cropped-Copia-di-Contini-3.jpgdi Claudio Giunta

[In questi giorni LPLC si prende una breve vacanza pasquale. Per non lasciare soli i nostri lettori, continueremo a pubblicare la playlist del sabato e ripubblicheremo alcuni vecchi post. Questo articolo di Claudio Giunta è uscito il 21 gennaio 2013]. 

Da studente, quando leggevo Contini, il primo sentimento che provavo era la paura.

Alla Scuola Normale si faceva la gara a chi era più blasé (cioè più spaventato), e ricordo ancora il pomeriggio di tarda primavera in cui uno dei miei compagni di corso ammise che «sì, Contini a volte è criptico». A volte criptico? Io capivo una riga sì e due no di quello che scriveva, e a prezzo di infiniti sforzi. A volte criptico? Uno che scrive un periodo così: «Motore del sistema è la Logica, cioè una dottrina che, serbando la pluralità in qualche modo herbartiana dei ‘valori’ irriducibili e autonomi, non li lasci irrelati ma, riconoscendo in ognuno di essi l’integrità del soggetto trascendentale, li articoli idealmente»? O così: «L’imitazione nel senso rinascimentale è infatti programmaticamente postuma, si muove nell’àmbito del già accaduto, inserendovi una serie di variazioni, dove si ammira la perizia retrospettiva nella riproduzione dei rapporti formali e si vedono elaborati paralipomeni collocativi»?

Non era, come si vede, solo un fatto di linguaggio, era un fatto di linguaggio e di conoscenze. Contini scriveva difficile, soprattutto perché saltava un mucchio di passaggi e dava per scontato (o meglio: si disinteressava del fatto) che il lettore lo seguisse nelle sue scorciatoie, e afferrasse senza troppi problemi i concetti a cui rimandano, allusivamente, sintagmi come «pluralità herbartiana» e «paralipomeni collocativi». Ma era soprattutto un esperto, un esperto settoriale di ogni singolo settore nel quale decideva di esprimersi, dalla filologia alla filosofia, dalla linguistica alla critica letteraria: «un tecnico dagli infiniti scrupoli», dice di sé in una lettera. Anche molti poeti e molti filosofi sono difficili da capire, ma dopo un po’ si trova la chiave del loro linguaggio, si trovano i fuochi dai quali s’irradia il loro pensiero, s’intuisce un centro. Contini non ha un centro, non esiste un sistema-Contini: il suo centro era trasferito nell’oggetto del quale volta a volta decideva di occuparsi: Michelangelo, Proust, l’ecdotica dei poeti delle origini, la fonetica dell’antico lombardo. Leggerlo significava dunque colmare gli spazi lasciati vuoti nel suo ragionamento, ma per colmare questi spazi bisognava conoscere almeno un po’ delle cose che lui conosceva così bene. Mi ci sarebbero voluti anni. Non per capire tutto, ma per capire almeno quei saggi suoi che rientrano nel mio campo di ricerca, filologia e letteratura medievale: il saggio su Croce, per dire, che ho letto e riletto, mi è ancora per vari tratti impraticabile.

Il mio secondo sentimento, leggendolo, era l’ammirazione, ma l’ammirazione per qualcuno che non c’entrava niente con me, che era e sarebbe restato per sempre out of my league. Ammiravo quello che è ovvio ammirare, cioè la capacità di essere, di essere stato sin dai suoi vent’anni, sia un sommo filologo romanzo sia un sommo critico militante, cosa che non è troppo strana oggi (mai però a quelle altezze), ma era più unica che rara nell’Italia degli anni Trenta e Quaranta: qui Contini fa semmai serie, in un suo personalissimo modo, con Spitzer, Auerbach, Curtius.

Che dire, che cosa elogiare, più precisamente, in questo personalissimo modo? Al di là della genialità di tante analisi, che potrei soltanto ricopiare parola per parola, la cosa che mi ha sempre colpito era la capacità che Contini aveva di coordinare il giudizio puntuale sopra un testo o un autore, o un loro frammento, e la visione storico-letteraria, la capacità cioè di fissare la posizione di quel testo o di quell’autore nella diacronia. Il saggio su Pascoli, a sceglierne uno, è forse il luogo in cui questo talento splende con più vigore; ma, per esempio, tutta quanta l’antologia dei Poeti del Duecento resta esemplare proprio per questo motivo, per il modo in cui le deboli, spesso evanescenti personalità degli autori vengono assorbite e valorizzate nel flusso della storia dello stile. Quasi a caso: «Chiaro Davanzati, anche dove ne cercò di nuove, percorse strade che non portavano al futuro. La struttura irreversibile della grande lirica dantesca, opposta al melodismo trobadorico e siciliano dal libretto a zone intercambiabili, è condizionata da una strenua applicazione ragionativa e da un risentimento linguistico che sono legati, l’una e l’altro, all’esperienza di Guittone. Il nostro va per tutt’altri binari…». Al polo opposto, il polo della sintesi, ho sempre trovato straordinarie quelle formule definitorie che, lette una volta, si riaffacciano poi alla memoria, quasi come versi di poesie che rivelino a poco a poco la loro profondità: «una litote in senso vastissimo», «è il suo romanticismo che è condizione del suo classicismo», «a Dante, qui, non interessa punto un visibile, ma, ch’è tutt’altra cosa, una visibilità» – sono tutte argomentazioni scorciate, rapprese in immagini, la cui verità è, per così dire, apprezzabile, ma non veramente traducibile senza resti in plain prose.

Contini è nato un secolo fa, e il 2012 è stato un anno di commemorazioni. Il clou tra Pisa e Firenze, a dicembre, con un congresso, una mostra e ben quattro nuovi volumi usciti per le cure degli studiosi che fanno capo alla Fondazione Ezio Franceschini di Firenze, dove è conservato l’archivio di Contini. Soggezione – se non proprio paura – e ammirazione si rinnovano.

Dei quattro, il libro più interessante è forse quello all’apparenza più arido, l’Inventario dell’archivio di Gianfranco Contini curato da Claudia Borgia. L’archivio contiene le lettere, i materiali relativi alle lezioni, gli estratti. Ma lo studioso, il devoto di Contini, sgrana gli occhi soprattutto di fronte a certi misteriosi inediti: un foglietto con diciassette righe manoscritte sotto il titolo La sindrome di Balzac; un foglietto di appunti per una conferenza (mai pubblicata) dal titolo, davvero poco continiano, Dante e la malinconia, foglietto che è riprodotto nel catalogo della mostra Scartafacci di Contini (a cura della stessa Borgia e di Franco Zabagli). Il quarto d’ora che ci vuole per decifrarlo, con la lente, si spende in mille deliziose congetture: come sarà riuscito a collegare tutti quei nomi (D’Annunzio Soffici Ungaretti Petrarca Monte Andrea Cino…)? Ma sfogliare l’Inventario serve poi soprattutto a ricordare una cosa che può sembrare ovvia, ma che ovvia non è, e cioè che Contini era soprattutto uno scrupolosissimo professore, e che gran parte del suo tempo era dedicata alla correzione del lavoro degli studenti, o alla cura delle tante imprese editoriali nelle quali fu coinvolto, prima fra tutte l’edizione Petrocchi della Commedia («Contini – mi ha confidato una volta un suo allievo – era assediato!»). È un aspetto poco appariscente, ma la grandezza di Contini sta anche e soprattutto qui: e ne fa fede non solo la gratitudine ma il vero e proprio amore che i suoi allievi, ormai a loro volta maestri anziani, ancor oggi gli votano.

Terzo volume, la splendida Biografia per immagini curata da Pietro Montorfani (le foto più belle a p. 148: Contini anziano che studia per scrivere un saggio su Manzoni: dunque anche lui doveva studiare?). Quarto volume, la corrispondenza con Aldo Capitini, che i curatori Adriana Chemello e Mauro Moretti hanno intitolato Un’amicizia in atto. A leggerlo tutto insieme non è, bisogna dire, un carteggio memorabile. Contiene alcune lettere interessanti, ma di un interesse tutto sommato limitato: lettere che documentano l’impegno e le riflessioni politiche dei due corrispondenti in margine alla vicenda del Partito d’Azione, impegno e riflessioni il cui rilievo, almeno quanto a Contini, non dev’essere esagerato (molto equilibrata, in questo senso, la premessa di Moretti). Ma il carteggio contiene anche qualche brutta lettera, quel genere di lettere, oggi e-mail, che a tutti quanti può capitare di scrivere ma che a tutti quanti dispiacerebbe di veder pubblicate. Al di là di questo, leggendo i carteggi di Contini non mi sono mai potuto convertire all’opinione di molti, che Contini fosse, oltre al resto, anche un «grande epistolografo»: troppi manierismi, troppo mestiere, troppo autocentrato. Le lettere a Capitini non mi hanno fatto cambiare idea, anzi (ripensandoci: ma cosa vuol dire essere «un grande epistolografo»?).

Infine, le lettere, le fotografie, i cimeli, tutti i cari ricordi di questo studioso eccezionale, hanno fatto riaffiorare in me anche un terzo sentimento, che in breve potrei definire come senso di estraneità. Il fatto che fosse out of my league non vuol dire soltanto che sapeva troppe più cose di quelle che io sapevo e so, ma anche che le cose di cui lui si è occupato non sono esattamente le cose che a me interessano, e che i problemi che lui si è posto – le domande che ha fatto ai libri, diciamo – non sono esattamente quelli la cui soluzione, o (meglio) la cui riformulazione a me sta a cuore. Nessun saggio sulla letteratura contiene più intelligenza di un saggio scritto da Contini; ma esistono, almeno per me, moltissimi saggi più interessanti dei suoi. Quanto al suo stile, con gli anni ho trovato il coraggio di assolvermi, ripetendomi ciò che ha detto una volta Isaiah Berlin parlando di Hegel: che se, per quanti sforzi facesse, non riusciva a capire tutto quello che c’era scritto nella Fenomenologia dello spirito, alla fine forse era anche un po’ colpa di Hegel.

Ma al di là della forma e degli orientamenti critici di Contini, il senso di estraneità è forse soprattutto dovuto a quella circostanza elementare e ineluttabile che è il passaggio del tempo. Dai saggi, dalle lettere, dagli stessi ricordi di chi ha conosciuto Contini, traspare un’imperturbabile fiducia: nella letteratura, come sistema relativamente autonomo dalle altre scienze umane e sociali; nella filologia e nella critica, come discipline d’elezione per il mestiere d’intellettuale; nell’università, come luogo di produzione e riproduzione del sapere; infine, e più importante, nella centralità della letteratura italiana e della filologia romanza all’interno del curriculum degli studi umanistici. Nel suo saggio su Croce, Contini ha scritto che «è nel mutamento della cultura complessiva di questo secolo […] che si ritrova il tanto cercato ‘superamento’ della cultura crociana». Ora, il termine superamento, parlando di Contini, sarebbe abusivo; e, prima che presuntuoso, sciocco. In filologia, in linguistica, nella critica, Contini ha detto molte verità; e ha detto moltissime cose interessanti: né delle une né delle altre si dà superamento. Ma d’altra parte è evidente quanto sia mutata la «cultura complessiva» e, molto più in là della cultura, l’aria del tempo: quel senso di fiducia a cui ho accennato si è, se non sbaglio, dissolto. Qualsiasi ipotesi, o augurio, intorno alla presenza delle idee e dei valori di Contini nel dibattito culturale dei prossimi decenni non potrà non tenere conto di questa discontinuità.

[Questo articolo è uscito sul domenicale del «Sole 24 Ore» del 30 dicembre 2012].

[Immagine: Tessera CLN di Gianfranco Contini (gm)].

 

12 thoughts on “Il secolo di Contini

  1. Altri uccidono i padri a sberleffi e con risentimento. Qui si ha un onesto e pacato seppellimento di un Maestro.
    Ma se prevale la discontinuità rispetto al suo lavoro, le sue “molte verità” e “cose interessanti” resteranno inerti.
    E la discontinuità è solo imputabile al neutro e ineluttabile “passaggio del tempo”?
    Sento sotto sotto una certa reticenza…
    Non sarebbe meglio precisare quali sono le sue “molte verità” e “cose interessanti”
    che potrebbero valere o essere praticabili oggi?
    E quali scelte la “nuova” critica ha fatto in rottura con Contini?

  2. Personalmente trovo le sue constatazioni totalmente condivisibili e spero che stimolino una discussione il più possibile aperta e fruttuosa anche in sedi ufficiali, perché ovviamente in ambito informale lo fanno già.
    Mi chiedevo, dopo aver letto il suo articolo, quale sia la sua idea circa gli sviluppi possibili della teoria e delle pratiche di edizione dei testi, se ha ancora senso riflettere su questi problemi e se ha ancora senso che una disciplina trovi in questo il cuore della sua definizione. Questo certamente in relazione ai fattori ambientali, ma anche indipendentemente da essi. Spero un giorno di leggere qualcosa di suo su questo argomento.

  3. Grazie per la lettura. Credo che i tempi, il passaggio del tempo faccia più o meno tutta la differenza. Nel senso che Contini faceva le cose giuste nel modo giusto (certo lo stile non era user friendly, ma ognuno ha il suo), solo che quel tipo di interessi mi pare non sia più centrale nell’ambito delle discipline umanistiche, e più in generale nell’ambito delle cose che una persona colta, anche al di fuori dell’università, deve/vuole conoscere. La cosa non mi fa piacere, ma mi pare che sia così.

    Quanto alla teoria e alla pratica di edizione dei testi, io non sono specialmente competente in materia (me la cavo un po’ nella pratica, poco di più), ma direi certamente che la disciplina che si chiama filologia romanza abbia qui il cuore della sua definizione, e non mi sembrano tempi magri di buone riflessioni, questi: nel congresso su Contini che si è tenuto a Firenze a dicembre del 2012 un paio di interventi hanno toccato il problema; un numero recente di Medioevo romanzo è dedicato all’edizione dei testi volgari; Zaccarello ha fatto uscire da Fiorini un libretto sul tema dell’ecdotica dei testi italiani. Insomma non mi pare manchi l’interesse: e in genere sono contributi seri. Che poi sia bene guardare anche al di là dei testi e dell’edizione dei testi, senz’altro, ma lo si è sempre fatto. Però temo un po’ il chiacchiericcio, o l’azzardo antropo-demo-sociologico. Meglio la banalità della fuffa, direi.

    Su Contini usciranno appunto gli atti del convegno fiorentino nel 2013. Io ho scritto una cosa su Contini e Dante, gliela mando volentieri quando esce o prima – magari ci scriviamo. Grazie

  4. Vorrei complimentarmi con lei per questo articolo tornito e accurato e provare a proporle alcune riflessioni. Le riporto poche righe di un passo di Adorno che tengo sempre presente:

    “Testi dove ogni passaggio è accuratamente segnato, ed è evitata ogni discontinuità, risultano inevitabilmente di una banalità e di una noia che non affetta solo la tensione della lettura, ma la loro stessa sostanza. Gli scritti di Simmel, per esempio, risentono tutti della contraddizione tra l’eccentricità degli oggetti e la meticolosa lucidità dell’esposizione. Lo stravagante risulta così il vero complemento di quella mediocrità in cui Simmel vedeva -a torto- il segreto di Goethe. Ma, indipendentemente da tutto ciò, la richiesta di onestà intellettuale è di per sé poco onesta. Anche se fossimo disposti a far nostro, e cercassimo quindi di applicare, il difficile e problematico monito di riprodurre, nell’esposizione, il processo del pensiero, questo processo sarebbe tanto poco un procedere discorsivo di gradino in gradino, quanto poco -d’altra parte- le idee cadono dal cielo. La conoscenza si attua in una fitta rete di pregiudizi, intuizioni, nervature, correzioni, anticipi ed esagerazioni, cioè nel contesto dell’esperienza, che, per quanto fitta e fondata, non è trasparente in ogni suo punto”.

    Le istituzioni universitarie hanno, fra gli altri compiti, quello di garantire la possibilità del lavoro intellettuale all’interno della comunità e, senza dubbio, oggi viviamo un momento di forte crisi di legittimazione di tale lavoro intellettuale. Questa crisi (che si misura con il credito sociale, le sovvenzioni statali, il crollo delle iscrizioni negli atenei) mi sembra derivi, nell’ambito della letteratura, dal sostanziale fallimento di molte rivoluzioni epistemologiche o, se si preferisce, dal fallimento di una promessa rivoluzionaria legata alla conoscenza e vissuta nella seconda metà del Novecento. Ma il fallimento, mi sembra di poter dire, deriva appunto dalla sostanziale “onestà” intellettuale di questa promessa. E’ la stessa onestà intellettuale degli studenti di lettere politicizzati che leggono i filosofi del secondo Novecento, poiché cercano risposte, in queste letture, che non trovano nella vita intellettuale a loro contemporanea. Non le sembra che l’unico modo per “superare” al contempo sia l’eredità filosofica del secondo Novecento sia il suo analfabetismo di ritorno, la demagogia che propone sterilmente i medesimi discorsi acriticamente, è proprio quello di abbracciare la medesima onestà intellettuale? Non rinunciando a offrire risposte nuove a chi le domanda. Così forse scopriremmo che questo “superamento” non è un vero “superamento”, bensì l’unica continuità possibile che si dà nel pensiero. Ciò sarà stato fatto in passato, ma proprio oggi sembra mancare.
    Chiedo scusa per la lunghezza.

  5. Grazie per le segnalazioni, sono molto curiosa di leggere il libro di Zaccarello. In generale sono abbastanza al corrente dei contributi da lei citati e devo dire che hanno avuto e stanno avendo un ruolo importante nella mia formazione, quindi posso parlarne solo bene.
    Però quello che credo sia mancato negli ultimi anni è una riflessione radicale che tocchi le basi della disciplina e che si confronti con il problema dei fondamenti, che poi era il tipo di riflessione che si faceva quando la filologia in Italia ricopriva quel ruolo centrale cui lei accennava e che credo fosse in buona parte responsabile di questo posizionamento. La mia impressione è che se anche sul piano della pratica il lavoro continua e spesso bene, quello della teoria vera e propria sia oggi abbastanza trascurato, a vantaggio nel migliore dei casi di considerazioni pragmatiche (spesso in realtà davvero illuminanti e rinfrescanti), nel peggiore di vero dogmatismo. Della buona teoria si trova ancora in realtà, ma accennata, in sedi sparse, sviluppata senza sistematicità.
    Quello su cui non ho un’opinione è se l’abbandono di un certo piano del discorso (un problema per tutti: il concetto di errore, con tutte le sue ricadute) sia una posizione obbligata da una situazione di stallo oggettivo oppure sia una colpevole trascuratezza. Non mi illudo che problemi del genere possano mai interessare al di fuori di un ambito ristretto, ma credo che siano le risposte anche parziali e preparatorie a questo tipo di domande la strada per recuperare una centralità perduta, o almeno il dialogo con le altre discipline.
    Sempre appunto che sia ancora possibile attingere in maniera fruttuosa a quel livello di discorso, cosa che io non so. Certo però che leggendo certe pagine, per fare l’esempio migliore, di Avalle, l’impressione è di tutto fuorché di stallo ma anzi, gli stimoli e le direzioni sono innumerevoli.

  6. Per Luca Marangolo. Grazie, sottoscrivo tutto quanto lei dice, salvo l’idea che l’università debba tra l’altro “garantire la possibilità del lavoro intellettuale all’interno della comunità”: non legherei troppo strettamente università e lavoro; e non insisterei troppo sul lavoro intellettuale. E sono anche un po’ refrattario all’idea/formula di ‘onestà intellettuale’: mi pare un’espressione un po’ tronfia, che non saprei bene come applicare. Ma sulla sostanza sono d’accordo.

    Per Maria Teresa Rachetta. Se lei auspica una ‘critica della ragione filologica’, sottoscrivo l’auspicio. Alcuni in realtà – nelle forme desultorie che la critica spesso assume – la stanno tentando, direi. Ai più alti livelli per esempio Grafton. E altri, piuttosto tra i filosofi che tra i filologi, ci stanno lavorando. Per il passato, più che ad Avalle penserei a Timpanaro. Oggi a Reeve. No, non mi pare che la riflessione stenti. Stenta a farsi sentire, nel rumore di fondo, ma a questo non credo ci sia rimedio. E stenta forse perché la disciplina (come altre) si è a tal punto complicata, arricchita di contributi, ramificata, da fare sì che sia difficile, per una stessa persona, imparare due cose come ‘fare un’edizione critica’ e ‘riflettere sullo statuto della propria disciplina’ – bisogna essere bilingui, e in lingue abbastanza diverse. Go ahead.

  7. Grazie mille per la risposta, mi ha dato cose su sui riflettere per un bel po’ credo. Grazie davvero.

  8. La ringrazio per la risposta. Se lei sostiene che è sbagliato legare troppo l’università al lavoro nel senso che sia necessario un forte principio di realtà nel valutare quali opportunità di sopravvivenza offre un certo tipo di studi universitari, mi trova pienamente d’accordo. Io parlavo di ‘lavoro intellettuale’ in un senso lato: il lavoro di ricerca che bene o male continua ad essere svolto nelle università per delle necessità che forse non sarebbe il caso di sottovalutare e che spesso di questi tempi si sottovalutano. Non si ritiene che si debba essere tutti dei geni, ma l’esigenza di comprensione della realtà attraverso un certo tipo di conoscenza è un’istanza che esiste, a mio modo di vedere, e mi sembra fondativa delle istituzioni universitarie almeno quanto l’insegnamento.

    In merito al concetto di onestà intellettuale esso mi sembra dirimente per comprendere la tortuosità con cui avviene questa ricerca e la contraddittorietà del pensiero con cui, a volte, viene comunicata. Tale contraddittorietà, in misura diversa, mi sembra coinvolgere sia il sapere tramandato che quello futuro: è semplicemente la constatazione, non banale, che per quanto razionale ed esatto il sapere parte da pregiudizi storicamente determinati. Sono essi a generare contemporaneamente il potere esercitato da chi insegna che l’ingenuità di chi apprende. Eliminare questi pregiudizi mi sembra utopico, se assumiamo che la conoscenza è di per sé una narrazione.
    La ringrazio veramente per l’attenzione.

  9. Caro Claudio, io ho sempre preso molto sul serio queste parole di Leopardi:

    “Non può nessuno vantarsi di essere perfetto in veruna umana disciplina, s’egli non è altresì perfetto in tutte le possibili discipline e cognizioni umane. Tanta è la forza e l’importanza de’ rapporti che esistono fra le cose le più disparate, non conoscendo i quali, nessuna cosa si conosce perfettamente. Or siccome ciò che ho detto è impossibile all’individuo, perciò lo spirito umano non fa quegl’immensi progressi che potrebbe fare. E però certo che se non perfettamente, almeno quanto è possibile, è realmente necessario di esser uomo enciclopedico, non per darsi a tutte le discipline e non perfezionarsi o distinguersi in nessuna, ma per esser quanto è possibile perfetto in una sola. In ciò l’opinione del tempo è ragionevole. Chi almeno nella superficie non è uomo enciclopedico, non può veramente considerarsi (ed oggi non si considera) come gran letterato, o insigne in veruna disciplina intellettuale. Massimamente poi bisogna essere enciclopedico dentro il circolo di quelle cognizioni ec. che sebben separate e distinte, hanno maggiore, e più certo ed evidente rapporto e affinità colla disciplina da voi professata”. (15. Ott. 1821.)

    D’altra parte capisco il senso e la sensatezza della tua frase “la disciplina (come altre) si è a tal punto complicata, arricchita di contributi, ramificata, da fare sì che sia difficile, per una stessa persona, imparare due cose come ‘fare un’edizione critica’ e ‘riflettere sullo statuto della propria disciplina’ – bisogna essere bilingui, e in lingue abbastanza diverse”.

    Ora il mio rovello è: allora fare sintesi e stabilire connessioni è oggi impossibile, se non ridicolo? Siamo condannati a parlare solo di ciò in cui siamo ultracompetenti, dovendo tacere per onestà di tutto il resto? O possiamo parlarne, ma a vanvera?

    Inoltre, che cosa può sperare un insegnante di secondaria che auspichi almeno qualche sforzo verso una interdisciplinarità vera e seria (ma anche umile e consapevole della propria parzialità e ipoteticità)? Certo, interdisciplinarità tutta da costruire, con fatica, benché i pomposi proclami delle Indicazioni nazionali, che la considerano requisito ovvio e naturale, fingano di non vedere che la formazione attuale degli insegnanti ne rende assai problematica la praticabilità e che essa si concreta solo nelle forme imbarazzanti delle “tesine” dell’Esame di Stato, nelle quali i lumi del Settecento sono appaiati alla “Mattina” di Ungaretti, e, perché no?, alla lampadina a incandescenza di Edison.

    Se la cultura umanistica nella scuola ha bisogno di non perdersi in rivoli, ma anzi di un patto di ferro tra tutte le sue discipline, per resistere allo slittamento progressivo verso l’irrilevanza, come fare?

  10. Caro Daniele, non è, quello della specializzazione vs. la non-specializzazione, un problema (non direi rovello: non esageriamo) solo tuo, e s’intende che non ho risposte ma solo espedienti.

    Del passo di Leopardi che citi darei una lettura molto terra terra, e molto da professore: se uno si occupa di una disciplina (diciamo la filologia classica: Leopardi) dovrà conoscere quella disciplina perfettamente e, più che mediocremente, le discipline limitrofe. Questa non è veramente interdisciplinarità, è ‘fare bene lo studioso’, e prima che la retorica dell’interdisciplinarità ci travolgesse (retorica che non è solo retorica, lo so bene: che si spiega anche con la proliferazione di discipline, oggetti, punti di vista che complicano il nostro giudizio) era nozione corrente, e non problematica.

    Le discipline umanistiche a scuola e all’università dovrebbero essere questo, direi: il serio possesso (o la seria acquisizione) di alcune conoscenze su alcune questioni fondamentali (sai che sono conservatore su questo punto) e poi l’uso di queste conoscenze per guardare quello che succede intorno con intelligenza. Non credo molto all’interdisciplinarità programmata, credo alla capacità critica che la cultura umanistica seriamente posseduta porta con sé, nei casi migliori. Cioè penso che ‘perdersi in mille rivoli’, una volta imparate n cose sensate in n ambiti interessanti, sia esattamente quello che bisogna fare.

    Ma non sono mica sicuro, sai…

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