cropped-13_SFMOMA_Dijkstra_Selfportrait-copy-801x10241.jpegdi Nicoletta Salomon

[Presentiamo le pagine iniziali di Non chiedermi niente (Aìsara, 2012), romanzo d’esordio di Nicoletta Salomon. Britta fa le medie. Ha un cervello di ragazza, un corpo ancora infantile. Ha un’amica, abita in un paese qualunque in un remoto e astratto Nord. Le piace scrivere e Pim, che ha sette anni più di lei].

Tre volte

A Pim non ho detto ti voglio bene. Lui tre volte.

Siamo andati a camminare in montagna tutti insieme, io ho vuotato la borraccia a metà salita: Pim mi ha dato la sua e ho bevuto.

Mi ha guardato, la fila camminava.

Nel tempo che ho impiegato a chiudere il tappo, asciugarmi la bocca e dargli un’occhiata, lui ha detto ti voglio bene. Io niente, ho solo camminato fino al primo amico in fondo alla fila e guardato di là.

Non gli ho mai detto ti voglio bene. Non posso dirglielo così.

Un’altra volta è stato al campeggio invernale della parrocchia. C’era il pattinaggio notturno sul lago ghiacciato.

Ci vado tutte le sere dopo cena. Mi metto la sciarpa rossa e i pattini, tengo per mano un’amica o mia sorella Ka, così non sembra che sto aspettando Pim, che deve tornare dalla legna, lavarsi, mangiare un piatto caldo e venire sul ghiaccio.

Una sera non si mette i pattini, viene solo alla staccionata: mi fissa con gli occhi per il lago. Sta lì mezz’ora, poi io freno a un metro da lui per stringere un pattino e lui dice lascia. Allungo la gamba, mi tengo alla staccionata, lui prende il tiralacci.

Tira su la calza e stringe bene i lacci. Respira dalla bocca fumo azzurro.

Quando sorride il fumo si divide in fili.

Faccio ancora un giro, è notte con la luna: il ghiaccio è rovinato dalle lame, vado a sedermi, slaccio i pattini, muovo le punte dei piedi gelati nelle calze, ho la faccia che scotta e la sciarpa bagnata.

Pim prende i miei pattini e se li butta in spalla, mi accompagna alla porta delle ragazze, sorride e me lo dice.

Pim sorride con tutti i denti, apre le labbra, poco la bocca. Anche quando scoppia a ridere non si vede mai la lingua. Deve averla piccola, ho guardato bene una sera che rideva forte (erano arrivati ultimi al torneo di calcetto).

Se gli dico ti voglio bene verrebbe a sapere che ho la lingua tempestata di taglietti.

La terza volta di Pim era alla festa di metà quaresima, con i fuochi nel prato dietro il cimitero. Ci siamo visti nella luce di una fiammata. Ero con la mamma e non l’ho guardato. Non mi ha salutato. Dopo l’ultima preghiera Mina mi è venuta incontro e lui era dietro a lei.

«Ciao.»

Lo guardo: c’è mia mamma, non vedi che c’è mia mamma, non lo vedi?

La mamma si volta per salutare la sua amica Erminia, attacca a parlare ma con la mano mi tiene il cappotto. Così non mi allontano.

Pim me lo dice lo stesso, piano, nell’orecchio. Si prende tutto il tempo. Con mia mamma lì. Poi mi sorride negli occhi. Ho la pancia dura, in gola fuoco.

Facendo il conto, me l’ha detto tre volte e non mi ha mai chiesto “e tu?”.

Deve essere perché lo sa.

Mina mi ha detto che quando una vuole bene le vengono gli occhi torbidi. Non si può nascondere. Specialmente chi ha gli occhi verdi o azzurri come me, perché allora sembrano acqua. Lei li ha neri e non si vede che vuole bene ad Arrigo: se lo sa suo padre finanziere, la chiude a chiave. Quando parla di queste cose io faccio sempre gli occhi freddi e fissi. Funziona: non mi ha mai chiesto niente di Pim.

Ma Pim lo sa, perché sorride e perché mi vede dietro gli occhi.

Non me lo chiede: aspetta che glielo dica io.

Ma poi se gli dicessi per esempio “anch’io”, non mi potrebbe dare un bacio davanti a tutti. Aspetta che un giorno vada da lui, quando nessuno vede, e glielo dica.

Dove, mi chiedo.

Dopo la messa tutti i ragazzi sono sui gradini della chiesa a fare chiacchiere e non c’è nessun posto dove andare. Nelle camminate in montagna con il prete, c’è il prete.

Un sabato dopo la messa pioveva: per un po’ siamo rimasti stipati tra i portoni della chiesa, noi due eravamo gli ultimi e tutti ci voltavano le spalle per armeggiare con gli ombrelli.

Quello era un momento buono, ma non l’ho guardato.

Se lo guardavo mi vedeva gli occhi, ma non poteva darmi un bacio dentro la chiesa. Mi ha tenuto la spalla per farmi passare e siamo rimasti io davanti e lui dietro finché non si sono aperti gli ombrelli.

Quella volta non ha detto niente, ma siccome entrava vento mi ha fatto un giro in più di sciarpa davanti alla bocca. Mi ha toccato i capelli.

A Pasqua, dopo la messa di notte, mi ha dato un bacio di auguri. Mi avvicino e intanto bacio gli altri che ridono sul sagrato. Faccio come mio cugino, che prima beve la minestra, lascia i fagioli in fondo al piatto e poi se li mangia uno a uno sotto gli occhi della zia.

Non guardo dalla sua parte, ma so che Pim è dietro di me e aspetta. Ruoto sulle punte a occhi chiusi, poi li apro, i suoi occhi mi fissano.

Mi prende una mano, con l’altra tengo stretti i guanti rossi per le feste d’inverno. Pim ha capito che li ho messi per lui. Per ricevere il suo bacio di auguri mi dirigo al naso e poi scarto verso la guancia: Pim sorride. Anche a Natale, che non ci siamo capiti e volevamo darci un bacio dalla stessa parte, lui ha sorriso.

Io invece ero seria e avrei voluto vedere come si sta a sbagliarsi.

Ma poi ho sorriso anch’io: perché lui ha ragione: pensa, come la mamma, che è meglio non fare errori. E non fare cose complicate, come baci sulla bocca. O fisiche, come tenersi per mano maschi e femmine.

Bisogna aspettare la festa di carnevale.

La festa si fa nel teatro della parrocchia. Dopo la recita si va avanti e indietro per le quinte a scambiarsi i vestiti di scena, si tirano stelle filanti, ci si riconosce dietro le maschere o si fa finta di non conoscersi, si mangiano tartine e si beve cioccolata.

Con la musica alta tutti muovono le bocche e sembra che non parli nessuno, bisogna andarsi molto vicini per sentire le parole. Si fa segno “non ho capito”, si esce un momento dalla mischia. Ripeti per favore: ho detto ti voglio bene.

Dietro la tenda del sipario nessuno vede un bacio tra due maschere.

Ma da ora alla festa di carnevale manca quasi un anno.

Maglione rosso

La prima volta che ho visto Pim ero da poco tornata ad abitare nel paese, facevo la prima media e portavo ancora la cartella rossa con le cinghie. Passavo davanti al pollaio di Tino dopo la scuola. Mi mettevo i capelli dietro le orecchie e andavo a casa a mettere sul fuoco l’acqua per il pranzo. I capelli sono tagliati troppo corti e scivolano via, al pomeriggio c’è catechismo, devo cercare foglie da attaccare nel quaderno di scienze, Mina non mi saluta da tre giorni, a casa ci sono i piatti di ieri da lavare, la mamma ha il mal di testa perché oggi è mercoledì e ha la riunione interclasse.

La prima volta che ho visto Pim è questo mercoledì della riunione interclasse. Correva in bicicletta giù dalla discesa di fronte al pollaio di Tino.

Con la testa bionda, un maglione rosso a collo alto, a gran velocità sulla discesa, tra case e prati grigi.

Nel paese e nella scuola conosco ormai tutti, ma questa bicicletta non è della scuola, mi dico.

A casa svuoto la cartella, mangio pasta al pomodoro e penso che forse maglione rosso passava su una bici per il paese per caso.

Però dopo catechismo resto fuori prima che il sole vada giù: torno al pollaio di Tino e raccolgo una borsata di foglie. Ripenso al maglione rosso: aveva gli occhi celesti, non mi ha visto.

Giovedì, scuola. Pomeriggio, gruppo parrocchiale. Ci vado con Mina.

Per strada c’è il silenzio dell’autunno. La stanza del prete è fredda, dalla finestra guardo la collina.

Penso ancora al maglione rosso. Era rossa anche la bici?

Dico a Mina che prima di tornare a casa devo fermarmi a comprare il latte, ma Mina vuole restare a guardare i maschi che giocano a calcetto: i soliti maschi che calciano e urlano di giovedì, sudati, sporchi di terra e acqua dietro il campanile. Cinque maschi infangati contro cinque maschi infangati.

Domani c’è matematica e ho ancora tutti i compiti da fare, vorrei andare, ma Mina ha già il naso nella rete del campetto. Allora resto, Mina vuole solo guardare Arrigo che fa gol, cinque minuti e poi andiamo. Che noia, ma lei si diverte, si agita e grida vai, Arrigo, vai! e Arrigo corre verso la porta. Ma all’ultimo istante passa la palla ed è un altro che segna, gooooool! Nel campo grigio passa una testa bionda che urla di gioia e sparisce sotto un mucchio di gambe piedi pantaloncini.

È lui! Non vedo più niente: è lui, maglione rosso.

Non sento niente.

Arrigo corre da Mina, le prende il naso attraverso la rete, poi torna in campo e abbraccia il compagno.

Non ha il maglione rosso e non ha la bici, ma è lui, afferro la rete arrugginita, lo fisso.

Si volta, sorride.

Abbasso gli occhi, non deve sapere, magari mi ha visto al pollaio di Tino che lo cercavo e ride di me.

È grande! È uno dei ragazzi grandi, è anche più grande di Arrigo.

Guardo Mina.

«Ma chi è?» chiedo.

«Chi?»

«Quello lì.»

«Quello basso?» fa lei, indicandolo.

«No! (sì): quello con i pantaloncini bianchi.»

«È Pim.»

«Pim?»

«Il fratello di Emil, quello che è in classe con me.»

«Emil ha un fratello?» chiedo.

«E una sorella. Ti piace, eh?»

«No. È che non l’avevo mai visto (guance rosa). Non lo conoscevo (rosse). Così, per curiosità (viola).»

Mina mi fissa. La rete mi entra nel palmo. Pim sparito.

Adesso so che: maglione rosso si chiama Pim, abita nel paese, ha i capelli sottili, una bici, molti denti bianchissimi, occhi celesti e gioca a calcio nel campo del prete.

È grande, io piccola.

Ancora piccola: anche se in terza elementare mi piaceva Luca, in quarta Raffaele, in quinta Mirco voleva baciarmi nel sotterraneo del condominio e io mi sono guardata le scarpe da ginnastica, ho gridato no, sono scappata e ho riso come il gatto selvatico; poi Guido, con l’apparecchio ai denti, una boccia di pesci neri in camera, la chitarra.

Si chiamano amori platonici, dice la mamma: cioè non ci si tocca con le mani, si parla solo, e questo va bene. La mamma ha fatto le superiori e di filosofia aveva un professore maschio. Bello. La mamma ricorda bene la filosofia e me la insegna. Lo so che non la fai ancora a scuola, dice, ma la filosofia è importante: è un occhio che mentre osserva ragiona. Ti fa capire tutto. Ti fa capire anche l’amore.

Poi ho questi capelli che non arrivano dietro le orecchie da quanto me li hanno tagliati corti. Le mie compagne portano calze di nylon, io solo di cotone e d’inverno non mi fanno mettere la gonna. È perché sembro ancora bambina, sono andata a scuola un anno prima, ho fatto l’esame direttamente in seconda elementare. Così ho sempre un anno in meno dei miei compagni e sono piccola anche di statura. Ma sono la più brava della classe.

Figli di maestre

Un giorno la mamma mi ha portato un bicchiere di latte con un panino al formaggio e mi ha chiesto vieni a cantare con la chitarra a scuola? La mamma fa la maestra a cinque bambini di quarta e quinta alla scuola di montagna, mentre nelle prime tre classi insegna la maestra Lavinia.

Ho detto sì.

La chitarra l’abbiamo imparata insieme io e Mina, ma non so ancora suonare senza il libretto, né improvvisare.

La mamma dice non importa.

Vorrei sapere perché la figlia grande della Lavinia, che insegna canto, non vuole andare al mio posto, ma non lo domando, perché voglio saltare un giorno di scuola e fare per una volta la maestra vera.

Con Mina giochiamo sempre a fare le maestre, ci assegniamo i compiti e ci scriviamo i giudizi, ma da quando c’è Arrigo Mina dà temi come “Scrivi una lettera al tuo migliore amico” e poi scrive solo di Arrigo. Non si fa più né matematica né disegno. Lei ride, dài, facciamo la ricrea-zione! e allora andiamo sulle bici per i campi e il paese: cerchiamo (lei, io sono il palo) Arrigo che rientra dall’allenamento.

È come provare a insegnare davvero, secondo la tradizione di famiglia: nonna Alma e le quattro figlie, fra cui mia mamma, che era destinata a fare la maestra prima di sapere l’alfabeto. Quando la mamma mi porta con sé a scuola perché ho un po’ di influenza e non sa a chi lasciarmi, scrivo tutta la mattina sulla lavagna e faccio disegni con i gessetti colorati mentre lei spiega. Si capisce che hanno chiesto a me e non alla figlia grande della Lavinia di suonare la chitarra: io conosco bene i bambini di quella scuola.

Il direttore didattico però non lo deve sapere. Il direttore didattico è un signore pelato, dritto, che spia le maestre dalla collina se fanno la ricreazione più lunga. In quel caso piomba a rimproverarle. Spia anche se nevica, deve avere il cannocchiale. Intervista i gestori del bar accanto alla scuola: hanno allungato di cinque minuti la ricreazione? chiede, col collo in avanti. No, direttore. Ridono piano (è pur sempre il direttore didattico), complici: servono panini alle maestre e vin brulé per il raffreddore.

Mentre suono sto seduta sul banco con le gambe accavallate e batto il tempo col piede su una sedia.

I bambini hanno mangiato torta di zucchero e cantano con le bocche impastate di bianco.

La maestra Lavinia non canta, mi guarda (ha gli occhi celesti), mi guarda ancora, sorride senza dire niente, intorno agli occhi le vengono mille rughe. Ha i capelli corti da maschio e un’automobile che sembra una macchina per cucire. La mamma ha detto che ha tanti figli, fa la maestra perché ha la vocazione, con tutti i bambini che ha già. Non è del paese, dice le e strette, vorrei che mi tenesse vicino, mentre cantiamo. Una maestra così porta il caffellatte ogni mattina anche ai bambini di scuola.

Deve essere più grande della mamma, la consola quando arriva in classe già col mal di testa, a ricreazione ce l’ha ancora e torna a casa col mal di testa. Il mal di testa è come il direttore didattico: non molla.

Se la maestra Lavinia venisse a casa nostra a pranzo, farebbe mangiare anche la mamma, che quando ha il mal di testa guarda la tovaglia e beve sorsi di camomilla con metà cibalgina.

Anche la maestra Lavinia sa cos’è il mal di testa, va a insegnare anche se vorrebbe stare a letto con le persiane chiuse e tutto buio, non vedere nessuno e non sentire rumori di bambini che giocano in casa, ha detto la mamma. È una santa.

Questo il direttore didattico non lo capisce: i bambini delle maestre non contano, solo quelli della scuola.

La maestra Lavinia ha detto alla mamma che uno dei suoi figli ha perso la testa per me. La mamma me lo ha detto domenica, mentre girava la polenta.

«Succede» ha detto. Poi ha riso «È anche un bel ragazzo.»

So che quando la mamma dice queste cose non fa sul serio, sta giocando. Si aspetta che io faccia lo stesso e mi diverta con lei. Ma oggi non ne ho voglia, non riesco a fare questo gioco perché penso a Pim. Così la blocco con una sciabolata degna di papà: «C’è uno alla parrocchia, è biondo e bello. Io penso a lui».

La mamma si volta di scatto per capire a che gioco sto giocando: «Scherzi, vero?».

«Preferisci che mi piaccia un figlio di maestra?»

La mamma allora capisce che siamo ancora nel gioco e come al solito dice no, per carità, niente figli di maestre!, che è una delle nostre battute preferite. Ridiamo, ma io ho un brivido per la mia furbizia: le ho detto la verità fingendo che fosse una fantasia. Così non potrà dirmi non me l’avevi detto. Perché la regola è che alla mamma devo sempre dire tutto.

Vedo Pim la domenica a messa. Una domenica sedeva al banco dietro al mio, ci siamo dati il segno di pace. Qualche volta passa a trovare don Giulio alla fine dell’incontro di gruppo e io lo sbircio mentre facciamo i disegni sulle Scritture da appendere in chiesa.

Pim saluta, dà una pacca sulla spalla al fratello piccolo, si mette a parlare con don Giulio e fa andare su e giù per il polso l’orologio. Perché gesticola. È una ragione per cui non dico niente alla mamma: considera gesticolare poco elegante. È un giudizio che mi turba, perché cade anche su papà.

Papà era da poco fidanzato con la mamma e cercava di fare conversazione con mio nonno (immobile sulla poltrona), ma gesticolando ha fatto imbestialire il gatto, che l’ha riempito di graffi e ha rovinato anche il velluto della poltrona. Il nonno Luigi ha emesso il verdetto: mai più gesticolatori in casa. Gesticolare è da zingari e commercianti, anche se papà non è nessuno dei due. E nemmeno Pim. Poi papà ha sposato la mamma.

Giovedì scorso avevo mal di gola, ma sono andata al gruppo lo stesso per vedere Pim, e infatti l’ho visto, e quando mi ha detto ciao ho provato a rispondere, ma sono arrossita.

Sei malata? mi ha chiesto.

Ho fatto no con la testa, Mina è scoppiata a ridere, sono arrossita di più, volevo morire. Non ho più staccato gli occhi dal disegno. Fuori pioveva.

Pim porta sempre i jeans, si cambia la camicia e la maglia. La camicia è a quadretti scozzesi, da montagna, e la maglia è a vu. Ha peli biondi fino al collo, e sulle braccia. Lo so perché si rimbocca le maniche e non mette il cappotto. Non ha mai freddo. Parla con le gambe aperte, incrocia le braccia davanti o fa andare l’orologio su e giù per il polso.

Mio papà di orologi ne ha una collezione e li tiene stretti al polso, d’estate al mare gli resta il segno bianco, i peli schiacciati e tirati per il sudore.

Chissà cosa direbbe se sapesse che mi piace uno così più grande di me, che mi piace già uno alla mia età e che si chiama come il nonno, Pim.

Anche il nonno Pim ha le gambe un po’ corte, da bambino ha avuto la poliomielite che fa restare zoppi, ma era donnaiolo, e mia nonna si è innamorata di lui a sedici anni mentre ballavano, si è innamorata dei suoi capelli ricci e alti e del ballerino che era. Hanno fatto tre figli e il nonno ha perso tutti i capelli.

Pim invece ha le gambe un po’ corte perché gioca bene a calcio e fa il centravanti, così corre senza sbilanciarsi. Ha la macchina e ha studiato alla scuola agraria di una città lontana.

Mina ha saputo da Emil che si vede poco perché, quando non lavora, va a sciare, cammina per le montagne da solo con un panino nella tasca e sta in silenzio a sentir fischiare le marmotte.

Mina ha capito qualcosa, ha capito che mi piace Pim, ma io nego. Fingo e le ripeto di smetterla di inventarsi questa storia assurda. Non gioco neanche più a maestre con lei: mi fa infuriare, perché ha aggiunto il nome di Pim nel registro e gli dà insufficiente in tutte le materie.

Fa così perché provoca, vuole la mia confessione. Sto più attenta, questa cosa non la deve sapere nessuno. Non la dirò mai. Mamma e papà pensano che sono troppo piccola per avere il moroso, ma non possono impedire che mi piaccia qualcuno. E se nessuno lo sa, è come se questa cosa non esistesse.

L’unica a saperlo è Ka, ma è mia sorella piccola, non conta niente. Io mi diverto a farle credere che è la mia confidente, ma lei sa che se mi tradisce le faccio un rigo di penna rossa sulle pagine di tutti i quaderni e del suo diario personale, perché ho scoperto il posto dove lo nasconde.

E poi Ka è una bambina, chissà se capisce di cosa parlo. È ridicola, va a giocare a bambole con la Lella della casa di fronte, parte con la borsetta di perline a tracolla e il casco di capelli fino agli occhi, e se la guardo soffia e scappa sulle gambe secche solo perché l’ho vista che andava a giocare a bambole dalla Lella.

La mamma è tornata tardi da scuola, perché si è fermata a parlare con la maestra Lavinia. Io avevo già apparecchiato con la tovaglia e i piatti per la pasta. È entrata dalla porta della cucina mentre l’acqua bolliva, le sono andata incontro per abbracciarla.

La mamma ha buttato registro e cappotto sulla sedia, non ha sentito il profumo del sugo di carne che ho cucinato da sola, perché sono uscita da scuola alle undici. Alla mamma non piace la carne. Beve un sorso di vino e sta zitta.

La mamma è una che quando torna da scuola parla, parla, mi abbraccia, e dice bella, stella, come è andata oggi, e poi corre per le scale due gradini alla volta a mettersi le pantofole, presto, presto, è tardi, metti l’acqua della pasta, papà arriva tra un quarto d’ora, e Ka? Non è ancora tornata?

Quando rientra dal lavoro la mamma è sempre in ansia e va di corsa, ma il pranzo lo prepariamo bene, insieme.

Mi lancia un’occhiata e fa: «La maestra Lavinia mi ha detto di questa storia di Pim».

Gli spaghetti vanno per metà fuori dalla pentola, io mi volto e la guardo.

«Cosa c’entra la maestra Lavinia con Pim? E poi non c’è nessuna storia. Te l’avevo detto che c’è un bel ragazzo alla parrocchia, tutto qua.»

«La maestra Lavinia è la mamma di Pim.»

«Cosa?»

«Hai capito bene.»

«Ma allora quel suo figlio che ha perso la testa…»

«È Pim. Credevo scherzassi quel giorno,» mi fissa, «non mi avevi detto che la cosa è reciproca.»

Reciproca, si dice.

Mancano pochi minuti a scolare gli spaghetti, Pim ha detto alla sua mamma quella cosa. Pim che non mi vede, che ha sette anni più di me e io sono appena in seconda media, la più bassa della classe, e non abbiamo mai parlato insieme davvero. Magari lui va in montagna col suo panino e si fa venire in mente la mia faccia.

«Hai sentito quello che ho detto? Non va bene. Sei troppo piccola.»

«Ma io non ho fatto niente, gli dico solo ciao, e poi ciao quando va via.»

«Non importa, non servono le parole, bastano gli occhi. Stai attenta a come lo guardi. Può andare a dire in giro quanto vuole che gli piaci, ma tu non tradirti. Non lo deve sapere nessuno, nemmeno lui. È ridicolo, dovresti pensare alla scuola e a giocare. E poi, dirlo a sua madre, sapendo che siamo colleghe!»

La pasta non è ancora pronta, tra due minuti entra papà, mi alzo per aprirgli la porta e dargli un bacio, Ka è andata a svuotare la cartella, la mamma si tocca gli anelli della mano sinistra e non mi guarda più. È colpa mia se ha tardato con il pranzo, se papà sta in silenzio, se loro oggi non parlano.

Non so neanche cosa ha detto alla maestra Lavinia, le avrà detto che sono piccola.

Ragni

Sono andata in cartoleria a comprare le cartucce per la stilografica. In cartoleria ci vado subito dopo pranzo, quando papà è tornato al lavoro e la mamma sbadiglia e si lamenta prima di risistemare la cucina. È una forma di depressione, dice, e devo ascoltarla, sennò è costretta a tenere tutto dentro e poi sta ancora peggio. A quell’ora la mamma dice chi è morto e chi sta per morire e di quale malattia, e di solito li ha visti pochi giorni fa, e l’hanno guardata in modo strano, come fossero già morti. Io cerco di fare presto, per fortuna ho spesso la scusa della cartoleria, una gomma o una penna da comprare prima di fare i compiti a casa: davanti ai compiti a casa la mamma si arrende. Lo studio prima di tutto.

Non piove, esco con le scarpe di vernice rossa e ascolto il rumore dei tacchi sull’asfalto. Da casa al negozio ci sono cinque minuti e decido di comprare anche un quaderno: finiti i compiti a casa, scrivo. Scrivo racconti su quello che mi capita, qualche cosa la invento, ma di solito mi piace scrivere aderente alla realtà. Salgo in soffitta, scrivo seduta sul baule della mamma, così da lì vedo anche se passa Pim sulla strada davanti a casa: lui non mi può vedere. Non mi può vedere nessuno.

Certe volte scrivo solo passa Pim passa Pim per due tre fogli.

Resto là finché ci vedo a scrivere, scrivo in bella grafia e alla fine disegno qualche cornicetta. Scrivo quasi tutti i giorni. Il quaderno e la stilografica li chiudo poi nel baule, tanto è vuoto perché le lenzuola e le tovaglie del matrimonio sono state tutte usate, e il vestito da sposa della mamma se lo sono mangiato i topi insieme ai guanti di raso, un periodo che la mamma non aveva posto in casa e aveva chiesto alla zia di tenerle il baule. Se avessi quei guanti bianchi li metterei per scrivere, Pim vedrebbe la luce del raso dalla finestra della soffitta e saprebbe che lo aspetto da lassù, senza bisogno di parole.

Ho fatto merenda da mia cugina Elisa, perché la zia aveva preparato la torta di mele. Quando la zia va nel cucinotto a prendere il bricco di panna, mia cugina si mette un pezzo enorme in bocca, bofonchia qualcosa con dentro Pim, e attacca a ridere e tossire spuntando fuori pezzi di torta. Si tiene la pancia come di domenica, quando si ingozza di polenta e formaggio e si deve sdraiare sul pavimento per respirare. Fa sempre così, dice la cosa ma non la dice, e aspetta che la dica io, così poi l’ho detta io. Mi fa talmente arrabbiare che pianterei lì lei e la torta.

Però stavolta dice: «Pim va sul colle sopra il paese col cannocchiale per guardare te dentro la tua casa» e scoppia a ridere di nuovo. Gliel’ha detto Anton.

«Non ci casco» faccio io. «È il migliore amico di Pim, non credo che vada a spifferare i suoi segreti.»

Elisa fa gli occhi furbi, un po’ cattivi, e allora capisco. Siccome ad Anton piace Elisa e lui è brutto, spera di conquistarla con i segreti, anche quelli del suo miglior amico. Elisa ha occhi celesti ed è bella, anche adesso che si è spaccata un dente davanti facendo i salti dal letto col fratello. È così bella quando guarda con quegli occhi celesti che viene da ridere anche a lei, perché sa di avere potere, e sa che qualunque Anton le direbbe i suoi segreti per uno sguardo.

Ma questa cosa di Pim non fa ridere, perché noi a casa non abbiamo le tende, neanche nel bagno.

La mamma dice che le tende fanno volgare, tutti hanno tende in casa, e così non le vuole. Non vuole neanche l’attaccapanni nell’ingresso: quando viene qualcuno gli prendiamo il cappotto per appenderlo in bagno, perché la mamma l’attaccapanni l’ha messo lì.

Se dal colle sopra il paese uno guarda col cannocchiale dentro la nostra casa, vede tutto come nei modellini delle case delle bambole, che però non hanno mai il bagno: c’è la cucina, ci sono i letti e perfino la lavanderia, ma di bagni non ne hanno.

Elisa ride, io le dico che non può sapere se Anton fa la stessa cosa e la guarda nel cannocchiale mentre è in bagno, perché lei si lava con la finestra aperta per sentire il rumore delle bocce del bar di sotto e fa scommesse tra sé su chi vince.

Elisa smette di ridere e finisce la torta di mele.

Non c’era nessuno in casa. La mamma era alla riunione interclasse e Ka dalla Lella. Papà non tornava per cena e avevo il permesso di andare alla festa di San Martino.

Riempio la vasca di acqua bollente e scelgo la salopette di jeans con la maglia a righe verdi. La mamma mi ha stirato le mutande a margherite e posso mettere un paio di calze nuove.

Mi piace avere sempre qualcosa di nuovo alle feste e alle gite scolastiche. La mamma mi porta alla merceria e scegliamo una maglia blu con puntini bianchi, o un fazzoletto giallo da mettere al collo. A lei piace comprarmi una cosa nuova, perché la tengo nel cassetto fino al giorno della gita o della festa, e prima di metterla mi faccio il bagno.

Stasera mi spruzzo anche un po’ di profumo, di papà. Speriamo che nessuno si accorga che è for men, sennò faccio la figura della Rita, la figlia del panettiere, che per il compleanno di Mina le ha regalato un dopobarba, e nessuno ha ballato con lei perché non usa il sapone (e ha i baffi). Insomma mi faccio questo bagno, e dentro la vasca, siccome sono sola in casa, mi vengono i pensieri di Pim.

Se sono in vasca e c’è la mamma che zampetta per casa, faccio in fretta, perché mi dà l’idea che lei controlli quanto tempo ci sto. Quando fa il bagno lei chiacchieriamo anche mezz’ora, ma se nell’acqua ci sono io bisogna fare presto. Deve entrare a prendere il detersivo sotto il lavandino, e ripete aiutami a piegare le lenzuola, fai presto così mi aiuti a piegare le lenzuola.

Quando era ragazza facevano il bagno tutti dentro la stessa tinozza, uno alla volta. La tinozza la mettevano nella cucina e per uno che si lavava c’erano sei occhi che vedevano: due sulla porta perché non entrasse nessuno, due che portavano l’acqua calda, e due che strofinavano lo sporco, perché ce n’era più di oggi.

Era un mondo pieno di cani gatti pulci e zecche, code di pantegane che pendevano dalle travi del soffitto: una volta la serva dello zio le aveva tagliate tutte una dopo l’altra per sentirle gridare.

Si vedevano ragni neri camminare sulle pareti, che almeno erano bianche e non coperte di carta da parati alla moda inglese, come adesso a casa della zia Giselle: in mezzo a tutte quelle rose stampate non si sa cosa si va a nascondere, dice la mamma schifata.

Gli scorpioni entravano di sera d’estate dalla finestra della camera della mamma, lei faceva l’ispezione e poi nello spegnere la lampada vedeva l’ombra dello scorpione a due centimetri dal naso: la mamma gridava, arrivava il nonno Luigi con la cinghia e diceva che era una stupida a stare con uno che le metteva in testa idee di fantasmi, cioè papà.

«Ma quali fantasmi, c’è lo scorpione!» urlava la mamma, e la zia si metteva a urlare anche lei.

Davanti all’isteria delle figlie il nonno perdeva la testa, dava la cinghiata e lo scorpione volava dietro l’armadio e non si trovava più. Ma era lì.

La mamma ha paura che ci siano i ragni anche nella vasca da bagno, perché papà le ha raccontato che nel suo viaggio al Cairo c’erano gli scorpioni nella bocca della doccia e lui si faceva la doccia con le scarpe. Lei ha detto che non si sarebbe mai lavata. Già… perché sei di campagna, le ha detto papà, e comunque tu al Cairo non c’eri. Però ragni e scorpioni ci sono anche qui, ha detto lei.

Ha ragione la mamma, nell’acqua si fanno pensieri inutili. Mi è venuto il prurito da ragni e per farlo passare mi levo quasi la pelle.

Mi guardo allo specchio: odio i miei capelli ricci, perché con l’umidità del bagno diventano come quelli della zia Giselle, che sono elettrici. Almeno lei può farseli stirare dalla parrucchiera, anche se poi finisce che le stanno come un casco da moto. Non voglio diventare come la zia Giselle, che parla solo di capelli e di soldi.

La zia Giselle ha sposato lo zio Mario dopo che avevano pattinato insieme in certe sere di dicembre sulla piazza ghiacciata. Lo zio Mario mi piace, ha fatto anche lui la scuola agraria, come Pim, però non sa niente di fiori, invece Pim sa descrivere con precisione il calice del ciclamino, e per il compleanno mi ha spedito un biglietto fatto a stella alpina.

Che cattivo gusto, ha detto la mamma, ma lei non può capire, non ha fatto la scuola agraria. E poi in questo periodo non ha voglia di romanticherie: lei e papà non fanno che discutere di soldi. A tavola la mamma dice a papà siamo nudi, per dire che sono finiti i soldi. Si dice nudi, perché dà un senso di freddo e vergogna. Quando finiscono i soldi è una vergogna, perché è sicuro che non sono stati spesi oculatamente: la mamma ha le mani bucate perché va a comprare le primizie da quella ladra della verduraia, papà ha le mani bucate perché offre aperitivi a tutti. Ma non si può fare a meno di primizie e aperitivi, i miei genitori se lo dicono e ripetono in faccia, quando litigano per decidere se si deve risparmiare sulle primizie o sugli aperitivi. Alla fine decidono che si risparmierà sui biscotti, perché li mangia solo Ka. Così Ka va a fare colazione in pasticceria.

Io biscotti non ne mangio, mi piace solo il pane e prosciutto che compro per merenda ogni mattina. È gonfio e fa profumo in cartella fino alla ricreazione. Ma il più buono che ho mangiato era un panino di Pim, nella camminata in montagna con don Giulio e il gruppo. È stato strano. Eravamo seduti su un sassone bianco, Pim mi ha messo un braccio sulle spalle e mi ha dato un morso del suo panino. Quella sera siamo tornati stanchi morti, Pim ha detto ti porto a casa io, signorina, stasera non vedi neanche la strada. Ma alla fermata del pullmino c’era mio papà.

[Immagine: Rineke Dijkstra, Ritratto (gm)].

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *