di Daniela Brogi
Immagino che sia stato complicato per Alberto Prunetti scrivere Amianto. Una storia operaia (Agenzia X, 2012).
Le difficoltà a cui penso derivano anzitutto dalla materia prescelta, e dai problemi di distanza e di inquadratura. Stavolta, infatti, non si ha più una vicenda eroico-sovversiva proveniente da lontano, come nei lavori precedenti di Prunetti (Potassa, 2003; L’arte della fuga, 2005; e Il fioraio di Perón, 2009), ma si parla di una situazione tra le più vicine e più intime da narrare. Amianto è la storia di un figlio che racconta la storia vera del padre: Renato, classe 1945, saldatore tubista per le raffinerie di tutta Italia e che, a forza di lavorare respirando fibre nocive, è stato ucciso da un tumore a poco più di sessant’anni.
Raccontare la malattia e la morte di un genitore costa molto, sia in senso emotivo che tecnico, e molte volte si fallisce, perché si appiattisce la perdita su una narrazione sentimentale incapace di funzionare e resistere oltre la durata della lettura. In Amianto invece l’impietosimento è quasi sempre lasciato da parte – non è lì che converge l’energia del racconto -, e così la vicenda individuale di Renato resta: è uguale a tante altre, ma nel medesimo tempo diventa unica, perché non si riduce al tempo di un sentimento scontato.
Eppure, l’uso non ingenuo del pathos per raccontare il lavoro non è il motivo più importante per cui Amianto è un libro riuscito, che si legge volentieri. Le ragioni sono altre, principalmente due: l’argomento affrontato, ovvero il rimosso storico della vita operaia italiana; e la capacità, in senso tecnico, di trattare la storia. Dal punto di vista etico e politico la questione seria certamente è la prima; tuttavia qui si darà spazio critico alla seconda: dei contenuti si è scritto e si continuerà a farlo, ma il punto è che anche le forme sono e fanno contenuto; in più, il libro se lo merita: merita che si discuta non solo “di cosa parla”, ma anche di “cosa dice”.
Al contrario del romanzo Acciaio e dell’ancor più brutto film che ne è stato tratto (di cui si salva solo la fotografia), Amianto è un libro all’altezza delle proprie intenzioni perché l’autore ha saputo scrivere una biografia operaia. Riassumerò cosa voglio dire in tre punti, in ciascuno dei quali si lascerà voce al testo.
La biografia è la scrittura di una vita che dura fino al suo termine. Il destino di morte che la attende – e di cui il lettore è informato subito – è il punto di tensione di tutto il racconto. Ma l’aggettivo che accompagna il sottotitolo del libro («una storia operaia») non è accessorio, perché Amianto è la storia di un individuo che in ogni punto della sua vita è un operaio. Ciò significa, in primo luogo, che la voce narrante sceglie di dare e riesce a dare la parola al padre, che ha voce davvero: non è una figura usata per riflettere, dalla prospettiva esterna di chi narra, intorno a una generica condizione di alienazione, né è pretesto di costruzione di una situazione narrativa metaforica. Stavolta l’operaio c’è e vive davvero, e muore da operaio, con il suo linguaggio, con l’ordine delle parole che nomina l’ordine delle cose che danno sostanza alla sua esistenza:
Lui distende una prolunga industriale che si snoda lungo il perimetro di una cisterna piena di idrocarburi. Il terreno è impastato d’olio denso e vischioso, d’un nero virato al cobalto. Collega la saldatrice al cavo elettrico, fissa la pinza a un elemento in metallo, inserisce nella seconda pinza un elettrodo, poi l’appoggia a terra. Impugna con la sinistra una maschera da saldatore e se l’avvicina al volto. Un altro operaio afferra un telone grigio sporco e lo srotola sopra di lui. Adesso è completamente al buio. Con la destra impugna la pinza, avvicina l’elettrodo al metallo. Scocca la luce, violenta, ammortizzata dalle lenti affumicate della maschera: scintille fioccano dalla punta dell’elettrodo che si consuma velocemente, sciogliendo e raggrumando metallo attorno ad altro metallo. Quando l’elettrodo è completamente fuso, l’uomo, sempre sotto il telone, afferra il mazzuolo e nell’oscurità indovina facilmente il grumo ancora incandescente ma già rappreso. Con la testa del mazzuolo picchia sul grumo e rompe la scorza di scorie attorno al punto di saldatura.
Un lavoro pericoloso, saldare a pochi centimetri da una cisterna di petrolio. Una sola scintilla è in grado di innescare una bomba che può portarsi via una raffineria. Per questo ti dicono di utilizzare quel telone grigio sporco, che è resistente alle alte temperature perché prodotto con una sostanza leggera e indistruttibile: l’amianto. Con quello le scintille rimangono prigioniere e tu rimani prigioniero con loro e sotto il telone d’amianto respiri le sostanze liberate dalla fusione di un elettrodo. Una sola fibra d’amianto e tra vent’anni sei morto (p. 13).
In secondo luogo, Amianto è una biografia anche nel senso che il narratore testimone, ovvero il figlio che svolge la memoria della propria infanzia in simultanea con il racconto della vita del padre, restituisce corpo, identità biologica, al destino di Renato, assicurandogli lo statuto di soggetto: affettivo, fisico, politico, linguistico – ogni aspetto si fonde con l’altro.
Proprio perché non è un personaggio allegorico, né l’oggetto di uno sguardo estraneo, l’operaio Prunetti è una figura incarnata: da un lato nei disastri che un giorno dopo l’altro lo aggrediscono, scrivendo sul suo corpo la storia di una persona distrutta dalla fabbrica («1985, Renato ha quarant’anni, quanti ne ho io adesso. È ancora magro e muscoloso, apparentemente in ottima forma. Ma già ha bisogno di una serie di protesi per connettersi al mondo: occhiali, dentiera, apparecchio acustico»: p. 45); e dall’altro lato incarnata nel senso che è identificata pienamente nell’immaginario legato alla forma di vita operaia, che non è soltanto alienazione, tragedia, ma anche identificazione vitale in un mondo raccontato con partecipazione piuttosto che osservato da lontano:
Quando tornarono i miei ripartimmo verso la Maremma. Ma prima Renato doveva passare, come sempre, dal dopolavoro della Solvay, dove c’era un cartellone con i risultati del calcio di prima categoria e interregionale, dove giocava il Rosignano. Un ultimo poncino alla livornese, poi un’ora di auto sulla via Aurelia attaccati alla radio e ai risultati del campionato che per noi valeva più della Coppa Campioni: il Guasticce che batte il Tuttocalzatura, il Pomarance che va pari in casa del Larderello, il Tuttocuoio che affonda il Calcinaia e lunedì mattina alle due, in piena oscurità, ripartenza in treno sulla linea tirrenica verso Genova, Sarzana o Savona, dovunque ci fossero tubi da saldare, manicotti da congiungere, coibentature da smantellare.
E, purtroppo, amianto da respirare (pp. 37-38).
E infine: Amianto racconta una storia tragica facendoci anche ridere, per esempio quando i babbi che accompagnano i ragazzini nelle trasferte di calcio nei paesini dei minatori dell’entroterra maremmano finiscono per scazzottarsi con i padri della squadra avversaria (p. 59), o come quando Renato, ormai malato terminale, si beffa degli altri malati e dei dottori (pp. 103-104). Ma il riso non ci diverte e basta, perché il paradosso costruisce serietà, mantiene la tensione: fa parte della scena ma, soprattutto, fa parte di chi l’ha risistemata per scriverla e per cercare di strappare al sovrano il potere della rappresentazione. Il protagonista di Amianto è, infatti, anche un tipo: la sua biografia è degna di interesse non solo per la sua particolarità, ma perché appartiene a una storia di tutti da non dimenticare: è, per l’appunto, una biografia operaia. Per unire il significato privato e quello collettivo dell’esistenza del protagonista, l’autore ha incurvato il racconto in senso umoristico. Ha faticato, dunque; come spiega lui stesso, ha fatto come il padre; e così ha impedito che Renato Prunetti rimanesse un morto che tace:
Il racconto dovrebbe tenere come un raccordo di tanti tubi diversi. Lui lo diceva sempre: mettici il canapone, regge più del teflon. Stai solo attento a rispettare il senso della filettatura e lega il tutto con un dito sporco di mastice verde. Poi stringi con forza, ma senza cattiveria. Non deve perdere (p. 11).
[Immagine: Edward Burtynsky, Old Factory (gm)].
Urgenza. Un flusso incontrollabile della coscienza che fa riemergere nella scrittura strade chiuse, sensi di marcia vietati. Pagine di vita intrise di dolore, ma dense di energia plastica, quella della vita, che batte ancora. E si fa sentire con tutto il suo pulsare di ricordi, di fatti veri. Da padre in figlio. Là in quel luogo dove scorre lo stesso sangue. L’unico ad avere una piena e totale legittimazione. Questa non è solo una storia privata, nella sua comune accezione, da mantenere confinata cioè nelle mura domestiche. È un fatto sociale. E crudo. Dove lo scambio tra l’annotazione e la ricomposizione di un processo vitale è attraversato diagonalmente da una luce che disgrega il fatto privato per divenire poi nuova materia, realtà sociale. La sicurezza del lavoratore e la sua salute sono un fatto sociale. Prima questi fatti non venivano neanche trattati nella cronaca. Ora la storia di Renato appartiene a tutti, anche al lettore.
Amianto. Eccidio della carne. E quando la prosa narrativa si mescola con la carne, diviene essa stessa tessuto connettivo. Scrittura e corpo, in negazione di un oggetto, di un elemento, di una fibra. L’asbesto.
La compilazione di un periodo, di una frase, la scelta di un vocabolo è qui fortemente influenza dal valore della carne, del corpo. Non è solo una scrittura intersoggettiva, ideale. Perché la fibra dell’amianto penetra nelle vie polmonari e si assesta per lungo tempo, e la sua storia è diventata la storia della lunga incubazione di una malattia.
Nel 1901 venne brevettato il cemento-amianto da l’austriaco Ludwig Hatschek. Nella registrazione si scelse di dare il nome di questo fibrocemento e la parola cadde su Eternit, dal latino aeternitas, che dura un’eternità. Una scommessa con il futuro persa a priori, perché senza l’uomo questa dannata fibra non poteva certo durare.
Diritti fondamentali e ribellione alle omissioni, all’inattività, alle mancate informazioni, alle mancate tutele preventive.
La battaglia contro l’amianto nasce con il diritto, ma non quello scritto solo nel tardo 1992 con la legge n. 257, e neppure solo con quello scolpito nelle sentenze di condanna per la vicenda che ha visto coinvolto l’intero Comune di Casal Monferrato ed altri. La battaglia nasce con l’affermazione di coscienze sensibili, di mercati dove al centro della competitività non c’è la materia, o solo quella, ma il rispetto dell’equilibrio biologico tra uomo e res. Non c’è progresso, non c’è competitività, non ci può essere investimento laddove si toglie il respiro all’uomo. Investimento contro natura. Un urto devastante.
La devastazione prodotta da questo urto è storia, quella di Renato, il saldatore. Con la sua forza, con i suoi dolori, con la dignità di un operaio, un grande operaio. Specializzato. Un uomo, una vita. E i tubi di Piombino.
E se qualcuno riuscirà a scorgere nelle pagine di questo romanzo gli occhi di Renato, le sue braccia, i suoi guanti, la sua maschera di saldatore, il suo telone di amianto, la sua tuta, gli elettrodi, le cisterne piene di petrolio, avrà avuto l’onore di conoscere due persone.
Il padre ed il figlio.
Questo è anche un racconto che non ha fine. Non può finire solo così. Ti trascina oltre. Vorresti di più. Vorresti continuare a discutere, a cercare di capire, per capire una sola cosa, la più semplice: perché… E vorresti guardare dritto negli occhi chi ha avuto il coraggio di scrivere questa storia, catartica nel suo insieme, difficile nel suo viaggio di speranza che ogni giorno, davanti alla testiera del computer, si presentava. Almeno per capire come sta, senza chiedere troppo, ma ascoltando. Perché la botta in pancia (tremenda) che arriva fa capire una cosa: bisogna respingere chi vuole rendere invisibile la tua vita, la tua famiglia, il tuo lavoro. Perché sarà lo stesso che cercherà di rendere invisibile la tua scomparsa. Desaparecidos di fabbrica. Intollerabile prima, insopportabile ora.
Bella recensione per un romanzo bellissimo.
Che in Italia sia più noto Acciaio di questo la dice lunga sul gusto medio cui dobbiamo abituarci noi lettori.