cropped-pinciowallacelight-945x1024.jpegdi Daniele Giglioli

[Dal 25 dicembre al 4 gennaio LPLC sospende la sua programmazione ordinaria. In questi giorni, per non lasciare soli i nostri lettori, ripubblicheremo alcuni post. L’articolo che segue, pubblicato il 28 gennaio 2013, è precedentemente uscito su «La Lettura» del «Corriere della sera»].

Ho letto con grande interesse e altrettanta fatica Nella vasca dei terribili piranha (Effigie 2012), romanzo d’esordio di Alessandro Raveggi, fin qui noto come poeta e saggista. E soprattutto con un crescente senso di disagio, a contatto con uno stile narrativo esorbitante, anomalo, scaleno, e insieme stranamente consueto e familiare. Poi ho pensato: David Foster Wallace, e tutto è andato a posto. Non che l’accostamento spieghi di per sé i problemi del romanzo, ma gli fornisce senz’altro una cornice di intelligibilità, un orizzonte di possibilità. Illecito dire, se non a posteriori, che prima di Foster Wallace non sarebbe stato scritto. Non è nemmeno certo che l’autore di Infinite Jest sia tra i preferiti di Raveggi. Eppure, letto in quel solco, il libro trova subito un ambiente, una lingua comune, un’aria di famiglia che stempera la sua stranezza. Se ciò sia artisticamente bene o male è un altro discorso.

Che Foster Wallace, insieme a Bolaño, sia un faro indiscusso per gran parte della generazione di autori venuta dopo di lui, da noi come all’estero, è un assunto condiviso. Per restare all’Italia, basti pensare agli scrittori che lo hanno tradotto (Edoardo Nesi, Christian Raimo, Francesco Piccolo). E immaginare, sempre a posteriori, se senza il suo magistero (che non è solo influenza diretta; è piuttosto segno dei tempi, epifania, inaugurazione, apertura di una crepa nel reale) si potevano anche solo concepire opere, spesso d’esordio, come Latte e Dov’eri tu quando le stelle del mattino gioivano in coro di Raimo, Morto un papa e Qui non ci sono perdenti di Andrea Bajani, Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj e Occidente per principianti di Nicola Lagioia, La dissoluzione familiare di Enrico Macioci, Vita e morte di un giovane impostore scritta da me, il suo migliore amico di Cristiano De Majo, Gli intervistatori di Fabio Viola, Il tempo materiale e Spaesamento di Giorgio Vasta. Per tacere l’impatto dei suoi reportage, cui sono in un modo o nell’altro tributari tanti autori ospitati dalla collana Laterza Contromano, e non solo.

Scritture diversissime. Ma accomunate, più che da prestiti diretti, da una batteria di imperativi tematici, compositivi e stilistici tutti riconducibili all’ingiunzione: se lui può, allora noi dobbiamo. Ricordiamone alcuni, i principali. Obbligo di pirotecnia verbale e immaginaria. Costruzione dell’intreccio non lineare ma piuttosto «a grappolo». Erudizione alta e bassa, sconfinante talvolta nella secchioneria, applicata magari al più umile dei manufatti sottoculturali. Mescolanza di comico e di tragico, ma non più all’insegna dell’ironico disincanto postmoderno. Ambizione d’arte senza però chiamarsi farisaicamente fuori dalla compulsione al fun e all’entertainement di cui nessuno può oggi dirsi mondo. Solidarietà creaturale coi perdenti. Emotività fragile e ricattatoria. Democrazia stilistica delle parole e delle cose. Massimalismo epocale. Generosità di orizzonti, connaturata alla scelta del modello, non un padre autoritario ma un fratello geniale, insieme schiacciante e cagionevole, col rischio implicito, in qualche modo scontato, di restarci sotto. Coi fratelli non si attiva l’Edipo. Eppure nessuno di loro si offenderà se gli si dice che non regge il confronto. Con queste premesse la sudditanza è inevitabile. Il passaggio di certe comete è una benedizione e una maledizione al tempo stesso.

Il che ci riconduce a Raveggi. Gli imperativi li onora tutti, ma la sensazione è che voglia affrontare la Medusa a viso aperto. Il suo romanzo è massimalista a ogni riga. Lo stile è survoltato, prevede due o tre metafore a periodo, sempre spiazzanti e mai banali. La trama attinge a una ricca scuderia di personaggi e ambienti, disposti intorno a una creatura mitologica anfibia, un ragazzo pesce, forse un mostro, forse un dio, forse il frutto di una manipolazione genetica, forse un prodotto di viral marketing, che si mostra ai protagonisti ma non ai lettori, dalle Canarie alla Norvegia, dal Messico a Roma, via Parigi, Madrid e altri luoghi ancora, fino a una Firenze in cui trionferà nel corso di una nuova, devastante alluvione. Di lui si ingravidano le immaginazioni, i desideri e le paure di tutti: un bagnino drop out a Fuerteventura; una setta di ex attrici in pensione che vivono su uno yacht transatlantico, guidate da una sincretista carismatica; un nerd fiorentino studente di informatica in soggiorno Erasmus in Norvegia, ossessionato dall’inerzia umana; un professore di genetica eterodosso che prevede la sommersione delle terre emerse e vuole indurre nella specie umana un’evoluzione/involuzione che la renda adatta a una nuova, e antichissima, esistenza subacquea; un manager romano con rovelli filosofici che tenta di allestire un gigantesco spettacolo mondiale di competizione tra bambini superdotati. Nessuno vede compiersi i suoi progetti. La creatura resta ingovernabile.

Il romanzo anche. Troppe muse presiedono al suo parto. Il talento più irripetibile di Foster Wallace era proprio quello di riuscire a controllare, pur senza tradirlo, l’estremo, l’eccessivo, il troppo pieno, alternando stati roventi e stati tiepidi. Raveggi invece è sempre sul pennone più alto. Tra addomesticare e esasperare, ha scelto la seconda opzione, con un coraggio di cui c’è pochi esempi. Non ha vinto, però ha puntato forte. Chi non sopravanza il modello si confina all’album di famiglia (ma quanti proustiani ricordiamo dopo Proust? E joyciani dopo Joyce? Nessuno). Forse non è lontano il tempo in cui molti scrittori sentiranno la primogenitura di Foster Wallace come un problema, non come una soluzione. E cercheranno altre strade: l’arte è scaltra, scantona davanti a vie ostruite e porte chiuse, anche magnifiche.

[Immagine: Tommaso Pincio, David Foster Wallace (particolare) (gm)].

14 thoughts on “Il cugino americano. David Foster Wallace e la narrativa italiana

  1. Una generazione di scrittori con solo DUE modelli-matrice? Dio, è spaventoso e probabile. Ma non saranno, di certo, quelli che entrano meglio nella statistica a muovere i pezzi più importanti. E spero che, per quanto convincente, ciò Giglioli ha scritto sia frutto di un abbaglio. Certo, non sembra sia così.

  2. Aggiungerei alla lista di chi “ha imparato da Wallace” anche il Covacich di A perdifiato.
    Il fatto però e che in Wallace – secondo me – sotto tutto e anche sopratutto si sente la sua voce “vera e dolente” che rende tutto quel che scrive irripetibile e importante.

  3. Il libro di Raveggi è ambizioso, ma non riuscito. La prosa stanca, e Wallace, per fortuna, è altra cosa.

  4. Ultimamente ho letto alcuni (solo alcuni, eh) dei romanzi citati da Giglioli nel suo articolo e la scorsa estate mi sono cimentata con Infinite Jest, che non avevo mai letto. In effetti non posso che concordare pienamente con Giglioli: leggendo alcuni dei nostri autori considerati più interessanti e innovativi, è impossibile non ritrovarci le caratteristiche, che Giglioli opportunamente elenca, dell’opera di Wallace. Ma è anche impossibile non constatare quanto gli epigoni siano lontani dal maestro, quanto le loro opere non serbino che un pallido riverbero dell’estro visionario del grande americano. Si ha l’impressione che basti mettere insieme gli stessi ingredienti per ottenere un risultato paragonabile, ma così non è. Infinite Jest è un romanzo difficile, dispersivo, a tratti esasperante, ma ha una forza grandissima, capace di ricreare il mondo, e mentre ci racconta cose assurde e situazioni paradossali e ci descrive personaggi inverosimili, ci fa capire che è proprio di noi che sta parlando, del nostro mondo, e ce ne sta offrendo una lettura del tutto nuova. Leggendo i suoi “nipotini”, invece, non sono riuscita a percepire la stessa forza creatrice, la stessa “visione”, ed è per questo, forse, che non mi hanno convinta. (Raveggi non l’ho letto).

  5. Parlo per me, com’è ovvio.
    Giglioli ha ragione. Non avrei scritto in quel modo La dissoluzione familiare se non avessi letto Infinite jest, e il mio libro non regge il confronto con l’eminenza estetica e cognitiva di Wallace. Il pezzo di Giglioli – che non ha riscosso consensi unanimi, anzi – a me non sembra solo una stroncatura o, se lo è, si colloca al limite fra cauto apprezzamento e severo rimbrotto – ragazzi, va bene la vivacità ma affilate un po’ le unghie, il vecchio Dave non soffre granché il solletico. Io vedo la faccenda in una luce positiva sebbene impegnativa – e non lo dico per difendere il mio romanzo. Un romanzo, un’ora dopo terminato (ogni scrittore lo sa) è già trascorso, non ci appartiene e non ci soddisfa più. Un romanzo non è altro che la storia, più o meno lunga, d’un addio. A me preme fornire un contributo seppur minimo riguardo due questioni che ritengo interessanti: ciò che le opere letterarie d’un certo peso provocano dal loro impatto in poi, e ciò che una parte non quantitativamente piccola della narrativa italiana sta sperimentando in questi anni.
    L’epigonismo è un fenomeno deleterio solo se fine a sé stesso; ma è anche il necessario punto di partenza per ogni novità, e il discrimine può essere sottile come un capello. Wallace stesso parte imitando Pynchon e Barth, e Bolano (l’altro nome opportunamente citato da Giglioli) deve moltissimo a Borges e Cortàzar, due che ha spigolato a più non posso prima di trovare, a 45 anni, la propria autentica voce (1998, I detective selvaggi). Wallace e Bolano sono forse i “giovani” autori contemporanei più canonizzati, ma ce ne sono moltissimi altri la cui influenza arriva forte e chiara – ed è qui che Giglioli forza un po’ le cose, tende a ridurne la complessità. Penso a Jonathan Lethem, a Littell, Houellebecq, Ellis, McCann, Munro, Vollmann, Eugenides, Moody, oltre ai classici DeLillo, Roth, Pynchon, Coetzee, McCarthy, Auster, Ford, Bellow, e poi tutta la congrega spagnola e latinoamericana, da Garcia Marquez fino a Cercas, Vila-Matas, Marìas e oltre. Alcuni di tali autori hanno prodotto opere che non mi sentirei di definire inferiori a Infinite jest, né meno pervasive o contaminanti nell’ambito poetico tracciato da Giglioli, e ancora trascuro parecchi altri autori, assai vivi nei polpastrelli di chiunque scriva. Questo per dire che il gioco dei richiami, delle paternità e dei precursori assume proporzioni – spesso inconsce – tali da rendere ardua una sicura risalita alla fonte primigenia. Le ramificazioni sono sterminate, le somiglianze e le discrepanze a volte quasi coincidono, la differenza tra copiare, fraintendere e inventare si perde talvolta in una fitta nebbia. Certi autori e certi libri aleggiano, e non è indispensabile averli letti per imitarne almeno qualche tono, per averli nel sangue e nei polmoni (Underworld e Demonology, Lunar Park e La fortezza della solitudine, Middlesex e Europe Central, Trilogia di New York e Un cuore così bianco, Chronic city e Rumore bianco). L’aria è anche un elemento letterario, e nell’aria non c’è solo Infinite jest, nemmeno per chi abbastanza palesemente batte zone simili alle sue – nel caso del mio romanzo ad esempio, mi stupisco io per primo di quante infiltrazioni abbiano penetrato la struttura portante, di quante letture siano filtrate attraverso l’impalcatura wallaciana. Insomma La dissoluzione familiare ha un padre che è Infinite jest, ma anche un paio di nonni e parecchi zii…
    Altro punto. La narrativa italiana degli ultimi trent’anni manca (non del tutto) d’eccentricità titaniche, cosicché uno scrittore italiano con un’idea oltranzista o cosmica della letteratura – che non è un’idea per forza buona – va spesso a cercarsi i propri modelli altrove; ciò comporta una maggiore lentezza d’assorbimento e rielaborazione. Quel che non è scritto nella nostra lingua e non cresce nel nostro humus culturale ci rimane in qualche maniera estraneo anche quando suona familiare (penso, che so, a Carver o Cheever, alla difficoltà di riprodurne intra moenia l’accento così terso e confidenziale). Certo, se io fossi un novello Rimbaud potrei forse assimilare e trascendere l’intera tradizione narrativa americana odierna – la più ricca e influente al mondo, e di cui Wallace costituisce una notevole manifestazione, ma non certo l’unica e forse nemmeno la più importante – in un anno o due; ma io non sono un novello Rimbaud, e sospetto che in giro sia raro incontrarne.
    Infinite jest rimarrà ineguagliato, e a causa e in virtù della propria grandezza rappresenta (pur aprendo strade inedite) una fine o comunque una mèta; i romanzi citati da Giglioli segnano forse momenti più interlocutori – è il caso del mio, ho motivo di pensare, non mi pronuncio sugli altri. Ma se essi o alcuni di essi contribuiscono a spostare la nostra narrativa in una nuova direzione (cosa che lo stesso Giglioli implicitamente ammette), se contribuiscono a esplorare una nuova regione immaginativa allora non stanno solo all’ombra di tizio o caio, ma dentro quell’ombra brillano e a quell’ombra danno perfino un senso – quell’ombra c’è, alcuni si sono accorti della sua presenza e vi si sono addentrati, hanno provato a vedere cosa vi si nasconde, cosa ci vive. Se invece i medesimi romanzi si riveleranno col tempo sterili esercizi di stile, contenitori vuoti di forma e sostanza, incapaci di fornire impulsi vitali al flusso della nostra narrativa, chi legge nel pezzo di Giglioli una lampante bocciatura ci avrà preso.

  6. Quel che scrive Macioci conferma l’assunto di Giglioli: si tratta di un alveo letterario gia’ maturo e battuto, in esiti piu’ convincenti, ad altre latitudini.

    Il titanismo italiano, nel contemporaneo, e’ scritto a livelli canonici da Moresco, soprattutto nei Canti del Caos. Lo stesso Moresco, in precedenza, con Lettere a Nessuno, si era annesso putativamente tutti gli scrittori “civili” emersi dalla fine degli anni ’90 in poi.

    Il ramo canonicamente alternativo, in Italia, e’ quello di genere, che Wu Ming I ha provato a circoscrivere nel New Italian Epic ma che in realta’ e’ realismo aggiornato, Real Italian Epic, sulla linea Verga – Gadda (ed epigoni meridionali e settentrionali) e fino alla “Gomorra” docu-drama di Saviano.

  7. Intervengo con sommo ritardo per distrazione. Cito Macioci: “La narrativa italiana degli ultimi trent’anni manca (non del tutto) d’eccentricità titaniche, cosicché uno scrittore italiano con un’idea oltranzista o cosmica della letteratura – che non è un’idea per forza buona – va spesso a cercarsi i propri modelli altrove; ciò comporta una maggiore lentezza d’assorbimento e rielaborazione. Quel che non è scritto nella nostra lingua e non cresce nel nostro humus culturale ci rimane in qualche maniera estraneo anche quando suona familiare”. Questo, nel piccolo, è forse accaduto nel momento in cui ho iniziato a lavorare su Nella vasca (2007) fino a quando non ho messo il punto (2009)…: sebbene non sia stato DFW la mia principale fonte d’ispirazione, sentivo questa mancanza nelle letture quotidiane. Certo, per ignoranza. Anche se grazie alla lettura di eccentrici stranieri – nei quali metterei anche Daniel Sada, Felisberto Hernandez, Péter Esterházy, Roberto Bolaño dei Detectives – sono giunto a leggere e rileggere i nostrani: ho già citato altrove “Cima delle Nobildonne” di D’Arrigo, potrei citare “Il pianete irritabile” e forse tutto Volponi (certe parti della Vasca hanno qualcosa de “Le mosche del capitale”), ovviamente – più per slancio apocalittico, che per stile e riuscita – “Dissipatio H.G.” e per un’aria fortemente europea – suonerà qui stridente, ma gli scaffali di chi si mette a scrivere dovrebbero esserlo – Curzio Malaparte. In ogni caso, ringrazio Daniele Giglioli per avere segnalato il romanzo, averlo letto fino in fondo, averne apprezzato l’azzardo e il coraggio, oltre che aver sottolineato i punti deboli e ridondanti. Alla prossima :)

  8. Ovviamente quando scrivo “(certe parti della Vasca hanno qualcosa de “Le mosche del capitale”)” non parlo né di grandezza né di plagio… ma di una certa atmosfera straniata ripresa.

  9. Che la recente narrativa italiana si sia ispirata a David Foster Wallace e non, per esempio, a Houellebecq, Philip Roth, DeLillo, Cormac McCarthy mi pare una cosa degna di nota e, a dire il vero, anche una iattura. Sia detto senza volontà di provocazione od offesa.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *