di Franco Buffoni
[Questa pagina di diario proviene da una relazione tenuta a New York alla Columbia University sul concetto di canone nel nostro Novecento. Una prima versione parziale di questa pagina è stata pubblicata in italiano dalla rivista Semicerchio].
1. Parlavano di Otto-Novecento con tono competente i miei insegnanti delle scuole medie negli anni sessanta del secolo scorso. “Otto-Novecento” era il titolo di una rivista diretta da don Colombo della Cattolica di Milano (donde tutti loro provenivano); il nume tutelare era Mario Apollonio. Oltre alla triade Foscolo-Manzoni-Leopardi di già desanctisiana memoria, ci venivano inculcate, come formule chimiche o prodotti notevoli algebrici, altre, più recenti triadi: Carducci-Pascoli-D’Annunzio, e modernissima: Ungaretti-Montale-Quasimodo.
In seguito, all’università, Aldo Borlenghi, ottimo professore ormai a fine carriera, amico di Ugo Guandalini e del gruppo storico parmense della prima Fenice (Macrì, Luzi, Pietrino Bianchi, Bertolucci) faticò non poco a distruggere quegli schemi: a un autore italiano veniva assegnato il premio Nobel per la letteratura? Si elogiava un elzeviro intitolato “A caval donato non si guarda in bocca” (Emilio Cecchi). Borlenghi, tuttavia, non ebbe la forza e il tempo di inculcarmi nuovi schemi. Riuscì solo a farmi demolire i vecchi.
Così negli anni settanta mi affacciai alla vita adulta e alla letteratura con in testa la convinzione che distruggere gli schemi fosse impresa proba e meritoria. Si doveva anche diffidare “dei grandi poteri personali”, dei “sistematori” interessati, dei clan.
Negli anni seguenti mi si chiarì quali fossero le due “M” portanti da attaccare. Non la P2, ma la M2. Moravia e Montale erano, nelle due situazioni geografiche di Roma e di Milano, nelle due antipodiche condizioni caratteriali, nei due diversi generi letterari… i detentori del potere letterario da scardinare.
Ormai si era agli anni Ottanta; grazie alla nuova Fenice della Guanda “milanese” diretta da Giovanni Raboni, con Maurizio Cucchi redattore, avevo avuto i miei esordi come poeta nel 1979 (in uno dei Quaderni Collettivi con Nell’acqua degli occhi) e come traduttore nel 1980 (Sleep and Poetry di John Keats). E proprio da Raboni – dapprima solo in privato – quindi sempre più apertamente con articoli e interventi pubblici, vidi mettere in pratica quanto mi era stato insegnato. In modo scientifico, direi. Fu la più programmata, sapiente, lavorazione ai fianchi di un mito consolidato (da fare impallidire gli attacchi a Eliot – post mortem – in Inghilterra) a cui mai nel Novecento mi fu dato di assistere. E il veicolo principale – per suprema beffa – fu poi proprio quel “Corriere della sera” che per decenni aveva visto imperare lo “gnomo” di via Bigli. Grazie anche a due “fiancheggiatori” di tutto rispetto: Baldacci e Garboli.
Raboni anteponeva da par suo Rebora a Montale? Baldacci replicava che Betocchi era il più grande poeta del Novecento italiano (ma senza contraddire Raboni, sempre e solo a scapito di Montale). Raboni – mentre sacrosantamente cercava di fare “passare” Delio Tessa almeno sul piano nazionale – attaccava di nuovo Montale? Garboli replicava con un paradossalmente tonante “Sandro Penna è il più grande del Novecento” (della serie: se lirica la poesia ha da essere…), ma senza contraddire Raboni: sempre e solo a scapito di Montale.
Si giunge così alla fine degli anni Novanta con un risultato che cercai – come è nel mio temperamento – di volgere al positivo. Lo scrissi in un saggio intitolato “Rilettura del secolo in poesia”, che apparve nel 1999 nel volume L’Italia, oggi, a cura di Laura Lepri e Roberto Fedi per le edizioni Guerra, dal quale estraggo il seguente passo: “Nell’ultimo decennio, da parte di molti critici, è andata sempre più accentuandosi la tendenza – già manifesta nel decennio precedente – a ribaltare l’idea che al centro del Novecento poetico italiano vi sia la linea ermetico-avanguardistica con l’assoluta preminenza estetica di Ungaretti e Montale. Sullo stesso piano di Montale – e, per alcuni critici, persino al di sopra di lui – è ormai unanimemente considerato Umberto Saba. E poeti come Camillo Sbarbaro, Delio Tessa, Clemente Rebora vengono sempre più rivalutati a scapito naturalmente di Montale. Mentre di Ungaretti si parla meno, e di Quasimodo si preferisce tacere. Le inequivocabili affermazioni di critici come Baldacci e Garboli – che rispettivamente hanno configurato in Betocchi e in Penna il più grande poeta italiano del Novecento (naturalmente sempre a scapito di Montale) – ci permettono ormai di definire chiusa la polemica tra Novecento e Anti-Novecento, cioè tra il versante in luce (con Ungaretti, Montale, gli ermetici, Luzi) e il versante ex in ombra della tradizione anti-Novecento, con Palazzeschi, Govoni, Saba, Diego Valeri, Penna, Caproni. I due versanti – ormai – sono entrambi in luce”.
Una situazione critico-ideologica che Franco Fortini aveva fotografato con lucidità già nel 1977 introducendo i suoi Poeti del Novecento: “Fare corrispondere le novità o la diversità della poesia contemporanea alla prima raccolta di Ungaretti significa accettare quella che dal 1925 al 1945 parve una linea sicuramente privilegiata che condurrebbe dai vociani agli ermetici; mettere invece in rilievo Gozzano (o Lucini) e i futuristi (o Palazzeschi e Govoni) significa contestarla, quella linea, e identificarne una di rottura…”.
Fuori discussione che, a radicalizzare lo scontro, a permettere a Fortini di operare una sintesi tanto efficace, e forse – pur se indirettamente – a indurre noi oggi a discutere ancora di canone, sia stata la pietra aguzza gettata nello stagno della critica italiana da Sanguineti nel 1969 con la sua Poesia italiana del Novecento. Lì, nel paragrafo nitidamente intitolato al verso libero, l’autore di Bisbidis contesta il contestatore. Dribblando astutamente il suo maestro Luciano Anceschi – che, in posizione dominante, aveva posto Campana – Sanguineti mette sotto i riflettori la figura di Lucini. Senza quel precedente, otto anni dopo, probabilmente Fortini non lo avrebbe menzionato, e oggi sarebbero ancora in pochi a conoscerlo.
Credo che la portata dell’imposizione di Lucini da parte di Sanguineti sia dirompente almeno quanto la “lavorazione ai fianchi” di Montale da parte di Raboni. A dimostrazione del fatto che il canone uno ci prova a crearlo: si tratta poi di capire quanto gli altri lo prendano sul serio.
Quella che sto cercando di delineare è certamente una situazione estrema, con la guerra personale senza quartiere, l’attacco a tutto campo.
Sanguineti che – deliberatamente – esclude dal suo canone Bertolucci, Fortini, Zanzotto, Giudici e, naturalmente, lo stesso Raboni (esaltando – per contro – Balestrini: in questo subdolamente fingendo di adeguarsi all’equilibrato canone anceschiano); Raboni (e Giudici: nel 1983 in giuria al Viareggio) che umiliano Sanguineti, propiziando la vittoria del giovane Maurizio Cucchi al Premio Viareggio del 1983 – con la memorabile plaquette Glenn edita da San Marco dei Giustiniani – vs. Edoardo Sanguineti con l’opera omnia apparsa da Feltrinelli.
Una casa editrice importante – Feltrinelli – un maestro come Anceschi, una acuta intelligenza critica dispiegata sui classici con occhio attento alle istanze internazionali (si pensi al Dante di Sanguineti filtrato dalla lettura modernista di Pound e Eliot): basta tutto questo perché si possa riuscire a imporre un proprio canone?
2. Che cosa occorre per imporre un canone? Il canone è una regola imposta da una autorità. Tale autorità può imporre la propria regola cercando di uniformare istanze già ampiamente condivise; oppure – ed è il caso più difficile, più pericoloso, ma anche il più “vincente” in caso di riuscita – può provocare, contraddire, cercando di imporre una propria visione nuova e originale. E’ quanto fu tentato da Sanguineti con l’operazione-Lucini e – paradossalmente – anche dal suo avversario Raboni con la demolizione di Montale.
Poiché in ambito letterario non esiste l’elezione a vita di un pontefice (malgrado certe situazioni tendano graziosamente ad assomigliare a un pontificato: Cecchi, Contini, Mengaldo…), l’autorità che impone la regola è sempre e inevitabilmente sottoposta a verifiche. Dunque il tempo, le antologie, gli studi critici incrociati, la pazienza di biografi e filologi, il gusto di lettori e traduttori stabiliranno (o hanno già stabilito) che Lucini è un buon poeta, ma non è un grande poeta, e che il grande poeta rimane Campana. Che Tessa, Rebora, Sbarbaro, Betocchi, Penna sono certamente dei grandi poeti, ma che Montale rimane il più grande poeta del Novecento italiano.
Tre coetanei: Mengaldo, Sanguineti e Raboni. Un grande maestro sullo sfondo: Luciano Anceschi. Credo che una sintesi tecnica della riflessione sul canone possa essere impostata su questi quattro nomi. Il fatto che due – Sanguineti e Raboni – siano stati poeti di primo piano fa subito risaltare (ai miei occhi) la forzatura della loro presenza come critici stabilizzatori di canone. Ma tant’è.
Se più che legittima mi pare la – per altro elegante – contestazione che Mengaldo mette in atto nei confronti dell’assunto anceschiano in base al quale eredi dei Lirici Nuovi dello stesso Anceschi sono i Novissimi di Giuliani (e Mengaldo lo dice già nel 1971, in un saggio che poi appare in Tradizione del Novecento. Prima serie, 1975; e lo ribadisce nella introduzione ai suoi Poeti italiani del Novecento), molto più strumentali a un personale interesse in quanto autori in proprio mi paiono le posizioni di Sanguineti e Raboni.
Irrilevante – al confronto – il fatto che Mengaldo attacchi Anceschi. Quello tra Mengaldo e Anceschi è un normale discorso tra critici accademici. Di Anceschi non si può non approvare la genialità dell’intuizione critica nel definire Sereni, la formidabile impostazione neo-fenomenologica in funzione anticrociana, l’enorme opera di scavo critico compiuta con “il Verri”. Siamo sempre dentro i limiti dell’auspicabile, del desiderabile. Decisamente fuori da questi limiti ci troviamo invece con Sanguineti e con Raboni.
In questa ottica risulta persino accessoria, non determinante, l’oggettiva alleanza tra Mengaldo e Raboni in funzione anti-sanguinetiana, o l’attacco di Mengaldo a Sanguineti e Anceschi insieme. In sostanza voglio dire che se Sanguineti e Raboni non avessero usato il loro potere – accademico/ giornalistico nel primo caso; giornalistico/editoriale nel secondo – per promuovere la propria immagine di autori costruendosi un canone ad hoc, il dibattito sarebbe stato più onesto e più chiaro.
Se la dovevano vedere tra loro Mengaldo e Anceschi. Ed eventualmente se la doveva vedere Baldacci con Guglielmi e Barilli.
Tutto questo, ferme restando la mia ammirazione nei confronti di Sanguineti (al quale dedicai uno studio come traduttore di poeti classici), e la mia gratitudine nei confronti di Raboni, la cui ultima lettera a me indirizzata (oggi custodita presso il Fondo Manoscritti di Pavia) è del marzo 2004 e parla di Guerra in termini per me oggi commoventi.
Sintetizzando il mio pensiero, credo sia più naturale, consono e corretto che i poeti (se veri poeti) principalmente coltivino la propria poetica; che i critici facciano il loro mestiere in fecondo dialogo con i poeti; e che i filosofi dell’estetica tornino olimpicamente a giudicare e a pontificare sui frutti di tale dialogo, rendendo operativo forse, domani, anche un canone. Mi pare quindi condivisibile la sostituzione – mutuata da Benjamin – alla quale fecero ricorso Trevi, Perrella e Onofri – del termine “costellazione” al termine “canone”: nella convinzione che, “se i testi – le stelle – rappresentano i dati oggettivi d’una costellazione, resta sempre vero che le linee di raccordo tra quelle stelle, le linee che le organizzano in disegno – la costellazione, per l’appunto – sono sempre stabilite dall’interprete”.
3. In Italia non mi pare che siano ancora penetrate in profondità nel tessuto critico-accademico istanze di cultura femminista, etnica, omosessuale, atea; quelle stesse che negli Stati Uniti portarono – negli ultimi due decenni del secolo scorso – a contestare radicalmente gli “iniqui strumenti di oppressione delle minoranze” rappresentati dai cosiddetti core curriculum courses (obbligatori per gli studenti di tutte le facoltà), che dalla Columbia University irradiavano la loro regola su tutto il continente Nord Americano e anche oltre. Particolarmente contestato il corso di Literature Humanities, che da Omero a Shakespeare a T.S. Eliot stabiliva il canone occidentale, maschile, bianco, eurocentrico. I famosi dead white european males. Una posizione che venne irrisa con virulenza da Roger Kimball nel 1990 col suo feroce Tenured Radicals (Contestatori di ruolo) e che altrove venne definita “Scuola del Risentimento”. Un canone poi strenuamente difeso con le armi dell’intelligenza e della pacatezza da Harold Bloom nel suo Canone occidentale (1994).
Se può essere di interesse l’esplicitazione di una posizione personale, confesso che negli anni Ottanta fu per me una vera boccata di ossigeno leggere Bloom. E Steiner. Da giovane accademico mi trovavo compresso tra istanze critiche di impostazione lacaniana, decostruzionista e post-strutturalista. La lettura, per esempio, di After Babel e di Real Presences fu per me magistrale: si poteva ancora parlare – in letteratura e in poesia – di uomini e di donne, di sentimenti… Naturalmente non pensai mai, né penso ora, di disconoscere i meriti dei formalismi primo novecenteschi, anzi me ne avvalgo a piene mani; tuttavia cerco sempre di coniugarli a istanze di segno estetico. Se si perde il baricentro rispetto alla kantiana “dottrina del gusto”, qualunque eccesso e qualunque arbitrio possono più facilmente prevalere.
E forse – se ci riflettiamo con occhio estraneo e distanziato – molte delle inadeguatezze critiche e accademiche con cui in Italia ogni giorno ci confrontiamo sono proprio dovute al fatto che – alla naturale triade composta da estetica, critica e poetica – sia andata sostituendosi negli ultimi decenni, con la messa in discussione delle poetiche, una pericolosa dialettica tra critica e teoria della letteratura.
Sono ancora convinto che se la poetica – come si desume dalla limpida sintesi anceschiana – consiste nella “riflessione che gli artisti e i poeti compiono sul loro fare, indicandone i sistemi tecnici, le norme operative, le moralità e gli ideali”, essa inevitabilmente si fortifica ponendosi in fecondo dialogo con la critica; e anche che entrambe – critica e poetica – per sentirsi definite e forse divenire un giorno un possibile oggetto di canone – debbano essere congiuntamente contemplate dal filosofo dell’estetica: il solo in grado di trarre la sintesi, cogliendo il senso profondo, di quel dialogo.
4. Quell’operazione di interpretazione e di fraintendimento che un poeta successore mette in atto nei confronti del predecessore, tanto ben descritta da Harold Bloom, io mi permetto ancora di inquadrarla all’interno della definizione di una “poetica”. Non è certo l’assoluta originalità di un’opera letteraria a garantirne l’entrata in un ipotetico canone. Assoluta originalità per altro concettualmente non concepibile se non nei termini dell’assoluta incomunicabilità. Letteratura nasce da letteratura e poesia nasce da poesia. Che cosa rende la letteratura originale, fresca, innovativa ed – eventualmente – degna di canone? La risposta non può che riguardare l’esistenza o meno di una genuina “poetica”.
In altri termini, a mio avviso, non ha molto senso prendersela con Montale per avere rielaborato all’interno dei propri, alcuni versi di Clemente Rebora; o rintracciare nei Mottetti inequivocabili stilemi penniani: queste due delle “accuse” raboniane all’autore delle Occasioni. Ciò che conta è se quegli elementi hanno quagliato all’interno della poetica montaliana producendo poesia, o se sono restati meri plagi o al più citazioni.
Un vero artista non copia, ruba, sosteneva Picasso. Altra cosa è la riflessione etica. E proprio con riferimento a Montale vorrei esprimerla senza ambiguità. Mentre sostengo che la poetica di Montale è talmente profonda da potersi permettere di inglobare brandelli di versi di predecessori e di contemporanei senza esserne intaccata, anzi uscendone irrobustita, con altrettanta convinzione mi sento di affermare che fu senza scrupoli e spietata la rapacità montaliana nel nutrire anche di versi altrui la propria poesia. Montale era convinto che di Rebora – autosepoltosi in convento dai rosminiani – non si sarebbe parlato più, che sarebbe stato dimenticato; altrimenti non avrebbe osato, non se lo sarebbe permesso. Egualmente, Montale era certo che il nome di Penna non sarebbe mai “passato”: censura fascista, che egli stesso metteva in atto preventivamente, omofobia conclamata dopo i giovanili turbamenti… La questione, però, a mio avviso, non riguarda la poetica e non riguarda il canone: è solo drammaticamente e squisitamente etica.
5. L’anno scorso, allestendo con Massimo Gezzi il mio Oscar Poesie 1975-2012, mi è capitato di interrogarmi sulle ragioni per cui la mia prima raccolta Nell’acqua degli occhi, uscita da Guanda nel 1979, non contenga alcuni testi esplicitamente omoerotici, recuperati poi in raccolte successive. Ero il censore di me stesso, scrivevo per non pubblicare, evidentemente. I miei referenti – la mia genealogia – erano allora i poeti della cosiddetta “Linea lombarda” (con tutte le cautele per l’eccessiva semplificazione che tale definizione comporta), dagli autori storici come Sereni, Erba e Risi, a Raboni e Giudici (quest’ultimo, come del resto Cattafi, arruolato “di complemento”). Tutti inveterati eterosessuali. Ricordo bene di avere dato in lettura al cattolico Erba il poemetto Suora carmelitana privo dei versi:
Ho pensato poi alla mano nella grata
Alla prima foto di fist-fucking.
Ero troppo pavido? La mia omofobia interiorizzata mi mostrava ingigantiti i pericoli di un esplicito coming out poetico? Può darsi. Tuttavia non me la invento questa lettera autografa del cattolico Mario Luzi (al quale avevo in precedenza inviato il medesimo poemetto nella versione integrale per il premio Il Ceppo di Pistoia), in cui il mio lavoro viene definito écoeurant, con il ricorso all’aggettivo francese per “disgustoso”. E con la postilla: “Credo che questo fosse proprio l’obiettivo che lei si prefiggeva. Dunque: bravo”. Inutile aggiungere che non vinsi il premio Il Ceppo. (Anche questa lettera oggi è custodita presso il Fondo manoscritti dell’Università di Pavia).
A onor del vero, ricordo di avere poi mostrato al pur cattolico, ma più luciferino, Giudici il poemetto Suora carmelitana nella versione integrale, e di essere stato da lui indotto a lasciare i versi “incriminati”: “Se li togli addolcisci troppo il racconto: si sente che è nato con quei versi dentro”. E, sempre a onor del vero, ricordo di essere stato molto incoraggiato in quegli anni da Fortini (anche le sue lettere – come tutto il mio epistolario – sono ormai a Pavia). Con Fortini – che con me fu sempre straordinariamente disponibile e gentile – ebbi come la sensazione di star godendo i frutti di una sorta di compensazione… per i torti in precedenza da lui inflitti a Pasolini, e ormai non più direttamente redimibili.
In estrema sintesi posso affermare che la mia genealogia “tematica” è più appenninica che lombarda, o meglio, è giuliano-friulana con Saba e il primo Pasolini, e poi bolognese, quindi passa per la Perugia di Penna per giungere a Roma. Mi è lecito schematizzare in questo modo: Saba-Pasolini-Penna-Bellezza vs Sereni-Erba-Risi-Giudici-Raboni? Forse sì. Ma tentando una conciliazione, grazie alla definizione di poetica che proprio il codificatore di Linea lombarda, Luciano Anceschi, ci ha lasciato e che già ho richiamato.
Ecco allora che, se le mie moralità e i miei ideali si trovano maggiormente a proprio agio nella linea appenninica, i miei sistemi tecnici e le mie norme operative – la mia officina, insomma – rimane saldamente legata a “quella faccenda di laghi e di discorsi in un gran parco verdissimo” che è la poesia in re, prosciugata e scabra, dei miei maestri lombardi. Non a caso forse, anche geograficamente, oggi io sono un lombardo che vive a Roma. E il risultato concreto in poesia della fusione delle due linee potrebbe essere questo:
Il terzino anziano
Erano invecchiati
Anche quelli della sua età,
Con l’erba verde tra i piedi
E l’odore di maglia a righe.
Ma lui restava, in difesa,
Pesante
A sentirsi i figli
Crescergli contro
E vendicarsi.
6. Se però approfondisco la riflessione, devo confessare che anche questa “fusione” delle due “linee” mi pare inadeguata, non tanto come risultato poetico, ma concettualmente. La concezione dell’omosessualità di Pasolini e di Bellezza – come ben dimostra Luca Baldoni nella Introduzione alla recente antologia Le parole tra gli uomini (Robin edizioni 2012: http://www.francobuffoni.it/video_siena_mazzoni.aspx) – era ancora totalmente “mediterranea”, legata alla ricerca spasmodica del ragazzo-nature eterosessuale, capace di concedersi all’occorrenza. Nel mio docu-fiction Zamel (Marcos y Marcos 2009) ho approfondito questa tematica, giungendo a conclusioni che mi distanziano nettamente dalla concezione dell’omosessualità che fu di Pasolini e di Bellezza. E nella raccolta Noi e loro (Donzelli 2008) – che nella prima parte è ambientata nel Maghreb e nella seconda in Italia – credo di avere dato testimonianza di tale passaggio anche in poesia. (Oggi anche questo libro è contenuto nell’Oscar Poesie prima citato).
7. L’ammirazione per l’arte purissima di “Pennino” era certamente sincera da parte di Montale, ma poi “Eusebio” non presentava nemmeno quei testi per la pubblicazione a “Campo di Marte” o a “Solaria”: li teneva nel cassetto, e basta. Come uomo pubblico Montale non desiderava assolutamente che il suo nome venisse in qualche modo collegato a quei versi (per non dire del tentativo di impedire a Saba di venirne in possesso). La solerzia montaliana nell’invocare la censura del regime per giustificare la mancata pubblicazione dei testi di Penna andava dunque di pari passo con la convinzione che Penna non sarebbe mai riuscito a emergere.
Credo che Montale nutrisse un profondo sentimento di disprezzo verso coloro che avevano il coraggio di praticare l’omosessualità senza vergognarsene. Capita a molti che in gioventù ebbero pulsioni gay e si costrinsero in seguito a sublimarle.
C’è quella bellissima poesia di Ossi di seppia, per esempio, dedicata a un misterioso K. Ne cito qualche verso:
Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un’acqua limpida
scorta per avventura tra le petraie d’un greto (…).
Codesto è il mio ricordo; non saprei dire, o lontano,
se dal tuo volto s’esprime libera un’anima ingenua (…).
Ma questo posso dirti, che la tua pensata effigie
sommerge i crucci estrosi in un’ondata di calma,
e che il tuo aspetto s’insinua nella mia memoria grigia
schietto come la cima d’una giovinetta palma…
Si è poi saputo che K era lo stupendo ballerino russo Boris Kniaseff, da Montale conosciuto a casa dell’amico scultore Francesco Messina, per il quale Boris aveva posato.
D’altro canto, in questa ottica, si chiarisce anche la poetica montaliana della vita vissuta al cinque per cento. C’è un’altra poesia di Ossi di seppia che chiarisce il punto:
Ciò che di me sapeste
Non fu che la scialbatura,
la tonaca che riveste
la nostra umana ventura (…).
Restò così questa scorza
La vera mia sostanza (…).
Montale, che con le donne contemplava e idealizzava, manifestò sempre repulsione per chi non nascondeva di essere attratto dagli uomini giovani e belli. E fu sempre velenoso con gli omosessuali praticanti ma velati. Per esempio con Carlo Emilio Gadda. C’è una significativa lettera in cui Montale parla di Gadda coi “pennerasti”: il sommo poeta si inventa un dispregiativo per gli amici omosessuali dell’omosessuale Gadda, storpiando il nome di Sandro Penna. La lettera, del 21 novembre 1946, è indirizzata al critico Silvio Guarnieri: “Carissimo Silvio, qui le cose non vanno bene, ora i giornali escono a due pagine perché manca la corrente per le industrie, cartiere comprese; e così anche la collaborazione al “Corriere” (unico mio reddito) sarà molto ridotta. (…) Landolfi è sempre a Pico ed è meglio per lui che stia là. Il “Mondo” è morto. Carlemilio è a Venezia con alcuni pennerasti (si impaluda sempre più) e degli altri meglio non parlare… Ricordami a Franca e ricevi abbraccio affettuoso dal Tuo Eusebio”.
Ma ancora più velenoso Montale fu con gli omosessuali “dichiarati”. Certo, è noto il suo odio per Pasolini. D’altronde, allora, di omosessuali dichiarati ve n’erano ben pochi… Montale arrivò al punto di ingiungere al giovane Claudio Magris di non nominare mai Pasolini, né sul Corriere né altrove, indipendentemente dall’argomento. Di Pasolini non si doveva parlare, punto e basta.
Un altro su cui calò la sua potente mannaia fu Giovanni Testori: che mi guardo bene da portare a esempio di uomo “liberato”: era cattolico e aveva fortissimo il senso del peccato (sessuale); tuttavia praticava l’omosessualità e non lo nascondeva. L’ostracismo di Montale nei suoi confronti fu tale che per anni sul “Corriere” non solo Testori non potè pubblicare una riga, ma nemmeno apparvero recensioni ai suoi libri e al suo teatro. C’è un episodio illuminante raccontato dal critico Sebastiano Grasso e ambientato alla Scala, che racconta la rottura definitiva tra i due. Testori vi si era recato con Alain, il suo giovane amico francese “considerato quasi un figlio, di grande bellezza”, come scrisse poi Camilla Cederna. Incrocia Montale e fa per presentarglielo. Montale gli volta le spalle e si allontana. “Ce n’est pas un poète, c’est une merde!”, grida Alain.
L’episodio mi ha ispirato questo brevissimo componimento:
Per Eugenio Montale
Aveva il sorriso di K
l’amico di Gianni Testori,
proprio per ciò ne scansasti
la mano. Guardando fuori.
8. Cerco di “chiudere” anche un altro punto che ho lasciato in sospeso. Partirei, per restare in Italia, dalla considerazione che nell’Ottocento di Rosmini e di Manzoni concepire un universo non costruito per l’uomo e le sue esigenze fosse pura follia. Da qui l’assoluta solitudine intellettuale di Leopardi. Mentre in età classica certe intuizioni si erano già manifestate. Come è possibile questo?
Più mi applico sui duemila anni di civiltà culturale cristiana – con i mille di assoluto predominio dal V al XV secolo – più mi convinco che tale applicazione – tale studio – sia la via più sicura per tornare a preferire Lucrezio e i greci. Al fine di sentirsi rassicurati sul fatto che la vita umana abbia valore non malgrado la propria finitezza, ma proprio perché essa è finita e casuale.
E qui la riflessione mi riporta a due dei miei già citati maestri: Giovanni Raboni e Franco Fortini.
Accadde infatti che Raboni – recensendo per il “Corriere” nel 2003 il meridiano dedicato a Fortini saggista – si avvalse di un giudizio dello stesso Fortini su Leopardi per condannare nuovamente (l’aveva già fatto in precedenti scritti e interventi pubblici) il pensiero di Leopardi, esaltando, per contro, Manzoni. In sostanza contrapponendo la pietas cristiana del secondo alla filosofia “nata morta” del primo.
Ma è bene cominciare dall’inizio, cioè da Fortini che, nel 1973, ricordando la propria esperienza di insegnante, annota: “I giovani amano Leopardi materialista e fratello della morte, non Manzoni che parla loro con la voce del prete e dei buoni sentimenti. I giovani non possono sapere che la letteratura è una menzogna che dice la verità. Vogliono la verità subito. Manzoni non li interessa”. Per concludere: “Questi giovani hanno torto. La “verità subito” è l’illusione eternamente romantica di chi rifiuta la pazienza della incarnazione, la categoria della mediazione…”.
E Raboni rincara la dose esaltando Fortini per “la vibrante, lucidissima esortazione a ripensare Manzoni, a riappropriarsene, a metterne anche politicamente a profitto l’inesauribile e tragica grandezza”. Il tutto naturalmente a scapito di Leopardi, “materialista e fratello della morte”.
Ebbene, nella mia concezione, invece, è proprio Manzoni il personaggio-simbolo della regressione e dello spavento: di come ci si possa ritrarre terrorizzati dai lumi per far quadrare tutto di nuovo con l’escatologia, coi teleologismi. Manzoni, che dopo la morte dell’Imbonati, tradisce gli ideali dei Verri e di Beccaria in cui si è formato, e si volge al cattolicesimo più retrivo in perfetta sintonia con la nuova leadership imperiale austriaca.
Secondo me, il punto è che né Raboni né Fortini credono nell’ascensione o nella transustanziazione, ma ricorrono al lessico e soprattutto alle categorie di pensiero del cristianesimo faute de mieux… Anche loro terrorizzati da una terra non più al centro dell’universo, una chiesa non più al centro della terra, un uomo non più al centro delle creature… Che cosa rimaneva senza la pietas cristiana? Che cosa si doveva insegnare davvero ai giovani?
La maggiore carenza, ai miei occhi, è costituita dal fatto che Raboni e Fortini, parlando della filosofia nata morta leopardiana, ignorano – nel senso che non se ne curano – un dato essenziale: l’enorme peso che nello sviluppo della filosofia leopardiana ebbe il pensiero scientifico.
9. Sarebbe come paragonare Zanzotto a Luzi. Mentre Zanzotto fino all’ultimo ha il coraggio di affrontare il dato scientifico e di compiere lo sforzo di assorbirlo, inglobandolo nella propria poetica, il Luzi-pensiero da questo punto di vista non subisce variazioni tra il 1930 e il 1990, semplicemente perché per Luzi il dato scientifico non esiste. E questo, per me, in un poeta del XX secolo, è inaccettabile. (Ciò malgrado, resta immensa la mia ammirazione per la grazia tecnica di Luzi, del primo Luzi in particolare: il suo enjambement – per esempio – rimane a mio avviso uno dei massimi raggiungimenti della nostra arte poetica novecentesca, superiore persino a quello di Montale).
Sarà perché la “verità” è troppo nuda: non eccita gli uomini. E non solo non li eccita, ma li atterisce. Giobbe, re Lear, Paul Celan: è sempre lo stesso urlo disperato contro il nulla. E allora? Allora, possiamo trasformare l’ateismo in un valore? E’ possibile percepire come una acquisizione ciò che, anche lessicalmente, appare come una perdita, una privazione?
Se leggiamo la Storia dell’ateismo di George Minois – che parte da Socrate e arriva al Novecento – scopriamo che proprio l’ateismo è la condizione migliore per propugnare valori come la tolleranza, la libertà, il pluralismo, l’eguaglianza e persino l’intelligenza. L’ateismo è sempre esistito, ma se ne parla poco, si parla sempre degli “altri”, che tentano con le buone – le loro prove ontologiche – o con le cattive, di convertirci. Se ne parla poco anche per una ragione oggettiva. Minois la illustra con un paradosso: chi si sognerebbe di scrivere la storia di coloro che non credono negli Ufo?
Penso che sia venuto il momento di ribaltare questa abitudine. Perciò, tornando ai poeti, preferisco volgermi a Zanzotto. E in primis a Montale. Che aveva già trasceso sia Raboni sia Fortini sia Luzi, elaborando il concetto di “decenza”. Essere intellettualmente almeno un po’ decenti. Magari, come fa Zanzotto, orientando la propria visione e il proprio afflato alle meraviglie dell’immanente, al micro e al macro, alla microbiologia e all’astrofisica.
Non a caso Raboni a Montale preferiva Rebora, che si era convertito al cattolicesimo. Per Raboni la pietas era il punto cruciale: lì per lui correva la distinzione tra decenza e in-decenza, sia etica sia intellettuale. Ed io sono d’accordo. Mi piace dirlo in conclusione a questa pagina di diario. Sono d’accordo, ma credo anche che occorrerebbe disancorare la pietas dalla metafisica cristiana e valorizzarla, riportandola al significato che le era proprio nella cultura classica: pietas come virtù civile; rendendola “eredità umana” nella tolleranza, nello stato di diritto, nella ragionevolezza, nell’ateismo come valore.
10. Ho intitolato questo segmento del mio diario “Canone e ascendenze”. Circa le ascendenze, vorrei concludere con una riflessione che riguarda il periodo del mio apprendistato poetico, configurandosi nella cosiddetta «questione della lingua». Al riguardo, alla fine degli anni sessanta, posi molte domande al professor Anceschi, che mi rispose ricordando quando Ludovico il Moro convocò il Bellincioni a Milano «acciocché per l’ornato e polito fiorentino suo parlare» insegnasse ai lombardi «a limare e polire» il loro «alquanto rozzo parlare». A successive mie insistenti domande Anceschi mi invitò a fare di quelle stesse considerazioni oggetto di scrittura in versi. E mi pubblicò quelle poesie sul Verri. Ne riporto qui una che oggi sta nell’Oscar.
La questione della lingua
C’era sempre Milano tuttavia
Là in basso
Che taceva,
E per strazi di poesia
Nell’ora che cedeva a consolàti avvisi
Estendeva il concetto di Toscana
Sorteggiando la bugia
Sulla soglia di più lingue costiere
Come un diodo che ci vede dieci piani
Rasentando riforme e in calce
Varie opere minori.
Per un autore lombardo come io sono – con genitori lombardi, con una educazione linguistica acquisita in Lombardia, magari attraverso lo studio di lingue straniere, non certo con un bagno in Arno – il problema si pone subito, come prende la penna in mano. Mi riferisco alla povertà del lessico, che noi lombardi ci portiamo dentro da secoli per la semplice ragione che per tradizione parliamo un’altra lingua. I miei nonni capivano a stento l’italiano, perché la loro lingua era il dialetto milanese. I miei genitori, educati dal cattolicesimo nel fascismo e dal fascismo nel cattolicesimo, invece si esprimevano in italiano, ma con una povertà lessicale impressionante. Avevano perso la freschezza del dialetto e non avevano acquisito l’italiano come lingua che ti canta dentro spiritualmente.
In sintesi, io mi trovai dinanzi a tre possibilità. La prima fu quella di seguire l’esempio di Gadda, attraverso il pastiche, l’esplosione del linguaggio, nel tentativo di assorbire quanto più possibile da altre lingue gli strumenti per colorire le mia scarne capacità espressive. Non a caso, la mia tesi di laurea nel 1971 fu su Joyce.
La seconda possibilità fu di seguire l’esempio di Loi. Risalgono infatti ai primi anni settanta le mie traduzioni in dialetto milanese di autori del sei-settecento scozzese, come Allan Ramsay e Robert Fergusson, che si erano espressi vivacemente ricorrendo al vernacular scozzese, rifiutando la genteel English tradition. (Alcune di queste traduzioni sono state poi raccolte nel mio primo Quaderno di traduzioni, Songs of Spring, uscito da Marcos y Marcos nel 1999).
La terza via era quella di Sereni. Ma l’opzione vale anche per Erba, per Raboni: è quella della frase poetica, del respiro della frase poetica, mirante a trasformare la povertà lessicale in una ricchezza. Consideriamo due versi di Sereni – «Sui tavoli le bevande si fanno più chiare / l’inverno sta per andare di qua» – all’inizio di Canzone lombarda: il vino rosso lascia il posto al vino bianco, l’inverno sta per andare via. Ora, pensiamo a che cosa Parronchi, Luzi, Bigongiari avrebbero scritto per esprimere l’arrivo della primavera. Sarebbero usciti tre-quattro endecasillabi ben limati, ricchi di lessico. È chiaro che Sereni ricorre deliberatamene a un lessico povero; però «scolpisce» poesia, riuscendo a trasformare la sua povertà lessicale in una enorme ricchezza evocativa. Le parole diventano «bielle», acquistano un «valore aggiunto». Un procedimento avvalorato dal ricorso alla frase ritmica, a quel respiro che potrei definire anche bertolucciano, in cui il verso può avere nove, tredici, quindici, diciassette sillabe. Certo può essere anche un endecasillabo. Ma ciò che veramente conta è il respiro profondo coi suoi accenti, come il blank verse inglese; ciò che conta sono i luoghi dove cade il respiro. Se devo dire della mia versificazione, ciò che sento non è una metrica, bensì un respiro ritmico, all’interno del quale la mia tensione emotiva e il mio pensiero si distendono fondendosi. E ad operare è soprattutto lo stress a cui viene sottoposto il lessico povero. Come su un pentagramma, sempre un attimo sopra o un attimo sotto la sua “naturale” collocazione. Qualcosa che mi accade di ritrovare – per esempio – nell’inglese di Charles Simic. Non a caso anche lui con la sua gigantesca “questione della lingua”, essendo giunto sedicenne negli Stati Uniti dalla penisola balcanica senza conoscere una parola d’inglese.
[Immagine: Candida Höfer, Zentralinstitut für Kunstgeschichte München IV (gm)].
Intervento articolato, pieno di spunti. Passa dal descrittivo-generale al personale (dalla storiografia all’auto-analisi, per dire) quasi senza accorgersene – non che sia un limite, ma mi sembra un fatto abbastanza inusuale.
Sono d’accordo che la grandezza di un poeta debba misurarsi con la sua poetica, anche se mai prescindendo dai frutti – le poesie: andrebbe indagato il rapporto tra teoria e prassi, magari per una volta partendo da quest’ultima.
Infine: io sono per il concetto di costellazione di testi, alla Benjamin quindi, e percio’ mi dispiace che l’intero pezzo ripercorra il canone come autori da contrapporre o preferire: non si puo’ cominciare a costruire un canone di opere (e perfino di testi singoli) stabiliti in base a dei criteri discutibili ma verificabili? non si potrebbe parlare dei poeti solo “a posteriori”, cioe’ dopo l’attraversamento comparato dei loro testi? Un canone di testi e’ piu’ democratico e immediato e utile che un canone di autori. Io sto cercando di ‘costruirmi’ il mio con una rubrica chiamata Poem Shot: un testo a settimana. Si parla, troppo poco secondo me, di testi singoli, e troppo di autori (appoggiandosi alla loro persona, quando e’ risaputo che la vera poesia trascende in parte chi l’ha scritta, come la teoria della relativita’ trascende Einstein: lo implica non un credente, ma un filosofo della scienza come Popper.
Postilla: un canone di autori mi sembra riproporre all’infinito un’attitudine agonistica. Quindi, un canone con esclusioni eccellenti o che sia il negativo di un altro, risponde comunque alle stesse logiche: mette la persona dell’autore davanti a quella dell’opera. Se si accetta invece che l’opera ha sempre piu’ rilevanza dell’autore, e che non e’ l’autore a dover essere studiato mediante le sue opere, ma le opere (anche) mediante il loro autore, allora si sconfigge questa logica, per cui ‘sfidare il canone’ non equivarrebbe a sostituirne uno con un altro, ma proprio ripensare dalle fondamenta che cos’e’ un canone. E un canone deve essere un insieme di testi che una civilta’ decide di far passare come indispensabili o fondanti. E allora si potrebbero catalogare e far dialogare vari tipi di canone:
– Canone acquisito (quello passato dai poteri forti)
– Canone acquisito-spontaneo (quello formato dalle opere che tutti conoscono, anche senza imprimatur critico)
– Canone personale-ragionato (canone proposto e difeso da un critico piuttosto che un altro)
fino al
– Canone ideale, che per me e’ un bilanciamento di tutte e tre le tipologie sovrastanti. Insomma, anziche’ sempre contraddire e ribattere, servirebbe costruire e integrare: per cui in un canone vorrei trovarci sia le opere che i lettori comuni ritengono interessanti (cosi’ da darmi indicazioni sociologiche di gusto), sia quelli difesi dai critici (per vedere in che senso opera una selezione rigorosa), sia quelli gia’ giunti (per capire i meccanismi di trasmissione culturale). Una volta che questo lavoro collettivo sara’ svolto, anche le pratiche (libri di testo, insegnamento ecc.) potranno seguire, a patto che tutti i passaggi della costruzione del canone ideale siano argomentati e verificabili (dalle premesse alla metodologia fino alle scelte finali)
Vexata quaestio, quella che lei pone, caro Castiglione. Anteporre il testo all’autore: ci ho sempre provato. Non ci sono mai riuscito. Seguirò il suo blog, prometto.
Quanto al fatto di passare dalla storiografia all’autoanalisi: sono d’accordo, è inusuale. Solo il journal intime lo permette. Per questo ho scelto la formula del “diario pubblico”.
Ottimo articolo, o pezzo o come volete chiamarlo. I punti trattati sono troppi e troppo complessi per essere affrontati in questa sede, quindi non diro’ nulla.
Dico soltanto di essere perfettamente d’accordo con l’autore nel preferire il razionalismo scientifico leopardiano rispetto a Manzoni.
Ringrazio anch’io Buffoni per il generoso spaccato culturale e sociale che ci regala, una efficace pagina di Storia letteraria italiana del Novecento. Mi sembrano dinamiche -personali, collettive, legate alla creazione di un canone letterario- ormai non replicabili causa globalizzazione, perdita di status e precarizzazione dei lavoratori delle lettere (Corriere della Sera compreso). Siamo oggi nel mezzo di una nuova lotta di classe e dubito si riesca a condividere un principio di autorita’, solo forse una costellazione di autorevolezze citando Castiglione. Articolo molto apprezzato, grazie di nuovo. Saluti.
Sono io che ringrazio per questi commenti. In particolare rifletterò sulla non replicabilità dei fenomeni da me descritti causa globalizzazione e precarizzazione dei lavoratori delle lettere, Corriere compreso.
Ti distendi e respiri nei colori
la città s’imporpora
s’intopazia si smeralda
le montagne nel ghiaccio si inazzurrano
Ma dove ci conduce questo cielo
che azzurro sempre più azzurro si spalanca
Ma non sanno altro bene o altro male
che un lago azzurro o grigio
i tuoi occhi dall’ombra di un viale
ma palpita arancio colore
dalla barriera di nuvole
Sui tavoli le bevande si fanno più chiare
ti specchi in verde ombrato
Nell’ampio respiro dell’acqua
ch’è sgorgata col verde delle piazze
vanno ragazze in lucenti vestiti.
autunno di feltri verdi fioriva,
i viali celesti al dopopioggia
la memoria
dei parasoli brillanti per le vie
sotto le nubi tiepide, d’oro
si libra per le vie
la giostra dei colori,
e l’oro dell’aria
e la fermezza del verde
E l’ombra dorata trabocca nel rogo serale
…
È chiaro che Sereni ricorre deliberatamene a un lessico povero; però «scolpisce» poesia, riuscendo a trasformare la sua povertà lessicale in una enorme ricchezza evocativa. Le parole diventano «bielle», acquistano un «valore aggiunto».
wow
I miei complimenti per un intervento che offre molti spunti ed informazioni preziose.
La formula del diario pubblico, che congiunge storiografia ed autoanalisi, è in sé un elemento di interesse. Tuttavia vorrei soffermarmi per un attimo sulla prima parte, ovvero quella storiografica, per un paio di brevi considerazioni:
– la “costellazione” convince molto anche me. È uno dei punti che vorrei approfondire (personalmente, intendo).
– Mi sembra, però, che tutto sia ricondotto soprattutto a dinamiche individuali. È molto interessante, e aggiunge (proprio su quelle dinamiche) informazioni che non avevo. Ma si basa su un’idea di poetica unitaria e su un’idea “forte” e consapevole di poeta che non credo siano più possibili o applicabili a molti altri autori oggi, a parte Franco Buffoni.
– Un’analisi di questo tipo non tiene conto del cambiamento nel canone dopo “Il pubblico della poesia”, della ‘deriva’ di cui parlano lo stesso Onofri (che lei cita; se non mi sbaglio i termini usati da Onofri sono “età della democrazia” e “mare magnum dell’oggettività”; cfr. M. Onofri, “Il canone letterario”, Bari, Laterza, 2001), e Berardinelli già nel 1975. Secondo me quelle questioni sono decisive, soprattutto per il canone degli ultimi quarant’anni (ancora non così ‘evidente’ o ‘pacifico’, come lei giustamente ritiene sia quello fino agli anni Settanta, invece). In sostanza, credo che uno dei problemi principali del canone del Novecento riguardi il suo ultimo quarto, non del tutto o non solo riconducibile alle dinamiche individuali e -talvolta- personalistiche che lei illustra benissimo (e che, inutile negarlo, hanno avuto un peso enorme. Giustissimo illustrarle, dunque, ed inserirle in una cornice storiografica).
– “Se si perde il baricentro rispetto alla kantiana “dottrina del gusto”, qualunque eccesso e qualunque arbitrio possono più facilmente prevalere. E forse – se ci riflettiamo con occhio estraneo e distanziato – molte delle inadeguatezze critiche e accademiche con cui in Italia ogni giorno ci confrontiamo sono proprio dovute al fatto che – alla naturale triade composta da estetica, critica e poetica – sia andata sostituendosi negli ultimi decenni, con la messa in discussione delle poetiche, una pericolosa dialettica tra critica e teoria della letteratura.”.
Non capisco quale sia la dialettica pericolosa alla quale allude; forse mi sbaglio o ho letto male, ma non mi è chiaro questo punto. Inoltre riconosco e capisco cosa intende per “dottrina del gusto”; il rischio, però, è che in nome del gusto l’esclusione di Fortini da parte di Sanguineti sia da considerarsi legittima (un esempio fra tanti).
– “In Italia non mi pare che siano ancora penetrate in profondità nel tessuto critico-accademico istanze di cultura femminista, etnica, omosessuale, atea; […]”. Probabilmente è vero.
Il canone deve avere un ruolo propulsivo e democratizzante? Non lo so, me lo chiedo anch’io, non ho una risposta. Qui potrei far seguire altre considerazioni, ma mi riservo di rifletterci meglio.
Intanto la ringrazio, perché le mie riflessioni saranno più consapevoli, alla luce di questo articolo tanto denso e significativo.
Il canone NON deve avere necessariamente un ruolo democratizzante…
.. ma non deve essere nemmeno discriminante…. ;o)
Ringrazio e cerco di rispondere a Claudia Crocco: essendomi anceschianamente formato all’interno della dialettica tra critica e poetica, con il filosofo dell’estetica che in seguito propone un canone attentamente soppesando i risultati di tale dialettica, mi trovo a disagio se penso all’estromissione dell’estetica, alla sua sostituzione anche e soprattutto accademica con la teoria della letteratura.
Quanto alla dottrina del gusto, non la intendo come arbitrio o capriccio. Era solo il modo kantiano di definire il campo dell’estetica prima che Baumgarten coniasse il termine.
Questa pagina di diario pubblico – scritta con grande equilibrio – descrive e testimonia, con pacatezza formale, la guerra aperta tra i poeti o comunque le contese personalistiche per la formazione di un canone che niente hanno a che vedere con la stereotipata e contraffatta visione degli studiosi algidi che tengono solo alla salvaguardia del meglio.
Dei protagonisti della scena culturale traspare la schizofrenia tra etica e poetica; di Montale in particolar modo si dice la complessità: la grandezza del poeta giustifica la piccineria del censore del gusto?
Per questo, quando si raccomanda “Occhio solo al testo, come se si fosse scritto da solo”, credo si corra il rischio di perdere molto proprio del testo, se si decide aprioristicamente di chiudere gli occhi sulle informazioni relative a colui che l’ha scritto, che inevitabilmente e certo, oltre una certa soglia, imponderabilmente, informano a loro volta il testo stesso.
In questo senso la letteratura, la poesia, non sono e non possono essere un a-parte, non possono godere di una sospensione delle indagini conoscitive che ne fanno emergere tutte le implicazioni, volute o involute che siano.
I miei saluti,
Antonio Coda
Ringrazio l’autore per l’intelligenza e la passione che fanno di questo scritto una fonte di suggestioni, dubbi e riflessioni. I commenti esprimono tanta “materia”.
Desidero da parte mia sottolineare due pensieri. Li esprimo a mia volta, condividendoli:
1. Personalmente trovo affascinante e condivisibile che i poeti debbano (sottolineato: debbano) coltivare una poetica ponendola in dialogo con una critica svolta (essenzialmente) dai critici e il frutto di questo reciproco dialogo possa essere oggetto di studio e di sintesi da parte dell’Estetica. In tal senso trovo davvero apprezzabile il pensare alla poetica come cardine essenziale per un canone che sia affermazione di “una propria visione nuova e originale”.
2. Fa particolarmente piacere raccogliere la testimonianza di quanto l’officina di Buffoni sia la sintesi di un cuore-respiro appenninico, un cuore-radice di origine lombarda e diciamo una “terza via sereniana” che, alla fine, è cuore del mestiere e della maestria.
Interessantissimo, ai miei occhi, il “punto” fatto su Sereni: l’idea di una poesia “scolpita” con lo scalpello di un lessico povero. Di qui, davvero, quanta ricchezza.
Ringrazio molto gli autori di questi ultimi due commenti, che hanno colto lo spirito – di pacata riflessione a tutto campo, senza pregiudizi, ma anche senza remore – con cui ho steso questa pagina di diario.
Io qui adesso posso solo limitarmi a citare un canone per me eccezionale: quello di Lello Voce e Aldo Nove intitolato Ma il cielo è sempre più blu. Non sono mai riuscito ad averlo in cartaceo (ne avevo un pdf rintracciato tramite un servizio di file-sharing). Era una scelta antologica dialogico-telematica su scritture poetiche generazionalmente affini. Per me fu una scoperta memorabile. (Ciao Franco! Pensa che ti leggo mentre guardo sanremo! Ti rendi conto? Mi hai fatto staccare la testa da sanremo!!!)
mi piace leggere la scelta in direzione Zanzottiana che s’intravede alla fine del post. Zanzotto forse il più “materico” dei nostri poeti. mi piace collegare questa sperimentazione materica della lingua con il dubbio sereniamo. mi piacerebbe vedere in testa a questa riflessione concreta e comune un astro americano Wallace Stevens, che il nostro novecento lo anticipa astralmente, un abbraccio al sensibilissimo buffoni
*sereniano*
Anche a me questa forma che mescola generale e particolare, biografico autobiografico e critico convince sempre più a ogni puntata. Questa in particolare la trovo particolarmente riuscita e piena di spunti. Ne rilevo due soli, anche se passibili di un discorso infinito.
Mi ha divertito molto l’immagine degli ermetici fiorentini che tiran fuori dalla penna tre-quattro endecasillabi ben politi laddove Sereni usa poche e scabre parole. In effetti: mai dimenticare quanto la poesia italiana debba, in ogni senso, al rapporto che si stabilisce tra lingua materna e interna e lingua-istituzione. E quanto incida profondamente nella scrittura di un poeta il fatto che per lui o lei quella lingua-istituzione sia anche quella materna e interna o no. Credo che su un tema del genere si aprano praterie critiche.
Sarebbe interessante, ad esempio, valutare cosa capiti oggi ai poeti delle giovani generazioni, che possono ormai dare l’italiano in qualche modo per scontato (e lo è? E può mai esserlo una lingua?). Io non sono poeta, ma il problema della lingua che parlo (e della sua povertà?) mi dà da pensare: con una madre del centro, un padre del sud, ma nato e cresciuto in una metropoli del nord, nonostante i buoni stimoli culturali e la lettura, la mia lingua madre è stata per forza di cose l’italiano neostandard, la lingua “media”. Sociolinguisticamente forse è una conquista: le giovani generazioni parlano una lingua nazionale. Però realizzare di essere il primo della mia stirpe ad aver imparato a parlare con l’italiano mi dà come un senso di precarietà, di approssimazione, di possesso incerto. Sarà una condanna di noi italiani?
Sulla linea Leopardi-Zanzotto VS Manzoni-Luzi. Le osservazioni su Zanzotto, sul suo chinarsi microscopico sul mondo, anche in conseguenza dell’interesse per le scienze, le trovo condivisibili.
Mi permetto però una piccola difesa d’ufficio di Manzoni e di Luzi ed esprimo un disaccordo su Leopardi. Già l’ho scritto in altra discussione proprio intorno a una sua pagina di diario pubblico, Buffoni, perciò non mi dilungo, ma continua a non convincermi un Leopardi solo razionalista e materialista, un Leopardi che supera progressivamente le metafisiche sull’onda della scienza. Di qui la difesa d’ufficio di Manzoni e Luzi: nonostante i suoi decasillabi saltellanti piuttosto fastidiosi, mi pare che il giansenismo cupo del primo non possa essere ridotto alla formula della fuga verso il teleologismo della fede. Anche Manzoni è dialettico (come Leopardi).
E credo che il “Luzi-pensiero” si sia evoluto eccome. Bisogna però intendersi sul senso della parola: certo a Luzi non interessa esplicitamente la scienza, ma è possibile oggi ignorarla del tutto? E se ormai ci fosse penetrata talmente nelle vene che quasi non la vediamo più? Si può nascere nel Novecento, dopo Cartesio, Bacone, Galilei, e non esserne figli? Io trovo che Luzi sia stato capace di essere grande poeta simbolista prima, grande poeta smarrito di fronte alla storia poi, grande poeta-filosofo che ricompone insieme vertigine orfica e opera del mondo (mi viene in mente il Viaggio terrestre e celeste. E perdoni le formule un po’ rozze e buttate lì). Insomma: si muta solo lungo la linea dell’emancipazione illuministica della scienza o si può mutare produttivamente anche dentro un circolo dialettico in cui non ci si supera mai definitivamente, si assume la “ferita dell’essere” (per citare il titolo di un’antologia luziana), senza facili consolazioni, pur se alla perenne ricerca di una totalità?
Caro Daniele lo Vetere, grazie per queste considerazioni. Attenzione, però, il mio pensiero su Leopardi non è certo quello che lei riporta qui sopra. Credo di averlo espresso compiutamente in una immaginaria “Lettera a Contino Giacomo” che si trova in PIU’ LUCE, PADRE (Sossella 2006). Gliela ricopio qui, cordialmente salutandola. fb
Caro Conte Giacomo,
con riferimento al Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, è stato da molti osservato che, facendo risalire all’ignoranza e alla credulità acritica l’origine delle credenze magico-oracolari pagane, tu in realtà abbia liberato te stesso da tutte le nozioni che non reggevano alla luce della ragione.
Anche Ghan Singh, uno dei tuoi migliori traduttori in lingua inglese, sostiene questo; tuttavia da cattolico naturalizzato irlandese aggiunge: “Ciò in effetti provocò in Leopardi un altro dualismo: la sua condanna della ragione e, nello stesso tempo, la sua incapacità ad aderire a quelle idee e credenze che non reggono ad un esame critico. Così, suo malgrado, Leopardi è, insieme, l’apostolo e il critico del razionalismo”.
Capisco, stai per arrabbiarti. Per favore non farlo. Ho già detto che invece alla ragione/ragionevolezza continui a tenerci molto.
Per te il vero era nella filosofia; il bello nella poesia. C’è una famosa lettera dello Zibaldone in cui dichiari esplicitamente che in ogni grande filosofo è un grande poeta e in ogni grande poeta è un grande filosofo. Una volta raggiunta – invero molto precocemente – la convinzione della impossibilità di rigenerazione – o persino di conoscenza – attraverso una palingenesi di stampo salvifico, anche per te la filosofia diventò scienza. E come Bacone, come i primi grandi greci, ti occupasti di scienza dichiarando di star facendo filosofia. Sempre temendo, naturalmente, l’alterigia, la supponenza dell’”arido vero”, ma fortemente percependo l’irrinunciabilità di tale propensione.
Se penso che poi furono Gladstone e De Sanctis, Croce e Gentile principalmente a divulgare il tuo pensiero, posso ben capire le ragioni dell’equivoco (tanto duro a morire) circa il rapporto tra te e la ragione. Pensa che, nel Novecento, quando – giustamente – si tentò di tracciare un parallelismo tra il tuo pensiero e quello di J. S. Mill – sulla linea dei giudizi di Gladstone prima e di Matthew Arnold poi – lo si fece in tono negativo, considerando “distruttivo” il pensiero delle Operette e definendo, come fa Helen Zimmern, “nata morta” tout court la tua filosofia.
Ti prego, non stracciare il foglio, continua con la tua coppa di gelato al pistacchio, versati il rosolio e ascolta quanto il pregiudizio teleologico possa ancora obnubilare le menti. Tre sono i punti cardine su cui Zimmern vede convergere “negativamente” il pensiero di Mill e il tuo: “Entrambi credono che un cieco caso governi l’universo, che il male trionfi più spesso del bene e che la natura segua le sue leggi inesorabili senza tener conto dell’uomo”.
Dopo aver letto la Autobiography di Mill, mi sono convinto che la convergenza tra le vostre concezioni non solo resti, ma sia ben positiva: basta rileggere i tre punti anzimenzionati scevri da pregiudizi di carattere teleologico. E al primo punto basta togliere l’aggettivo “cieco”; al terzo confermare letteralmente l’affermazione che la natura segue le proprie leggi (che lo faccia inesorabilmente è solo una prova della sua serietà; e che lo faccia senza tener conto dell’uomo fa sorgere l’inevitabile contro domanda: perché mai dovrebbe tenerne conto?).
Quanto al secondo punto – la convinzione che il male trionfi più spesso del bene – la riflessione potrebbe articolarsi molto a lungo, ma appare arduo sostenere oggi che una concezione teleologica dell’esistenza possa portare a compiere più facilmente il “bene”.
«…Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra».
Qual è, quindi, la “vergogna” di cui, nella Ginestra, giuri che non ti saresti mai macchiato? Ricorrendo alla terminologia già usata, si potrebbe affermare: la vergogna di aver ceduto ad una credenza finalistica, ad una concezione teleologica dell’esistenza. E in questa prospettiva viene ad essere completamente ribaltata l’accusa che per tanti decenni ti è stata mossa. La vera alterigia è quella di chi, non sapendo accettare umilmente il proprio stato di mero caso biologico, giunge a ritenersi – per via forse di rivelazione – un essere in qualche modo “eletto”, e spregiando il “finito” persegue la propria finalistica elezione sopra a tutte le altre specie.
“Io tengo per fermo”, afferma il Folletto nel Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo, “che anche le lucertole e i moscherini si credano che tutto il mondo sia fatto a posta per uso della loro specie”. Ma non è ai cinquant’anni che separano questo dialogo dalla teorizzazione darwiniana che voglio pensare a conclusione di questa mia lettera. Sarebbe pertinente, ma consolatorio. Molto più in sintonia col tuo pensiero non consolarsi affatto, scorrendo i nuovi programmi scolastici italiani per l’insegnamento delle scienze, e apprendendo che il creazionismo è stato reintrodotto nei programmi scolastici di alcuni stati americani con pari dignità rispetto all’evoluzionismo.
Ti lascio, conte Giacomo. Ma tornerò presto perché due dei miei maestri – Franco Fortini e Giovanni Raboni – hanno parlato di te riecheggiando il giudizio sulla tua filosofia “nata morta”. E io vorrei affettuosamente contraddirli. Ti lascio, pensando alla tua solitudine intellettuale, quando avevi davvero capito tutto (per esempio sulla durata della vita umana sulla Terra rispetto alle convinzioni del tuo tempo) e non avevi nessuno a cui dirlo. Te lo scrivo in poesia – si parva licet – e ti abbraccio.
Ho pensato a te, contino Giacomo, vedendo
Su una rivista patinata
Le foto degli scavi in Siria a Urkish,
A te e ai tuoi imperi e popoli dell’Asia
Quando intuivi immensamente lunga
La storia dell’umanità.
Altro che i Greci il popolo giovane di Hegel
O il mondo solo di quattromila anni della Bibbia
Credendo di dir tanto, fino a ieri.
Tu lo sapevi che sotto sette strati stava Urkish
La regina coi fermagli
L’intero archivio su mille tavolette
Già indoeuropea nella parlata
L’accusativo in emme. Capitale urrita
Dai gioielli legati all’infinita pazienza
Dei ricami in oro. Tu lo sapevi che poi gli Hittiti
Sarebbero giunti a conquistarla,
Già loro vecchi e di vecchi archivi nutriti…
Sono stufo di preti e di poeti, conte Giacomo.
E di miti infantilmente riadattati.
Condivido – profondamente e problematicamente – questo nodo interrogativo posto da Daniele lo Vetere: “la scienza, ma è possibile oggi ignorarla del tutto? E se ormai ci fosse penetrata talmente nelle vene che quasi non la vediamo più?”. Mi permetto di chiedere a Franco Buffoni una risposta/un commento riguardante la “linea Manzoni-Luzi” (e, personalmente, sarei grato in particolare per un intervento su Luzi), ringraziandolo perlatro di quanto riportato da Più luce, Padre in merito a Leopardi.
Caro Poletti, rispondo volentieri anche alla sua sollecitazione. Su Luzi sviluppai compiutamente il mio pensiero in occasione della sua scomparsa. Glielo ripropongo qui.
“Il fantasioso viale / voga nella sua nuvola verde /…/ la levigata prora del giorno / s’incaglia nelle foreste”, sono alcuni versi della lirica “Serenata di Piazza D’Azeglio” (1934) posti da Luzi come incipit a La Barca. Se già perfetto è il senso musicale e straordinaria la maturità versificatoria del poeta ventenne, ben più complessa risulta la definizione dell’originalità della cifra stilistica. In questa nota vorrei brevemente riflettere proprio sulla questione della “originalità” poetica di Luzi. Oreste Macrì sosteneva – e per testimonianza diretta, oltre che attraverso una lettura comparata dei testi – che La Barca “discende da Realtà vince il sogno di Betocchi” (1). Vorrei in primis riflettere su un’altra straordinaria concordanza stilistica, di pathos e di atmosfera, malgrado certe superficiali apparenze contrarie. Trascuriamo pure l’edizione privata del 1914 dei Canti orfici. Ma nel 1928 appare la seconda edizione ampliata a cura di Bino Binazzi. La concordanza stilistica sfuma quasi in una coincidenza epocale: nei primi anni Trenta tale volume si aggira spettralmente per i caffè fiorentini. Nei primi anni Trenta Luzi compone le liriche che, in seguito, enormemente “prosciugate” diverranno i memorabili versi de La barca (1935).
I naviganti nell’oceano vuoto di venti
Come un povero velato da un sogno
Per nutrire i fiori d’odore e la luna di pallore
sono versi tratti da La barca che potrebbero egualmente comparire nei Canti orfici.
Un altro dato che accomuna i due poeti potrebbe essere costituito dal modo di guardare alle fanciulle, solo apparentemente vergini serene in Luzi, e dedite sin dall’infanzia ai giochi del sesso in Campana. La maniera dello sguardo indagante è la medesima: “le fanciulle con le fronti pensose / cuciono tra le siepi ove traluce / in aperte ghirlande / il frutto che rapisce la bellezza”. I versi citati, tratti dalla lirica “Fragilità” – da La barca -, potrebbero egualmente apparire in Campana (dove però le fanciulle tra le siepi non “cucirebbero”). Persino il titolo della prima poesia della raccolta luziana, “Canto notturno per le ragazze fiorentine”, è, in nuce, campaniano.
Impossibile riconoscere quindi, un “maestro” per Luzi: l’impressione è quella di un grande mosaico, da Petrarca a Ronsard, da Campana a Betocchi a Mallarmé. Ma ogni tratto, eventualmente sottratto ai maestri, viene subito diversamente dislocato e reso quasi irriconoscibile: anche Campana rivive in Luzi, volto al celeste e non al rosso e non, soprattutto, alla notte. E simbolismo significa per Luzi anzitutto configurazione di un universo spirituale da opporre a Natura e Storia. (2)
Ma, ancora scorrendo i testi della prima raccolta, è subito possibile rintracciare l’altro grande ambito entro il quale la poetica di Luzi sempre si è mossa. Un ambito tanto “manieristico” e teleologico, quanto il precedente (che, per brevità, definiamo “campaniano”) può dirsi disperatamente relativo all’immanente. “I dolori rilucono in atti sorridenti, / nella paura dei sofferenti traspira / una fede vergine, una volontà santa” (3) , sono versi che – se da un lato ribadiscono la medesima sicurezza stilistica e le assonanze, le allitterazioni – gli stilemi, insomma (4) – dei versi precedentemente citati, dall’altro chiaramente denunciano un sovraccarico semantico di stampo fideistico, che pare come iniettato nel testo, come volutamente dipinto sopra a una struttura musicale e metrica preesistente.
Una musicalità talmente forte da potersi contrapporre alla componente semantica in modo spontaneamente dinamico. Diventa pertanto quasi automatico per il lettore non fermarsi a riflettere sul “significato” del testo in senso stretto, guidato com’è dalla prepotenza musicale dei versi, all’interno dei quali, i significati fanno la parte degli oggetti statici in preda al moto, delle “lenzuola stese al vento”. Appare a noi quasi sentita come un “dovere”, quindi, l’iniezione di segni cristiano-salvifici operata da Luzi nei propri versi. Un’operazione comprensibile solo se si riflette sulla necessità dell’uomo Luzi di essere comunque portatore del “messaggio” finalistico. Luzi uomo ventenne è come se chiedesse aiuto e disponibilità a Luzi poeta: “I fanciulli, dai fianchi materni / la pace, il tepore dei lunghi inverni / … / un’estrema forza / li assume con sé nel cielo con gli occhi miti” (da “Lo sguardo”): oppure “Il viso d’Iddio caldo di speranza / in alto in basso cercando /… / la Madonna dagli occhi trasparenti / scende adagio incontro ai morenti” (da “Alla vita”).
E Luzi poeta risponde, ma nei termini di un cristianesimo astratto e di maniera, fatto di bimbi soli e di mani giunte, di madri dagli occhi umidi e di madonne azzurre aureolate. Tutti elementi che paiono provenire da una iconografia parrocchiale povera e smarrita: passanti scalzi e tunicati d’azzurro al seguito del Salvatore, accanto a una terra-terra (per la prospettiva incerta) gialla, i pani nelle mani i pesci nelle ceste, e dove ancora la storia di Erode impressiona i cuori dei fanciulli: “noi sentivamo tremare in cuore / la nostra purezza” (da “All’Arno”).
“Orgoglio travestito da umiltà” è l’espressione con cui Per Vincenzo Mengaldo designa quella tensione morale che nell’ultimo Luzi prende poi definitivamente il sopravvento. Al riguardo si pensi a testi capitali, nella loro emblematica espressione di superiorità “ideologica” sugli “altri”, quali “Presso il Bisenzio”, in cui la contemplazione del “cristiano” non ha proprio nulla di “pietoso”: è solo “orgogliosa”.
Si può presentire l’affiorante senso di superiorità, la consapevolezza del poeta di essere comunque il “diverso”, visitatore degli “ammalati”, destinato a contemplare le loro afflizioni dal proprio piedistallo, in quanto proiettato (ideologicamente) verso ben altre vette del pensiero, in virtù della missione a cui è profondamente consapevole di essere stato destinato. Si può quasi presentire tutto questo già nei versi centrali di quello che comunemente è considerato il capolavoro luziano, “L’osteria”: “…aspetto chiunque verrà qui / di fretta o siederà su queste panche. / Il bracconiere, altri non può essere / chi s’aggira per queste terre avare …”. Ma vorrei si tenesse conto del fatto che – diversamente da qui – nel primo Luzi, questi tentativi di esplicitazione della “fede” non riescono a disturbare la visione fantastica e la felicità espressiva pura del poeta.
Riflettendo sulla propria idea di poesia al tempo di Avvento notturno, Luzi stesso in L’inferno e il limbo giunge ad ammettere: “Mi metteva a disagio una sorta di ‘a priori’ e di parzialità (…), una sorta di squilibrio che avvertivo tra il soggetto e l’oggetto, una centralità non sempre creativa ma spesso critica e pregiudiziale dell’io riguardo ai termini dell’esperienza. E ne soffrivo e mi lanciai in quel genere di poesia forse un po’ avventuroso, di cui qualcuno disse, mi pare a proposito, che inseguiva continuamente il suo oggetto e rimandava le sue certezze. Era un modo romantico di reagire che poteva soddisfare in qualche misura la tensione giovanile e forse salvaguardare il principio che m’era caro, che il mondo non si possiede né si riduce alle nostre particolarità…” (5) . Avvento notturno, cui la critica, da Mengaldo a Pautasso – ha sovente guardato con dubbio e imbarazzo,(6) si apre con tre delle poesie a mio avviso in assoluto più belle di tutta la produzione luziana: “Cuma”, “Passi” e “Avorio”.
Così si risolve in quegli anni la dicotomia etico-stilistica del primo Luzi: il giovane ventenne ha il coraggio di “darla vinta” al poeta, al fiume entusiasta della poesia. (“era questa la vita? Caravelle / vagabonde di sé scaldano i mari, / barche nuziali rompono gli ormeggi: / terra, terra su legni confidenti / navigare i tuoi fiumi entusiasti”). Vi sono domande nelle poesie; domande alle quali non viene data risposta (“Verso dove? S’annuvolano i corvi / e il fuoco langue / dentro i bivacchi al muover delle tende”). E “Passi” è completamente intrisa di punti di domanda senza risposta. Tutto rimane irrisolto. Come in “Avorio”: “Ma dove attingerò io la mia vita / ora che il tremebondo amore è morto?”. Per concedere a se stesso solamente un “Ma tu continua e perditi, mia vita” (continuando, poi, in modo palesemente campaniano: “per le rose rosse città dai cani afosi / convessi sopra ai fiumi arsi dal vento”).
L’urgenza di farsi disponibile ai discorsi di aperta dottrina cristiana si arrende dunque al fiume impetuoso della musicalità: Luzi uomo, al confronto, pare non vedere molto lontano, mentre la musica già ha portato Luzi poeta ben in alto: divina in effetti è proprio essa, in quanto “naturale”, nell’ordine delle cose.
Certamente non a caso la titolazione “I fenomeni” della prima sezione del libro è posta a connotare la necessità di accantonare la ragione umana – e quindi la “dottrina” – in favore del rapporto vincente stabilitosi già naturalmente tra il poeta e le cose. Come dice Pautasso “le figure e i personaggi che nella Barca sostanziavano le immagini e ad esse si alternavano, qui sembrano non trovare più uno spazio (…) ora occupato dall’ingombrante presenza di simboli, metafore, allusioni”. E più oltre: “Di fronte a un così incerto destino, egli tenta di dar vita a una poesia che sia essa stessa destino e che nel suo farsi risponda alle domande che la vita lascia senza risposta” 7.
È questo il Luzi memorabile che sento Maestro, l’autore di Avvento notturno e della prima sezione di Un brindisi (che, per discorso poetico costituisce un unicum col libro precedente); quello che molti (da Contini a Ramat a Pautasso) hanno collegato al filone orfico novecentesco; quello che, attraverso Campana, non continuando nell’Ermetismo e nel Novecento maggiore, riesce ugualmente a ben distanziare la triade Onofri, Fallacara, Comi, e ad assicurasi una peculiare e assoluta posizione propria nel nostro Novecento (senza aggettivazioni). A mo’ di spina nel fianco ai grandi “sistematori” delle storie letterarie.
1 Cfr. O. Macrì, “Sergio Baldi poeta traduttore e critico”, in Atti e Memorie dell’Accademia Toscana di Scienze e Lettere La colombaria. Vol. LIV, nuova serie, WL, 1989, p. 173.
2 Si veda al riguardo, dello stesso Luzi, Studio su Mallarmé, Firenze, 1952, passim.
3 Cfr. la lirica “Lo sguardo”, vv.9-11, in La barca.
4 L’uso luziano dell’enjambement, per esempio, è, sin dagli esordi, talmente spericolato e peculiare, che meriterebbe – in sé – un meticoloso studio critico.
5 Cfr. M. Luzi, “Dove va la poesia?”, in L’Inferno e il limbo, Milano, 1964, p. 43.
6 A proposito di Avvento notturno, Mengaldo parla di “raffinatezza schifiltosa” e Sergio Pautasso (in Mario Luzi. Storia di una poesia, Milano, 1981, p. 33) afferma: “Certo, il segno è diventato netto e quasi classico, la perfezione è ormai a portata di mano, la sincronia degli accostamenti è calcolata e misurata; però quell’afflato vitale che pervadeva La barca (…) si è ora trasformato in costruzione mentale, in processo analogico, in astrazione. E purtuttavia, essendo l’astrazione una scelta perseguitata rigorosamente nei confronti dell’improbabile e idilliaca ipotesi (“era questa la vita?”), essa non si risolve in una pura rarefazione di immagini (…), ma in una ossessione metaforica che recupera per via orfica e simbolica il senso delle cose.”
7 Cfr. S. Pautasso, op. cit.,p. 30.