio dello sfruttamento mediatico della cronaca, farebbero bene a rinfrescarsi la memoria.

    Si tratta di una storia che, partita come un fait divers qualunque, quasi determina il crollo della prima Repubblica. La morte inspiegabile di Wilma Montesi, una ragazza piccolo borghese ritrovata senza vita sul lungomare di Torvajanica l’11 aprile 1953, è archiviata con una spiegazione delle più assurde (un malore dovuto a un pediluvio e un conseguente annegamento), e ben presto invece ricondotta (da voci di provenienza imprecisata, da alcuni articoli, poi dal sensazionale reportage di un giornalista esordiente, Silvano Muto) a una spiegazione delle più inquietanti: Wilma avrebbe partecipato a un festino che si svolgeva nei paraggi di Torvajanica, avrebbe avuto una crisi in seguito all’assunzione di stupefacenti, sarebbe stata abbandonata sulla spiaggia per timore delle conseguenze; i responsabili dell’omicidio colposo sarebbero due personaggi a titolo diverso legati al mondo delle istituzioni, il giovane musicista Piero Piccioni, figlio dell’Attilio noto esponente della Democrazia Cristiana, e il misterioso faccendiere Ugo Montagna, che, come si verrà a sapere gradualmente, si destreggia tra attività equivoche (dalla speculazione edilizia al narcotraffico) e frequentazioni eccellenti (notabili democristiani, il capo della polizia, l’archiatra pontificio). Sebbene, come capita a volte, il primo a finire sotto processo sia il giornalista, Muto, accusato di diffamazione, le sue rivelazioni sono confermate da diversi testimoni (in particolare da un’ex amante di Montagna, Anna Maria Moneta Caglio); nel 1954 è avviata un’istruttoria, che si conclude con il rinvio a giudizio, il 20 giugno 1955, di Montagna e Piccioni (il cui padre, all’epoca ministro degli Esteri, si è nel frattempo dimesso), e inoltre del questore Saverio Polito, accusato di aver provato a insabbiare le indagini.

    Ma la vicenda che sembrava preziosa chiave d’accesso a realtà nascoste incomincia presto a farsi surreale: troppo traboccante di incertezze (non vengono mai raggiunte prove incontrovertibili), troppo ricca di ingredienti romanzeschi, poi così congestionata di rivelazioni e testimoni stravaganti (tossicomani, veggenti, preti), da virare verso la farsa; inoltre quasi trasformata in un reality show dal sensazionalismo dei rotocalchi e dalla smania di notorietà di molte delle persone implicate (gli stessi familiari di Wilma accettano di partecipare a uno dei numerosi film progettati sugli eventi – nessuno realizzato). Il processo, che ha finalmente luogo nei primi mesi del 1957, porta all’acme queste dinamiche, oscilla tra il melodramma e la commediaccia, è complicato dall’apertura di nuove piste (si accentuano i sospetti su uno zio di Wilma, che condurranno a un nuovo processo, ma sfumeranno anch’essi nel nulla); termina infine con quella che appare ormai la conclusione inevitabile, un verdetto assolutorio, che conferma però l’ipotesi del delitto, delitto che non verrà mai risolto.

    Tutta la storia è accuratamente riesaminata da un saggio di Stephen Gundle pubblicato l’anno scorso e ora proposto da Rizzoli, Dolce vita. Sesso, potere e politica nell’Italia del caso Montesi (traduzione di Andrea Zucchetti, pp. 384, € 22,00). Un saggio che tiene conto della bibliografia precedente, ma seguendo un taglio autonomo: sia perché ricostruisce gli eventi attraverso una vasta consultazione delle fonti originali, dai fascicoli ministeriali ai giornali d’epoca (documentazione purtroppo segnalata solo in succinte note conclusive e senza specifiche indicazioni degli articoli); sia perché dilata a più riprese la ricostruzione in un affresco del suo contesto, la Roma degli anni Cinquanta.

Quest’ultimo aspetto è in effetti il meno interessante. Se Gundle sottolinea giustamente (riprendendo considerazioni di un’altra studiosa, Karen Pinkus) la tendenza alla spettacolarizzazione del vissuto che contrassegna la vicenda, ne trae poi spunto per digressioni sulla società dello spettacolo e sull’atmosfera del tempo poco pertinenti e piuttosto superficiali: non tanto perché inciampano in veniali inesattezze (Shelley Winters e Farley Granger non furono mai sposati, il Daniel Gélin attore nella Romana aveva trentatré anni, un po’ pochi per essere definito «maturo dongiovanni»), ma soprattutto perché – dalla descrizione della «conturbante miscela di suoni, odori e corpi» di Via Margutta a quella del sottoproletariato romano «allegro, indolente, innamorato della vita», dalle pagine sulle coppia Taylor-Burton a quelle sulla «danza selvaggia» di Aiché Nana – ristagnano facilmente nello stereotipo.

    Ben altrimenti significativa è invece la rivisitazione del caso, troppo generica nell’inquadrarne lo scenario politico (se le minimizzazioni delle tragedie dell’antifascismo sono ormai all’ordine del giorno, leggere che gli uomini di sinistra avevano per lo più «trascorso il Ventennio all’estero» fa ugualmente sobbalzare), ma molto efficace nell’esposizione dei fatti, valutati con un’obiettività sgombra dalle ossessioni complottistiche e dai preconcetti antigiustizialisti che viziano altre ricognizioni, saggistiche o romanzate. In particolare, viene sfatata la leggenda secondo cui la storia avrebbe avuto un astuto burattinaio in Fanfani (che, se effettivamente contende ad Attilio Piccioni la leadership della Democrazia Cristiana, e, da ministro dell’Interno, commissiona, con procedura irrituale, un rapporto sugli eventi, non avrebbe mai potuto orchestrare interamente una massa così contorta di sospetti e illazioni, tra l’altro iniziati prima che il ritiro di De Gasperi dalla scena politica aprisse la lotta per la successione); e viene situata nella giusta luce la figura del giudice istruttore, Raffaele Sepe, che, se si fida troppo di certe testimonianze, agisce con serietà meticolosa, mai inquinata dalle subdole mire carrieristiche di cui sarà invece spesso tacciato (tra l’altro sulla base delle insinuazioni di un personaggio specie in tema di magistratura non proprio dei più attendibili, Andreotti). Inoltre, prima di azzardare una congettura finale sulla vicenda, Gundle mette l’accento sui suoi vari punti oscuri: dalla fragilità dell’alibi di Piccioni (che ha un puntello decisivo nelle dichiarazioni di Alida Valli, sua compagna al tempo dei fatti, tra tutti i personaggi coinvolti quello che si comporta più nobilmente) ai rapporti del losco Montagna con i rappresentanti delle istituzioni.

   Punti oscuri che procurano una frustrazione duplice: all’angoscia per la morte irrisolta si aggiunge il senso di un’occasione mancata per far chiarezza sui retroscena del potere. Lo attestano, oltre alle opinioni riportate da Gundle, varie altre riflessioni: se nel 1954 Barzini jr. si augura che il caso serva, come l’Affaire Dreyfus, a «chiudere un’epoca», nel 1957 Cancogni osserva che si è invece dissolto in «un episodio di morbosità collettiva», specie perché il pubblico si è appassionato più ai risvolti piccanti che alle implicazioni politiche degli eventi, deplorando la condotta della classe governante, ma continuando a «votare scudo crociato»; una realtà scottante è divenuta simile a una fiction dozzinale, il potenziale di eversione dello scandalo si è quasi ribaltato in mezzo di evasione.

    È una dinamica destinata a ripetersi: lo sappiamo più che mai oggi che persino le nostre incredibili storie di denaro pubblico sperperato a fini privati, e di sesso scambiato con cariche istituzionali, rischiano di trasformarsi da materia di indignazione autentica in spunto di pettegolezzo noncurante; fino a dove può essere arrivato questo rischio potranno, ancora una volta, dirlo soltanto le elezioni.

[Questo articolo è uscito su «Alias – il manifesto»].

[Immagine: Il ritrovamento del corpo di Wilma Montesi (gm)].

 

1 thought on “Dal grande scandalo al reality show: il caso Montesi

  1. Montesi, di ciò che stava per accadere

    abolire i rapporti fissi
    come wilma quando muore
    il cigno nero scrive il cielo
    il fiore bianco il fiore rosso già sfioriva,

    Mina le strutture del pensiero

    il leviatano ora ha un nome
    esiste davvero
    “ma non ricordo i loro volti..”
    la parola rende ciechi

    la cecità tutto più vero

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