di Guido Mazzoni

 

[Nel 2013 ricorrono il centesimo anniversario della nascita e il trentesimo anniversario della morte di Vittorio Sereni (Luino, 27 luglio 1913 – Milano, 10 febbraio 1983)].

 

1.

 

Pochi poeti del XX secolo hanno resistito al tempo meglio di Vittorio Sereni. Le sue poesie più importanti hanno cinquant’anni ma potrebbero essere state scritte ieri, o domani. Questa persistenza nasce da una sorta di doppio movimento. Per un verso, l’opera di Sereni ripropone un’idea di poesia, e prima ancora un’antropologia antiche di secoli, se non di millenni. In pieno Novecento, Sereni ripete i gesti della grande lirica di stile tragico (il richiamo all’esperienza vissuta, lo scavo interiore, il dialogo dell’io con le parti di sé, il colloquio con i morti); nei suoi scritti di poetica rivendica una fiducia nell’Erlebnis e un anti-intellettualismo che hanno pochi equivalenti nel secondo dopoguerra, e che anticipano la poesia degli anni Settanta («non ho una cosa da affermare in assoluto, una mia ‘verità’ da trasmettere»; «occorre aderire a quanto ha di vario il moto dell’esistenza»; «non sono mai stato capace di conquistare una nuova consapevolezza per via intellettuale»; «mi è sempre stato necessario passare attraverso delle esperienze»). Sono modi di pensare la poesia e la realtà che discendono, per via diretta, dall’età aurea della soggettività moderna, cioè dall’epoca romantica, e, prima ancora, da un’idea arcaica, moderna e premoderna, della poesia come sede della vita intima o della vita ctonia. Sereni se ne appropria senza schermi o tracce di ironia, parlando dal cuore di un secolo prosaico e disincantato, dentro una congiuntura letteraria nella quale le poesie giravano accompagnate da spiegazioni, metadiscorsi, dichiarazioni di poetica, e l’aggettivo «lirico» diventava, negli scritti critici della Neoavanguardia, una forma di insulto.

 

Per un altro verso, l’opera di Sereni ha qualcosa di assolutamente contemporaneo; è radicata nella contingenza della propria epoca, reca i segni dei tempi, ricerca consapevolmente quella che Baudelaire aveva chiamato, un secolo prima, la bellezza moderna. Il segno più importante di questa contemporaneità è proprio la consapevolezza che l’io e la vita singolare sono diventate, nel XX secolo, entità problematiche. Gli strumenti umani e Stella variabile hanno saputo fare quello che ogni grande poesia lirica moderna deve saper fare: hanno proposto un modello di soggettività e di esperienza all’altezza del proprio tempo, hanno acclimatato il pronome di prima persona singolare a un’epoca che ne ha messo in discussione la consistenza e le pretese di verità.

Sereni arriva a questo risultato in tre modi. In primo luogo, trasforma un lessico poetico ereditato da Saba e da Montale ampliandolo verso il basso, rendendolo capace di accogliere strati di realtà molteplici e absolument modernes, facendolo oscillare in un territorio vastissimo che ha, come confine superiore, l’iperletteratura (“La splendida la delirante pioggia s’è quietata,/ con le rade ci bacia ultime stille») e, come limite inferiore, il parlato, l’anacoluto («nemmeno io volevo questo che volevo ben altro»). Ciò che però Sereni evita rigorosamente è il cozzo fra aulico e prosaico, l’ironia, gli atteggiamenti neocrepuscolari comuni nella poesia italiana che, durante gli anni del miracolo economico, si confronta con la perdita di mandato sociale e con l’obsolescenza della letteratura nella società di massa. In secondo luogo, Sereni situa le esperienze canonicamente poetiche in contesti precisi, prosaici e quotidiani. Alcune delle sue poesie più belle debbono il proprio fascino a questa sovrapposizione di piani: in Ancora sulla strada di Zenna l’io coglie l’eterno ritorno dell’identico o riflette sull’immanenza assoluta guidando un’automobile (è una delle prime poesie italiane che mettono in versi l’esperienza del paesaggio che si fa guidando); in Il muro il dialogo mentale col padre morto avviene osservando due squadre di giovani che giocano a calcio in notturna, sei contro sei, davanti al cimitero di Luino; in La spiaggia la riflessione sulla sopravvivenza dei morti nei ricordi epifanici comincia con una conversazione telefonica. In terzo luogo, Sereni attacca la compattezza della prima persona, dando voce alle parti che la compongono o trasformando in personaggi le immagini interiori degli altri. Della cultura fenomenologica ed esistenzialistica di Sereni fa parte la consapevolezza che l’io è un prodotto di forze sovrapersonali: lasciato al proprio narcisismo, non può che diventare il più lurido di tutti i pronomi. Tuttavia di quella stessa cultura fa parte la consapevolezza speculare che il nostro esserci, l’esperienza soggettiva, la solitudine radicale di ognuno che si rivela nella morte («dentro il fuoco risorgivo di sé/essere per qualche istante, io noi, solitudine?») sono l’alfa e l’omega della condizione umana e la ragion d’essere della poesia lirica moderna. Non a caso, l’opera che nasce da simili premesse è al tempo stesso un esempio estremo di lirica (in poche opere poetiche del Novecento la persona che dice io nel testo coincide così fedelmente, e così sinceramente, con la persona empirica che mette il proprio nome sulla copertina del libro) e una decostruzione di quello che la lirica era stata fino ad allora. Per far questo Sereni, sviluppando ciò che Montale aveva tentato di fare in un testo della Bufera (Voce giunta con le folaghe), riprende, secolarizza e adatta al Novecento il modello dantesco della visione, del colloquio con le ombre, come accade a partire dagli Strumenti umani, e soprattutto dall’ultima sezione del libro, Apparizioni o incontri, il punto più alto di tutta la sua opera.

 

2.

 

La stagione decisiva della poesia di Sereni coincide con un quindicennio straordinario della poesia italiana, quello compreso fra il 1956 (La bufera, ma anche Laborintus) e il 1971 (Satura, Trasumanar e organizzar, Viaggio d’inverno). Potrebbe sembrare che, in questo flusso di innovazione, fra lo sperimentalismo degli anni Cinquanta e la Neoavanguardia, Sereni abbia rischiato poco. In realtà oggi possiamo vedere bene che Gli strumenti umani sono perfettamente coevi al Gruppo 63; sono solo un altro modo, meno ostentatorio, più intimo e profondo, di interpretare la stessa eredità – l’eredità del modernismo. A Sereni questa idea di poesia giungeva soprattutto attraverso Montale, Williams e Seferis, e soprattutto giungeva quando lo sperimentalismo non era ancora un genere autoreferenziale, una formula morta, un «poetese» uguale e contrario a quello che si cercava, giustamente, di distruggere. Leggendo la storia letteraria degli ultimi secoli all’altezza di un’epoca che concepisce il concetto di novità in un modo diverso rispetto a quello difeso dalle prime e dalle seconde avanguardie novecentesche, si apprezza la profondità di uno sperimentalismo che non è mai intraletterario, che mantiene un rapporto dialettico col mondo-della-vita e col passato, e che lavora sempre nella dimensione della media e della lunga durata. Sereni rischia molto, ma in un’altra maniera: scrive poco (la sua opera completa sta in circa 250 pagine, traduzioni escluse) e solo quando è necessario, cioè quando il testo, per dirla nel suo linguaggio critico, risponde a una «proposta della realtà»; non ha paura del fallimento estetico (la sezione Traducevo Char in Stella variabile, per esempio) pur di rendere conto di un’esperienza che gli è sembrata significativa; lascia che i testi si sedimentino per anni prima di essere messi sulla pagina e li tratta sempre come individui, e mai come parti di una routine stilistica; evita di trasformare la poesia in un mestiere; cerca di non ripetersi. Questo sperimentalismo è responsabile dei forti dislivelli interni: Sereni è poeta diseguale, di libro in libro e all’interno dello stesso libro; una componente del suo linguaggio poetico, quella iperletteraria, carica di ornatus, non sempre trascende le proprie origini primonovecentesche. Ma in virtù della stessa ricerca sperimentale, e dello stesso rischio, le poesie riuscite di Sereni sono definitive e indimenticabili.

 

3.

 

Se quest’opera deve una parte della propria forza dalla capacità di acclimatare al XX secolo gli atteggiamenti della grande lirica tragica, un’altra ragione del suo fascino deriva da una seconda oscillazione interna – questa volta di natura ideologica, e prima ancora percettiva. Per indicarla si possono usare i nomi dei due poeti da cui l’autore degli Strumenti umani ha imparato di più.

Nell’opera di Sereni si alternano una funzione-Montale e una funzione-Saba. Come Montale (e come Leopardi e Sbarbaro prima di Montale), Sereni è un poeta del male di vivere, del vuoto che ci invade; come Montale, è capace di fissare l’insensatezza in versi e formule lapidarie («vedere che nulla nulla è veramente mutato», «la ripetizione dell’esistere», «il colore del vuoto», «nulla nessuno in nessun luogo mai»). Come Montale, Sereni riscatta il nulla solo per pochi istanti, e lo fa grazie al dispositivo tipicamente modernista dell’epifania. Prima che di una tecnica letteraria, si tratta di una modalità dell’esperienza: si fonda sull’idea che la realtà sia segnata da un eterno ritorno dell’identico e solo pochi istanti di pienezza o, più spesso, di consapevolezza si stacchino dalla ripetizione. Le singole poesie coincidono con una di queste tessere. Perciò Sereni è «custode di attimi non di anni»; scrive poco perché vive per frammenti, illuminazioni, occasioni. E tuttavia il suo atteggiamento nei confronti di un mondo segnato dall’insensatezza è molto diverso da quello di Montale. Quest’ultimo seleziona accuratamente i dati di realtà: la sua poesia parla di poche esperienze scelte e usa la contingenza come sfondo. Invece Sereni erotizza il mondo accidentale, a cominciare dalla storia e dalla politica (Montale smette di farlo dopo la Seconda guerra mondiale). La vicenda della prima persona, soprattutto in Diario d’Algeria e negli Strumenti umani, è sempre collocata in un tempo riconoscibile; Gli strumenti umani raccontano, fra le altre cose, la transizione vertiginosa dall’Italia premoderna all’Italia industriale e impiegatizia, dai paesaggi arcaici alle città, alle fabbriche e agli uffici degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta; mettono in versi una riflessione sul passato prossimo della Seconda guerra mondiale e sui compromessi del dopoguerra. Ed è significativo che Saba entri negli Strumenti umani come personaggio che incarna la passione politica. Sereni lo descrive mentre, un giorno o due dopo il 18 aprile 1948, vaga per i caffé di Milano vociferando «porca, porca» all’Italia, «come a una donna| che ignara o no a morte ci ha ferito».

 

Ma l’attrazione istintiva di Sereni per il mondo accidentale precede la storia e la politica. Sereni aderisce alla vitalità multiforme dell’esistere oltre che alla sua ripetizione; prende sul serio l’«amore», l’«amicizia», la «gioventù», così come i paesaggi e le passanti, il ciclismo e il calcio. L’interesse immediato per «ciò che muta» (Ancora sulla strada di Zenna), per la caducità, è l’elemento sabiano della poesia di Sereni. Benché nulla, in ultima analisi, abbia senso, benché il colore più indelebile sia quello del vuoto, il volto mutevole del mondo interessa; interessano le persone, le cose e le passioni che «si muovono sulla superficie della terra e illudono col soave viso» (Saba, In riva al mare). E’ lo stesso double bind su cui si regge la poesia che chiude l’opera completa di Sereni, Altro compleanno. Lo stadio vuoto di San Siro il 27 luglio, giorno del compleanno di Sereni, diventa allegoria del tempo sperperato; il futuro è incerto e minaccioso – eppure, nonostante tutto, l’io invita se stesso a passare la soglia un’altra volta ancora, ad aderire alla vita. Questo modo di essere nel mondo ha a che fare anche con l’atteggiamento anti-ideologico o post-ideologico di Sereni, col suo scetticismo nei confronti delle verità generali e delle conclusioni definitive. Per carattere e per habitus, Sereni ha sempre mantenuto ed esibito questo sguardo perplesso. La perplessità riguardava in primo luogo i grandi progetti politici, in particolare quelli di origine marxista che pure, in una certa misura, Sereni condivideva. L’immagine della «città socialista», della «rivoluzione» che Sereni illustra in Appuntamento a ora insolita per esempio, non è un programma rigoroso: è una «cosa che si fa strada in me», una passione vaga associata all’idea di gioia. Il dialogo intellettuale e politico con Fortini, uno dei più intensi del secondo Novecento, verteva sulla «scelta ideologica» che Sereni si rifiutava di fare, sul «foglio bianco» che, secondo Fortini, l’autore degli Strumenti umani avrebbe continuato a tenere in mano. Ma la perplessità di Sereni nei confronti delle verità generali non riguarda solo la politica; riguarda qualsiasi tipo di conclusione definitiva, comprese quelle che nascono dalla coscienza del nulla. Si può vivere in un mondo che, in ultima analisi, non ha senso, ma che offre valori provvisori, attimi di pienezza, solidarietà momentanee, esperienze. Il poeta della ripetizione dell’esistere ha creato, alla fine, un mondo multiforme e policromo. Lo si può condividere o non condividere, ma non c’è dubbio che questo modo di abitare il vuoto intercetti qualcosa di assolutamente contemporaneo.

 

[Immagine:  Via Scarlatti, Milano (gm)].

 

12 thoughts on “Anni dopo. Per Vittorio Sereni

  1. Eccellente saggio, che condivido da cima a fondo e che ha chiarito a me stesso alcuni luoghi critici su Sereni, che qui vengono ripercorsi e fissati con grande lucidita’. Spero che la lezione di Sereni, e soprattutto alcuni suoi tratti messi qui giustamente in luce (lo scrivere poco, il trattare i testi come individui, il coniugare senso del tragico e realta’ contemporanea) siano di modello per molti. Se posso permettermi, lascio il link a una mia lettura di una poesia sereniana de Gli strumenti: http://castiglionedav.altervista.org/blog/poem-shot-11-vittorio-sereni-1913-1983/

  2. @Mazzoni: “erotizza il mondo accidentale” vuol dire anche impugnare la contraddizione, resistere? è arbitrario dedurre da questo (bellissimo, NONOSTANTE Heiddegger) articolo che dalla necessità della poesia si può trarre una lezione etica, se questa necessità viene spinta alle sue conseguenze estreme?
    Grazie per la bella lettura che ci hai regalato.

  3. Una gran bella pagina critica, sicuramente. E importante.
    Credo che Mazzoni abbia qui fissato, con estrema chiarezza (e finezza), alcuni punti fissi, invalicabili, per qualsiasi analisi a venire della poetica sereniana.

  4. Una sottile antideologia (che è ideologia d’altro segno poiché è ancora indimostrata l’esistenza di un poeta o di un critico senza ideologia esplicita o implicita) opacizza questa pur eccellente analisi di Mazzoni.Un passaggio di essa mi sta più a cuore e su quello dico la mia. Non vedo approfondite a sufficienza né le ragioni di quel «dialogo intellettuale e politico» fra Fortini e Sereni, pur definito «uno dei più intensi del secondo Novecento» né quelle dello scetticismo sereniano «nei confronti delle verità generali e delle conclusioni definitive». Quest’ultimo andrebbe indagato anche socio-politicamente. (E, se riaprissimo *Di Sereni* in *Saggi italiani 1* pagg. 172- 203, vedremmo che Fortini lo fece e, dunque, qualcosa in merito andrebbe detto, dando così spessore storico alla tragicità da “antico” di Sereni). Non credo poi che Fortini abbia mai auspicato una «scelta ideologica» di Sereni a favore della «città socialista» o della «rivoluzione». E allora perché rischiare di alimentare inavvertitamente il cliché di un Fortini che aveva «delle verità generali» acquisite o da imporre o suggerire? (Altra cosa, credo, fu la sua insistenza sul problema dei *destini generali*). O, peggio, dare ad intendere che esse riguardassero quasi esclusivamente la politica (specie nella forma corrottamente professionale con cui oggi la si intende). Infine, trovo affrettata la conclusione finale del saggio: «Si può vivere in un mondo che, in ultima analisi, non ha senso, ma che offre valori provvisori, attimi di pienezza, solidarietà momentanee, esperienze».

  5. Sono grato a Mazzoni per averci donato questo suo ulteriore e maturo sguardo d’assieme sull’opera e la figura di Sereni. Credo anch’io che Sereni sia lì, in quel “mah” a Fortini. E Mazzoni riesce a sviscerare questo “mah”, a rendercelo contemporaneo.

  6. un articolo denso, analitico, estremamente preciso. Un grande poeta Sereni; io apprezzo molto anche alcune poesie giovanili. Penso che “Diario di Algeria” sia un raro esempio di diario poetico sospeso trra lirismo e verso narrativo…

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