di Niccolò Scaffai
[Questo articolo è uscito su «Alias – il manifesto»].
Che cosa cerchiamo nelle lettere di uno scrittore? Chi se ne occupa per mestiere cerca qualcosa che lo aiuti a perfezionare la conoscenza delle opere: una circostanza, la figura reale che ha ispirato un personaggio, la soluzione di un mistero interpretativo. La maggior parte dei lettori però non è interessata a questo: non cerca una soluzione, cerca l’autore – la sua vita, la sua voce, il suo carattere. Può farlo per curiosità, per verificare se il profilo che ne ha ricavato dagli scritti (il cosiddetto autore implicito) corrisponde alla persona ‘vera’; oppure per passione, per capire quel che l’autore ha provato e vissuto, e misurare i suoi sentimenti sui propri. Quando interviene questa pretesa di condivisione, le lettere cessano di essere solo un documento utile in funzione di un testo diverso (un romanzo, una poesia) e diventano interessanti di per sé, come frammenti di un’esperienza che è realmente stata e che perciò poteva, potrebbe essere anche la nostra.
È a questo che viene da pensare una volta chiuso il volume che raccoglie l’anomalo epistolario dell’autrice di Menzogna e sortilegio: L’amata. Lettere di e a Elsa Morante, a cura di Daniele Morante con la collaborazione di Giuliana Zagra, Torino, Einaudi, pp. XXI-686, euro 30,00. Il libro sollecita infatti tanto la ricerca dell’utile quanto la condivisione dell’interessante, concedendo però un grado ben diverso di soddisfazione alle due attività: minima per quanto riguarda il profitto filologico, massima per ciò che concerne la partecipazioneesistenziale. Una simile divergenza – occorre dirlo, anche se dispiace perché il libro era atteso e la passione di chi l’ha curato è fuor di dubbio – dipende dall’arbitrarietà della selezione e dalla macchinosità dell’allestimento.
A fronte di un archivio privato composto da ben 5500 documenti epistolari di varia natura, L’amata dà conto di circa 600 lettere; un corpus ristretto, ritagliato senza aver concluso non dico l’ardua recensio delle lettere di Elsa custodite dai possibili destinatari, ma anche solo il repertorio e l’esame completo delle carte a disposizione. Per di più, dichiara Daniele Morante nell’Introduzione, dal libro è stata intenzionalmente stralciata «tutta la corrispondenza familiare nonché quella di interesse prettamente filologico o letterario-editoriale, che potrà interessare di preferenza altri ricercatori». È evidente che non esiste un criterio, se non soggettivo e rischiosamente empirico, per isolare ed escludere «l’interesse letterario-editoriale» dall’epistolario di uno scrittore (accogliendone comunque le lettere scambiate con altri autori e con editori: Calvino, Ginzburg, Bollati). Sennonché, al netto delle critiche, quel criterio esiste, ed è di natura sentimentale. Fedele alla linea promessa dal titolo, il volume include infatti le lettere di e ai corrispondenti che hanno amatoElsa e che hanno affermato quell’amore, declinandolo in forma di amicizia, ammirazione, nostalgia, persino rabbia. Certo, il taglio sentimentale impedisce di apprezzare l’intreccio di ragioni personali e letterarie che avrà unito Elsa ad alcuni dei corrispondenti qui convocati (compreso Moravia, comunque titolare della corrispondenza più numerosa).
Quel che abbiamo tra le mani è dunque una raccolta molto parziale, divisa in quattro capitoli cronologici (fino al 1940; 1941-1957; 1958-1974; 1975-1985), ciascuno dei quali include missive varie, ‘letture’ (cioè lettere relative all’opera maggiore pubblicata da Elsa Morante nel periodo considerato: Menzogna e sortilegio e L’isola di Arturo nel secondo capitolo, Il mondo salvato dai ragazzini e La Storia nel terzo, Aracoeli nel quarto) e brevi carteggi divisi per corrispondenti: Moravia appunto, e poi Giacomo e Renata Debenedetti («De Benedetti» nell’Indice finale!), Luchino Visconti, Natalia Ginzburg, Calvino, Pasolini, Leonetti, fino a Goffredo Fofi e Adriano Sofri.
Parlavo prima di divergenza. Perché una divergenza si produca, devono esistere almeno due linee, due sponde: di quella negativa – l’insufficienza filologico-editoriale, cui si sommano la negligenza dell’annotazione e l’incertezza di molte datazioni – si è detto. Ma la linea positiva non è meno consistente e giustifica l’operazione, perché in fondo le parole di e per Elsa bastano a sé stesse, o almeno bastano al lettore che qui le scopre per la prima volta. L’esperienza, il respiro dell’autrice non deludono chi ne va in cerca tra queste pagine, trovandovi una profonda somiglianza emotiva e psicologica tra la persona empirica – la Morante che ha scritto o a cui sono indirizzate le lettere – e i protagonisti delle sue opere. È impossibile, per esempio, non pensare alla passione imperiosa e sadicamente infantile tra Anna e il cugino Edoardo di Menzogna e sortilegio leggendo il carteggio tra Elsa Morante e il misterioso Richard T. M, giovane di origine inglese che amò, riamato, la (futura) scrittrice tra gli anni Trenta e i Quaranta. Lettere, quelle di Richard, in cui il registro vezzeggiativo («mio amorino, cara, viola mia, uccellino mio, sono le tre di notte ma io non posso dormire perché nel mio letto grande il tuo posto è vuoto») cederà il passo alle frasi più disperate e terribili: «I Tedeschi hanno pulito il mondo di tanta gente […] e vi furono masacri e ruine e speravo te morta in qualche Campo di Concentrazione». Quando Richard scrive queste parole, in un italiano suggestivo, è già il 1948 e l’amata «Elsie», conosciuta quasi quindici anni prima, è ormai la «Signora Moravia».
Il primo romanzo – gremito di lettere e di scrittura – e il secondo (L’isola di Arturo) tornano alla memoria anche leggendo le lettere di un’Elsa più matura, mondanamente isolata nella sontuosa infelicità altoborghese di una casa romana o di un ritiro a Capri, a Positano, in Engadina. Come Elisa, la narratrice di Menzogna e sortilegio, si presenta nelle vesti di una bambina adulta che nutre il suo savio delirio nel chiuso di una stanza, così Elsa è capace di pensieri di ingenua, disarmante verità, comunicati anche agli interlocutori meno accessibili con la semplicità profonda di una fanciulla. A Tommaso Landolfi, per esempio, scrive (novembre 1958): «Dunque, caro Landolfi, a rivederci (si dice sempre a rivederci così tanto per dire). Del resto, poi, forse ha ragione Lei: rivedersi non serve proprio a niente, giacché tanto anche in quel caso si parla di niente. Fino ad oggi, le conversazioni più rilevanti che ho avute, le ho avute con la mia gatta Pamela».
È con quella stessa sincerità che può rivolgersi anche all’«Amatissimo Calvino», rimproverandogli la «poca ispirazione» e la «stanchezza» del Bianco veliero, romanzo fallito – fu respinto anche da Vittorini – che lo scrittore in effetti non pubblicherà. In cambio della sua affettuosa franchezza, Elsa riceve la confidenza degli amici (scontandola con l’incomprensione di un Moravia che, da lontano, guarda a lei come un adulto guarda, ora condiscendente ora costernato, ai capricci di un bambino). Ma riceve soprattutto la simpatia di altri «ragazzini» (tali per anagrafe o per indole), che dopo l’uscita della Storia vedono in Elsa un riferimento morale, o addirittura un idolo cui indirizzare lettere cariche di auspici e promesse, quasi laici ex voto: «So già in anticipo che mi risponderà – scrive da Savona, nel gennaio del ’75, la sedicenne Stefania Ponteprimo, al termine di una lettera sfrontata ed entusiasta – perché lei è grande, stupenda e non si scorda del popolo che la ama». Non conosciamo la risposta di Elsa (la sua cartolina a Stefania non è qui pubblicata), ma sappiamo che ha risposto, e questo basta.
Per me, invece, il versante positivo per il momento è inesistente. Mi è sembrato un testo ibrido, a metà strada tra la ricostruzione filologica (tutte quelle note e noterelle minuziosissime, che ci parlano persino di angoli del foglio che mancano o di macchie di caffè al centro della pagina) e la ricostruzione del personaggio Morante, ma senza un criterio di scelta ben definito (come giustamente sottolineavi).
Altra cosa, tanto per fare un esempio o due, le lettere di Cristina Campo a Mita di Adelphi, o quelle di Calvino editor raccolte in I Libri degli altri, Einaudi. Nel primo, infatti, la scelta è decisamente quella di far venire fuori la persona, con tutte le sue sfaccettature più minute, nell’altro invece, quella di ricostruire un aspetto dello scrittore, ricostruendo la filologia del testo in entrambi i casi senza eccedere nello specialistico, e rispondendo quindi in entrambi i casi a criteri chiari in partenza. Due libri, quelli che ho citato, accessibili anche a un lettore non specialista, insomma, ma neanche ignaro di come funzionino lavori di questo genere.
Cara Alessandra,
sì in effetti, come scrivevo, mi pare che quest’edizione sia un ibrido ‘sentimentale’ che vuol dar conto di aspetti diversi della personalità di Elsa Morante, senza riuscire ad approfondirne nessuno. Ciononostante, lettere molto belle, e talvolta significative anche per l’interpretazione dell’opera letteraria o per la collocazione storico-culturale dell’autrice, ci sono. Certo, il libro ti lascia con il desiderio di conoscere altro, tutto il resto che non è stato pubblicato (ma che – mi dice un’esperta studiosa morantiana – verrà conservato alla Biblioteca Nazionale di Roma). In questo senso, le Lettere a Mita di Cristina Campo sono più esaurienti; così come “I libri degli altri” di Calvino (anche in quel caso però si tratta di una selezione entro un materiale più ampio) è più attendibile, più utile. A complcare le cose c’è poi il fatto che “L’amata” è un collage di carteggi tra Elsa Morante e i suoi corrispondenti, gli altri due libri – se non ricordo male – contengono solo lettere rispettivamente di Campo e di Calvino.
Condivido pienamente sia le critiche espresse da Scaffai nell’articolo, sia quelle di Alessandra. Aggiungo che, se è vero, come dice Scaffai, che le parole di Morante spesso bastano da sole, questo non giustifica l’incredibile sciatteria dell’edizione. I carteggi possono essere, oltre che un utilissimo supporto per la conoscenza degli autori e l’analisi delle loro opere, uno strumento straordinario, secondo me per certi versi ineguagliabile, per la ricostruzione di interi contesti storici e culturali: ma se ci si prende il fastidio – solitamente purtroppo notevole – di curarli come si deve, di allestire un vero apparato di note, di fornire ai lettori, specialisti e non specialisti, le chiavi di accesso indispensabili; altrimenti tanto vale presentare le lettere nude e crude, senza millantare un’edizione che non c’è.
concordo con quelli che mi hanno preceduto, e soprattutto con Scaffai. Nel centenario della nascita, a dispetto del dichiarato intento di “restituire l’immagine troppo spesso stereotipata” della Morante (questo il tonitruante annuncio della quarta di copertina), la scelta del carteggio è indirizzata più a fini di coinvolgimento e d’intrattenimento del lettore meno colto, o meno preparato sull’opera morantiana, che non allo studioso. Sebbene, va detto, molte lettere contenute nella raccolta mi siano parse di grande valore documentario, nonché di grande bellezza, soprattutto quelle più prettamente “d’amore” diretto, riflesso o spezzato (Visconti, Richard, Morrow, Moravia), la raccolta mi pare a un primo sguardo utile più a dare un’immagine “orientatata” proprio verso quello stereotipo sentimentalista e uterino a parole osteggiato, che non a fornire una radiografia interiore della scrittrice. Certo, è un’impressione forse fallace, e può darsi che la Morante scrivesse in effetti così, e che queste siano davvero le lettere più interessanti o significative delle 5500 presenti, ma mi tengo il beneficio del dubbio. Lavoro encomiabile, lettere splendide, ma edizione fatta di furia e peccante di una “neutralità” scientifica che forse non sarebbe guastata; senza parlare, visto che è già stato rimarcato, della scarsa attenzione filologica complessiva. Ma dopotutto mi pare un lavoro destinato a un pubblico ampio, la cosa è scusabile…
Ciò che invece non è scusabile, ritengo, è il “Commento all’epistolario” in postfazione, ad opera, presumo, di Daniele Morante (mettere il nome in calce sarebbe stato gradito, ci ho messo un po’ a capire chi scrivesse). Un commento scritto come un continuum di impressioni letteralmente a ruota libera, spezzato solo dai capitoli titolati secondo un criterio di cronologia, e a margine del testo i numeri delle lettere per indicare ciò di cui DM sta parlando; nonostante l’arbitrarietà manifesta dell’operazione, cioè il voler costruire una narrazione molto libera nell’interpretare questo carteggio morantiano già scremato e filtrato, i riferimenti alle lettere si rivelano per paradosso essenziali. Senza di quelli, non si capirebbe la metà di ciò cui si riferisce DM. Lo dico senza livore, ho provato un vago senso di imbarazzo a leggere una prosa così tumida, rigonfia e citazionista a sproposito, trasudante latinismi e forestierismi senza necessità in un commento a un testo altrui (un testo non creativo, un documento, privato: è ancor meno scusabile la prosa d’arte di rimando); ho pensato a un’involontaria parodia di Garboli, o della Morante stessa, il fastidio più grande per me, con tutte quelle maiuscole, quei concettoni e quelle frasi nominali ed esclamative che contribuiscono forse a un’immagine sentimentale della Morante ma non rendono onore per la loro bruttezza e vaghezza a chi le ha scritte. Lo dico con grande dispiacere, pensando anche al grande affetto e all’impegno profuso da DM, sicuramente indiscutibili, ma avrei preferito un commento di uno studioso più controllato e competente in stile e contenuti.
É con un certo imbarazzo che intervengo per essere in qualche modo coinvolta e con grandissimo ritardo visto che mi capita solo ora di imbattermi nell’articolo online e nei suoi commenti, chissà dunque se avró un qualche riscontro. In ogni caso mi sento di dire alcune cose dal mio punto di vista, quello di collaboratrice che ha preso parte a una grossa parte del lavoro preparatorio e documentale sopratutto di reperimento delle lettere di inviate da EM.
Tutte le critiche che ho letto sono condivisibili e prevedibili e in qualche modo previste.
Ciononostante ritengo che la raccolta, anche cosí fuori dai canoni e dagli schemi, arbitraria, ma non piú di tanto visto che almeno il criterio dell’amata declinato in tutte le accezioni e fortemente riconoscibile, rappresenti uno snodo importante per gli studiosi morantiani e non soltanto per i lettori generici. Pur nell’apparato farraginoso e nell’impianto macchinoso i carteggi dei singoli corrispondenti spiccano per ricchezza completezza ed evidenza. Forse sarebbe bastato pubblicare solo quelli e ci sarebbero state meno critiche. In ogni caso il volume é una miniera di notizie scoperte rivelazioni, certo che sono le lettere piú belle e le piú intense e non poteva che essere cosi visto il taglio scelto e visto anche il temperamento di Elsa.
In ogni caso, DM ha avuto l’eredità materiale e morale di curare le lettere di sua zia, lo ha fatto secondo una sua idea fortissima e determinata e a suo modo generosa. Tanto generosa da aver consegnato alla fine del lavoro le 5.500 lettere alla Nazionale perché in futuro possano essere lette studiate e nel caso riordinate secondo un apparato diverso.
DM non é un filologo e lo dichiara apertamente, non ha mai curato un carteggio in passato e non mi risulta vorrà farlo in futuro. Peró ci sono le case editrici che dovrebbero seguire gli autori, sopratutto se inesperti, indirizzarli, ridimensionarli nel caso e non licenziare un volume nel cui ndice dei nomi (a loro cura) ci siano macroscopici errori.
Giuliana Zagra
Ancora per Maffai, sempre che arrivi a leggere il messaggio visto il grande ritardo con cui intervengo, vorrei sapere, giuro per curiosità e senza ombra di polemica, dove ravvede sciatteria, oltre che nel noto errore dell’indice, per altro immediatamente corretto alla prima ristampa.
Il lavoro pecca a mio modesto parere piuttosto di una certa pedanteria e di un impianto troppo soggettivo e forse poco condivisibile ma non é sciatto. Come del resto spiega il curatore nella prefazione le quasi 6000 lettere sono state preliminarmente lette tutte, ordinate e schedate . La 600 prescelte perciò non sono state pescate nel mucchio ma selezionate attentamente, e i carteggi completati con grande impegno di ricerca in decine di archivi e non solo. 5 anni di lavoro.
Certo un addetto ai lavori avrebbe saputo fare di meglio, ma questa é un’altra storia.
L’amata invece a me sembra molto bello e ben curato. La postfazione ovviamente è di Daniele, caro signor Marchese. Ed è (forse nonostante tutto quello che dice lei) bellissima. Apre finalmente uno squarcio su Elsa finora irrigidita in un’immagine sciapita e lontana. Finalmente qualcosa di vivo e vibrante su di lei.
Gentile Silvia,
sì, forse è bella, può essere bella, nonostante tutto. Dalle ingombranti parole di Daniele, purtroppo, chi volesse accostarsi al carteggio della Morante non può più prescindere. Per me, è un effetto spiacevole, non mi sarebbe dispiaciuta un po’ di distanza critica, di lucidità (da non confondersi con una lontananza scipita che lei giustamente stigmatizza). Ciò non toglie che apprezzo lo sforzo, l’affetto: sulla qualità del resto, basta aprire il volume, leggere e farsi un’idea. Un saluto cordiale