cropped-roma-9-maggio-1978-dopo-55-giorni-di-prigionia-il-cadavere-di-aldo-moro-fu-ritrovato-nel-baule-di-una-renault-rossa.jpegdi Andrea Cortellessa

[L’articolo è uscito sul numero 26 di «alfabeta2», in edicola e in libreria in questi giorni].

Una cassa di legno. Di quelle che si usano per trasportare oggetti fragili, come le opere d’arte. Alta meno di tre metri, profonda quasi altrettanto, larga poco più d’un metro. Dentro la cassa, due vani. Il primo fa da anticamera all’altro, che non ha ulteriori aperture all’esterno: vi si può guardare da uno spioncino ricavato nella porta. All’interno il minimo indispensabile. Una branda pieghevole; su una mensola una risma di carta, una penna, una bottiglia d’acqua minerale, un asciugamano, una saponetta, un rotolo di carta igienica; in basso un WC chimico, una bacinella di plastica, un condizionatore d’aria.

La cella così ottenuta riproduce in scala 1:1 l’ambiente di Via Montalcini 8, a Roma, dove tra il 16 marzo e il 9 maggio 1978 Aldo Moro venne tenuto prigioniero dalle Brigate Rosse. Ed è un piccolo classico dell’arte contemporanea: 3,24 mq di Francesco Arena, realizzato nel 2004. Come ha scritto Stefano Chiodi (La bellezza difficile, Le Lettere 2008), l’opera di Arena – nato proprio nel ’78, nella stessa Puglia da cui proveniva Moro… – «non serve, non dimostra, non sostiene, non invita all’azione. Ha il pudore degli oggetti nuovi. La loro strana pulizia. E incongruenza. Sta in attesa». Ma cosa attende? Aggiunge Chiodi che «è il combustibile per alimentare domande su ciò che vediamo, sulla connessione tra passato e presente, tra il piano dell’arte e quello dell’esperienza quotidiana». Come forse ogni opera d’arte degna di questo nome, si tratta cioè di uno schermo. Ciascuno di noi vi proietta se stesso: le sue aspettative, i suoi bisogni, i suoi desideri e i suoi incubi. In questo senso funziona come un accumulatore della nostra inquietudine, alla stregua del famoso pezzo silenzioso di John Cage, 4’33”, del quale parodia infatti il titolo. Una gabbia, una trappola del pensiero.

Ed è, 3,24 mq, uno degli oggetti di cui si parla (lo fa Tiziana Migliore) in Le polaroid di Moro: capitolo terzo, e com’è ovvio cruciale, d’una trilogia sull’uso pubblico delle immagini della storia recente che Sergio Bianchi ha iniziato l’anno scorso con Storia di una foto (l’immagine d’innesco era in quel caso quella celebre dell’autonomo in passamontagna che punta la pistola, a Milano nel maggio del ’77; ce ne siamo occupati sul secondo numero di alfalibri, giugno 2011) e proseguito quest’anno con Daddo e Paolo (stavolta a partire dal «servizio» di Tano D’Amico sullo scontro a fuoco di Piazza Indipendenza, a Roma, febbraio sempre del ’77; foto oggi celebri ma sconosciute sino al ’97, quando vennero pubblicate nel primissimo libro edito da DeriveApprodi). La strategia di Bianchi è sempre duplice, strabica: da un lato ricostruire il contesto sincronico dell’immagine-innesco (who, what, when, where, why venne scattata), dall’altro quello diacronico, e anzi anacronistico (nel senso, positivo, che la categoria ha in Didi-Huberman): per come cioè quell’immagine ha agito sui contesti a venire e, con ulteriore strabismo, tanto in quelli politici (storico-politici, cioè) che in quelli artistico-espressivi. Per com’è entrata nel nostro immaginario, insomma. È significativo, per esempio, che in quest’occasione abbia chiamato accanto a sé una giovane quanto intelligente storica dell’arte, Raffaella Perna: che in Storia di una foto già aveva studiato i détournements artistici cui negli anni è stato sottoposto lo «sparatore solitario» (e lo stesso fa qui, con ottimi risultati: da Ando Gilardi e Mimmo Rotella a Mario Schifano, da Maurizio Cattelan sino a Elisabetta Benassi).

Ancora oggi – a quasi trentacinque anni di distanza – se dobbiamo restare alle famose cinque w non sappiamo in effetti chi, dei brigatisti, scattò quelle due fotografie. Sono alla lettera «immagini senza autore», come (in altro senso) dice Tano D’Amico. Ma non c’è dubbio che, se per who intendiamo invece chi vi è raffigurato, ciascun italiano sarebbe in grado di riconoscerlo. Se non altro perché quell’immagine è divenuta negli anni un simbolo storico, un’icona. Come schermo proiettivo, tanto più efficace quanto meno precisamente riprodotta (se è vero per esempio, come dice Francesco Galluzzi, che su di essa è modellata la postura di Roberto Herlitzka in Buongiorno, notte di Marco Bellocchio; ha invece torto Giuseppe Fiorentino – come ha mostrato Belpoliti su doppiozero riproducendo le perizie della Commissione d’inchiesta parlamentare – a sostenere che gli originali delle foto fatidiche, prima d’essere riprodotti su tutti i giornali italiani, fossero a colori).

Tanto imprecisa, la nostra memoria di Moro, che in genere vi serbiamo una immagine, laddove quelle diffuse dalle BR furono invece com’è noto due fotografie, e ben diverse fra loro: la prima uscì il 19 marzo, a tre giorni da Via Fani; la seconda più d’un mese dopo, il 21 aprile, ed è come dice Belpoliti una «meta-fotografia» – vera e propria mise en abîme – perché Moro tiene in mano la prima pagina di «Repubblica» del giorno prima, con ben leggibile (anche se nel «taglio» operato dai giornali il margine inferiore dell’immagine s’è perduto, in misura variabile da testata a testata: vedi la rassegna delle prime pagine in Le polaroid di Moro, pp. 76-77) il titolo a caratteri cubitali Moro assassinato?. Serviva diffondere una seconda immagine – una seconda prova di esistenza in vita dell’ostaggio – perché tre giorni prima, nel trentennale del 18 aprile, era stato diffuso il comunicato apocrifo, un falso grossolano al quale però allora quasi tutti credettero, che dava la condanna per eseguita e il cadavere di Moro occultato nel lago della Duchessa, sull’Appennino reatino. Fu dunque esigenza pratica, certo. Ma che conferma il destino di doppiezza, di diplopia (per dirla col termine usato da Clément Chéroux per definire quelle dell’11 settembre 2001) che è sempre in qualche modo collegato alle immagini del terrore.

Solo dopo vent’anni queste immagini sono state prese seriamente in esame – laddove durante i 55 giorni, e anche in seguito, ossessiva sino alla sovrainterpretazione è stata invece la lettura degli scritti di Moro, le lettere e il «memoriale» – da parte degli storici. Un ruolo pionieristico, fra questi, lo ha svolto Marco Belpoliti: che appunto nel 1998, sulla rivista d’arte «Ipso Facto» diretta da Elio Grazioli, pubblicò col titolo Attraverso l’occhio il primo embrione del saggio giunto ora a definizione ultima (?), presso Guanda, col titolo Da quella prigione. Ma persino lui ha fatto lo stesso curioso lapsus, intitolando La foto di Moro – al singolare – una versione intermedia del suo lavoro (pubblicata come «Sasso» nottetempo nel 2008). Da quell’episodio, in ogni caso, derivano da un lato il saggio d’apertura di Settanta (Einaudi 2001 e 20102), dedicato all’interpretazione del caso Moro da parte degli scrittori (Sciascia, Arbasino, Morante) e dall’altro la serie «biopolitica» Il corpo del capo (Guanda 2009), Pasolini in salsa piccante (ivi 2010) e La canottiera di Bossi (ivi 2012). Non si sbaglia dunque a indicare, in questo punto cieco della storia d’Italia che è la doppia immagine di Moro, l’episodio decisivo di un percorso intellettuale, il suo, che è fra le vicende più singolari e, non solo per me, più formative degli ultimi decenni (che è difficile, per esempio, pensare ininfluente su alcuni degli artisti di cui tratta Raffaella Perna).

Doppia, la storia di quest’icona, anche in altro senso. Si diceva prima dello sguardo tanto storico-politico che artistico-immaginario, del libro DeriveApprodi (due piani sempre intrecciati, come mostra il documento più impressionante che solo ora si può vedere nella sua integrità, dopo che tanto se n’è letto – svolgeva un ruolo importante, e faceva persino da immagine di copertina, nel primo libro dedicato alla vicenda da Miguel Gotor, l’edizione delle Lettere dalla prigionia di Moro, Einaudi 2008 –, ossia il fumetto di Giuseppe Madaudo e «Melville», alias Rosalinda Socrate, pubblicato dalla rivista «Metropoli» nel giugno del ’79). Ma la domanda difficile è: a parte il loro decisivo significato storico hanno un senso, queste fotografie, dal punto di vista artistico? È legittimo cioè leggerle, come fa Belpoliti, all’ombra dell’uso dell’istantanea da parte di Warhol, o già prefigurando l’interpretazione di Bellocchio? Domanda scandalosa solo per chi confonda intenzione estetica con valore estetico (come chi per decenni ha considerato un ossimoro parlare, per esempio, di cultura fascista).

Pare innegabile che fra i terroristi vi fosse chi aveva una consapevolezza, e dunque un’intenzione, estetica (in questo senso poté parlare Stockhausen dell’11 settembre come di un’«opera d’arte»): se è vero che l’uso delle immagini, da parte delle BR, fu anche di questa natura. Spiega Belpoliti che fra gli scopi dei brigatisti, diffondendo quelle immagini, c’era quello di scoronare il Capo, di presentarlo sconfitto e in stato di cattività: in una parodia delle foto segnaletiche che, appunto all’atto della cattura, vengono scattate ai carcerati. E tale fu appunto l’effetto-choc della prima foto. La celebre e tremenda vignetta di Vincino («scusate, abitualmente vesto Marzotto»), rifiutata da Lotta continua e pubblicata dal Male, coglieva con cinica esattezza questa intenzione umiliante. (L’icona del capo democristiano, aggiunge Belpoliti commentando la terza foto che suggella questa storia, quella del cadavere di Moro nel bagagliaio della Renault 4 a Via Caetani, era sempre ammantata dal simbolo-corazza del cappotto; presentarlo in maniche di camicia significava denudarlo: con tutta la simbologia che alla nudità storicamente è connessa.) Ma con la seconda foto accadde qualcosa d’imprevisto. È per questo che si pensa sempre a una foto. Quella riprodotta in formato gigante dalla copertina del volume DeriveApprodi. Dice giustamente Pio Marconi, nell’importante saggio che lo apre, che «tra le cause della sconfitta etica e politica delle BR» vi fu «il comportamento e il comunicare del prigioniero» (e sottolinea come la sua richiesta di aver salva la vita – anziché espressione di «familismo amorale» come la lesse allora, strumentalmente, il «partito della fermezza» ma come pure, a posteriori, la volle presentare Mario Moretti – fosse coerente con l’impostazione sin dall’inizio data da Moro alla sua azione politica).

Tanto s’è scritto della commovente tessitura affettiva delle ultime lettere di Moro ai famigliari; anche il volume DeriveApprodi riproduce in clausola, a mo’ di epigrafe, frasi che fanno ormai parte del sillabario della storia repubblicana («Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo»). E tanto s’è congetturato, da Sciascia a Gotor, circa l’intenzione obliqua delle medesime lettere, la loro capacità cioè di parlare in codice, anzi in diversi codici, ai diversi destinatari. Ma se Moro ha condotto a sua volta una guerriglia semiotica, nel carcere di Via Montalcini, è stato soprattutto con lo sguardo della seconda foto. Cesare Zavattini, in un trattamento mai realizzato per un instant movie sulla vicenda (riportato da Galluzzi), ne parla così: «Osserviamola a lungo, la fotografia di Aldo Moro. Avviciniamola, allontaniamola, scomponiamola nei suoi fattori fisici che acquistano altri significati. Ci sembra che lo stesso Aldo Moro diventi, per la prima volta, sotto i nostri occhi un nostro simile, un fratello». È esattamente quanto fa Belpoliti, in pagine mirabili, con filologica pietas visiva. La caratteristica di questa seconda immagine, il suo punctum, è la «dissimmetria dello sguardo». Questo sguardo è davvero obliquo, e l’immagine ancora una volta è doppia: «guarda verso di noi, ma non guarda noi». È per questo che «se l’intento delle BR era quello di fotografare un ostaggio […], lo sguardo di Moro in questa seconda istantanea annulla ogni intenzione, e ci raggiunge». È l’«appello assoluto» di cui parla Tano D’Amico. Un appello al quale non si può resistere.

L’intenzione, estetica e insieme politica, con la quale le BR diffusero questa seconda immagine, si tramutò per loro in un boomerang. Denudare il re non significò più sconfessarlo e ridicolizzarlo, bensì trasformarlo in uomo (o, come scrisse Sciascia, in «creatura»). Che gli italiani – tutti insieme e all’improvviso – percepissero che quella segregazione, quella tortura psicologica e infine quella brutale soppressione non riguardavano più un simbolo del potere astratto e inumano bensì in primo luogo un uomo, un uomo come tutti, fu per le BR l’inizio della fine.

Marco Belpoliti
Da quella prigione. Moro, Warhol e le Brigate Rosse
Guanda 2012, pp. 77, € 8.90

Le polaroid di Moro
a cura di Sergio Bianchi e Raffaella Perna
DeriveApprodi 2012, pp. 211, € 20

[Immagine:  Via Caetani, 9 maggio 1978 (gm)].

 

26 thoughts on “Il cuore dello Stato

  1. “L’intenzione, estetica e insieme politica, con la quale le BR diffusero questa seconda immagine, si tramutò per loro in un boomerang. Denudare il re non significò più sconfessarlo e ridicolizzarlo, bensì trasformarlo in uomo (o, come scrisse Sciascia, in «creatura»). Che gli italiani – tutti insieme e all’improvviso – percepissero che quella segregazione, quella tortura psicologica e infine quella brutale soppressione non riguardavano più un simbolo del potere astratto e inumano bensì in primo luogo un uomo, un uomo come tutti, fu per le BR l’inizio della fine.”(Cortellessa)

    Tanto poté un’immagine, una foto?
    Ahimè, quando ci stiamo assuefacendo a guardare minimalisticamente la storia.
    Fra poco arriveremo ai libri di storia con solo foto. Naturalmente commentati dai letterati che le parole le trovano sempre.
    A partire dalle immagini, ovviamente. E fermandosi ad esse o nei loro dintorni, ovviamente.

  2. Certamente, come Barthes e molti altri insegnano; condividendo questo post nella mia bacheca, ricordavo l’analoga funzione nel film di Bellocchio, “Buongiorno, notte” delle immagini, straordinarie in bianco e nero,de i sogni di una brigatista – che sognando in russo, pensa ai familiari e alla neve…come suo padre è sepolto nella figura di Aldo Moro. Aggiungo, che mi fa pensare alla tragica rimozione/ riparazione di “Altre mani di Karl Radek” di Fortini (che parafrasai in esergo a Lettere giovani, per circondare *gli invisibili* nella discesa purgatoriale), dove mani mozzate dell’ucciso, in senso macbethiano,(dalla censura stalinista) rivivono e danzano, doppiate dalla coscienza ( alla Dostoevskij). Quel delitto nel cuore e al fondo al ’77, significò l’inizio della fine del movimento, del suo assedio armato. Toni Negri aveva sbagliato. Da allora, le coscienze di noi, ragazzi, non smisero di interrogarsi.
    Maria Pia Quintavalla

  3. @ Quintavalla

    Azzeccato il paragone con “Altre mani di Karl Radek” di Fortini.
    Quello che non vedo in tutte queste analisi di immagini è la visione politica ampia e rigorosa che fu di Fortini.
    E lo dimostra il tuo accenno agli sbagli di Toni Negri.
    Assieme a questi, di ben altri sbagli (anzi compromessi storici…), , bisognerebbe parlare per far uscire dal minimalismo queste riflessioni letterarie sulle immagini.

  4. si dovrebbe partire dall’inizio, dalla stella a 6 (sei) punte spruzzata da moretti nel 1972…

  5. perché dada? la stella l’ho sempre letta, banalmente, come un rinvio all’URSS e all’Armata Rossa… anche se è suggestivo pensare alla circostanza che l’atto fondativo fosse stato all’albergo Stella Maris di Chiavari nel novembre 1969 (albergo, a quanto pare, di proprietà ecclesiastica; e simbolo anche religioso: a conferma delle radici cattoliche del movimento).

  6. db si riferisce a un episodio preciso, a quando, durante un sequestro lampo, Moretti disegnò sul cartello messo al collo del sequestrato la stella delle Brigate Rosse non con cinque ma con sei punte, come nella stella di David. La “svista” è stata interpretata da alcuni come un messaggio in codice indirizzato al Mossad.

  7. La stella a cinque punte *iscritta nel cerchio* non è il simbolo dell’Armata Rossa o dell’URSS, che recano una stella a cinque punte senza iscrizione nel cerchio.
    E’ invece simbolo della Repubblica italiana, e prima ancora del Regno d’Italia (il famoso Stellone). Nel simbolo repubblicano, il cerchio che campisce la stella è la ruota dentata (simbolo del lavoro sul quale si fonda la repubblica secondo Costituzione).
    Fu usata come simbolo dal Movimento Armato Rivoluzionario di Carlo Fumagalli, organizzazione di estrema destra legata ai Servizi Segreti, e poi, pochi anni dopo, dalle B.R. (la coincidenza in effetti fa pensare).
    La stella a cinque punte iscritta nel cerchio è il pentacolo, simbolo esoterico e alchemico, poi ripreso dalla tradizione massonica in linea con il luciferianismo, o satanismo ottocentesco da Ballo Excelsior. Ricordate Carducci? “Satana, o ribellione/o forza vindice della ragione…

  8. E’ vero. Un’immagine non può “tanto”. Siamo noi interpreti a leggerla come icona ad alto potere prefigurante. Ciò è legittimo, se viene esibito come atto parziale di interpretazione e sottoposto alla verifica, sempre parziale, intersoggettiva. L'”effetto di realtà” delle immagini del corpo di Moro ci pare più forte di quello degli atti e dei proclami delle br (“le mutinazionali..”), abitati da una sorta di schizofrenia finzionale. Il paese andava da tutt’altra parte, il movimento del ’77 era imploso fra soggettivismo, macchine desideranti, eroina, impotenza e disperazione e un piccolo gruppo occulto scriveva ogni settimana (nel bel mezzo di una società in buona parte già postmoderna) un fumetto di proclami guevaristi e castristi fuori tempo massimo…La percezione collettiva – lo ricordo bene – era mediatica e surrele: ben espressa e deformata dalle copertine del “Male”. Parallelamente, il PCI unito alla DC nei cortei e in parlamento, in un abbraccio mortale si rappresentava solo come attore del Palazzo, perdendo in poco tempo ogni carica di trasformazione (che Berlinguer cercherà di recuperare qualche anno dopo davanti ai cancelli della Fiat occupata). BR e Compromesso storico non possono essere capiti senza pensare alla minaccia/incubo di un Colpo di Stato autoritario e di destra. L’idea del Compromesso storico è nata all’indomani del Golpe in Cile, paese per più di un verso simile all’Italia, ed era nella strategia di Berlinguer un modo per introdurre “elementi di socialismo” nonostante l’anatema anticomunista del blocco atlantico…La concreta possibilità di un Golpe fascista è altresì la molla che fa entrare in clandestinità Franceschini, Curcio e gli altri. Tutti costoro non vedevano molto in avanti, perché il vero “golpe” fu quello bianco preparato da Gelli che produsse Craxi e poi il berlusconismo. La minaccia di un colpo di stato di servizi deviati e di colonnelli dura non oltre il 73-74. Poi le bombe – come quella alla stazione di Bologna – hanno lo stesso scopo degli attentati mafiosi. Ecco perché la creaturalità del corpo morto di Moro ci sembra più “vera” di quella dei corpi vivi dei brigatisti, ritratti a pugno chiuso dietro le sbarre.
    Passando poi dalla storia politica alle metodologie ermeneutiche, ricordo che in ambito umanistico (a esempio nella geografia umanistica britannica) è in corso una interessante svolta che viene chiamata post-representational style of thinking (più che una vera e propria ‘theory’). Material turn, embodiment … sono tutte espressioni collegate che in vario modo concorrono a definire questa riemersione del reale, nel senso di un superamento della sua accezione di entità meramente segnica o discorsiva. E’ insomma parte di una più generalizzata “svolta materiale”: queste suggestioni critiche nei confronti della “rappresentazione”, come il nostrano “ritorno alla realtà”, vanno io credo accolte a patto di considerare come nelle arti e nelle formulazioni discorsive, il codice svolga sempre un fondamentale ruolo di mediazione, come il medium sia il messaggio e come, d’altra parte, la forma non sia che contenuto sedimentato.

  9. Grazie Andrea, mi era sfuggito questo pezzo. Del lavoro di Biscotti ha parlato Michele Dantini nell’incontro che abbiamo fatto con lui, insieme a Stefano Chiodi e a Francesca Coin al MACRO di Roma, l’altro ieri in occasione della pubblicazione di un suo libro molto interessante – nel contesto della presente discussione – come «Geopolitiche dell’arte» (Christian Marinotti editore). Lavoro in sé interessante ma, a quanto sosteneva Michele, che l’autrice si trova in difficoltà a problematizzare, a mettere cioè in una relazione non banale col dibattito politico prima, e storico-politico ora, relativo al 7 aprile. Dal che Michele trae la conclusione che la generazione di artisti italiani che sta “riscoprendo la storia” (e la storia contemporanea in particolare: quella degli anni in cui sono nati, proprio) – con intenti forse non diversi da quelli cui faceva cenno Emanuele Zinato nel suo intervento – mostra una preparazione tecnico-formale ragguardevole ma, ancora più dei già abbastanza improvvisati artisti della generazione precedente (diciamo Transavanguardia e dintorni), si mostra poi del tutto incapace di trarre in proprio le conseguenze della sua ricerca (il che poi si traduce infatti, il più delle volte, in ricerche interrotte, contraddittorie, in una sorta insomma di bovarismo teorico-concettuale).
    Una conferma piuttosto impressionante, di questo punto di vista, viene dall’ascoltare il dialogo dello stesso Francesco Arena con Fausto Bertinotti (http://www.youtube.com/watch?v=ySBtaFvpizA, http://www.youtube.com/watch?v=66n-JrJSTCY, http://www.youtube.com/watch?v=xKmbF67JUZw), il quale Bertinotti si dimostra un connaisseur d’arte d’una certa finezza ma soprattutto mostra un livello di problematizzazione, riguardo ai suoi contenuti, che l’artista proprio non si mostra in grado di seguire (anche questi video non li conoscevo e mi sono stati segnalati da Fabrizio Scrivano, che ringrazio).
    Naturalmente ci sono eccezioni (penso per esempio a Lara Favaretto la quale si mostra tutt’altro che ingenua riguardo alle sue installazioni “neostoriciste”); ma certo siamo di fronte a un problema che in ambito letterario pure è dato constatare ma, direi, assolutamente non in queste proporzioni. Dopo l’ultima generazione di artisti-intellettuali (i poveristi, in sostanza), il postmodernismo italiano ha prodotto talenti anche straordinari sul piano espressivo, ma catastroficamente poveri (mi si perdoni il bisticcio) sul piano dell’elaborazione intellettuale e politica. Per cui i critici – ripeto, in misura a mio avviso incomparabile con quanto avviene nell’orticello letterario – si trovano a esercitare una funzione di supplenza (nei casi migliori) o a operare una prevaricazione (nei casi più frequenti) che, come pure diceva Dantini nella discussione dell’altro giorno, è in primo luogo deontologicamente fuorviante.
    La domanda è, al di là dello specifico artistico evidentemente: quanto queste opere ci fanno capire, dei fatti storici in questione, aspetti che la precedente riflessione aveva trascurato o del tutto omesso? Pensando ad Arena, direi parecchio. Ma devo confessare che un po’ mi turba constatare come questo “capire”, in fondo, prescinda del tutto dalle intenzioni dell’autore.

  10. Ringrazio Andrea Cortellessa per il rinvio, e colgo l’opportunità di intervenire su temi che mi stanno particolarmente a cuore.

    Secondo una versione storiografica (o giornalistica) corrente l’ultimo quinquennio dell’arte italiana è caratterizzato dal recupero di interesse per la memoria collettiva, la storia politica del Paese, la ricerca d'”archivio”.

    Dichiaro la mia perplessità circa il tratto “politico” dell’arte italiana contemporanea: per il semplice motivo per cui, per citare Brecht, non è politica l’arte che raffigura eventi o personaggi politici ma l’arte che riflette politicamente sui propri “processi di produzione”.

    Malgrado contenuti “politicistici”, sempre tuttavia declinati all’indietro, ai decenni Sessanta e Settanta, con attitudine ossessivamente archeologica, non è raro scoprire, tra gli artisti di più giovane generazione, un atteggiamento come di egotismo autoriale, commemorativo e nostalgico, che si appropria irriflessivamente di eventi cruciali, spesso dolorosi e traumatici (Moro, il processo all’autonomia etc.); ne disperde la tragica complessità e trasforma il Lutto o il Trauma collettivo in pretesto autocelebrativo e neomonumentale.

    Considerati sotto il profilo delle politico autoriali, gli orientamenti artistici contemporanei cui ci stiamo riferendo non potrebbere essere più distanti dalla ricerca storiografica, assoggettata a principi di prudenza, rigore, autocorrezione costante e montaggio critico e progressivo di egodocumenti.

    Retoriche inattualistiche e neometafisiche affiorano in controluce proprio laddove il luogo comune promozionale parla con enfasi di “processi partecipativi” e “arte pubblica”.

    Due link sul tema arte, storiografia, sfera pubblica (a “inchieste” apparse entrambe recentemente sul manifesto, una in occasione di Documenta 13, e riprese altrove):

    @ http://micheledantini.micheledantini.com/2012/06/28/dokumenta-13-review/

    @ http://micheledantini.micheledantini.com/2012/04/09/inchiesta-sullarte-italiana-contemporanea-critica-storiografia-collezionismo/

  11. A. «L’idea del Compromesso storico è nata all’indomani del Golpe in Cile, paese per più di un verso simile all’Italia, ed era nella strategia di Berlinguer un modo per introdurre “elementi di socialismo” nonostante l’anatema anticomunista del blocco atlantico…» (Emanuele Zinato)
     
    B. «Il 15 febbraio Napolitano sarà ricevuto da Obama nella stanza ovale della Casa Bianca, stanza molto “riservata”, cioè utile a colloqui con ampi margini di segretezza. Successivamente, si recherà in Germania a rendere visita alla Merkel e infine riceverà la Regina d’Inghilterra (a mio avviso, è l’incontro meno significativo). Volendo, si possono tenere tutti i colloqui segreti che si vogliono in qualsiasi luogo, come sono sicuro avrà fatto lo stesso Napolitano nel suo primo viaggio negli Usa nel 1978, che si sostenne culturale mentre era il passo finale della prima fase di cambio di campo del Pci, iniziata con moltissima cautela nel 1969 quando divenne vicesegretario Berlinguer, l’eurocomunista, cioè il non più ormai comunista. Ed è da lì che inizia anche la stagione dei cosiddetti “anni di piombo” in Italia con il presunto “terrorismo”, che fu tutto fuorché questo poiché s’inseriva nelle complesse manovre, provenienti pure da est, dove ormai si era capito il gioco degli ex comunisti italiani; e lo si era capito perfino dal loro atteggiamento durante il regime dei colonnelli greci, quando il Pci tenne rapporti con il cosiddetto PC greco dell’interno (circuito pure da alcuni ambienti statunitensi pronti all’eventuale sostituzione del regime militare con uno “democratico”, ma filo-occidentale e filo-Nato) e fu nei fatti “scostante” verso quello dell’esterno, maggioritario, di “fedeltà” filosovietica».
    (Gianfranco La Grassa >http://www.conflittiestrategie.it/bricolage-terza-puntata-di-glg)
     
    Chi parla di eventi degli anni Settanta dovrebbe spiegare la persistenza di queste contrapposizioni di giudizio storico-politico. Secondo me la povertà catastrofica del postmodernismo italiano sul piano dell’elaborazione intellettuale e politica non è mica solo degli artisti. A me pare di vederla anche nei critici (per non parlare dei politici).
    Se in questo post si parla del «piccolo classico dell’arte contemporanea: 3,24 mq di Francesco Arena, realizzato nel 2004»,  di «uso pubblico delle immagini della storia recente»,  del «ruolo pionieristico» delle ricerche di Belpoliti, per porre come domanda cruciale la seguente: «a parte il loro decisivo significato storico hanno un senso, queste fotografie, dal punto di vista artistico?», c’è (per me) da farsi cadere le braccia.
    Si sente troppo una fretta di lasciare da parte la storia con le sue complicazioni (che continuano nell’oggi) e ritirarsi nell’estetico quasi come “discorso-rifugio”. E ciò a me pare più scandaloso che  confondere intenzione estetica con valore estetico. Come ritengo ozioso mettersi a discettare se l’uso delle immagini, da parte delle BR, fu anche di  natura estetica, invece di darsi da fare a riflettere sulla storia di quegli anni e sui giudizi storico-politici che restano controversi  e rimossi. No, non bastano i Bellocchio o i Giordana.
    Quell’immagine  di Moro  verrebbe o no letta in altra maniera se una coraggiosa elaborazione intellettuale e politica della storia italiana dimostrasse più valida l’ipotesi affacciata da Zinato o convalidasse invece quella affacciata da La Grassa?
    Non invoco un’estetica sottomessa alla politica o alla storia ma collegata ad esse.
    Il dettaglio senza l’insieme è (quasi) muto. Non possiamo accontentarcene…
    Non

    P.s.
    Per un altro modo d’interrogarsi su quella storia meno elusivo e che non accantona
    i nodi irrisolti si veda qui:
    http://moltinpoesia.blogspot.it/2013/01/pietro-peli-una-polemica-in-versi.html#comment-form

  12. Con il consenso dell’autore riporto qui parte di una mail di Mattia, che è un ottimo artista ma con il copia incolla proprio non ci sa fare:

    Molto interessanti sono i commenti che seguono a Zinato, sia Cortellessa che Dantini. Giustissima anche se troppo leggera, la critica di Cortellessa all’incapacità di problematizzare (eufemismo per non dire superficialità) degli artisti contemporanei più giovani (e forse non solo giovani). Mette in luce quello che io in un certo senso non ho avuto la chiarezza e il coraggio di dire nel mio articolo, che importare entro la cornice artistica senza elaborazione è il metodo di Duchamp per interrogare cosa sia l’arte, ma che se questa operazione vien fatta senza consapevolezza e/o intenzione di quello che si sta facendo, l’opera non vale un cicca.
    In realtà il fondo di questo genere di operazioni non è diverso dal sensazionalismo spettacolare che ha sostituito l’informazione e di cui l’arte è vittima molto più che la letteratura credo: lo shock, l’appropriazione di un materiale di per se intenso e problematico come un periodo storico violento, con in più la vigliaccheria di sperare che sia quel dramma a fare il lavoro che l’artista non ha fatto e che forse non sa fare (e che certamente critici e il pubblico che lo acclamano non sanno richiedere e forse nemmeno pensare).
    Se vogliamo concedere il beneficio del dubbio, diciamo che queste sono operazioni ‘fotografiche’, nel senso che si muovono come lo sguardo-cornice della fotografia, con la sua capacità di portare le cose alla nostra attenzione e dunque di renderle plausibili di un significato. Ma questo la fotografia lo può fare proprio in quanto incornicia, cioè rende immagine, in cui tutto quello che è extra viene purgato. Non serve riscostruire la realtà in 3D, questi sono solo orribili tableaux vivants.
    Recentemente ho rivisto un’immagine di Lee Miller, fotografa americana che (tra altre cose) era al seguito dell’esercito alla fine della seconda guerra mondiale in Germania. Nel ‘45 dopo aver visitato e suppongo fotografato un campo di stermino appena liberato, arriva a Monaco e entra nell’appartamento Hitler. Dove, non so se per posa o per caso, si fotografa mentre si lava nella sua vasca da bagno. Il risultato è impressionante. Ma lo è proprio perchè la fotografia pone la distanza necessaria.
    http://default.media.ipcdigital.co.uk/11134/000001b85/addb/Portrait-of-Lee-Miller.jpg
    http://www.southcambsdfas.com/userimages/Lee_Miller4forweb.jpg
    (in realtà si tratta di una sequenza di quattro scatti, in cui lei gira progressivamente la testa e sembra guardare la statuetta delle bellezza sul tavolino a fianco, ma evidentemente i compilatori di catologhi informatici non hanno ritenuto degna di nota questa ulteriore allusione).
    Immagina se qualcuno avesse ricostruito il bagno…
    Non mi fraintendere, io apprezzo e pratico il realismo, mi piacerebbe in forma assoluta (viene anche citato in uno dei commenti), non sono per le sublimazioni. Ma queste cose, non sono nè l’una nè l’altra. Cattiva arte insomma.

    M

    ps1: alla biennale di berlino del 2005 (di gran lunga la miglior mostra che abbia visto; organizzata da Cattelan e Gioni, il che dimostra che le cose orrende che fanno di solito sanno di farle e le fanno per il portafogli) un artista credo polacco – non ricordo il nome – aveva ricostruito un vagone piombato dei deportati a grandezza naturale. Opera ottima. Dove sta la differenza? Che il vagone era installato nella sala di danza di una scuola femminile ebraica, a cui si accedeva da una porta di dimensioni normali, al quinto piano dell’edificio, salendo un tromba di scale con la tipica eco degli edifici scolastici. L’impossibilità di un vagone reale, al terzo piano, sul parquet nella palestra con le pareti a specchio, e l’inevitabilità della sua realtà storica facevano l’opera.

    ps2: A volte penso che mentre noi ci preoccupiamo di come leggere la storia, cose come queste avvengono nel presente

    http://www.guardian.co.uk/world/2013/feb/10/software-tracks-social-media-defence

  13. So già che Ennio Abate me ne vorrà, ma onestamente non capisco perché si ostini a dirci che considera fatua questa discussione; se ne astenga, se la considera tale. Se pensa che il contributo dei critici e degli artisti (ivi compresi gli artisti della letteratura, riguardo ai quali curiosamente questo tipo di obiezione a priori invece non si sente fare), a interpretare gli ultimi decenni di storia, sia di per sé irrilevante e faccia cadere le braccia, se pensa che non abbia rilevanza storico-politica il fatto che i tentativi di sovversione nazionale o internazionale, negli ultimi decenni, abbiano sempre più massicciamente fatto ricorso anche (se non in certi casi soprattutto) alle armi della guerriglia estetico-semiotica, se pensa insomma che l’unica via d’accesso al politico sia il politico stesso sospeso, in un’aura immacolata di eleatica quanto tautologica purezza (una volta si diceva «autonomia», già), liberissimo di crederlo. Fermo restando che spero sappia che il suo ribaditissimo maestro Fortini avrebbe considerata, questa sua, una posizione semplicemente risibile.
    Ringrazio invece Mattia Paganelli (e Andrea Raos) per il contributo alla discussione, nonché per le straordinarie immagini di Lee Miller, che a loro volta ignoravo. Il punto è in quel «non so se per posa o per caso» che impiega Paganelli per presentarle. Ai miei occhi non si dà possibilità di caso (in questo… caso, la foto di Hitler sarebbe stata rimossa dall’arredo della stanza da bagno; assai più verosimile è che vi sia stata, al contrario, aggiunta). Dunque io non vedo una differenza di statuto etico fra l’impiegare la verastanza da bagno di Hitler per farne un’installazione performativa (quale le immagini sono, prima e piuttosto che una serie di belle fotografie documentarie) e ricostruire la medesima stanza da bagno a distanza di trenta o cinquant’anni. In entrambi i casi quello che l’artista fa – al di là delle sue intenzioni, probabilmente: così nel caso di Lee Miller che in quello di Francesco Arena – è mostrarci, indicarci, alla lettera farci vedere, un dettaglio, una piega, un’incrinatura – della figura che si credeva nota, dell’immagine storica per come ci è stata sinora tramandata – che quell’immagine contribuisce a ridefinire, a rimettere in circolo, a riscrivere. Che è quanto fa o dovrebbe fare, per inciso, ogni atto storiografico degno di questo nome.
    Nella fattispecie, e curiosamente, il punctum che trafigge è il medesimo, tanto in Miller che in Arena: il senso di intimità, di heimlichkeit appunto perturbante che qualcosa come una stanza da bagno (il wc chimico, l’asciugamano, la saponetta, in 3,24 mq) introduce in una storia tragica, tragica e “sporca” come ogni avvenimento storico è ed è stato. Il medesimo dettaglio ma che, alle prese con una storia diversa, dice una cosa diversa (e anzi opposta). L’heimlichkieti di Hitler (come nelle immagini color pastello riprese da Eva Braun al Berghof e ricalcate da Aleksandr Sokurov in Golem) è semplicemente oscena, in particolare pensando alle metafore “igieniste” associate alla Soluzione finale. Quella di Moro è invece precisamente il correlativo oggettivo di quella creaturalità che lo spogliò dei suoi attributi regali e lo mostrò, agli italiani, nella sua umanità.
    Cortocircuiti del genere è in grado di innescarli, credo, solo l’arte (letteratura compresa). Non accettare questa che ai miei occhi è un’evidenza ci riconsegna a un’idea di storiografia “monumentale”, vista dall’alta, fatta di date battaglie trattati visite di Stato: che non è più, e da molto tempo, la “storia vera” con cui abbiamo imparato ad avere a che fare.

  14. @ Cortellessa

    @ Cortellessa

    No, invece non gliene voglio. M’infastidisce solo la piccola spocchia della sua breve replica.
    Le faccio notare che lei travisa le mie vere obiezioni al taglio da lei dato al post.
    Rilegga i miei commenti. Dov’è che sostengo l’irrilevanza del contributo di critici ed artisti all’interpretazione degli ultimi decenni di storia (o della storia in generale)?
    Ho scritto: «Non invoco un’estetica sottomessa alla politica o alla storia ma collegata ad esse. Il dettaglio senza l’insieme è (quasi) muto. Non possiamo accontentarcene…».
    Dalle mie parti si replica nel merito. Lei, invece, se la cava arruolandomi a forza tra gli iperpoliticisti. Quanto a Fortini rilegga anche lui. Vedrà che avrebbe trovato risibile la sua, non la mia posizione.

  15. So che la discussione riguarda i nessi fra rappresentazione estetica, ‘gueriglia’ semiologica e ambiente mediatico. Tuttavia l’oggetto primo del discorso resta il caso Moro. Allora mi permetto di pubblicare qui sotto la lettera di Elsa Morante alle BR del 20 marzo 1978…

    “So che la presente mia lettera, a ogni giudizio obiettivo e attuale non può apparire se non un vaniloquio ridicolo, idiota e scandaloso; (oltre che agli effetti pratici, un campione senza valore). E tale, anzitutto, apparirà ai miei presunti destinatari. Ma in certe ore estreme quando l’intelligenza non serve più, non resta che seguire i movimenti della propria coscienza disperata, anche se non vengono esclusivamente dalla ragione e se, purtroppo, si è consapevoli della loro inutilità.
    Rivolgendomi a voi brigat. (rimosso l’orrore che per mia natura di fronte a ogni violenza mi farebbe ammutolire) io mi sforzo di non dubitare, almeno, che voi crediate in piena fede ai motivi da voi dichiarati per le vostre azioni; ossia che voi siate davvero, ai vostri propri occhi, dei rivoluzionari. Confesso che dato l’uso che ne è stato fatto nella storia fino a tutt’oggi, mi ripugna ormai di ripetere la parola rivoluzione (e fin di pronunciarla). Però questa parola, per quanto stuprata e tradita, in se stessa mantiene il suo significato primo e autentico: di grande azione popolare al fine di instaurare una società più degna. Ora, su questa chiara definizione, sono state sventolate troppe bandiere equivoche.
    E il primo equivoco è stato di scrivere, su queste bandiere, il motto nazionale: il fine giustifica i mezzi.
    Questo principio (non per niente sventolato da Benito Mussolini e dai suoi simili per le loro “rivoluzioni”) è sicura insegna di falsità. Anzi la verità sta nel suo rovescio: I mezzi denunciano il fine. Ora, i mezzi di cui voi vi servite attualmente corrispondono a un modello riconoscibile e preciso: quello stesso che distrusse le più oscure “rivoluzioni” del nostro secolo, e che si fonda su un carattere basilare: il totale disprezzo per la persona umana.
    Una società instaurata nel totale disprezzo della persona umana, qualsiasi nome voglia darsi, non può essere che oscenamente fascista: e può disporre oggi, inoltre, di tali mezzi, da raffinare ancora, se possibile, i propri metodi tradizionali. Da una simile società ormai non possono nascere che generazioni di castrati e di servi. Non crediate dunque di rendervi credibili auspicando il peggio, in nome di chissà quali catarsi successive.
    Voi per la vostra giovane età, non avete sperimentato sulla vostra carne, la storia di questo secolo. Forse non l’avete abbastanza studiata (nemmeno quella più recente) e contate sull’ignoranza e l’inesperienza di altri giovani per farne i vostri seguaci. Voglio credere che non vi rendiate conto della corruzione che potreste esercitare così, sulle loro coscienze, né delle conseguenze innominabili che ne ricadrebbero su di loro.
    A chi per caso avesse letto i miei ultimi libri, sarebbe nota quale stima io faccia delle società istituite. Ma per quanto inette e corrotte possano venir giudicate certe società presenti, io mi auguro di non vivere abbastanza per assistere a nuovi totalitarismi.”

    Elsa Morante

  16. @ Emanuele Zinato
     
    Col cuore, solo col cuore, darei ragione a Elsa Morante ma con la ragione devo riconoscere il realismo di Machiavelli. La Morante del mondo salvato dai ragazzini si sbagliava. E in questo testo da te citato si sbaglia nel tentare di squalificare la verità storico-scientifica di Machiavelli affermando che quel principio era stato «sventolato» dal solo Benito Mussolini o dal fascismo. No, quel principio è stato convalidato da tutta la scienza politica moderna ed è *praticato* in tutto il mondo da *chiunque* gestisca il potere. E perciò non lo si ritrova solo nei “totalitarismi”, ma anche nelle “nostre” democrazie. (Semmai la sua razionalità moderna è logorata e oggi è messa in forse da pratiche di dominio e di controllo ben più sfuggenti e per ora incontrastate…).  Non se ne esce: il dramma irrisolto o forse irrisolvibile della storia è quello riassunto da Manzoni: «Ad innocente opra non v’è: non resta /Che far torto, o patirlo. Una feroce /Forza il mondo possiede, e fa nomarsi / Dritto». Riflettiamoci. Non si tratta, purtroppo, solo di «disprezzo della persona umana» che si annidi nelle menti di pochi o tanti individui. E non è che Machiavelli abbia proposto quella sua formula (del resto abusata e travisata) per cattiveria o immoralismo: l’ha vista operante nella storia, l’ha scovata sotto la coltre ideologica della politica del suo tempo che la praticava senza più ammetterla (come si fa pure oggi…). Ce l’ha messa sotto  gli occhi.  Possiamo scegliere la via etica (che è in fondo un patire il torto) o la via politica (che è sempre un far torto ad alcuni). In questo momento sarebbe interessante essere nella mente di Benedetto XVI…Si può persino tentare, in determinate circostanze, di praticare delle forme miste moral-politiche, ma in fin dei conti  esse saranno riconducibili a quell’aut aut manzoniano e non smentiscono Machiavelli, perché o pendono più dalla parte della morale o più dalla parte della politica. La coniunctio oppositorum, la quadratura del cerchio resta un ideale. La Morante per me si sbagliava  anche quando pensò che i giovani che scelsero  negli anni Settanta il lottarmatismo non avevano abbastanza studiato la storia del Novecento. Anche chi l’ha studiata non trova ragioni sufficienti per contraddire Machiavelli. Può solo accantonare la sua lezione e pensare in modo utopico.

  17. @ Abate
    È lei che ha scritto «Si sente troppo una fretta di lasciare da parte la storia con le sue complicazioni (che continuano nell’oggi) e ritirarsi nell’estetico quasi come “discorso-rifugio”. E ciò a me pare più scandaloso che confondere intenzione estetica con valore estetico. Come ritengo ozioso mettersi a discettare se l’uso delle immagini, da parte delle BR, fu anche di natura estetica, invece di darsi da fare a riflettere sulla storia di quegli anni e sui giudizi storico-politici che restano controversi e rimossi. No, non bastano i Bellocchio o i Giordana». Ma a lei non è che non bastino i Bellocchio, proprio non ne vuol sentir parlare; mentre le pare decisivo riferire della visita di Napolitano a Obama, strologando dietrologicamente sulla medesima, come se gli equilibri della politica del 2013 bastassero a spiegare gli eventi di trentacinque anni prima. Del resto nessuno qui, aduso al tenore dei suoi commenti e alla loro torrenziale sicumera (altro che «piccola spocchia»!), si sognerebbe mai di tacciarla di «iperpoliticismo». Ci mancherebbe!

  18. Caro Abate,

    dal canto mio, alla Morante di questa lettera darei torto prima col cuore che con l’intelligenza, perchè ne trovo del tutto, ma proprio del tutto sbagliato e fuorviante e falsamente infantile e falsamente tragico l’anarchismo falso di falsa martire e falsa “ragazzina”, che infatti conduce a giudizi eticamente e politicamente sbagliati, falsi e fuorvianti quali l’identificazione del Male con il “fascismo”, del realismo politico machiavelliano con il carattere nazionale italiano (“oscenamente fascista”) e della rivoluzione con una “grande azione popolare al fine di instaurare una società più degna”, definizione che definisce zero.
    Se una grande scrittrice ci illumina così sul significato delle parole, meglio rivolgersi agli analfabeti.

    Se l’alternativa etica e politica fosse stata fra la Morante e le BR, avrebbero avuto cento volte ragione le BR, perchè mentre le BR si limitavano a sbagliare clamorosamente analisi politica e a trarne conseguenze logiche altrettanto clamorosamente sbagliate, la Morante sbagliava clamorosamente *tutto*.

    Sbagliava tutto perchè il rifiuto totale della politica (rivoluzionaria, controrivoluzionaria, conservatrice, progressista, reazionaria, socialdemocratica, etc.) e del ruolo, ineliminabile e infatti ineliminato, della violenza in essa, come sapeva e diceva la sua guida spirituale Simone Weil, ha valore, coerenza e dignità solo in quanto testimonianza individuale di chi sul serio preferisca morire piuttosto che uccidere; e sappia anche, però – questo lo aggiungo io – che questa scelta non esime chi la compia dalla corresponsabilità etica e politica per la violenza e il male, perchè l’esistenza delle comunità umane tutte è possibile solo grazie all’azione politica, con i conflitti e la violenza che essa necessariamente comporta: necessariamente, in quanto gli uomini sono liberi, e dunque liberi di confliggere e di fare anche il male.

    Fa spavento, fa sgomento? Certo che fa spavento e fa sgomento. E’ la lezione della tragedia greca, che però non si impara mai se non si impara lo sguardo tragico, che come il sole evangelico “brilla sui buoni e sui cattivi”, e non si protesta obiettore di coscienza per rifugiarsi nella nursery. (Infatti, anche Manzoni, dopo l’Adelchi scrive gli Sposi e la sua clausola-istruzioni per l’uso, la “Colonna infame”, che è una grande lezione di etica politica).

  19. @ Cortellessa

    Lei insiste a non rispondere nel merito.
    Mi dica cosa c’è di offensivo (o di tanto estraneo a una normale dialettica tra persone che la pensano diversamente) nella mia frase da lei sopra riportata. Posso criticarla o devo fare prima domanda in carta protocollo? Cosa le impedisce di cambiare tono e smontare con buoni argomenti (se ne ha) le mie reali obiezioni? Criticare Bellocchio o Giordana equivale a non volerne sentire parlare?
    Scelga lei sul da fare. Io le suggerirei di entrare nel merito e di non appiccicarmi addosso etichette (dietrologia, iperpoliticismo) che paiono proiezioni respingenti del tutto soggettive (sue personali o degli ambienti a cui lei fa riferimento). Se no, chiudiamo qui e, sportivamente, alla prossima.

  20. Mi scusi Abate, partiamo proprio da presupposti diametralmente contrari, è difficile per me dialogare con lei come è difficile per lei dialogare con me (io, però, almeno questo lo riconosco). Lei scrive «Si sente troppo una fretta di lasciare da parte la storia con le sue complicazioni (che continuano nell’oggi) e ritirarsi nell’estetico quasi come “discorso-rifugio”». A me non pare che l’articolo qui discusso sostenga questo, mi pare anzi che dica proprio il contrario. Gli artisti discussi non si ritirano in un discorso-rifugio, la loro poetica è esattamente contraria. Altro è verificare – e la discussione cercava di fare questo – se ci riescano o meno. Inoltre la pratica saggistica di Belpoliti – non sempre, ma nel testo di cui parlo in sommo grado – provvede proprio a fare quello che lei in coda al suo intervento demolitorio (le cadono le braccia!) sostiene a mo’ di petizione di principio: non propone «un’estetica sottomessa alla politica o alla storia ma collegata ad esse». Se poi per lei è inverosimile che un’opera d’arte del 2004 sia un «piccolo classico», non so che farci. Lei quest’opera, piccolo-classico o meno che sia, non la discute, ad essa (a differenza di quanto fa Paganelli) non obietta alcunché, semplicemente di fronte a essa le cadono le braccia. Io le mie, per quanto ci riesco, cerco di tenermele attaccate. Sportivamente, alla prossima.

  21. @ Cortellessa
     
    D’accordo: sportivamente alla prossima, perché io pure vedo che di dialogo tra noi al momento non se ne  costruisce. Tuttavia, prima di salutarla, mi sono riletto tutto il post, i commenti e i testi a cui rimandano i link e lascio alla sua solitaria meditazione i seguenti appunti:
     
    1.  Non so quanto sia «pionieristico» lo studio di Marco Belpoliti sulle immagini  in quanto documenti di storia, ma è la qualità storico-politico-simbolica di quelle sue letture che non mi convince e che trovo da minimalista. Perciò ho provato ad obiettare: «Quell’immagine  di Moro  verrebbe o no letta in altra maniera se una coraggiosa elaborazione intellettuale e politica della storia italiana dimostrasse più valida l’ipotesi affacciata da Zinato o convalidasse invece quella affacciata da La Grassa?». Ma lei su questo terreno proprio non  vuole scendere o salire (a seconda dei punti di vista);  e prendo atto che forse i «presupposti diametralmente contrari» impediscano di farlo. Tra parentesi: pur nel rispetto del lavoro altrui, ho molte riserve nei confronti di tutti i libri di Belpoliti; e sul *Pasolini in salsa piccante* ho cercato anche di argomentarle (http://www.poliscritture.it/index.php?option=com_content&view=article&id=149:ennio-abate-le-ceneri-di-pasolini&catid=1:home&Itemid=13)
     
    2. Ho scritto: «Si sente troppo una fretta di lasciare da parte la storia con le sue complicazioni (che continuano nell’oggi) e ritirarsi nell’estetico quasi come “discorso-rifugio”», prendendo al volo – un po’ maliziosamente, lo ammetto –  questa sua frase: «Ma la domanda difficile è: a parte il loro decisivo significato storico hanno un senso, queste fotografie, dal punto di vista artistico?». Eppure le sue repliche (magli stessi prodotti artistici qui presi in considerazione) mi pare confermino una ritrosia a muoversi non tanto sul piano storico politico più in superficie, ma su quello *più rigoroso*che, a mio parere, sarebbe necessario per evitare la microstoria (alla Belpoliti) e le opere d’arte solo apparentemente “storico-civili”. Se lo si facesse, si eviterebbe questa moda di enfatizzare l’immaginario (altra cosa dal valutarne la portata, quando si disponesse di contesti storiografici ben consolidati…), che a me pare evidente negli  esempi che lei riporta (le parole di Cesare Zavattini,  la «pietas visiva» delle pagine di Belpoliti,  l’intenzione estetica e insieme politica con la quale le BR diffusero la seconda immagine, l’effetto boomerang ottenuto). Ci vedo un cedimento regressivo al senso comune (in parte spontaneo, in parte costruito e manipolato). Troppi (e accade anche nei film di Bellocchio e di Giordana dedicati agli anni Settanta) nel personaggio pubblico “entrato nella storia” – Moro, Calabresi, ecc. -, per non interrogarsi (o non riuscendo più a farlo) su cosa sia in realtà «un simbolo del potere astratto e inumano», lo riducono *soltanto* a «un uomo, un uomo come tutti». Eppure Moro ( e lo stesso vale per Pinelli e Calabresi nel film di Giordana) non fu mai completamente* «un uomo come tutti». Neppure quando fu prigioniero delle BR avvenne questa “metamorfosi”. Così come non lo fu mai completamente* Gramsci nelle carceri fasciste. Come non vedere che questa (subdola) “spoliticizzazione” dei personaggi è un cedimento  a quella che viene chiamata “antipolitica” o a letture estetizzanti o moralistiche? A me pare cosa infantile e deviante. E prende la mano anche a lei, se arriva a individuare in quel  mancato “denudamento del re” che i brigatisti-esteti avrebbero sapientemente progettato, secondo la lettura alla Belpoliti, «l’inizio della fine» delle BR. Non è “iperpoliticista” chi le ricorda che, no, i politici (le BR da una parte, il “partito della fermezza” dall’altra) proprio non cedettero  a questo senso comune; e fecero scelte politiche fredde, ciniche ( o tragiche?) quanto si vuole,  dagli effetti ben più determinanti per noi, che le abbiamo subite e ora le rimuoviamo preferendo le letture alla Belpoliti. Il quale sulle cause e le circostanze storiche che produssero quelli eventi negli anni Settanta non dice nulla, limitandosi a saltellare brillantemente tra date-simbolo, personaggi-simbolo e eventi-simbolo.
    Lei non vuole dare ascolto a me. Lo dia a Zinato,  il quale ha  riconosciuto che «un’immagine non può “tanto”. Siamo noi interpreti a leggerla come icona ad alto potere prefigurante. Ciò è legittimo, se viene esibito come atto parziale di interpretazione e sottoposto alla verifica, sempre parziale, intersoggettiva»; e l’ha invitata – mi pare – a fare quattro passi nella storia tout court («So che la discussione riguarda i nessi fra rappresentazione estetica, ‘guerriglia’ semiologica e ambiente mediatico. Tuttavia l’oggetto primo del discorso resta il caso Moro»).
     
     
    3. Lei ironizza pure sul fatto che a me, leggendo certe cose nel suo post, sono cadute facilmente le braccia. Eppure cadono anche a Michele Dantini, se scrive:«Dichiaro la mia perplessità circa il tratto “politico” dell’arte italiana contemporanea: per il semplice motivo per cui, per citare Brecht, non è politica l’arte che raffigura eventi o personaggi politici ma l’arte che riflette politicamente sui propri “processi di produzione”»; e tutto il resto.
    E pure a Paganelli: « In realtà il fondo di questo genere di operazioni non è diverso dal sensazionalismo spettacolare che ha sostituito l’informazione e di cui l’arte è vittima molto più che la letteratura credo».
     E, malgrado le sue intenzioni di tenersele attaccate (le braccia), a lei stesso, se, dopo aver visto ( me lo sono andato a guardare io pure) il video del dialogo tra Bertinotti e il giovane artista Fabrizio Arena, autore del “piccolo classico” della ricostruzione in scala 1:1 dello scatolone  in cui Moro venne imprigionato, sbotta affermando che quel video rivela un Bertinotti (un politico) «connaisseur d’arte d’una certa finezza ma soprattutto mostra un livello di problematizzazione, riguardo ai suoi contenuti, che l’artista proprio non si mostra in grado di seguire».
     
     
     
     

  22. Senza immagini

    Avendo da anni deciso felicemente
    di rinunciare alla televisione non vedremo
    la danza delle bombe su Bagdad su Bassora sui resti
    di quello che un tempo fu il centro del mondo.
    Non vedremo le facce gravi dei potenti
    le smorfie eroiche degli inviati speciali
    le scene raccapriccianti di macelli e di fuoco. No, grazie,
    rinunceremo allo spettacolo. Alla festa.
    Davani alla radio, in silenzio,
    potremo guardare nel vuoto, immaginare
    quel che si può immaginare, troppo poco.
    Senza immagini
    tutto sarà più chiaro, più tremendo.

    F. Pusterla, da Folla sommersa (2004)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *