di Tommaso Giartosio

[Questa è la prima sezione del mio prossimo libro, in uscita all’inizio del 2012 per Laterza nella collana “Contromano”].

L’O DI ROMA. Il giro dell’Urbe senza fermarsi mai

Tutto comincia con un sogno. Un bambino immagina di attraversare la sua città lungo una circonferenza disegnata col compasso sulla mappa.
    Punta l’ago sulla piazza centrale. Punta la mina su casa sua. Disegna un cerchio.
    Seguirà questo percorso dovunque vada.
    Parte di mattina presto. Ha tutto: la mappa, una corda per le arrampicate, una torcia, panini, acqua.
   L’impresa è ardua. Deve superare ostacoli di ogni tipo: scalare mura, intrufolarsi in appartamenti, uffici, musei. Incontrare sconosciuti, spiegare o non spiegare le sue intenzioni, vivere avventure e disavventure, e non staccarsi mai dalla sua curva.
    Di sera è stanchissimo, ma continua a andare.
   La mattina dopo è ancora sulla linea prescritta: lo ritrovano a cavallo di una statua equestre. Addormentato. Abbracciato all’eroe.
    Questo è il mito di fondazione. È una storia che ho letto moltissimi anni fa, oppure l’ho inventata, sognata. Sta sul confine tra memoria e fantasia. E’ una visione. Non si lascia cacciare via.
Finalmente ho deciso di metterla in atto.

PRELUDIO

Scegliere un luogo

Quale città?

Facile. Roma. È semplicemente la mia città, l’unica in cui posso immaginare una peripezia simile.

Poi è una città a anelli. Dall’interno all’esterno: le diverse cerchie di mura; la circolare, che è una staffetta di tram; la tangenziale, che non ha il coraggio di fare tutto il giro e dopo un semicerchio si sfibra in un’infilata di viali; l’anello ferroviario; la linea difensiva formata dai quindici forti ottocenteschi; il Grande raccordo.

Di Roma si è detto che fosse quadrata (nell’antichità) o a forma di leone (nel medioevo). Sisto V la pensava a stella, e Corrado Alvaro si era messo in testa che fosse fatta come una nave. Ma ovviamente è una città rotonda. Non perfettamente circolare come la Città del Sole e altre utopie, o come la Città di Dite e altre distopie. Tondeggiante, espansa a macchia d’olio attorno al Campidoglio. Globulare come la parola OliO.

Come un’O, Roma ha un centro vuoto. Credo che lo sapessero i poeti, come Pasolini o Belli, e anche gli architetti. Lo sa chi entra al Pantheon o a Sant’Ignazio e guarda in alto. Io me sono accorto perdendomi per Roma da ragazzo, nei bruni anni Settanta, quando la città era più buia, trasandata, e sempre incolmabile.

Si calava verso il centro a cavalcioni dei motorini come per le pendici di un gorgo. Si costeggiava l’ombra dell’antico cuore della città. Il “Foro” in origine designava un “recinto”, un cerchio. Ora non si poteva non pensarlo come un vero foro, una profonda gola, un lago di pietre e pini fruscianti tra i palazzi del potere.

Roma fa perno sul potere, si dice spesso, ed è vero: ma il potere qui è il Palazzo, non chi lo abita. E’ il vuoto del foro, è il vuoto di quei saloni da cui si affaccia al massimo la figuretta di un papa-larva o la testa a biglia di un dittatore. Oppure, più spesso, nessuno. Le piazze invece sono sempre più piene, tra notti bianche, parate, maratone, processioni, manifestazioni. Abissi barocchi da ingorgare di folla, un occhio da stipare di sguardi, una bocca da ingozzare di voci.

Io non so perché intraprendo questo viaggio. Seguo una calcolata ossessione, cioè vado alla cieca. Ma mi sembra che lungo l’O potrei comprendere questo gorgo, vuoto, foro, occhio, sogno. O almeno farne prova. (Lettore, lettrice: seguimi.)

Fissare centro e raggio

Ci sono parecchi dettagli da decidere. Mi serve un’idea chiara dell’itinerario. Quanto sarà grande il cerchio, dove passerà? E prima di tutto: dove pianterò l’ago del compasso?

Apro la carta di Roma.

Quale sarà il centro? Il Campidoglio? Piazza della Repubblica? Addirittura il Vaticano? No, vorrei una determinazione di carattere puramente geometrico. Di storia, politica e ideologia ne incontrerò comunque in abbondanza.

Roma antica un centro ufficiale ce l’aveva. Era nel Foro, ovviamente: un piccolo monumento detto Ombelico dell’Urbe. A pochi passi c’era il Miliario Aureo, da cui venivano calcolate le distanze stradali dalle altre città. Sono entrambi ancora parzialmente visibili.

Si dice che oggi invece le distanze da Roma vengano misurate a partire da Piazza Venezia.

Ecco il centro, allora. Ma la piazza è lunga 150 metri, più altrettanti di Vittoriano. Che punto scegliere, esattamente? Quale toppa di asfalto, quale gobba? Dopo più di trent’anni di motorino le ho tutte nei dischi della spina dorsale, le settemila collinette di Roma, una a una. La mappa è il mio corpo.

Quando ero ragazzo Piazza Venezia sembrava più vuota. Forse vibrava ancora dei fantasmi delle adunate. Era disarticolata, un lago di asfalto, qua e là dei parcheggi. I turisti lo attraversavano come formiche impazzite. Una battuta rivelatrice voleva che il vero eroe della piazza, e quindi della città, fosse il vigile sulla sua pedana con i suoi gesti da burattino. Stava lì al centro, in fondo al gorgo.

Ho capito: il cuore di Roma è la pedana circolare di Piazza Venezia. Quella che qualche anno fa, falciata da una macchina, è stata sostituita con una nuova pedana elettronica retrattile. Si chiama: pedana a scomparsa. Quando vuoi, svanisce.

Il vuoto, sempre il vuoto. Oggi cercano di domarla, piazza Venezia. Ci sono semafori e pedoni che li rispettano, ci sono strisce zebrate come i percorsi d’avvicinamento agli animali nei nuovi bioparchi. I turisti sono meno spauriti e diventa meno facile distinguerli dai romani, che forse sono meno romani. Al centro sono state piantate grandi aiuole. Ma, proprio al centro, si è ricominciato a scavare. Con la scusa della metropolitana. Alla fame di nulla non si resiste.

L’ago del compasso devo puntarlo lì. Sulla pedana, o sul suo buco: 41°53’47.93” di latitudine Nord, 12°28’55.93” di longitudine Est, 18 metri sul livello del mare.

La punta della mina, invece, va su casa mia, nel quartiere Ostiense: 41°52’30.31”N, 12°28’45.63”E, 13m slm, più i 17 metri del palazzo. La punterò sul mio letto, dove ho letto o sognato la storia di un bambino che decide di attraversare la sua città lungo una circonferenza disegnata col compasso sulla mappa e tornare al punto di partenza.

Chissà se ce la farò io, a chiudere il cerchio. Non è detto. C’è un attrezzo sempre più diffuso nei nostri giardini pubblici, il saddle spinner: un sedile che fa perno su un unico fusto inclinato di pochi gradi. Basta sedersi e spostare un poco il peso perché il sedile cominci a ruotare: il bambino gira, rallenta, ride. Un adulto invece quasi sempre perde il controllo e accelera fino a schizzare per terra. I grandi perdono, ai giochi troppo elementari.

11 thoughts on “L’O di Roma /1

  1. Non ho ancora letto, ma un’obiezione me la permetto.
    Ma allora in LPLC l’autopromozione è la regola
    e sostituisce la “vecchia” recensione?

    Ho appena finito di leggere l’ottimo libro di Emanuele Zinato LE IDEE E LE FORME.
    Sono certo che lui non si “autopromuove”.
    Fategli almeno una “vecchia” recensione”!

  2. Per Ennio Abate

    La sua obiezione è francamente incomprensibile. La pratica di anticipare capitoli di libri che stanno per uscire o che sono appena usciti esiste da quando esistono le riviste moderne. Flaubert, Tolstoj, George Eliot, Dostoevskij, Joyce, ecc. hanno pubblicato interi romanzi su rivista prima di raccogliere l’opera in volume. Oltretutto questa pratica è anche il modo più civile, più democratico per permettere ai lettori di farsi un’idea del libro. Davvero non capiamo la sua posizione.

  3. Bene. comprenderò di più quando vedrò quanti Flaubert, Tolstoj, Eliot, Dostoevskii, Joyce, ecc. saranno anticipati su LPLC ( e quanti saranno quelli ignorati…).

  4. E’ molto interessante questo inizio di esplorazione urbana. Roma è una città che si presta a questo genere di esperienza, per la sua storia e per quel senso di vuoto che la città sembra emanare dalla sua bellezza. Un senso di vuoto che si ritrova in Belli e in Pasolini, ma anche nell’Ungaretti del “Sentimento del Tempo”.

    Grazie per l’anticipazione.

  5. L’immagine geometrica di apertura mi ha fatto tornare in mente alcuni quadri di De Chirico: tutto può trascenderci, essere senza luogo, ma, al tempo stesso, pulsare nei dettagli legati ad un’osservazione minimale e affettiva. Ha ragione Carlo quando fa riferimento all’eco barocca di Roma. Il compasso disegna sul ricordo e lambisce l’horror vacui. Grazie a Giartosio per questa anticipazione del suo nuovo libro.

  6. “But pardon, gentles all,
    The flat unraised spirits that hath dar’d
    On this unworthy scaffold to bring forth
    So great an object: can this cockpit hold
    The vasty fields of France? Or may we cram
    Within this wooden O the very casques
    That did affright the air at Agincourt?”
    William Shakespeare – Henry V

    Leggendo questa bella anticipazione, invece, a me sono venuti in mente questi versi tratti dal prologo all’opera shakespeariana. La grande O di legno che rimanda alla grande O sulla carta tracciata da Giartosio. Con tutte le implicazioni metaletterarie sollevate dal coro.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *